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venerdì 8 novembre 2013

TOMMASO RINALLO

ERETICO E PROFETA
 ERNESTO BUONAIUTI, UN PRETE CONTRO LA CHIESA
 Giordano Bruno GUERRI
 Ernesto Buonaiuti (Roma, 1881 – Roma, 1946), prete spretato dal Vaticano, “pastore del pensiero e non del popolo”, sognava un ritorno del cristianesimo alle origini: una revisione dei dogmi inventati dalla Romana Chiesa nel corso dei secoli, e un cristianesimo che fosse capace di sintetizzare socialismo moderato e spiritualità: “Antifascista per i fascisti, anticattolico per i cattolici, anticomunista per i comunisti, Buonaiuti non poteva essere accettato nell'Italia di allora – scrive Guerri – né lo sarebbe in quella di oggi, sempre impegnata a considerare stravagante e nemico chiunque cerchi di vivere fuori dagli schieramenti, in un pensiero proprio” (p. 257). Il suo fu un “misticismo associato” (p. 55), capace di trovare il divino soltanto nella partecipazione collettiva alla religione: “La religiosità” - affermò nel 1908 - “è fenomeno di psicologia collettiva”. D'altra parte, “Il mondo aveva bisogno come non mai di una parola evangelica. Bisognava dirgliela e per dirgliela non c'era che una via: entrare, comunque e a qualunque costo, nel sacerdozio cattolico e di là irraggiare la propria azione sulla Chiesa e sul mondo”, chiosò nel 1945 (p. 3).
 Considerava Gesù figlio dell'uomo, e non figlio di Dio: “In Gesù rivive – scriveva nel 'Pellegrino di Roma' – portata a sublimazione e a perfezione divine, l'eredità del profetismo” (p. 62). Giudicava il messaggio cristiano fuorviato e avvelenato dalle deformazioni ecclesiastiche: “contraffazioni” che gridavano vendetta, da secoli. A partire dall'eucarestia. Maestro dell'indipendenza del pensiero, fondatore in Italia degli studi di Storia del Cristianesimo, fu uno dei dodici (su 1200) professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo: e fu l'unico, tra loro, a non essere riportato in cattedra post 1944.
 Eccezionalmente inviso ai gesuiti – suoi nemici storici, e protagonisti primi delle sue miserie – e a De Gasperi, fu ridotto in rovina dal Vaticano: “Il Vaticano ostacolò e tormentò il sacerdote romano, dalla genuina e appassionata vocazione, come non fece con nessun altro nel corso del XX secolo. Per quarant'anni usò qualsiasi mezzo, a parte la violenza fisica, per mettere a tacere un prete che, se fosse stato più docile, avrebbe portato volentieri ai vertici della sua gerarchia: il controllo e le censure, fino a una moderna forma di rogo dei libri, cioè l'acquisto dell'intra tiratura di un'opera per farla sparire dal commercio; la diffamazione scientifica e umana; le lusinghe e le promesse; lo spionaggio e la delazione; il ricatto e le minacce; i complotti e le trappole; le sospensioni e le scomuniche, fino alla più grave, la belluina scomunica 'vitando', del 1926, che proibiva a ogni credente di accostarglisi, per qualsiasi motivo” (p. X).
 Due le ragioni principe della contesa: Buonaiuti era l'alfiere del “modernismo”, profondo e radicale rinnovamento del cattolicesimo, soffocato con durezza da Pio X; Buonaiuti era storicamente un maestro carismatico, pieno di discepoli; la Chiesa voleva fosse lasciato da solo. Non doveva insegnare; i suoi scritti non dovevano essere divulgati. Peccato che il Concilio Vaticano II, qualche anno dopo, abbia visto il suo amico e condiscepolo Giovanni XXIII realizzare larga parte delle proposte di Buonaiuti. Intanto, entro il 1928, “La Civiltà Cattolica” l'aveva già bollato da un ventennio con questi giudizi:
“Eretico dichiarato, modernista impenitente, autore di libri blasfemi, scandalosi e razionalistici, affetto dall'isterismo di un'indole femminile, peggiore di Marcione, ipocrita, spergiuro, vanitoso, superficiale, infelice apostata, incoerente” (p. 47). Seppe rispondere a tono (“vasta cooperativa di produzione e di consumo, per il dominio della Chiesa e la conquista, mal dissimulata, del mondo”; la pedagogia gesuitica “lascia gli uomini ad una soggezione passiva di minorenni e tutelati”; il gesuitismo era “gemello del fascismo”, p. 51).
