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lunedì 30 dicembre 2013

I NOSTRI DEL CARRETTO DA QUI VENGONO E QUALCUNO QUI TORNA: GENOVA NON FINALE


Città, Repubblica e Nobiltà

nella cultura politica genovese fra cinque e seicento[1]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.  Unione e libertà

Le Leggi nuove, o leggi di Casale, che nel 1576 fissarono la definitiva ‘costituzione’ politica della Genova moderna, giustificavano il riconoscimento della mercatura come arte nobile e lecita ai patrizi genovesi richiamando il detto corrente Genuensis ergo mercator. Che il mercante fosse la figura sociale caratterizzante la città e, prima di tutto, il suo ceto di governo si avviava però ad essere piuttosto un’immagine normativa e un auspicio che non una constatazione. Mezzo secolo più tardi, infatti, Andrea Spinola precisò:

Noi altri Genovesi di prima origine ebbimo il corso per mare; successe poi il traffico nelle più remote parti del mondo. Da tempo in qua siamo applicati alla pecuniaria. Del corso non convien più ragionare. La mercatura in gran parte è perduta e ce ne deve dispiacer assai, perché in effetto è il miglior modo di qualsivogli altro per mantenere la libertà publica, il viver civile e le cose private.

Mercatura e libertà, dunque: un abbinamento ribadito proprio quando l’identificazione tra genovese e mercante appariva sorpassata dalla divaricazione intervenuta tra realtà sociale e modello culturale. La Genova cinquecentesca e primoseicentesca aveva compiuto il percorso da città di mercanti a piazza di finanzieri. La cultura politica genovese aveva ampiamente discusso i problemi che questo processo comportava: e sia pure, spesso, dall’angolatura del dibattito sulla nobiltà. Affidata a testimonianze per lo più manoscritte, questa discussione non ebbe però né sul momento influenza al di fuori della città, né in seguito molta notorietà. Ma il fatto che la riflessione politica genovese abbia raramente trovato l’accesso alle stampe non le ha impedito di costituire un importante tassello della cultura cittadina dell’età moderna. Piuttosto, l’abbondanza del materiale impone una selezione per forza di cose limitata di personaggi e di testi.

Lo sbarco a Genova di Andrea Doria e l’acclamazione della libertà genovese da parte dei notabili presenti in città, nel settembre 1528, produssero un nuovo assetto politico: le Leggi del Ventotto, come vennero dette, che sostituivano le “regulae” quattrocentesche. Le immagini di Andrea Doria come liberatore, e della “unione” come evento improvviso e quasi miracoloso, alla lunga entrarono a far parte della ricostruzione del passato cittadino che il patriziato genovese mise a punto nel corso dell’età moderna. Ma questa ricostruzione, dalle origini partigiane, si impose a fatica e non prima che i problemi politici dell’età doriana venissero acquietati dal nuovo assetto istituzionale del 1576. Solo col tempo, dunque, il 1528 giunse a rappresentare per la cultura politica genovese non un momento di decisione travagliata e controversa, ma uno spartiacque della storia genovese. Perché questo avvenisse occorreva contrapporre nel modo più netto “unione” e “libertà” riconquistate nel 1528 alle vicende tramandate dall’annalistica medievale: e non tanto al lontano e sempre rimpianto passato comunale, glorioso per l’espansione marinara; quanto piuttosto ai quasi due secoli del dogato popolare, svalutati a lunga e confusa età dei torbidi.

Ai contemporanei però la neonata Repubblica appariva una costruzione assai più casuale e dalla genesi più complessa di quanto l’apologetica ufficiale non pretendesse. Del resto, l’assetto politico della città venne sensibilmente modificato nel giro di una generazione con la riforma detta del “garibetto” (1547), contraccolpo della fallita congiura di Gian Luigi Fieschi. E proprio il carattere del ceto dirigente cittadino e gli equilibri di governo tra le sue fazioni interne nobile e popolare (o, come si erano ribattezzate dagli anni ‘40 in poi, della nobiltà ‘vecchia’ e della nobiltà ‘nuova’) era al centro di un dibattito che metteva in causa il presente della città attraverso il passato.

2.  Apologia e pedagogia: Ludovico Spinola

La riforma del 1528 non ebbe un vero e proprio manifesto ideologico. E singolare sarebbe stato il modello culturale dei riformatori, a sentire uno spettatore e (misconosciuto) storico degli eventi, il nobile Giovanni Salvago:

detta forma di govverno del senato, la fu inventata da Don Gregorio da Modena, monacho de la religione de Santo Benedeto, conforme al govverno de la loro religione, cioè de uno presidente et otto definitori, li quali hanno cura de govvernarla e si cambiano, et lui hebbe cura de reformarle et metterle in lingua latina.

L’atmosfera della “unione” pervade però il trattatello latino del giovane umanista patrizio Ludovico Spinola De reipublicae institutione, steso all’indomani della riforma, dedicato ad Andrea Doria e rivolto ad un consesso di patrizi, forse il Gran Consiglio. Nello scritto l’autore, appartenente agli ambienti intellettuali cittadini caratterizzabili come ‘erasmiani’ e in seguito in contatto epistolare con lo stesso Erasmo, salutava e magnificava l’avvento del nuovo regime, realizzatosi repentinamente per aiuto divino.

Nonne urbem nostram tot secula bellis intestinis laborantem una diecula non solum liberavit, sed etiam in libertatem summa cum gloria omnium nostrorum vindicavit?

Il modulo retorico richiesto dall’occasione esimeva dall’entrare nei dettagli: ascritto alla provvidenza, il ritorno alla libertà appariva svincolato dai giochi della politica cittadina, nei quali i negoziatori e i legislatori del 1528 erano pur stati immersi sino al collo. Stato di ottimati, Genova godeva ormai del migliore dei regimi possibili e poteva attendersi un radioso avvenire. A una condizione: la conservazione della libertà presupponeva un’adeguata educazione delle nuove generazioni e la trasmissione dell’ideale di concordia civile:

quippe cum nullam maiorem patriae iniuriam inferre possint, quam illi filios pravis moribus procreare. Nec satis est parentes ipsos Rempublicam bene administrare, nisi etiam omni diligentia adhibita efficiant, ne sibi succedant ii, qui quod ipsi tanta videlicet cura diligentiaque auxerint ac conservaverint, id statim nulla eruditione a pueritia imbuti disturbent ac funditus evertant.

C’era dunque un fondo di inquietudine e di cautela nell’elogio della riconquistata libertà: una libertà da vigilare con le armi e da nutrire con la beneficenza dei privati. Ludovico Spinola rappresenta, secondo la sua più recente studiosa, “un singolare caso di umanesimo municipale in ritardo”; il suo scritto è il frutto di “una diramazione genovese dell’umanesimo civile”. Il ritardo culturale di Spinola sarebbe in tono con l’arcaismo talvolta attribuito alle forme della politica genovese fra Quattro e Cinquecento. E quello di arcaismo appare un concetto accettabile in quanto descriva la discronia tra le vicende politiche genovesi e quelle di altri stati cittadini; meno accettabile, invece, se impiegato per giudicare negativamente l’esperienza politica genovese, misurandola su modelli astrattamente ritenuti più moderni e migliori: il principato come via maestra allo stato moderno, Venezia come esempio di buon governo repubblicano. L’interesse dell’esperienza cittadina genovese sta proprio nel non aver imboccato né la via del principato né quella della chiusura oligarchica alla veneziana, ma di aver percorso, discutendone per oltre un secolo, un cammino originale. L’opera di Ludovico Spinola appare perciò anomala rispetto al clima e alle preoccupazioni del ceto di governo genovese appena ricompattato: per un verso, anticipatrice dell’immagine ufficiale, filodoriana e unanimistica, affermatasi in seguito; ma per un altro verso assolutamente e volutamente disinteressata agli aspetti operativi della nuova forma di governo. Del personaggio e dell’ambiente erasmiano genovese, al quale anche Jacopo Bonfadio dovette essere legato, non sappiamo in realtà molto. Si può però segnalare un dettaglio biografico sinora sfuggito: dallo stesso ramo degli Spinola al quale apparteneva Ludovico uscì due generazioni dopo Andrea, il maggior scrittore politico genovese del primo Seicento. Un lignaggio e una casata di grande rilievo, che proprio dopo l’unione conobbe uno spettacolare successo politico (vi appartenne il famoso marchese Ambrogio Spinola; ma già due fratelli di Ludovico, Ambrogio e Paolo, furono oligarchi di spicco, e il secondo anche un benefattore del pubblico). La preoccupazione pedagogica di Ludovico riemerse fortissima nell’opera del pronipote (il quale tuttavia ricordò la beneficenza del prozio Paolo, ma non l’opera dell’altro prozio Ludovico), diretta ai rampolli del patriziato, ma con un’intonazione francamente politica e polemica. Ludovico Spinola manifestava invece, forse anche per i vincoli imposti dall’occasione, un’attitudine irenica che velava i termini reali della discussione politica cittadina. Esso raccoglieva tuttavia uno stato d’animo effettivamente diffuso nella cittadinanza. Movimenti associativi giovanili e caritativo-religiosi (confraternite) all’insegna della “pace e concordia” avevano infatti annunciato e accompagnato la graduale affermazione, entro il ceto di governo cittadino, del programma dell’unione.

Non casualmente la nozione di “unione” si impose come l’idea-forza della politica genovese del primo Cinquecento. Che la discordia civile fosse la caratteristica peculiare della politica genovese era infatti un luogo comune, che nelle Istorie fiorentine di Niccolò Machiavelli trovò solo la testimonianza più celebre. Nel contrapporre la lodevole ed esemplare stabilità del Banco di San Giorgio alla riprovevole e dannosa instabilità della repubblica Machiavelli riecheggiava e sviluppava (contribuendo involontariamente a creare un fraintendimento sui reali termini della politica genovese) un sentire diffuso, rintracciabile anche in Philippe de Commynes, secondo il quale a Genova “la gente [era] propensa ai cambiamenti”. Un sentire condiviso anche a Genova: ad esempio dal patrizio storiografo Giovanni Salvago, disposto a dannare la memoria stessa delle discordie civili, delle quali, scriveva, “saria utilissima chosa, che non se ne fosseno mai ritrovate, ni se ne ritrovaseno scriture, ni meno fosseno a memoria di persone, non possandosene havere niuno bono documento”. 

Ricompattandosi nel 1528 il ceto dirigente cittadino si era reso meno permeabile. La Repubblica di Genova adottò il singolare istituto dell’ascrizione annuale (sino a dieci famiglie, sette della città e tre delle riviere, potevano essere ogni anno cooptate nel patriziato), che non rinnegò mai. Ma un ceto in precedenza aperto si delimitava in un “libro d’oro” originariamente patteggiato nome per nome tra i maggiorenti delle fazioni.

3.  Un’immagine ufficiale: Jacopo Bonfadio

L’assetto del 1528 poteva in ogni caso apparire il lieto fine di una vicenda tormentata. Da lontano Francesco Guicciardini così riassunse il clima genovese post-1528: “i cittadini, quieti e intenti più alle mercatanzie che alla ambizione, ricordandosi massime de’travagli e delle suggezioni passate, avevano cagione di amare quella forma di governo”. Da vicino, sullo stesso tono, Jacopo Bonfadio, straniero ma annalista ufficiale della Repubblica, osservava che essa “tra le altre repubbliche risplendendo in questi tempi, in un pacifico e quieto stato onoratissima si riposa”.

