Racalmuto
alla fine del Trecento
L’ultimo
quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che
spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico
siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana
racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora un tale contiguità
da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero
ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si
rende indispensabile.
Il 27
luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica
avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici,
quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile. «Come i suoi
predecessori - Scrive il D’Alessandro
- e certo molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della
realtà che affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani
aveva desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana
dalla passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava
solo una aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla
successione, egli disponeva anche una revoca di tutte le concessioni sul
patrimonio demaniale sin’allora erogate e confermate: un “impeto di giusto
dispetto” come poi fu detto, ma che poco prima di morire annullava con un
codicillo.»
Il regno
passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina
sul serio - ma solo pro forma visto
che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come
Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si
reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli
altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e
Guglielmo Peralta.
La vita
riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In
effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i
cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per
Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi
Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché
storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia
intendere che costoro se ne stesserro ancora a genova a curare i nuovi loro
affarri in seno a compagnie marittime.
Racalmuto
scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la
legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.»
Solo che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua
cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo
III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal
castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi
III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le
trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non
lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla
alla monarchia iberica.
Rientrava
in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi
di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in
contrapposizione agli intenti della corte aragonese.
Ribolliva
l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito
Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di
Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo
alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante
Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione
della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie.
In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della
corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare.
Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao
di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le
nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389
moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana. Per
l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra
l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli
e consociativi.
Morto anche
Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un
periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto
l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la scomunica e
l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante
Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.
Nel 1389,
allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di
Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in
Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il
duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava
di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento
del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non
sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano
celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale
della storia di Sicilia.
Si giunge
così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte,
personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo
successore e su altri nobili di Sicilia - punta il nuovo pontefice romano
Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a
contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si
riflettono dunque anche sulla periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si
dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie
dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un
fronte d’opposizione ai Martini.»
Nel
frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia
a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con
generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna
a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel
lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno
personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto
“Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato
medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano
proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico
racalmutese.
Nel 1392
gli spagnoli sbarcarono in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera.
Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in
Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso
dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea
Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e
nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi a Palermo,
resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle
azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze,
grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea
Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi
nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco
dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria
di Racalmuto e dà inizio al lungo
periodo della sua baronia vera e storicamente documentata.
Si
dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio
1391 quando si era celebrato il convegno di Castronuono in cui si era giurata
fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto
né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il
Chiaramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino
ed ecco alcuni convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del
quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima
isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era
del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio
Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare nella
diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccreditare presso i
Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era lasciato
coinvolgere dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per “necessità” ,
finge di credere la nuova triade regale di Palermo.
Ancora
nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di
mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente
ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la
spedizione militare aragonese.
Gli eventi
precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana
presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi
entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio
Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare
l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la
popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto
liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea
II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a
Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo
ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il
giovane. Il duca si irritava a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3
aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte
e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla
Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo
Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte
si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a
prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme
all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo
palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i
sovrani per trattare dei propri beni. Ma
Martino il vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte
di Andrea Chiaramonte si concludeva il
primo giugno 1392, quando venne decapitato nel piano antistante il suo stesso
palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche
di una delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita,
Manfredi Alagona delle passate vicende.
Il 1°
giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di
essere un feudo chiaramontano.
I Martino e
la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma
c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le
prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati
smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino,
con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca
dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro
feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del
Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità sul
feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di
più Martino dichiarò abrogate le clausole del trattato del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato,
ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di
legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di
sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re
convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la
peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le
assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità
centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno
catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle
aliene di Catalogna.
Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre
anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a
sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fino nei più minuti aspetti. Questa
sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni
persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò,
rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di
generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per
domare una insurrezione in Sardegna.»
Martino il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in
successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le
corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così
nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per
dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento,
sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente
era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia
aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò
governata direttamente dalla Spagna.»
Note e
dettagli sull’avvento dei Del Carretto
Il
grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene
proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. Essa recita :
Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el Rey dio su
senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in gratissimo a las
mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu padre, y se
confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas de Mineo y
Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian rebelado, y el Conde
murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se hi zo rigorosamente
contra ellos, y di se entonces el officio de maestre justicier al Conde Nicolas
de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de
Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de Santapau su
hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de don Fernan
Lopez de Luna a Sicilia, para que se
criasse en la casa del Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues
en la casa de Peralta, que era un gran estado en aquel reyno. Sirvio
tambien al rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de
Carreto Marques de Sahona: y haziendose
la guerra muy cruel contra los rebeldes, el Conde de Veyntemilla, que sucedio
en el Contado de Golisano al conde Francisco su padre se reduxo a la obediencia
del Rey ...
Per il
Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al
servizio del re di Sicilia, Martino, in questa guerra che durò alcuni anni. Lo
spagnolo desunse, sicuramente, questa notizia dagli archivi aragonesi, ma
abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche,
specie quella del Fazello. Se del tutto attendibili, queste note di cronaca ci
svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare
come marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella
città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, è Gerardo che si dà da
fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. E’ sempre
Gerardo che si mette a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro
la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione
ardua, non risolvibile allo stato delle attuali conoscenze.
Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto
i Del Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando
la cancelleria dei Martino diviene intransigente e vuole prove certe delle
pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il
fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato
alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura
della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due
fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al
primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia
- in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto?
Interrogativi cui non siamo in grado di dare risposte certe.
Nel
1392 giunge, dunque, in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un cinico, infido, ma
astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di
grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici
siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive
Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia. Resta
l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea
Chiaramonte, e non cessò di combattere
la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse
tornato utile.
Ne
approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di
Racalmuto, naturalmente a pagamento.
L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici.
All’inizio
del secolo XIV un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di
quel marchesato solo per un terzo (sempreché la favoletta abbia un fondamento
storico - scende in Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di
averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva
convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca
nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole: costui pare che abbia
lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo
fratellastro Antonio del Carretto.
Antonio
frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui
Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica
i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i
Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare
integralmente dalla parte dell’Aragonese.
In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà
vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico
transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha
cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera
proprietà della “terra et castrum Racalmuti”.
Martino il vecchio si rende subito conto del senso e
della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio
racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità”
- come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind. 1398. Quel
beneficio gli viene tolto per essere assegnato ad un altro estraneo “al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della
terra di Paternò, cappellano della
nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra
ignominia della storia ecclesiastica racalmutese.
Non c’è
dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a
Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri
domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Marchesi di
Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del
Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere
il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però,
non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche
modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla
Sicilia l’esistenza di un tale titolato, evidentemente spurio, e l’autorità
storica di un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli odierni
araldisti di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle
tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese Antonio I
del Carretto che nei primi del Trecento lascia Finale Ligure per approdare ad
Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte,
semplicemente non esiste, a nostro giudizio.
) ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO
REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON -
ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.