 Guerri pubblica questa nuova, magistrale biografia per “mostrare come si sia potuto annullare un uomo, un pensatore deciso a difendere la propria indipendenza di giudizio e a indicare la verità da qualunque parte la vedesse” (p. XI); nel frattempo, come sempre, offre spaccati della Roma primonovecentesca di grande suggestione (cfr. pagine su via di Ripetta), e impressionanti retroscena delle vicende politiche d'antan, come vedremo più avanti.
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“Solo in virtù di una colossale menzogna noi ci diciamo ancora cristiani. Il Cristianesimo lo dobbiamo conquistare” (Buonaiuti, 1945).
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 Sanguemisto (il padre, toscano, era probabilmente di sangue ebraico), nato e cresciuto a Roma, figlio di tabaccai della vecchia via di Ripetta, Buonaiuti crebbe con sei fratelli (tre morirono in giovane età). Suo padre morì quando aveva soltanto sei anni, lasciando la famiglia in grave indigenza. Appena tredicenne, nel 1894, il piccolo Ernesto entrò in seminario. All'epoca, racconta Guerri, il seminario era considerato dal Vaticano una sorta di fuga dal mondo: arte, musica e letteratura erano considerate tentazioni da fuggire, così come le vacanze in campagna. Per le punizioni, c'era il bastone. Approfondimenti culturali – per chi ne avesse l'inclinazione – erano impossibili; Buonaiuti riuscì soltanto tramite le sue amicizie ad accedere a libri fondamentali per la sua formazione come “L'azione” del filosofo francese Maurice Blondel o le “Critiche” di Kant. I futuri sacerdoti venivano addestrati a rispondere perfettamente alle antiche eresie di Ario e di Lutero, ma non a interagire con gli evoluzionisti o i razionalisti loro contemporanei. In questo contesto, il giovane e brillantissimo futuro sacerdote romano, grande amico del futuro papa buono, Angelo Roncalli, fu presto considerato sgradito; venne nominato chierico nel 1901, senza ricevere nessun aiuto economico (p. 10). Sacerdote dal 1903, fu e rimase uomo di grandi studi e di un'unica passione: la religione. “Due soltanto le passioni extrareligiose: la natura (…) e la musica classica, in particolare Beethoven, nel quale vedeva 'un cantore del destino, del dolore, della morte e del riscatto'” (p. 17).
 Guerri lo descrive come un “lavorare frenetico” sorretto da una “memoria formidabile”; viveva con grande semplicità; si svegliava alle 4 del mattino e fino alle 6 si dedicava alla corrispondenza; tra le 6 e le 8 studiava, quindi riceveva amici, allievi e conoscenti. Nel pomeriggio scriveva saggi e articoli, infine – quando era autorizzato – teneva lezione in facoltà dalle 18 alle 19.
 La domenica mattina leggeva passi del Vangelo, a casa sua e di amici; nel pomeriggio si parlava per ore di politica, cultura e attualità, dando pari dignità ai giovani allievi e ai suoi più importanti ospiti (p. 21). Nell'estate del 1920 affittò, coi suoi studenti più fedeli e qualche vecchio sodale, il cenobio benedettino di San Donato, tra Lazio e Abruzzo: ne fece il centro del suo “esperimento di ritorno al cristianesimo primitivo”, la “koinonia”; la comunità, bollata come “eretica e modernista” nel 1922, già nel 1928 era considerata “vitanda” al pari dello scomunicato (per l'ennesima volta) Buonaiuti (p. 26).
 Fisicamente, Papini lo ricordava, da giovanissimo, “smilzo, magro, pallido, irrequieto ma spesso sorridente. Parlava volentieri con sicura scioltezza e gli occhi scuri gli brillavano a momenti” (p. 16); invecchiando, secondo la Ravà – futura direttrice della Biblioteca Nazionale – appariva “aitante (ma non pesante), con un'abbondante capigliatura brizzolata. Il volto era colorito; gli occhi castani e vivacissimi, sormontati da folte sopracciglia” (p. 16). Ironico e umorale, aggiunge Guerri, era massiccio, curato e allegro.
 Fra gli intellettuali ebbe grandi amici, quale che fosse la loro ideologia: Papini, Tilgher, Prezzolini, Silvio D'Amico, Ignazio Silone, Mario Missiroli (p. 21).
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 Proviamo adesso a entrare nel cuore del suo pensiero. Nel suo libro “Pio XII” Buonaiuti si richiamerà più volte alle “quattro libertà” fondamentali dell'umanità, proclamate – ahinoi – da Roosevelt e non dal Vaticano: la libertà di parola, la libertà di coscienza, l'affrancamento dalla paura, l'affrancamento dalla povertà (p. 224). Questo è quanto predicava.
 Negava che la Chiesa fosse “perfetta”, come avevano ribadito Pio IX e Leone XIII, e non credeva affatto che “extra ecclesiam nulla salus” (p. 36). Rifiutava il principio del dogma (p. 38). Mostrava particolare avversione al dogma della verginità di Maria, estraneo ai primi secoli del cristianesimo (p. 90), in cui la “parthenos” era ancora “fanciulla”, e non “vergine”.