Proprio nelle pagine del Bonfadio possiamo cercare l’immagine che il governo genovese intendeva diffondere di sé: non a caso, forse, grazie alla penna non di un intellettuale locale, ma di un letterato forestiero. Bonfadio, nell’elogio di Genova che apriva i suoi Annali (stesi in latino e tradotti nel 1586 da un altro forestiero calato a Genova e accolto nei circoli culturali della migliore nobiltà, Bartolomeo Paschetti: e dalla traduzione del Paschetti saranno tratte le citazioni), non mancava di sottoscrivere la tradizionale lode delle antiche imprese guerriere dei genovesi e della costante difesa della religione. Più singolare era il commento sulle vicende politiche della città.

Quanta prudenza poi e quanta virtù fosse in quelli [genovesi dei secoli passati] nel governar la Repubblica circa le cose di dentro, la grandezza loro chiaramente ce la dimostra; [...] e con ogni diligenza rimirando ogni cosa, più ardentemente si accendevano al conservare con riputazione la libertà loro. Della quale hanno avuta sempre questa special cura, che, quantunque volte è paruto loro valersi dell’autorità e potenza di genti straniere, essi spontaneamente e con certe condizioni se li sono eletti, sicché potevano ritenerli piacendo loro, e non piacendo levarli, come il più delle volte avveniva. [...] Ma quello che più rincrescer ci deve che nel governo della città i capi delle fazioni, l’uno o l’altro de’ quali per la qualità di que’ tempi facevano Duce, non al ben della patria ma solo alla privata potenza ed ambizione attendevano; e dove le parti de’ cittadini tra lor discrepanti insieme unire, o il consenso de’ buoni aiutare e colle buone arti della pace aumentar dovevano, essi, all’incontro, la rendevano più debole ed alienavano; e dove protettori della cittadinanza conveniva loro mostrarsi, come tiranni di vincerla e d’opprimerla con ogni studio procuravano. Nel qual tempo quella città la quale da’ maggiori di generosi consigli e fatti egregi munita, e famosa eziandio nelle ultime parti del mondo avevano ricevuta, è poi occorso veder più volte correre pericolo di rovinare, e tutta lacerata e guasta: essendo, per dispareri e per cupidità di regnare di coloro che ho detto, tutte le cose da discordie e sedizioni sottosopra rivolte. Laonde, spiacendo infinitamente a tutti i buoni i governi e varietà per l’addietro seguite, e dagl’imminenti pericoli de’ passati danni fatti accorti, e specialmente dalla crudele strage e percossa ch’ebbero pochi anni addietro [il sacco della città, nel 1522], che fino a quel tempo stava loro fissa negli occhi, tutti, con ogni studio, per la riputazione e salute universale procurarono di ridurre la Repubblica a miglior stato e disciplina.

Quello stato del quale l’annalista si accingeva a trattare. La rievocazione del Bonfadio, attentissima a non fare né nomi né date, oscillava tra l’esigenza celebrativa del passato e quella del presente. Di qui il lucido ridimensionamento delle sottomissioni a signori stranieri, ridotte ad opportunistici ingaggi di governanti; ma di qui anche la deplorazione delle lotte faziose e il richiamo al desiderio di pacificazione emerso tra i cittadini. Ineludibile, e significativo, il confronto con le gesta dei genovesi dei secoli passati, affrontato in apertura del libro secondo dell’opera:

Riducendoci noi a memoria quegli antichi, troveremo che per natura ed instituto loro solo ad onorate imprese ed alla gloria miravano. In casa, tra loro di bontà ed industria contendendo, delle mediocri loro fortune si valevano in guisa, che non erano loro stromenti d’avarizia o d’ambizione, ma sì bene d’aiuto a virtuose operazioni. [...] Nulla di meno, che quelli molto maggior studio ponessero nelle cose di guerra, che consiglio nel governo della città e nel reggimento della Repubblica, affermar liberamente conviene. Conciossiaché, nell’eleggere quelli che maneggiavano la somma di tutte le cose, tenessero una varia e confusa maniera, dalla quale, nascendo poscia molte differenze e rivoluzioni, sovente le contese delle contrarie fazioni vituperosamente alteravano la Repubblica, siccome noi stessi di fresca memoria l’abbiamo veduta stranamente conquassata, quando dalle tempeste di varie sedizioni combattuta, a guisa di fluttuante nave, or a questo or a quel signore, come a duri scogli condotta, miseramente percoteva. però fu finalmente, per virtù de’ buoni nella riformata città stabilita la concordia, e con l’aiuto specialmente d’uno [Andrea Doria] cresciuta, in somma fondato il porto alla pace ed alla tranquillità. [...] Ora non navigano con armate in Oriente, non acquistano titoli né giurisdizione presso straniere nazioni, lo confesso; [...]la materia oggidì manca di propagare la gloria della virtù militare, non mancando però nella città quello antico vigore, quella forza e grandezza d’animo che vi bisognerebbe per conquistarla. [...] Ma questi tempi altra vita, altri costumi richiedano: non si tralascia la virtù militare per quello che torna conto alla Repubblica; però si attende più alle azioni civili e alle buone arti della pace, le quali indubitatamente si debbono anteporre agli studii della guerra, abbracciandosi questi per rispetto di quelli; vive il sommo e sincero culto della religione, vive il continuo e pronto esercizio della liberalità verso i poveri; l’ozio non vi ha luogo; la vigilanza, la fatica, l’industria occupano ogni cosa. Lo studio di aumentare il danaro è per certo grandissimo, però riguardando i monti, i dirupi e i sassi de’ Genovesi, che nulla producono, non è in tutto degno di riprensione, essendo necessario; considerando l’uso di quello in alcuni, eziandio degno è di molta lode. Ha prodotti questa città alcuni, i quali io soglio molto ammirare, di ricchezze e di facoltà agli altri di gran lunga superiori (che diresti esser Crassi o Luculli), nel vivere poscia e nel vestire agli altri eguali; la somma abbondanza ed estrema ricchezza de’ quali ai comodi degli uomini molto pronta mostrandosi, riesce a loro un illustre trionfo di virtù.

Il paragone degli antichi e dei moderni tornava, abbastanza prevedibilmente, a vantaggio dei secondi. Ma l’elogio retorico della loro virtù si traduceva nell’elogio della beneficenza privata, giustificazione delle ricchezze dei singoli, e della frugalità di costumi: i Crassi e i Luculli genovesi osservavano una virtuosa eguaglianza esteriore. L’elogio del presente ritornava come premessa della narrazione della congiura di Gian Luigi Fieschi.

Però, essendosi i Genovesi formata così fatta forma di repubblica [...], parmi che rallegrarsi con essi loro somammente si debba; e perciò con orazione per avventura più lunga che il luogo non ricercava, sono trascorso a ragionar di questa materia, per ammonirli della felicità che godono al presente, o per congratularmi colla Repubblica, o finalmente per legar più strettamente gli animi di tutti alla concordia, e maggiormente accenderli a conservar la libertà. Né vi ha dubbio alcuno che questa città, coll’abbondanza di tutte le cose, non sia per mantenersi ogni dì più lieta e abbondante, e più sicura da ogni colpo di fortuna, se in questa ottima maniera di vivere continuerà unita e concorde.

Così il proemio al quarto libro degli Annali, contenente il racconto della congiura di Gian Luigi Fieschi. In realtà, per spiegare la strategia di alleanze del conte Bonfadio doveva introdurre gli elementi di dissidio all’interno del quadro armonioso che aveva appena schizzato: la divisione tra ex nobili ed ex popolari; il malcontento dei tessitori. Dei fatti della notte dei Fieschi Bonfadio, testimone oculare in mezzo agli oligarchi rinserrati in Palazzo Ducale, forniva un racconto colorito e tutt’altro che trionfalistico per il governo. In compenso, nascondeva la riforma del ‘garibetto’ dietro un semplice, pudico rinvio alla legge. Salvo rievocare con un misto di ammirazione e riprovazione il tumulto antispagnolo del dicembre 1548. Storiografo per sua stessa ammissione svogliato, ma osservatore acuto, di quella che definì una repubblica “per dir così infante”, Bonfadio fu annalista in definitiva meno ufficiale di quanto forse non volesse il governo. E colpisce il contrasto tra l’inflessibilità mostrata nei suoi confronti, e la tranquilla diffusione della sua opera.

4.  Il manifesto politico di Oberto Foglietta

La stretta oligarchica sulla politica cittadina attuata dopo la congiura dei Fieschi fu accidentalmente seguita dalla disastrosa guerra di Corsica (1553-1559). La Repubblica, quasi disarmata (le principali forze navali genovesi erano le galee di Andrea Doria e degli altri privati, quasi tutti nobili ‘vecchi’, al servizio di Carlo V e poi di Filippo II) dipendeva dall’aiuto spagnolo per riacquistare il controllo di quei mari che erano suoi da secoli. L’affermarsi dell’oligarchia all’interno sembrava coincidere con il nadir delle fortune militari genovesi.

Si comprende perciò che proprio nel 1559 uscisse a Roma, dai tipi di Antonio Blado, il dialogo Della Republica di Genova, di Monsignor Oberto Foglietta, un genovese espatriato, rampollo di una dinastia di notai e cancellieri. L’assenza nel testo di ogni riferimento alla pace di Cateau Cambrésis (2-3 aprile 1559), grazie alla quale Genova recuperò la Corsica, consiglia di datarlo, al più tardi, alla seconda metà del 1558: il dialogo ben si colloca nell’atmosfera di incertezza che poteva regnare a Genova prima della pacificazione generale, con mezza isola in mani francesi (anticipare il testo al 1556 sulla scorta dell’osservazione che Andrea Doria aveva “nonanta anni” sarebbe azzardato, la precisione anagrafica non essendo propria dell’epoca.). Opera giovanile, è stata definita dal miglior conoscitore del Foglietta. E certo non occupa il posto d’onore nel complesso della produzione fogliettiana. Ma rispetto al dibattito sulla politica genovese questo dialogo, il solo testo politico genovese in quasi un secolo nato per la stampa e attraverso la stampa immediatamente diffuso, riveste un’importanza centrale, che ne giustifica un’analisi distesa.

Scenario del dialogo non è Genova, ma Anversa, dove uno dei due intelocutori, Ansaldo, si sarebbe trasferito assai giovane “a negotiare”. Non Siviglia, o un’altra città iberica, la nuova frontiera degli affari genovesi, ma l’Anversa della colonia mercantile genovese di insediamento medievale. Una scelta, a ben guardare, non solo singolarmente contro tempo, ma scopertamente polemica, visto che Ansaldo afferma di aver rinunciato, “per alcuni rispetti”, a stabilirsi nuovamente in Spagna.

Lo spunto del dialogo è la delusione per l’andamento della guerra di Corsica. Ma lo scacco della Repubblica in un’area strategicamente vitale come l’isola serve da pretesto per un discorso sulla politica genovese in generale. Pungente la riflessione sulle sorti della Repubblica posta in bocca ad Ansaldo:

Et pare che li pianeti et la fortuna da molti secoli in qua habbia preso a perseguitare quella povera nostra Patria, la quale essendo stata per tanti anni adietro vessata et agitata da molte discordie et partialità, le quali furono cagione, che oltre altri infiniti danni et travagli et ruine ella perdesse il dominio di tante terre acquistate in Levante dalla virtù et fatiche de’ nostri maggiori, et insieme col dominio la riputatione anchora del nome et l’honore appresso, hora che pareva ragionevole, che mediante questo stato di unione et di libertà ella dovesse un poco respirare, et riacquistare le cose et la gloria perduta, non solo non possa fare questo, ma faccia anchora maggiori et più importanti perdite in questo tempo tranquillo, che nei passati tempi turbulenti non ha fatto. Percioché il Dominio delle terre di Levante era più presto cosa gloriosa, et honorevole, che gran fatto utile. Con la perdita della Corsica è congiunta non solamente la perdita dell’honore, et della reputatione, che poco però non importa, ma un gran danno et ruina dell’essere et stato nostro. Grande inimicitia certamente et ostinata persecutione è quella della Fortuna contra di noi.

