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sabato 5 aprile 2014

Stromboli

Stavo a Salina con moglie cognata e suo figlio. Su una barcaccia dal tavolame sconnesso e ignudo un caldo meriggio di tanti anni fa ci avviammo verso Stromboli. Arrivammo quando il sole declinava per immergersi nelle salse acque che stemperavano i tanti camini delle infernali fucine del dio barbuto e nero che dicesi Vulcano.
 
Si può salire sul pirotecnico cratere di Stromboli.
 
Ma si corra a comprare una pila  altrimenti non si scnde più. In fretta e furia andiamo  allo sguarnito emporio del porticciolo. Quindi raggiungiamo la ciurma con un giovvane nocchiero che credo facesse fremere le attempate signore.
Iniziamo l'ascesa.
Il caldo brucia la pelle. Si suda  ma si sale.
Io già sfiancato per l'acquisto della piccola torcia a pile. Ma il callido nocchiero inflessibile, passo marziale. Passetti piccoli mi raccomando ma svelti. Non bere acqua: solo fettine di limone da portare alle labbra.  Si arriva a metà colle. Vi sono ferri di cavallo in muro a secco. Tanti vi si acquattano con zaini e sacchi per la notte. Di solito sono giovani coppiette. Penso chissà come saranno i nascituri concepiti qui in queste zolle dell'osceno Vulcano.
Il sole è tramontato accecandoci con i suoi ultimi raggi di fuoco. Si sale imperterriti. Il nocchiero non molla. Il passo è svelto. Già sono stracco. Una mezz'ora dal tramonto e di colpo dal caldo all'algido respirare.  Ancora un poco e la truce notte fa tremare ora la pelle di freddo.  Il viottolo pietroso è finito. Inizia il martirio. I piedi ora scivolano su una sorta di sabbiosa spiaggia nera ma irta. Il mio ancor giovane cuore comincia a battermi dentro irato, tumultuoso. Anche mia cognata ha questi cardiaci rantoli. Gli altri - maledetti - sembrano grilli saltellanti ilari, gioiosi alla conquista della cerulea vetta.  Un po' di riposo, di grazia, Il nocchiero si commuove ma per fugacissimi istanti. Si riprende.  Un passo tra quella erta sabbia nera e mezzo scivolo indietro. Ma quando si arriva. Tra poco, mente il nocchiero. Lo invidio, c me è agile ed abile lui. Penso che stavolta finisco i miei giorni a quota 700 metri per il freddo di quella che per me è molte moltissime migliaia di metri.
 
 
Si arriva lassù.  Sono esausto. Mi butto mi sdraio per terra. Il previdente nocchiero mi mette giornali sul petto sotto l'estiva maglietta. Sono come salvifiche coltri. Solo così non muoio assiderato.
 
Siamo su un viottolo alto tra due crateri profondi limacciosi di fuoco ribollente.
 
 
Cronometrici fiotti iridescenti salgono al cielo.
 
Solo ora comincio a guardarli per una estatica ammaliata contemplazione.
Siamo sul ciglio tra due mortali voragini.  Si dice che qualche testone teutonico volle discedere un po' per meglio gustarsi lo spettacolo credo unico al mondo. Finito in fondo al cratere irrecuperabile. cremato. Ora si discende. Si discende lungo quelli che al mio paese si chiamano "gattani": i solchi a sbalzo che le irruenti seppure rade acque piovane hanno tracciato dalla cima sino al fondo valle sulla spiaggetta ove approdano le barche di legno sconnesso come la nostra presa in affitto con marinaio compreso, ovvio. Si scende lungo quei gattani scoscesi, da uno sbalzo all'altro, lasciandosi scivolare col culo. che si flagella  per quel ripetuto sbalzare alla luce della tremula torcia a pile.
 
Si arriva giù alla spiaggetta.  Si risale sula sgangherata zattera. Ci si sdraia dul tavovolaccio come ergastolani ostativi di un tempo e solo in mattinata, smunti rappresi storditi, si arriva a Salina. E si corre in albergo per sdraiarsi sul letto tentando un faticoso ristoro.

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