Credeva che la Chiesa dovesse dialogare con il mondo (“concetto acquisito, trent'anni dopo, dal Concilio Vaticano II”, p. 182), liberandosi dalle collusioni politiche e dal razionalismo teologico: riteneva fondamentale il dialogo con tutte le chiese cristiane e con tutte le religioni. Sognava il dialogo con quelle confessioni che “mostrano le più ansiose aspirazioni alla riconciliazione e alla pace” (p. 193). Proprio come Giovanni Paolo II.
 Riteneva che Cristo non avesse designato Pietro come “fondatore e capo della Chiesa”, perché il passo che lo proverebbe, in Matteo, 16, 18, non trova riscontro in Giovanni, 1, 42. (p. 203).
 Sosteneva che la democrazia fosse, nel suo tempo, una vera forma di religiosità, perché “spera nell'elevazione dei più, nel loro successo imminente, e riposa nella certezza che un grande, per quanto anonimo, potere provvidenziale si nasconde nello spirito della collettività” (p. 57). Politicamente, dopo un iniziale posizione favorevole a proposito dell'abolizione della proprietà privata (p. 13), aveva virato verso un “cooperativismo sociale e legale”, sognando un Governo fondato su varie comunità di lavoratori.
 Giudicava quello sovietico uno “sconfinato disinganno”: nel 1937, asserì che il regime comunista, con la sua ricerca affannosa di un benessere e di un equilibrio puramente materiale e sensibili, faceva sì che alla base dei rapporti umani fossero odio e invidia, sentimenti estranei al Cristianesimo (p. 256).
 Considerò, pure da antifascista, molto infelice la liberazione del 1943 (p. 238): essa fu “posticcia e superficiale”, irragionevole e incompiuta.
 Non si riconosceva nella parola “modernismo”: sospettava il termine fosse stato coniato dai suoi nemici clericali per invertire la realtà; il termine corretto era semmai “arcaismo”, perché si rifaceva al vero cristianesimo, quello predicato da Cristo e vissuto dalle prime generazioni cristiane. Per il Vaticano di allora, il modernismo fu “sintesi di tutte le eresie”.
Giurava che solo il Cristianesimo, e non il socialismo, poteva tutelare le classi più umili: i socialisti dovevano riscoprire la loro anima religiosa. Si espresse contro il celibato e a favore dell'aborto terapeutico, mostrando straordinaria apertura mentale e grande coraggio.
 La sua “grande parola”, secondo Guerri, ossia la “profezia” di Buonaiuti, è che “il Cristianesimo di Gesù, il Cristianesimo dell'Evangelo, il Cristianesimo del disprezzo del Male e del Voler Bene” è sempre adeguato a soddisfare la vita spirituale umana, mentre la Chiesa e le sue regole sono avventizie e caduche. In punto di morte, rifiutò di ritrattare a dispetto delle grandi pressioni ecclesiastiche.


Calogero Taverna Interessantissima segnalazione e valida sintesi. Entriamo qui in quel grande sconcerto della Chiesa sotto papa Pio X, santo sì ma inflessibile. Il modernismo davvero fu fenomeno di deriva dommatica teologica morale da smantellare con tutte le forze. Anche qui nell'agrigentino si ebbero riflessi sconcertanti. Una visita apostolica al seminario di Agrigento, ove serpeggiava questa che in un primo tempo si considerava una palingenesi cuturale della Chiesa si concluse con la chiusura del seminario. I nostri seminaristi,dal Casuccio al Farrauto al Picone e ad altri di minore rilievo, dovettero trasmigrare per qualche anno in altri seminari. Il futuro arciprete Casuccio era quello di maggior intelletto e s'intrise di "modernismo" che nella forma più lieve e meno audace, inseguì quest'uomo alto asciutto, riflessivo, fino alla morte. Gli si contrapponeva padre Farrauto forse più concreto, meno portato alla speculazione pura, ma certo di più robusta preparazione. In competizione per l'arcipretura di Racalmuto la spuntò il Casuccio, ma vi furono contrasti e si dovette ricorrere ad accomodamenti anche di natura economica come l'assegnazione indebita al padre Farrauto del beneficio secentesco del Crocifisso. Tuttavia poi tra i due vi fu rispetto e persino solidarietà. Padre Picone invece non mostrò personalità all'altezza dei due ai quali però fu sempre molto legato tanto da urtare la suscettibilità di un altro sacerdote di altra generazione il famoso e focoso padre Arrigo (Giovanni) che se ne fa beffe nel suo libro SVOLTA PERICOLOSA.

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