Ovviamente, Foglietta non pensa neppure per un momento che responsabile delle disgrazie di Genova (enfaticamente dilatate nel tempo: se duravano da “molti secoli”, quando mai la Repubblica aveva conosciuto la gloria che rimpiangeva? E davvero le conquiste in Oriente erano state gloriose e non utili?) sia la Fortuna. Sotto accusa sono piuttosto i risultati del nuovo assetto di governo genovese, apparentemente peggiori di quelli dei tempi più turbolenti. L’autore ha del resto anticipato sin dalla prima pagina dell’opera i suoi bersagli polemici: sono i cittadini “li quali parte per ottenere una eminente autorità et potentia, parte per mantenere le immoderate ricchezze con modi forse poco lodevoli in gran parte acquistate, sottopongono alle private cupidità il rispetto della Patria”. Le loro pretese di supremazia politica sostanziate da una superiorità di fortune moralmente sospetta sacrificano agli interessi privati la pubblica concordia promessa dall’unione del 1528. Tutto questo sembra destinare Genova “ad una ruina e forse Tirannide perpetua, o a qualche altro dispiacevole et odioso fine”: che non può esser altro che la perdita della libertà. I responsabili hanno presto un nome: sono i nobili ‘vecchi’, che dopo la congiura dei Fieschi (1547) hanno manomesso attraverso la legge del “garibetto” l’eguaglianza tra i membri del ceto di governo cittadino stabilita nel 1528. Il dialogo si presenta perciò a chiarissime lettere come un manifesto politico, rivolto contro chi è imputato di avere una parte preponderante nel governo, e intreccia il tema del patriottismo (la difesa della Corsica) a quello delle riforma politica.

Come spiegazione delle disgrazie di Genova la “ambitione et cupidità di pochi grandi et potenti” è stata anticipata nella premessa al dialogo. In aggiunta Foglietta avanza un’altra causa: “le nostre discordie, et la non buona intelligentia, et biasmevole emulatione, che è fra Noi, la quale nutrisce la importunità de i potenti predetta”. Le due spiegazioni in realtà si completano: le ambizioni individuali pesano in quanto il ceto dirigente cittadino non è unito. Il cuore del problema è infatti la persistenza della “diversità del nome di Nobile et Popolare”: una “peste” non rimossa dalle Leggi del 1528, quando venne “stabilita la unione trattata molti anni adietro et fu tolta via la distintione di ogni colore, et fu tutta la Città riddotta ad un corpo”. Qui si annuncia un veleno: se l’unione del 1528 era stata “trattata molti anni adietro”, del suo merito veniva implicitamente spogliato il liberatore Andrea Doria. La sopravvivenza dello spirito di divisione è imputata esclusivamente ai “domandati nobili”, contrapposti ai “cittadini popolari”, le due parti delle quali Ansaldo e Princivalle si fanno rispettivamente portavoci. L’atto d’accusa di Princivalle nei confronti dei Nobili è tagliente. Essi sono i maggiori responsabili della “disunione” (disvalore sommo, nel discorso politico genovese dopo il 1528, in quanto negazione dell’ unione fondativa della Repubblica) perché

vogliono a dirla in poche parole, che fra loro et gli altri Cittadini sia distintione, et che ella vi si conosca, et mostrano apertamente, che in Genova sono dui corpi o vero due parti della Republica, et che essi sono la principale, et si arrogano ogni superiorità et autorità in tutte le cose, sprezzando ad un certo modo gli altri, et tenendoli da meno di sé. Finalmente non vogliono in alcun modo l’uguaglianza.

La necessità aristotelica di una graduazione di ranghi (“Non sapete voi che in una Città libera deveno essere grandi, mezzani, et infimi?”) addotta da Ansaldo a giustificazione dei nobili non risponde al reale obiettivo della parte, che è la costituzione in ordine separato, l’affermazione di una supremazia di rango e di sangue. “Superiorità et inferiorità la deveno fare le circustantie”, è la replica di Princivalle/Foglietta: che anticipa così la piattaforma della fazione ‘nuova’ nel quindicennio seguente. Al corrente del dibattito sulle caratteristiche della nobiltà, Foglietta considera ovvio il contrasto tra “nobili” e “huomini nuovi”. Ma proprio questa distinzione egli nega che sia mai esistita a Genova. Il suo colpo d’ala sta proprio nell’interpretare le vicende faziose genovesi con un criterio radicalmente nominalistico. A Genova

è sempre stato usanza, che ogni Cittadino, il quale veniva alla aministratione della Republica, si mettessi qual di dui questi nomi più li era a grado, et si facessi di qual di dui questi colori egli voleva. Onde quelli di loro, i quali si chiamano Populari, non sono distinti da coloro, li quali Nobili si domandano né per novità et antichità, la quale per la maggior parte è pari nell’uno e nell’altro colore, né perché siano maggiori li meriti de gli antepassati de i Nobili verso la Republica di Genova, che i meriti de gli antepassati de’ Populari.

Negli annali Foglietta trova la smentita alle pretese di superiorità dei nobili; e negli annali legge in maniera fortemente angolata la storia politica della Genova medievale. All’epoca di Caffaro e del comune consolare, i cittadini “senza alcuna differentia di colori o di sette, et senza distintione o nominatione di Nobili o non Nobili tutti parimente erano ammessi al governo della Republica con nome di Consoli, dico quelli Cittadini, li quali per facoltà et altre circostantie erano degni di venire a quel luogo”. Nella città “liberissima” (anticipo della polemica contro i successivi assoggettamenti a signori forestieri) esisteva un’originaria indistinzione di rango. Lo stesso vocabolo di nobile daterebbe dall’avvento del comune podestarile e dall’affiancamento al podestà forestiero di otto cittadini, avrebbe un timbro esotico (“il Podestà come forastiero et nobile parlando secondo l’usanza di Lombardia, onde per il più venivano li Podestà”) e un’origine di convenienza. L’“ottimo e santo governo” dei podestà era perciò caratterizzato dalla assoluta permeabilità della nozione di nobile. Un comune meritocratico, un’élite aperta, una nobiltà di funzione: questa, per Foglietta, la Genova ante 1270, dove persino l’incertezza, quando non l’assenza, dei cognomi confermava l’apertura del ceto dirigente ai meritevoli, per quanto “fossero persone basse et oscure”.

Quando e come si era passati dal “laudabile costume” di considerare nobiltà la semplice amministrazione della città alle divisioni? Foglietta individua il punto di svolta nell’avvento (1270) delle diarchie di capitani del popolo alle quali non dà neppure merito dei successi militari dell’epoca: Meloria e Curzola appartengono dopotutto a questi anni di “grandissima corrottione et confusione”, che al polemista cinquecentesco interessano soltanto per gli aspetti interni. Il tramonto della “prisca santità di costumi” politici risale alla “ambitione di alcune Casate”, che aveva resa odiosa la qualifica di nobile, tanto che

si cominciarono a cercare Governi di altre denominationi, et questo nome Popolare cominciò ad essere amabile come freno di quella odiata Nobiltà, in modo, che i Cittadini, li quali di mano in mano sorgevano al governo si contentavano del nome di Cittadino et di Popolare, cioè seguitante il bene et l’utile comune del Popolo et inimico della causa Nobile.

Nel Foglietta i tempi del dogato popolare non hanno alcuna connotazione negativa. L’esclusione dei nobili dal dogato, e la loro riduzione ad una quota parte del governo (provvedimenti punitivi, si sottintende, meritatissimi) giustificano il fatto che le casate ascese al governo in quel periodo vengano tutte definite popolari. Non solo

coloro, li quali in quelli tempi venivano la prima volta alla amministratione della Republica, volevano essere Popolari domandati, ma etiandio molti de i domandati Nobili, et antichissimi Nobili già per tali nominati nel primo buon Governo si spogliavano quel nome di Nobile a nessuna cosa utile, anzi per le cagioni dette dannosissimo et odioso, et si vestirono del nome Popolare utile all’honore et alla grandezza, et all’hora amabile.

Convenzionale, l’adesione alla parte popolare era assolutamente utilitaria, tanto da provocare delle defezioni nello stesso schieramento nobile. La denominazione di popolare era perciò “segno di elettione et di fattione, et non di ignobiltà”. La struttura stessa dei clan gentilizi (“alberghi”), dove si mescolavano case illustri e case nuove, giustificava l’irrisione della pretesa purezza di sangue dei nobili: “[Princivalle] Non sappiamo noi et ne conosciamo non picolo numero, li quali non accade nominare, li quali sono libertini, figliuoli essi o nepoti di schiavi stati di huomini di quello Albergho, li quali fatti franchi da patroni ritennero sempre il nome della casata del patrone?”

Coerente alla posizione antinobiliare è l’elogio di Simone Boccanegra, liberatore anch’egli di Genova, ma dalla “tirannide” dei Doria e degli Spinola in grazia della sua “virtù [...] grandezza d’animo[...] prudentia”. L’avvento del dogato popolare appare un ritorno a “quelli primi felici tempi de i Consoli”: un generoso proposito frustrato dalle ambizioni delle quattro grandi casate nobili (Doria, Spinola Fieschi, Grimaldi) e delle altre loro aderenti: da allora datava la “differentia” tra nobili e popolari, “cioè seguitanti la causa del Popolo et comune”. Questo porta Foglietta a liberare in una certa misura Adorno e Fregoso dalla damnatio memoriae gettata su di loro dai riformatori del 1528. Fomentatori di discordia dall’opposizione come lo erano stati al potere, i nobili delle quattro case assolvono nella ricostruzione storica di Foglietta il ruolo di veri e propri vilains de la pièce, autori e profittatori dello smembramento del dominio genovese. Le loro colpe diminuiscono quelle dei capiparte Adorno e Fregoso “sorti a’ tempi, che la Republica era già corrotta, et che gli animi de’ Cittadini erano già tutti inclinati alle partialità, et perciò non si possono chiamare guastatori del buono et Politico vivere, né autori della corrottione”.

Solo oltre la metà del dialogo è introdotto il nodo della riforma del 1528. L’abolizione dei cognomi originari, e la confluenza di tutte le famiglie del ceto dirigente nei 28 alberghi della riforma era stato tuttavia un provvedimento superfluo e doloroso. Lo avevano dettato in ogni caso considerazioni pratiche: i cognomi degli alberghi non segnalano alcuna superiorità di rango delle casate titolari, ma la semplice superiorità numerica, le case più numerose. Dopo aver rilevato la lealtà dei popolari al nuovo assetto e la doppiezza dei nobili, Foglietta introduce un confronto con Venezia, dove pure erano state ammesse al patriziato casate popolari. Il confronto è importante per due versi.

Venetiani dando la Gentilitia a Popolari, li fecero con quel dono partecipi del governo della Republica, del quale erano per l’adietro in tutto e per tutto privi; et vivevano in Venetia non come Cittadini di quella Città, ma quasi come vassalli, come si vede che hora sono in Venetia quelli Cittadini, i quali sono Popolari. [...] Al contrario si deve dire di Genova nell’unione del 28 quando dei Cittadini si fece tutto un corpo, et quello si battezzò Nobile. Nel quale atto tanto è lontano che i domandati Nobili donassero cosa alcuna a Popolari, che anzi i Popolari fecero infinito dono a Nobili [...]. Né li Popolari furono chiamati alla amministratione della Republica, percioché da che vi è memoria de Genovesi sempre la hebbero. Anzi il governo Popolare è in Genova il più antico, et come di sopra si è detto dopo che dal tempo del Boccanegra in qua cominciò la differentia di questi dui colori sempre li Popolari hanno havuta l’amministratione della Republica dalla quale li chiamati Nobili sono stati molte volte esclusi, et per gratia de Popolari (come si è detto) anche ammessi. [...] Talché in quella Riformatione i Popolari non acquistarono niente, et a i Nobili fu fatto dono del supremo Magistrato, per comunicatione del quale in Roma già furono tante contese et tante baruffe.

L’elogio di Venezia e del suo ceto di governo è già un topico, che Foglietta riprende. Ma il parallelo addita soprattutto la radicale differenza tra la storia politica veneziana e quella genovese. Venezia ha un regime originariamente oligarchico e una nobiltà immemoriale. Genova è invece una repubblica originariamente popolare. E la convenzionalità, la natura pattizia ed empirica dell’assetto politico era stata espressa proprio nel 1528 dall’incertezza nella scelta del nome da attribuire alla classe dirigente della città.

La cosa non è tanto vecchia che in Genova infiniti non si ricordino, che quando fu fatto della Civilità tutto uno corpo, et s’instituì l’unione, fu dubitato che nome si doveva porre a i Cittadini di questo corpo, et se ne proposero molti, come ottimati, huomini di Consiglio, Nobili, et altri nomi, et questo di Nobile fu più comunemente ricevuto, facendo di ciò (come io vi ho detto) grande instantia li Nobili et cuoprendo la loro intentione con questo colore di ragione, ch egli ci darebbe più riputatione appresso de’ forastieri.

Nel 1528, insomma, i governanti genovesi erano “tutti nati Nobili in un giorno”. E precedenza ed antichità nel governo, a Genova, stavano dalla parte degli ex popolari. La pretesa dei ‘Vecchi’ stava di avere la parità nelle cariche di governo pur essendo meno numerosi era un abuso consentito dalla “fattiosa et scelerata legge” del Garibetto. Foglietta ritiene ingiusta e inutile l’offensiva politica attuata dai ‘Vecchi’. Questi non ne traggono né utile “acquistandosi in Genova le ricchezze con l’industria mercantile”, né supremazia (“percioché essi non possono mai designare di doventare soli Signori, et Governatori di Genova”). La loro chiusura difensiva, alimentando il gioco delle appartenenze di colore, cioè di fazione, è addirittura autolesionista: perché (insinua conciliante Foglietta)

io Popolare eleggo più presto il Popolare di minore valore, che il Nobile valorosissimo, per essere il Popolare del mio corpo, et ritenendo io nell’animo una certa amaritudine contra il colore domandato de’ Nobili, il quale mi vuole essere superiore, la quale me li fa abhorrire. Ma come tolta questa distintione eleggendo all’hora colui, il quale hora per Nobile da’ Popolari si distingue, mi parerà eleggere uno de’ miei, chi dubita, che io non debbia sempre preporre la maggiore virtù alla minore? Et essendo poi fra loro al presente più huomini di valore, che non ne sono ne colore domandato Popolare, non sì presto si sarano senza fuco o fallacia tutti una cosa medesima, che subito haranno tutta la amministratione della Republica in mano.

Un comportamento politico così irragionevole non può essere ascritto che a “vanità et [...] superbia”, al “lusinghevole lenocinio, che ha in sé il vocabulo” di nobile.

I ‘Vecchi’ favoriscono inoltre la debolezza militare della Repubblica, a vantaggio della potenza privata: “non pur patiscono ma procacciano et difendono che in una Città libera siano Cittadini potentissimi, et di eccessive forze, et la Republica sia debole et disarmata”. La stoccata ad Andrea Doria e agli altri asientistas de galeras non potrebbe essere più chiara. L’ascendente doriano e ‘vecchio’ presuppone una repubblica inerme. Di rito le proteste di non voler intaccare minimamente i meriti del Principe Doria, ma evidente l’intenzione di non attribuirgli meriti inesistenti. Reale invece il pericolo dell’assoggettamento di Genova a principi stranieri. Foglietta non accetta di distinguere il “poco di emulatione” dei suoi giorni dalle “arrab- biate discordie” del passato. La prudenza fogliettiana invita a fermare il dissidio all’origine, e si fonda su una realistica presa d’atto del mutamento nei rapporti di forza internazionali rispetto all’età dei ‘cappellazzi’:

erano all’hora certe qualità di tempi, nelli quali era in facoltà de’ Cittadini medesimi agevolmente mandarli via ogni volta che volevano, come sempre che quelli Governi sono loro rincresciuti hanno fatto. Ma hora ciascuno vede che le cose sono talmente cambiate, che non potendosi venire se non in mano di Principi potentissimi, considerando colui, il quale vi entrasse, di quanta opportunità fosse Genova a’ suoi dissegni, et come ella è solita a fastadire [sic] et cambiare spesso li Governi forastieri, se ne assicurerebbe in modo, che non potriamo scherzare et ci ridurrebbe et con fortezze et con altri infiniti presidij in uno stato et servitù, la quale Dio prohibisca da Noi.

La lezione del 1547, il ricordo della proposta di Ferrante Gonzaga di assicurare la città mediante la costruzione di una fortezza, brucia ancora. L’alternativa, del resto, pare il rischio di sottomissione ad un cittadino potente: principato straniero o principato indigeno, Foglietta lancia un allarme sulle sorti dell’indipendenza cittadina: “il fine dele discordie civili è la servitù o di gente forastiera, o pure de’ suoi proprij Cittadini, massimamente se quelli popoli lasciano sorgere fra loro uno Cittadino o una Casata di eminente stato et di straordinaria potentia”. Non certo il Principe Doria: ma non si esclude che il suo successore, o altri, possa indirizzarsi diversamente, anche a dispetto delle preferenze degli stessi consorti ‘vecchi’. La lezione delle cose e le letture concordano nel dettare a Foglietta una diffidenza radicale verso le aspirazioni signorili. La storia cittadina italiana, del resto, era un cimitero di libertà.

È cosa naturale et ordinaria, che non havendo gli animi humani nelle cose della ambitione et della grandezza modo né termine alcuno, quando tu dai ad uno sopra molti autorità et potentia granda, egli non possa contenersi dentro a termini che tu li prescrivi, ma inescato dalla dolcezza del comandare, della quale non è alcuna che tiri a sé con più dolce allettamento l’appetito humano, procede tanto oltre quanto quello acuto stimolo del Regnare lo spinge. La quale soavità del Regnare è tanta, et tanto secondo il gusto humano, per essere gli animi nostri di natura sublime et magnifica, che ella non ci lascia havere altra consideratione o di gratitudine o di religione, o di qual si voglia altra cosa, in modo che così è facile ad opprimere coloro, li quali furono principio et cagione di quella grandezza come gli altri. [...] Et se questo fu sempre in ogni tempo et in ogni Popolo, et è ragionevole che così sia, non è già da dire, che Genova non sia sottoposta al medesimo pericolo, et per l’essempio, che ne ha di altre volte, et per essere Genovesi di natura caldissima, et di ingegni et complessioni vehementi et accesi, li quali nelle cose poco si sanno temperare. Anzi in Genova questo pericolo è tanto maggiore, quanto le altre famiglie, che di sopra habbiamo detto che si sono fatte padrone delle loro Patrie, sono state portate a questo grado della autorità et potentia solamente, che dava loro una parte de Cittadini. Ma in Genova coloro che hanno queste forze, et delli quali per la loro bontà non si può temere, ma bene de i loro posteri, li quali non si può indovinare che huomini habbiano ad essere, né essi li possano a loro posta creare buoni. Costoro dunque, oltre l’autorità la quale è loro data, saranno armati di così gagliarde loro forze private che quasi basteriano anchora con quelle senza questa autorità ad opprimere la Città, et haranno li appoggi et provisioni grossissime di Principi forastieri.

Pandolfo Petrucci nella pagina fogliettiana si presta ad esempio di principe nuovo asceso dal basso profittando dell’insipienza e delle discordie degli oligarchi. Ma l’allusione vera, ad uso interno, riguarda gli eredi politici dei grandi vecchi della Genova doriana: il successore di Andrea Doria, il figlio di Adamo Centurione. A questo punto Foglietta avanza la provocatoria proposta che Andrea Doria stesso distrugga la potenza privata della propria casata rinunciando alle galee, e comprandosi col ricavato un feudo nel regno di Napoli: disarmo ed autoesilio volontari sono i pegni che il polemista osa chiedere al più potente personaggio della scena genovese, lanciando un parallelo con l’azione di Ottaviano Fregoso, che aveva rinunciato a farsi signore di Genova ed aveva anzi demolito la fortezza che poteva dargli forza militare.

Il modello politico che Foglietta propone è classico: la repubblica romana, in virtù del suo meccanismo elettorale per centurie. Là il polemista scorge un accorto sistema politico censitario, che non mortificava formalmente nessuno, e nel contempo rispettava rigorosamente le gerarchie di fortuna. I Romani, infatti,

vedendo che in una vera libertà non era honesto privare alcuno Cittadino per basso et oscuro che egli fosse del suffragio et voto, né allo incontro era conveniente, che tanta autorità havesse uno basso et vile et di nessuno valore, quanto uno il quale per ingegno et facoltà risplendeva, trovarono questa via, la quale salvava l’una cosa e l’altra.

Ogni centuria agiva come un collegio uninominale: il voto della centuria era quello della sua maggioranza. Le centurie avevano però diversa consistenza numerica a seconda delle classi, ed ogni classe comprendeva un numero diverso, e decrescente, di centurie. La piramide elettorale era il rovescio di quella sociale:

In modo che rarissime volte o non mai si veniva al voto della infima classe de i Capitecensi [...] et a quello non venendosi mai restava esclusa questa feccia della Città quasi in tutto dalla amministratione della republica, e ricompensavano questa dishonoranza con la essentione, la quale havevano da ogni gravezza, et dalla militia anchora, la quale in quelli tempi era una gravezza grandissima.

A rendere questo sistema tollerabile ai cittadini delle classi inferiori contribuiva l’equa ripartizione delle imposte, in misura proporzionale al rango. Il sistema romano, di imposte dirette progressive, figura dunque in positivo a confronto del sistema genovese, di imposte indirette distribuite egualmente su tutti, dunque maggiormente sui poveri: i romani

facevano del tutto esenti dalle gravezze li poveri; et Noi altri li quali pur siamo Christiani, più li graviamo con le gabelle sul vitto ugualmente da loro pagate, come da i ricchi, né è alcuno, che mosso da charità o da humano rispetto dica la ragione della misera gente.

Il confronto con i romani (rafforzato per la circostanza dall’esempio di Venezia) permette di a Foglietta di proporre addirittura l’attribuzione delle decisioni politiche a tutto il corpo della nobiltà convocato in assemblea generale, e non al solo Consiglio grande.

L’importante digressione sul modello romano repubblicano è però soltanto un intermezzo prima del ritorno alla questione cruciale della volontà o meno di Andrea Doria di accettare la sfida fogliettiana, e vendere la galee alla Repubblica. Il dubbio che egli lo faccia prepara la stoccata finale alle pretese benemerenze del Principe, che per Foglietta si limitano a “poche cose”. Il debito di riconoscenza dei genovesi per Andrea Doria è un mito, a ridimensionare il quale Foglietta dedica l’ultima parte del dialogo. È Ottaviano Fregoso ad assurgere a promotore della riunificazione del ceto dirigente cittadino: e sia pure in negativo, attraverso la rinuncia a mantenere la signoria della città, piuttosto che in positivo:

il primo il quale si svegliasse a dimostrare questo segno di amore alla Patria, di volerla mediante l’unione de’ Cittadini ridurre a migliore stato, et riformare il corrotto vivere passato, fu il Signore Ottaviano Fregoso, il quale all’hor teneva il Principato in Genova, indutto a ciò, et dalla sua naturale bontà, et dalli assidui conforti di Raffaello Ponsono Segretario del publico, il quale lasciato l’ufficio si era fatto sacerdote.

Il testimone del disinteresse nel patrocinare la concordia civile e la riforma politica era stato raccolto da Stefano Giustiniani, da Agostino Foglietta (il padre di Oberto), da Antoniotto Adorno: tutti e soltanto personaggi di parte popolare. Le circostanze, più di tutte la questione di Savona, avevano poi precipitato una riforma nella cui genesi il ruolo del Doria era stato accidentale:

alla deliberatione fu la benignità di Dio favorevole, fece cadere opportunissimamente che il Principe Doria oltre il publico rispetto fusse per private cagioni alienato da’ Francesi. Venne dunque a Genova il Principe Doria con le sue Gallee chiamato da Cittadini, li quali dopo molti lunghissimi tratti già havevano concluso l’unione, et con l’aiuto et favore di quello la Città scacciò Francesi, ruinò il Castelleto, et riprese dalle mani di Francesi Savona.

Semplice, e non disinteressato, esecutore il Doria, dunque, e niente più, ma non “autore né perfettore della unione, né della Riforma, né della estintione delle fattioni”. “Autore” della libertà: ma solo perché già esisteva la “unione”. “Che quanto ad entrare dentro con le sue Gallee, et ad aiutare la Città a scacciare Francesi, questo la Città etiandio senza lui bastava per se stessa a farlo, come molte volte già ha fatto”. Foglietta nega anche che Andrea Doria possa essere definito “autore di questo stato Riformato”. Infatti,

più presto si doverebbe chiamare mantenitore, et conservatore. Ma se così vi piace, facciamolo anche assertore, et orniamolo di questa laude. Ma avvertite, che essendo con questa libertà congiunta la sua grandezza, potrebbe alcuno calunniarlo, che la sua intentione non fusse stata né fosse questa libertà et questa riforma, ma la grandezza sua propria, et il fine suo fusse stato et fosse instituere et fondare in Genova essendosi spente le fattioni Adorna et Fregosa sotto questo colore di Republica libera una straordinaria potentia di casa sua.

Perciò al Doria deve essere chiesta una prova: “Dare le Gallee alla Patria che questa sola è la pruova, che egli preferisce alla grandezza della casa il ben publico, per il quale bene ha fatto tutto ciò che ha fatto”. Il dialogo precipita ad una conclusione frettolosa, improntata ad una manierata ostentazione di fiducia nella buona volontà del Principe Doria. E nella conclusione Foglietta condensa la sua proposta politica.

Risolviamoci pur Noi ad unirsi da dovero, et a stabilire uno stato quieto et glorioso, mantenendo sempre Cinquanta Gallee sforzate, le quali saranno la salute nostra, et quelle che ci faranno rispettare così da tutta la Italia come da tutti gli altri Principi, et senza altra spesa ci faranno restituire la Corsica, et ci assicureranno il traffico, il quale è la vita nostra, et daranno un continuo inviamento, et honesto essercito [sic] et intratenimento alla nostra gioventù, la quale hora per il più otiosa è sforzata a darsi a mille male arti.

Questa grande flotta di stato verrebbe posta al servizio dei principi italiani “dico di quelli che hanno li stati al mare inferiore”. A chi allude Foglietta? Al re di Spagna? Al pontefice? Probabilmente a quest’ultimo. Ma il senso della proposta non cambia se si sostituisce ad esso il re di Spagna. La flotta genovese starebbe alla politica spagnola come le truppe svizzere a quella francese. La neutralità nominale della Repubblica si sostanzierebbe dei profitti di un mercenariato navale volto a beneficio pubblico, anziché a quello privato degli asientistas de galeras. Questo mercenariato navale sarebbe perciò veicolo di libertà e indipendenza (come per gli svizzeri), invece che minaccia di soggezione. Senza dire che la pratica dell’armamento legherebbe Genova a un ruolo marinaro ed esalterebbe le figure sociali del mercante e dell’arma- tore, in declino di fronte alle ricchezze emergenti dei finanzieri, gente di parte ‘vecchia’ legata a filo doppio alla Spagna.

Impossibile sopravvalutare l’importanza del dialogo del Foglietta nel dibattito politico genovese del Cinquecento. Foglietta dava voce per primo allo scontento diffuso tra gli ex Popolari nei confronti della correzione oligarchica all’assetto del 1528 attuata col “garibetto”. Prendendo a rovescio l’immagine della Repubblica che stava proprio allora costituendosi, Foglietta ribaltava il giudizio sulle discordie civili; spogliava Andrea Doria dello stesso attributo ufficiale di liberatore; affermava il carattere popolare della tradizione repubblicana genovese; rilanciava il ruolo marinaro e mercantile della città; sosteneva un’attitudine di indipendenza orgogliosa e armata; proponeva un modello di organizzazione politica aperto e partecipatorio, dove l’accesso al potere fosse premio alla ricchezza prodotta dalla capacità individuale, senza pregiudizi di casta, ma dove anche il ceto di governo si accollasse l’onere della tassazione. Per la sua lettura del passato genovese come per il suo progetto di futuro Foglietta veniva a negare nel dialogo l’intera costruzione della Repubblica uscita dalla riforma. La stessa parola d’ordine del ritorno al Ventotto era poi contraddetta dalle riserve rivolte alle disposizioni delle Leggi. Le argomentazioni e i temi sollevati da Foglietta aprirono il campo a quasi un secolo di polemica politica filomercantile, navalista, antispagnola, anticambista, suntuaria: in altre parole, alla grande stagione della pubblicistica politica genovese. Repubblica armata, rafforzamento della flotta, indipendenza dalla Spagna, superamento delle divisioni interne, diffidenza per i personaggi eminenti legati al re Cattolico: tutte le sfaccettature dell’orientamento più tardi definito “repubblichista” erano già adombrate nel dialogo fogliettiano, che forse riecheggiava posizioni e spunti circolanti in città e passati senza lasciar traccia scritta. Il dialogo, è stato scritto, “potrebbe anche essere considerato l’ultima voce di libertà in un periodo in cui l’Italia si stava avvilendo”. Eppure, a Genova, di tutto ciò che venne avanzato da Foglietta si discusse e si scrisse ancora per decenni: anche se gran parte di quella riflessione restò manoscritta, col risultato di generare un’impressione di atonia politica dove c’era invece un’attenzione quasi ossessiva per il problema dell’operatività del governo e per la definizione delle caratteristiche del ceto che ne deteneva dal 1528 il monopolio.

5.  Politica ed economia nel “Sogno” in morte di Agostino Pinelli

Il manifesto fogliettiano uscì intempestivamente per più motivi. Andrea Doria morì di lì a poco; ma il successore ed erede Gian Andrea si trovò provvisto di una forza navale diminuita e osteggiato da alcuni degli stessi oligarchi ‘vecchi’. Inoltre, la Corsica fu restituita alla Repubblica proprio nel 1559; salvo esplodere di lì a pochi anni in una nuova ribellione (1564-1569), sia pure priva di sostegni esterni. La nuova emergenza bellica contribuì a ritardare l’attacco frontale all’assetto del 1547, anche se nel contempo attizzò il risentimento per il carico fiscale che imponeva soprattutto ai ceti più poveri. Ma nel 1566 l’assassinio del Procuratore Perpetuo Agostino Pinelli da parte del figlio dell’ex Doge Giambattista Lercari, un personaggio di parte ‘vecchia’ avversato, e messo da parte, per il suo protagonismo dagli oligarchi della sua stessa fazione, diede lo spunto per un nuovo dialogo, rimasto manoscritto, intitolato Sogno sopra la Republica di Genova veduto nella morte di Agostino Pinello ridotto in Dialogo. Interlocutori Stefano Giustiniano primo Institutor della Unione, e detto Agostino Pinello Procuratore in Vita. Il testo, opera forse di Bernardo Giustiniani Rebuffo (autore di almeno un altro libello di tono antispagnolo, ma personaggio tuttora pressocché sconosciuto), introduce nella pubblicistica genovese il genere lucianeo del dialogo dei morti. Sotto questo profilo fa da battistrada alla libellistica degli anni seguenti forse più che non il dialogo del Foglietta. Un anonimo, forse seicentesco, annotò sulla copia del dialogo conservata nell’Archivio Storico del Comune di Genova, dove il Sogno è seguito dai dialoghi di Caronte dei primi anni ‘70: “tutte insulse satire di quei tempi di partiti”. La sottovalutazione del dibattito politico cittadino cominciò presto.

Il dialogo appunta il malumore provocato dalla infelice conduzione della guerra di Corsica su alcuni aspetti del sistema di governo. Dal Foglietta è ripresa l’esaltazione di Stefano Giustiniani, interlocutore positivo del dialogo, espressamente introdotto come “primo institutor della unione”. Tuttavia l’autore del Sogno non ha la posizione sferzantemente antidoriana di Foglietta. Forse perché il vecchio principe è già morto e il suo erede appare meno pericoloso per la libertà cittadina di quanto non avesse temuto Foglietta. Ancora in comune con il Foglietta, ma con una sfumatura limitativa, è l’apprezzamento per Ottaviano Fregoso (“vera-mente ottimo principe fra tutti li tiranni stati alla città nostra”). Appare invece accentuata, rispetto al precedente fogliettiano, l’attenzione per la sorte della plebe, schiacciata dalla fiscalità indiretta. Il che introduce un elemento del tutto assente dal dialogo del monsignore: il giudizio sul ruolo di San Giorgio. Un giudizio, tra l’altro, fortemente critico, soprattutto perché l’ano-nimo prende di petto il luogo comune di una differenza di interessi e di collocazione tra San Giorgio e la Repubblica: nega, insomma, l’esistenza di una sorta di doppio stato (“Vedo ben chiaro, Ms Agostino, in che abuso sete et in quanto errore venite presuponendo che il danno di San Georgio non sia della Republica, et quello della Republica non è di San Georgio, come se la republica e San Georgio fossero due signorie separate, e che una senza l’altra potesse vivere da sé et mantenersi in grandezza et reputatione”), per additare invece il ruolo chiave di ristrettissimi gruppi di oligarchi di parte ‘vecchia’ asserragliati, in quanto ex dogi, nella funzione di Procuratore Perpetuo. L’insistita polemica contro i Procuratori Perpetui, dei quali aveva fatto parte l’interlocutore negativo del dialogo, Agostino Pinelli, di famiglia ‘vecchia’, forse era occasionata proprio dalla circostanza, ghiotta, di chiamare in causa la vittima del clamoroso attentato. Ma può darsi che altri episodi, dei quali non siamo a conoscenza, avessero portato alla ribalta della polemica di tutti i giorni proprio alcuni dei Procuratori Perpetui. L’anonimo attribuisce inoltre ai ‘vecchi’ un espediente elettorale che mezzo secolo dopo in un altro dialogo politico si troverà imputato ai ‘Nuovi’: di eleggere al dogato, quando la carica spetta all’altra fazione, i candidati più vecchi, nella speranza che la loro permanenza tra i Procuratori Perpetui sia breve, e di eleggere al contrario candidati giovani della propria parte. Forse viene generalizzata e interpretata maliziosamente, sia in questa circostanza sia in seguito, una occorrenza casuale. Questa attenzione ai meccanismi operativi delle istituzioni cittadine conferma però l’estrema concretezza della pubblicistica politica genovese: risvolto positivo del suo scarso, e non molto originale, respiro teorico. L’anonimo ha pur presenti, e cita, esempi alti: Machiavelli per l’esortazione a ripigliare lo stato, il cardinal Contarini per l’elogio di Venezia. Il principio machiavelliano serve a giustificare la proposta di tornare alla riforma ‘tradita’ del 1528:

Agostino: Che vole inferire ripigliar lo stato?

Stefano: Vol dire ripigliarsi alle prime leggi come già ho detto et abolire quelle nuove rifforme fatte in 47 con tanta violentia tanta foza tanta iniustitia causa d’ogni male.

L’esempio veneziano viene accettato in maniera un po’ convenzionale, come modello positivo: ma affermando subito la sua scarsa imitabilità sulle spiagge della Liguria per la differenza di “clima”

Agostino: A voler osservar i costumi e legge de Venetiani bisogneria che noi Genovesi fussimo situati in le tartare paludi sicome sono i venetiani, e sotto quella clima così stabile e fermo e non sotto questo volubile.

Si è detto che, a differenza di Foglietta, il Sogno fa l’elogio di Andrea Doria. Ma non per l’unione del 1528, messa all’attivo di Stefano Giustiniani; bensì per la resistenza opposta nel 1547 alla costruzione di una fortezza in città. In quel momento i peggiori nemici della libertà genovese erano stati altri oligarchi ‘vecchi’, chiamati in causa nominativamente, ma non il Principe: anzi, “se non era il buon Principe Doria actum erat della Republica e della libertà insieme”. L’apprezzamento, e questo suona più singolare, si estende a Gian Andrea Doria, “quale sosteneva la grandezza della Republica”, a differenza di Marco Centurione, figlio del grande banchiere Adamo Centurione, asientista de galeras anch’egli e uomo della Spagna, la cui morte recente, nel 1565, non ispira alcun compianto all’autore del Sogno. Questi giudizi discendevano forse da considerazioni contingenti: diversamente da Foglietta, il polemista non individuava nei Doria i più schietti interpreti degli interessi ‘vecchi’; al contrario, li distingueva dalla fazione alla quale pure appartenevano naturalmente. Il programma in positivo del Sogno era tutto sommato modesto: “a salvar la Republica non ci è altro rimedio che la intiera osservanza delle leggi, che le armi proprie, quali sono galee, et le amorevolezze fra’ cittadini”. L’autore insisteva sul tema dell’armamento: “Stefano: Il sostegno di tutto sono l’armi proprie alli Genovesi, l’armi proprie sono le Galee”. Il messaggio trascendeva l’occasione: la rivolta corsa non era certo reprimibile con la flotta: sul piano militare l’allestimento di una squadra di galee di stato poteva essere stato urgente quando scriveva Foglietta (ed era stato effettivamente promosso nel 1559), non nel momento in cui si discuteva come eliminare Sampiero di Bastelica, capo dei ribelli: una soluzione che il libellista caldeggiava (“Le republiche ben ordinate, et ben composte di ottimi cittadini, quando non puonno haver un loro seditioso cittadino, o subdito nelle mani, s’agiutano del suo migliore et per qualsivoglia via lo cercano di castigare in qualsivoglia modo per sostegno del publico et universal bene”), e che sarebbe stata raggiunta di lì a pochi mesi.

Nell’insieme, il modello repubblicano dell’autore del Sogno veniva tratteggiato per accenni marginali: la critica ai Procuratori Perpetui paragonati, del tutto impropriamente, ma con efficacia polemica, al Consiglio dei dieci veneziano; la sottolineatura del ruolo sovrano del Maggior Consiglio (“il Gran Consiglio de 400 eletti giusto le leggi et li santissimi ordini de i dodici è il vero Principe, e il Duca e Signori sono legitimi Procuratori di quel Consiglio”); infine, la rivendicazione della libertà di parola dei consiglieri, conculcata dai governanti anche attraverso provvedimenti di esilio nei confronti dei dissidenti, esempio recente Leonardo Sauli:

Agostino: Lo bandirno per essere uscito fuor della posta con sì poco rispetto et per opponersi sempre a tutte le dimande del Senato.

Stefano: Li consigli debeno esser liberi et ogni cittadino deve poter in quelli dire liberamente il suo parere e deve imparare dalli venetiani quali hanno per bene che sempre in quello li siano delli cittadini che contradichi l’uno a l’altro et spesso il figlio ha contradito alla sentenza del <padre>.

Oltre a questo, il libellista sottolineava fortemente quel che in Foglietta era soltanto accennato: la polemica contro il lusso, imputazione tipicamente rivolta ai ricchi di parte ‘vecchia’. Venezia, non si sa quanto plausibilmente, tornava qui come metro di paragone. Ma la polemica suntuaria si arricchiva di previsioni fosche sullo spopolamento della città e sul rimescolamento della popolazione provocato dall’immigrazione di forestieri: previsioni che mettono in piena luce il versante passatista di un po’ tutta la pubblicistica di opposizione. Bersagli del dialogo il lusso dei matrimoni, il livello eccessivo delle doti, l’uso di camerieri e paggi, il gioco, le vesti lussuose delle donne. Il tutto da combattere con forti gabelle suntuarie.

 Stefano: [...]altrimenti vi protesto, che non verrà l’anno del 600 che una gran parte delle famiglie che adesso regnano, saranno estinte, et la Republica resterà in gente nuova et li sarà sempre da vedere nuovi successi et nuovi imperij.

Agostino: È quasi impossibile questo, perché i ricchi non vogliono gabelle, se non sopra le vettovaglie.

Stefano: Se questo è impossibile, è impossibile conservar la libertà, perché i prudenti Venetiani da principio, quando formarono la loro quasi perpetua Republica che è quasi mille anni che ella si mantiene, cosa che sino a qui non si legge di alcuno altro Imperio al mondo, constituirono alli huomini un habito honorevole, e cittadinesco, et alle donne un altro, né quello si varia in modo alcuno, di maniera tale, che con quello moderanno il lusso cittadinesco, et il povero e patritio cittadino non ha da invidiar il più ricco e potente, perché comorando insieme le donne et gli huomini col paragone si conservano così tanto può le sostanze de grandi come de mezzani.

Agostino: La libertà è più possibile conservare senza le sostanze perché animo volenti nihil difficile.

Stefano: Questo non è cosa difficile ad uno che voglia da dovero, ma come si può conservare in uno che già sia stato ricco et si veda poi povero, mirate a Lucio Sergio Cattilina e compagni, e quanto più poco si conservò Roma in libertà poi di quel lusso così grande in che vivevano li Romani.

Agostino: I Venetiani non vivono con lusso più grande de noi altri.

Tutti gli argomenti e gli obiettivi della polemica sul lusso sarebbero ritornati nei decenni e nei secoli seguenti, con leggere varianti formali. In sé, dunque, un filone moralistico di ascendenze antiche e di grande avvenire, e a prima vista politicamente neutro. In realtà, mirato anch’esso, visto che obiettivi polemici erano quei ‘Vecchi’ che avevano abbandonato la mercatura per farsi feudatari di principi e segnatamente della Spagna.

Stefano: Ve lo dico et ve lo attesto, et vi soggiongo che tutti quelli vostri cittadini diventati di mercadanti principi duchi et marchesi sono i maggiori nemici che habbiate in Genova perché oltre che vi danno nemico il mondo tutto con haver accumulato oro et tanti stabili per conservarli sono quelli che hanno da vendere la Republica et voi altri et voi altri et alla fine ogni cosa resterà in ziffra.

L’autore del Sogno arrivava a chiedere l’eclusione dal governo degli interessati con il re di Spagna.

Stefano: Vi dico che sarebbe bene che [...] l’interessati con il Re et Principi stranieri non governassero la Republica, dico quelli che li danno il suo e quello delli altri, perché non è ponto dubio che per conservare le proprie et private fortune li lascieranno andar il resto della vostra libertà: e questa legge è di quelle che con l’autorità de voi perpetui doveria esser rifformata et posta in osservanza.

Agostino: Volete troppo Ms Stefano: i principali di Genova sono quasi tutti a questa foggia interessati con Re Filippo.

La grana del repubblicanesimo espresso dall’autore del dialogo mancava forse di finezza retorica, ma non certo di chiarezza: come nella professione di fede repubblicana messa in bocca all’ex Procuratore Perpetuo Agostino Pinelli.

Agostino: Vi dico in prima che è meglio e senza dubio commandare che ubidire, e sentirsi et vedersi commandati da altri è troppo duro osso ad un cittadino libero; e meglio ancora esser cittadino di una republica libera che soggetto ad un re non che ad un prencipe tiranno: perché un cittadino libero in una Republica libera è simile al Re; e assai meglio essere tassato da un magistrato sottoposto alle leggi che dal voler di un solo; et per concludere vivere in una Republica dove alle volte se sei virtuoso et prudente comandi che sotto ad un Prencipe solo dove sei sforzato ad ubedire e tanto peggio quando è tiranno.

Il repubblicanesimo andava congiunto strettamente alla difesa autonoma della città, che riecheggiava temi machiavelliani solo in parte sollecitati dalla contingenza militare della Repubblica: “senza armi proprie”, ribadiva Stefano, “non si ponno li stati longamente conservare, e quelli li quali si sono lungamenti conservati, sono stati armati et rare volte han variato gli antichi ordini”. Non solo mercatura e libertà, dunque, ma anche armi e libertà.

6.  La sfida nobiliare

Il Sogno anticipò la battaglia libellistica che preparò ed accompagnò la guerra civile del 1575 e l’assetto costituzionale del 1576: un compromesso elaborato dal mediatore cardinale Giovanni Morone, che faceva tesoro delle proposte emerse dal dibattito politico cittadino (della città rimasta in mano ai nobili ‘nuovi’ e ai loro alleati popolari), senza esserne però vincolato.

Nella battaglia a colpi di dialoghi ‘Vecchi’ e ‘Nuovi’ badarono soprattutto a valorizzare le rispettive benemerenze, disperdendosi però nelle frecciate personali. Più interessanti e meglio articolati sono alcuni testi dati alle stampe durante il conflitto. In particolare, la Risposta del S. Leonardo Lomellino Gentilhuomo Genovese al discorso de l’Ambasciadore Sauli, uscito dai tipi milanesi di Paolo Gottardo Pontio, nel 1575. Non si è certi che il Lomellini fosse il vero autore del libello. Ma di sicuro questo esprimeva nel modo più netto la posizione della nobiltà ‘vecchia’. L’autore, che continueremo per comodità a chiamare Lomellini, ricordava (ed era un topico della sua parte) l’evergetismo dei ‘Vecchi’:

non mancherei di dire che in essi si sono veduti donativi di infinito valore fatti da particolari Nobili vecchi antichi e moderni al pubblico per estinzione e diminuzione delle gabelle, infinite elemosine per sostentamento della povertà e della minuta plebe; contribuzioni gravissime di danari, servizii importantissimi con le galere loro nei bisogni pubblici e particolarmente nelle guerre di Corsica.

Su quest’ultima benemerenza i ‘Nuovi’ non potevano essere d’accordo; ma i ‘Vecchi’ dovevano rimarcare il proprio paternalismo verso la plebe e la beneficenza individuale verso la Repubblica per giustificare la parità di posti nel governo, benché inferiori di numero rispetto ai ‘Nuovi’. “Secondo tutte le leggi divine, naturali, canoniche, e civili alla nobiltà di sangue devesi deferir molto”, sosteneva Lomellini. E proseguiva: “altro è l’indistinzione degli ordini quanto al governo, ed altro fare assolutamente di due tutto un ordine”. Gli esempi di Roma e di Venezia, che i ‘Nuovi’ con più o meno convinzione solevano addurre, non valevano: là, “prima che si confondessero totalmente gli ordini quanto al governo, ricorsero le centinaia d’anni [...] ma in Genova la nobiltà della maggior parte dei Nuovi incomincia dall’età nostra”. Se Foglietta era stato nominalista, quanto all’origine delle divisioni di fazione, Lomellini era realista: ‘Vecchi’ e ‘Nuovi’ erano diversi:

egli è così in sostanza, che i Nuovi sono Nuovi, che li popolari sono popolari, che gli aggregati sono aggregati, che li artefici sono artefici [...]E meno fia possibile che si estinguano questi nomi, quantunque si vietasse il lor uso con mille leggi: perché come dissi vengono dalla natura istessa.

Le leggi del 1528 avevano lasciato “la somma delle cose all’indiscreta discrezione della fortuna” affidando al sorteggio la composizione dei Consigli. Sbagliavano dunque i Nuovi a proporre, contro il garibetto, il ritorno al Ventotto. L’unica soluzione soddisfacente per gli interessi dei ‘Vecchi’ stava nella rigorosa distinzione tra loro e i ‘Nuovi’, e nel contempo nel pari diritto di rappresentanza, per “ordine”, nel governo. Lomellini, in altre parole, postulava l’esistenza a Genova di due nobiltà, beninteso con graduazione di dignità fra la nobiltà autentica e antica dei ‘Vecchi’ e quella convenzionale e recente dei ‘Nuovi’.

Il metallo della nobiltà vecchia, è senza dubbio di liga migliore, più perfetto e più purgato da ogni oggezione, parlando semplicemente ed avendo riguardo all’antichità, sebbene quanto al governo non vi è differenza alcuna, in quanto però che tanto vi sii atto il minimo de’ nuovi, come il maggiore de’ vecchi: perché così vollero li 12 riformatori, e la convenzione fra noi.

Gli stessi modi di vita e l’origine delle fortune testimoniavano a favore dei ‘Vecchi’. Non era in questione la dignità della mercatura:

il nome di mercante, quanto alla professione è comune all’una parte ed all’altra (quantunque dalla banda dei Nobili Vecchi vi siano infiniti che non fanno mercanzia, dandosi all’esercizio dell’armi, ovvero al governo de’ lor castelli e stati, o veramente a una vita quieta di Gentiluomo) né perciò sarà stimata professione disonorevole, perché la mercanzia grossa e denarosa non solo non è biasimevole, ma piuttosto onorata e lodevole, non scemando punto alla Nobiltà di chi l’esercita, e de’ suoi maggiori, massimamente nelle Repubbliche d’Italia e fuori.

I polemisti ‘nuovi’ additavano nei ‘Vecchi’ un’oligarchia di finanzieri e appaltatori di galee: tratti che Lomellini sfumava in un’aura di vita cavalleresca e feudale. Invece “la voce e professione di artefice, quanto sia poco onorevole alla Repubblica, e diametralmente contraria al nome di vita di Gentiluomini, non accade provarlo”. Alla proposta di un corpo unico e indistinto della nobiltà e dell’applicazione del principio maggioritario avanzata dai ‘Nuovi’, ad esempio dal protonotario Marcantonio Sauli, ambasciatore del governo genovese (controllato dai ‘Nuovi’) presso il re di Spagna, i ‘Vecchi’ per sua bocca rispondevano con la proposta di una rappresentanza paritaria per “ordini” distinti. Si trattava, in buona sostanza, di riproporre il modello istituzionale vigente prima del 1528, all’epoca del dogato perpetuo, ma con la compartecipazione al dogato dei Nobili, resi per giunta più forti dai rapporti preferenziali stabiliti con il re di Spagna, e dalle possibilità di patronato nei confronti delle famiglie ‘nuove’ minori (secondo Lomellini “non solo gran parte degli aggregati fu aggregata per opera e favore degli stessi Vecchi, nudriti, allevati e beneficati dai Vecchi”).

L’esito del conflitto fu in realtà sfavorevole tanto ai ‘Vecchi’ quanto agli esponenti più radicali di parte ‘nuova’. Il più eloquente portavoce dei quali era stato forse il medico Silvestro Facio, autore di una risposta del “Popolo di Genova” alle argomentazioni dei ‘Vecchi’ e di una polemica orazione per l’incoronazione del Doge Prospero Fattinanti. Facio, come l’autore del Sogno, puntava il dito sulla politica fiscale seguita dall’oligarchia al governo, accomunandola agli altri ideali capi di imputazione rivolti alla fazione avversa: che erano

l’havermi [si intende, il popolo] escluso a fatto del Governo; non voler fabrica di Galere, dalle quali [...] pende lo splendore, e la salute della Repubblica; l’haver imposte gravissime Gabelle sulle vettovaglie per fuggir la necessità di ritrovar danari co’l mezzo giustissimo della Taglia; l’haver mantenuti tutti i beni del Publico impegnati nella casa di S. Gregorio [sic per S. Giorgio]; l’haver conservato una quasi perpetua carestia.

L’attacco a San Giorgio, cioè al sistema fiscale della Repubblica, la preferenza per l’imposta diretta invece dell’indiretta, erano spunti radicali: mettevano in discussione l’intero assetto istituzionale genovese. Andavano di pari passo con la rivendicazione navalista, cavallo di battaglia, come si è visto, dell’opposizione ‘nuova’ in quel momento, e degli innovatori ben addentro il secolo seguente. Ma, a differenza del navalismo, che poteva anche sbiadire in retorica innocua, l’attacco a San Giorgio, se condotto fino in fondo, era eversivo. La voce del popolo espressa attraverso il medico Facio era in questo un canto del cigno, non un preannuncio.

Il compromesso del 1576 abolì il garibetto senza però tornare alle leggi del Ventotto (come del resto, una volta data la parola alle armi, neppure i ‘Nuovi’ avevano più sollecitato a fare). Venne accolta la sostanza delle richieste “nuove”: ordine unico della nobiltà, ritorno di ogni famiglia al proprio cognome, scelta del governo attraverso un sistema misto di elezione e di sorteggio accettabile per entrambe le due parti. Infine, la prassi tacita di seguitare ad assicurare una rappresentanza più o meno paritaria a ‘Vecchi’ e ‘Nuovi’ nelle principali cariche placava i timori dei ‘Vecchi’ di essere soverchiati dal numero.

7.  Da un secolo all’altro: le ultime polemiche

Il compromesso di Casale segnò una svolta decisiva. Ma i genovesi non cessarono per questo di polemizzare sulle caratteristiche del ceto di governo. Niente del molto che fu scritto al riguardo andò tuttavia alle stampe. Non certo gli Annali commissionati dalla Repubblica al cancelliere Antonio Roccatagliata, che li iniziò nel 1581 e morì nel 1607 senza aver elaborato un testo vero e proprio. Dati da rivedere ad una commissione di patrizi, i suoi appunti vennero ricuciti in un testo continuo, destinato ad ampia circolazione nelle biblioteche private genovesi, ma stampato solo nel 1873. Qualsiasi cosa Roccatagliata, a suo tempo uomo di parte ‘nuova’, avesse avuto in animo di fare, il manoscritto che lasciò non diffondeva certo, come forse il governo aveva sperato, un’immagine lusinghiera della Repubblica pacificata. Era piuttosto il resoconto delle difficoltà che questa incontrava sia nelle relazioni internazionali, sia nello stabilire la concordia interna. Bersaglio di Roccatagliata era Gian Andrea Doria, capoparte “vecchio” nel 1575 e principale esponente di quei patrizi “eminenti” fatti ricchi, potenti e prevaricatori dai legami stabiliti con il mondo spagnolo. Il Principe Doria era il protagonista negativo delle vicende genovesi. Il testo ricomposto dedicava al comportamento del Doria una colorita digressione, introdotta da un commento eloquente:

Perseverava in Genova l’odio universale de’ cittadini verso del Doria, perché non solo appresso de’ mezzani, ma de’ più inferiori, era in opinione ch’egli non istimasse la Repubblica, e che nelle occorrenze porgesse occasione di disgusti e pregiudizii, ed appresso de’ grandi non solo per le cagioni di sopra narrate, ma perché anco nelle occorrenze li andava oltraggiando, e trattando ingiuriosamente.

Questo il giudizio sulla situazione dell’ordine pubblico nel 1585: “andavasi in questi giorni commettendo de’ gravi delitti, i quali non erano generalmente castigati, massime quando dipendevano da persone grandi”. Eloquente il resoconto delle manovre faziose nelle elezioni dogali del 1585:

la cagione di tutte queste difficoltà e dispareri dipendeva in tutto da’ nobili vecchi, perché essi non volevano in guisa veruna acconsentire che nel numero de’ sei si ammettesse alcuno de’ nuovi, come in effetto riuscì loro, e ciò per accautelarsi tanto più che nel maggiore Consiglio non si eleggesse altro Duce fuori che della loro banda, e benché i nuovi acconsentissero che il dovere fosse di eleggere uno de’ vecchi, si lasciavano però alla scoperta intendere che questa azione loro fosse mal fatta e mal intesa.

A mitigare un quadro così cupo, Roccatagliata citava la comune disponibilità dei cittadini alla difesa, che gli forniva il destro per manifestare le simpatie navaliste prevedibili in un anziano popolare:

e benché in questi tempi vivessero etiandio nelle dissensioni loro, quando però si è parata avanti loro occasione, mandando in disparte tutte le passioni, congiungendosi sempre in un valore, ed intenti al bene della patria, voltarono affatto li studi loro alla comune difesa di essa.

Ma nel complesso erano le “passioni” e le “dissensioni” a campeggiare in un testo che non esitava ad adoperare quelle denominazioni di parte, come ‘nobili vecchi’, formalmente proibite dalle leggi. Questa singolare attitudine di un ex cancelliere stipendiato ufficialmente dalla Repubblica come annalista spiega come il testo non sia mai andato alle stampe. Sorprende, piuttosto, che un resoconto così franco e partigiano venisse rielaborato su incarico pubblico e trovasse circolazione, sia pure privata, per quanto se ne sappia indisturbata. Ma si capisce che la Repubblica abbia rinunciato da allora a promuovere un’annalistica ufficiale.

Roccatagliata era stato un protagonista delle discordie civili. Il vocabolario fazioso e la polemica faziosa si riproposero però anche nella generazione seguente. L’orientamento dei ‘repubblichisti’, come Ansaldo Cebà e Andrea Spinola, non esauriva affatto il dibattito politico. La loro posizione, quella di Spinola in particolare, più aderente alle effettive discussioni interne al patriziato, risalta non perché rappresentativa dei temi e dei toni della polemica politica, ma perché programmaticamente tesa a superare, anche passandole sotto silenzio, le diatribe faziose cinquecentesche. Spinola non entrò mai nel campo dell’erudizione storica, come fecero invece Antonio Roccatagliata prima di lui, il quasi coetaneo Giulio Pallavicino (1558?-1638), e i più giovani Federico Federici (1570 ca.-1647) e Agostino Franzone (1580 ca.-1658).

Avvocato della “unione” in chiave “repubblichista”, Spinola votava all’oblio l’età delle lotte faziose. Se la ricerca antiquaria si dimostrava ora occasione involontaria, ora pretesto deliberato per rinfocolare gli antichi e recenti contrasti, meglio non praticarla: nelle migliaia di pagine spinoliane la rivisitazione del passato genovese è quasi assente. Pochi, e in linea con la tradizione ‘vecchia’, i riferimenti alle vicende cinquecentesche: all’elogio di Andrea Doria, il liberatore disinteressato del 1528 e il difensore dell’indipendenza genovese del 1547, si contrapponeva la menzione ostile di Ottaviano Fregoso, sospettato di ambizioni signorili. Tuttavia Spinola, benché di famiglia inequivocabilmente ‘vecchia’, fondeva nella sua idea di città elementi che provenivano da entrambi i filoni della polemica politica cinquecentesca. L’elogio della mercatura e della navigazione proveniva soprattutto dalla tradizione ‘nuova’, anche se realisticamente non comportava alcun disdegno per l’attività finanziaria. Tutta di origine ‘nuova’ era l’insistita polemica suntuaria, non priva di accenti antifemminili e antigiovanili. E ancora ‘nuova’ (benché anche i ‘Vecchi’ avessero maltollerato nel Cinquecento il protagonismo di alcuni tra loro) l’ostilità verso gli ‘eminenti’. La diffidenza verso gli ordini religiosi “moderni” e il proselitismo ecclesiastico tradiva poi il rimpianto per la religione civica del secolo precedente e per un rapporto tra laicato e clero che era certamente, e irreversibilmente, cambiato. Radici ‘vecchie’ presenta invece l’adesione spinoliana ad una immagine sostanzialmente immobile della società cittadina. Era questo il presupposto della sua avversione alla legge che consentiva al patriziato di cooptare ogni anno nuovi membri traendoli dal mondo popolare. Disposizione destabilizzatrice, gli pareva: perché generava aspettative permanenti di ascesa sociale, che non potevano (anzi, non dovevano) essere soddisfatte. L’idea di città spinoliana contemplava un ceto di governo concorde, frugale, mercantile, consapevole dei propri doveri, provvido verso gli inferiori; ma anche un ceto di popolari operosi, leali e privi di ambizioni di ascesa sociale. Aleggiava, dietro questa proposta, la suggestione del modello veneziano: patriziato chiuso, e secondo ordine contento del proprio stato. Sottintesa, un’idea di ordine sociale fondata su una stratificazione articolata non solo della città, ma dello stesso patriziato, che il lusso e la diffusione di nuovi modelli culturali (i “costumi cavallereschi”) tendevano a semplificare brutalmente.

Negli stessi anni in cui Spinola rielaborava i Ricordi, però, la polemica cinquecentesca sulle fazioni venne riproposta per l’ultima volta: nel 1622-23 da un dialogo anonimo rimasto manoscritto che incorporava alcuni testi del 1575 (riproposti a stampa nel 1628, sullo sfondo della guerra tra Repubblica e duca di Savoia e della congiura di Vachero, dal filosabaudo Gian Antonio Ansaldi), e nello stesso anno dalla prima parte del dialogo Aristo. Sotto questo titolo va la riflessione politica che l’intellettuale e uomo di governo Agostino Franzone stese in dodici parti (“giornate”) fra il 1623 e il 1641, e che circolò anch’esso largamente senza andare mai alle stampe. La prima “giornata”, dedicata al tema della nobiltà di Genova, rispondeva (se deliberatamente o no lo ignoriamo: non è possibile stabilire con certezza quale testo sia stato scritto prima) ai dialoghi anonimi. La coincidenza temporale delle due opere esprimeva evidentemente lo stato d’animo, anzi di malanimo, del momento. I dialoghi del 1622-23 assumevano un punto di vista risolutamente ostile all’azione dei ‘nuovi’, considerati traditori della causa “popolare” nel 1575; tuttavia la loro ispirazione è ambigua: essi sottolineavano soprattutto la convergenza degli interessi delle due parti contro i comuni nemici ‘nuovi’. Sul piano operativo sembrano tuttavia più un appello alla riscossa dei ‘Vecchi’, che non un incitamento all’eversione rivolto al popolo.

Nella rivisitazione polemica e ‘antinuova’ dei fatti del 1575-76 i dialoghi riprendevano lo spunto proposto alla fine del secolo precedente in uno dei più straordinari pezzi della pubblicistica politica genovese: quella Relazione di Genova, databile molto verosimilmente al 1597-98, che è stata (e talvolta è tuttora) attribuita al Doge Matteo Senarega, ma che c’è motivo di credere sia stata invece stesa da un intelligente e ‘machiavellico’ intellettuale-avventuriero toscano forse al servizio del Granduca, Jacopo o Giacomo Mancini da Montepulciano, morto assassinato a Genova nel 1603. La relazione, e due scritti più brevi ad essa correlati, se opera del Mancini rappresentavano una acuta analisi del governo genovese e soprattutto dei suoi punti deboli, ad uso di chi volesse (e il Granduca era un candidato plausibile per la parte) sfruttarle a proprio beneficio. È invece molto più impegnativo giustificarne l’attribuzione a un protagonista, pur spregiudicato, della politica genovese come Matteo Senarega. Il governo genovese fece bruciare il testo (che per altro ebbe larghissima diffusione) attribuendolo al già defunto Mancini.

La Relazione, è stato osservato, pare rispecchiare gli interessi e il punto di vista di un estraneo, non di un genovese. Non così i dialoghi del 1622-23, cosparsi, come già la pubblicistica precedente il 1575, di attacchi personali. Disinvolto pastiche di toni e argomenti di riporto, e di riferimenti d’attualità, i dialoghi furono forse travolti dalla cronaca, ovvero dalla guerra savoina del 1625 e dalla successiva congiura di Vachero, e non ebbero seguito.

A sua volta, Franzone chiuse senza saperlo il dibattito sulle caratteristiche del ceto di governo genovese, riprendendo e rovesciando la posizione sostenuta tre quarti di secolo innanzi dal Foglietta. A somiglianza del quale risaliva infatti alle discordie duecentesche, ravvisando nelle bipartizioni dei posti di governo l’origine della scissione faziosa. Diversamente da Foglietta, però, rilevava l’importanza della ripartizione dei posti di anziano praticata a partire dal 1290. Là, più ancora che nell’avvento del dogato popolare del Boccanegra, stava lo spartiacque politico del passato genovese:

dalli quali ordini come ho detto cominciò la divisione nel governo perché quelli che in l’avvenire avevano da esser ammessi conveniva che fossero dichiarati o dell’ordine de nobili, o di quello de populari, e da qui nacque, che ogniuno o fosse di casato e generazione nobile o vero persona nuova si faceva porre per governare la Republica in quale di quelli ordini meglio gli pareva e di qui venne che il nome de nobili e di populare acquistarono, oltre la loro propria significazione, quella di fazione e mutavansi i cittadini da un ordine all’altro secondo le occasioni e gli interessi che correvano.

Quanto al significato delle fazioni, Franzone era dunque nominalista. Era una riproposta di Foglietta, ma capovolta per un aspetto capitale: inizialmente il ceto di governo genovese era stato unito e in qualche modo ‘nobile’. Dove Foglietta aveva visto apertura e permeabilità, Franzone scorgeva chiusura ed esclusione. Già in età comunale chi entrava a far parte del governo doveva essere stato implicitamente cooptato nella nobiltà. Essere nobile o popolare “era elettione e non necessità, e così fazione e non condizione di persone”. Il regime del capitano del popolo aveva diviso artificialmente e per motivazioni faziose un ceto dirigente in precedenza concorde. Proiettando in un passato originario l’unione faticosamente raggiunta dal patriziato cittadino in due tappe nel corso del Cinquecento, Franzone chiudeva davvero un’epoca.

 

 

 

 

NOTA BIBLIOGRAFICA

Il dibattito politico genovese nel Cinque-Seicento è ottimamente utilizzato in Costantini, La Repubblica di Genova, al quale rinvio per il quadro generale della Genova dell’epoca e per una bibliografia esauriente. Le origini e le caratteristiche della riforma del 1528 sono stati di recente studiati da Pacini, Le premesse politiche del ‘secolo dei genovesi’; mentre la guerra civile del 1575, le leggi di Casale e l’ampio dibattito politico sviluppatosi sul tema della riforma politica sono stati analizzati da Savelli, La repubblica oligarchica. Costantini ha messo in rilievo il grande interesse delle Historie di Giovanni Salvago, il cui manoscritto si trova nella Biblioteca dell’Istituto di Storia Economica dell’Università di Genova, Archivio Doria, scat. 417, n. 1912. Il trattatello di Ludovico Spinola, segnalato da Musso, La cultura genovese fra il Quattro e il Cinquecento, è stato edito in appendice a Seidel Menchi, Passione civile e aneliti erasmiani di riforma. La biografia del personaggio resta però da fare. Su Jacopo Bonfadio si veda La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica. Cito gli Annali dalla traduzione del Paschetti, Genova, presso Girolamo Bartoli, 1586. Su Oberto Foglietta rimando ancora a La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica, limitandomi a segnalare qui Musso, La cultura genovese, e Libri e cultura dei Genovesi, che assieme ad altri lavori dello stesso studioso sono stati ristampati inalterati in Id., La cultura genovese nell’età dell’umanesimo. Sul Sogno sopra la Republica di Genova veduto nella morte di Agostino Pinello ridotto in Dialogo, che ho citato dalla copia conservata in ASCGe, Manoscritti Pallavicino 164, ved. Costantini, La Repubblica di Genova, e Savelli, Tra Machiavelli e San Giorgio. Sulla pubblicistica genovese in particolare ved., sempre di Savelli, Potere e giustizia, e La pubblicistica politica genovese. Ho citato il testo di Leonardo Lomellini dall’edizione di Agostino Olivieri in appendice a Le discordie e guerre civili dei genovesi nell’anno 1575 descritte dal doge Gio. Batta Lercari. Si avverta che il testo attribuito dall’Olivieri a Giambattista Lercari è invece di Scipione Spinola: cfr. Savelli, Potere e giustizia. Degli Annali di Antonio Roccatagliata ho utilizzato l’edizione a cura di Vincenzo Canepa, Genova 1873. Il manoscritto originale si trova in ASGe, Manoscritti 64. La vexata quaestio della Relazione di Genova del 1597 è discussa in Costantini, La Repubblica di Genova e nei lavori citati di R. Savelli. Entrambi questi studiosi, ed anche chi scrive, dubitano fortemente dell’attribuzione tradizionale del testo a Matteo Senarega.

Sulla pubblicistica politica genovese del primo Seicento rimando ancora a Costantini, La Repubblica di Genova, e a Doria-Savelli, “Cittadini di governo”. Esiste un’antologia spinoliana, a cura di chi scrive: Spinola, Scritti scelti; mentre il nesso tra dibattito politico e problemi di governo nello stesso periodo è discusso in Bitossi, Il governo dei magnifici. Su personaggi come Federico Federici e Agostino Franzone, non ancora oggetto di studi specifici di ampiezza pari all’interesse delle figure, si trovano frequenti riferimenti nei già citati lavori di C. Costantini, R. Savelli, e C. Bitossi, ai quali si rimanda anche per ulteriori riferimenti biobibliografici.

 



[1] Nato dall’invito di Franco Croce Bermondi a collaborare alla storia letteraria della Liguria della quale è uno degli ideatori e direttori, questo testo è comparso ne La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova, Costa & Nolan, 1992, 1., 9-35, alleggerito per esigenze di spazio nelle citazioni. In questa sede ripristino la stesura originale. Poiché il taglio dell’opera escludeva la possibilità di apporre note, i riferimenti bibliografici, per altro sommari, sono concentrati in una nota finale. Nel redigere il saggio ho avuto modo di constatare ancora una volta la scarsezza di studi aggiornati sui principali esponenti della cultura politica genovese del Cinque-Seicento. Ludovico Spinola resta assolutamente misterioso. Giovanni Salvago attende ancora un editore, come anche la citatissima Relazione di Genova del 1597, che tra l’altro si presterebbe a un esercizio di virtuosismo filologico, nella ricerca dell’identità dell’autore, degno dei “giochi di pazienza” di Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi. Oberto Foglietta meriterebbe quell’ampio lavoro al quale per molto tempo aveva atteso il compianto Gian Giacomo Musso. In breve, sembra quanto mai opportuno un ritorno al lavoro sui personaggi e i testi della grande stagione della pubblicistica genovese avviato a suo tempo da Costantini e da molti anni incagliato.

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