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venerdì 30 maggio 2014

LA DONNA DEL MOSSAD di Calogero Taverna [ultima parte]

- Guarda che non posso difendere due coimputati … interruppe Pujades.
- Non ne hai bisogno. Meglio. Scattava già un’incompatibilità. L’Italia è la terra delle incompatibilità … e tutti stanno insieme … il diritto naviga a destra, la vita a sinistra. … mi dici che il tuo giornale sta inviando i pezzi da novanta dell’avvocatura milanese … sai che ci fanno ad Agrigento? Un piffero … ad ogni modo contento tu, contenti tutti. ….. Pujades mi dice che i fastidi non saranno per noi … è il povero Vitazza che patirà l’anima dei guai suoi … al solito, giustizia all’italiana maniera che inventa le colpe dei deboli ed affossa i misfatti dei potenti … pare che stavolta i potenti siamo noi … io perché scrivo gialli di successo e tu perché c’hai il corrierone dalla tua parte. Sì, ci vediamo presto … arrivederci.
L’avvocato Pujades accentuò i suoi tic nervosi. Si fece rilasciare un mandato ampio e pieno. Si accomiatò di mala grazia dallo scrittore amico e si precipitò in tribunale. Meluccio tornò a dimensioni normali, si sentì uomo ormai vecchio come capita a tutti i settantenni.  Non era paura la sua, solo angoscia, avvilimento, avversione per tutto quanto sa di stato, di potere, di procure, di capitani e di avvocati, anche. Li avvertì come nemici ed ebbe in uggia anche la vita. A passi lenti, bolso e vecchio si incamminò per le scalette che conducevano su, al seminario. La sera agrigentina sapeva di morte, quasi un preludio funebre. L’uomo, questa misera cosa con empiti di onnipotenza subito in cenere. A Meluccio cessò la voglia di lotta … rintanarsi nell’ospizio dei del Carretto ora era l’unico suo desiderio, emergeva l’infanzia, quando si sentiva protetto dal corpo della madre, sotto al rifugio, per ripararsi dalle bombe che dal cielo piovevano nella guerra del Quaranta. “Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris”, la polvere del mercoledì delle ceneri quale saggissimo simbolo! - in questo era profondamente cattolico, cupo, senza speranza, dannato all’inferno. Non per nulla amava proclamarsi: cattolico non credente.



CAPITOLO QUINTO
Incupito, Meluccio si decise di far visita a Vitazza. Aveva rinviato troppo ed un po’ gli sembrava di essere vile. Trovò il giovane spoglio della sua abitale iattanza. Due o tre convenevoli e lagrimoni solcarono il viso espanso di Vitazza.
- Ti trattano male? -  interloquì Meluccio.
- Nonzi duttu’. Stavanu cominciando .. ma subito arrivò la raccumannazioni di Bastianu e tutti addivintarunu umili e mansueti, persino ruffiani ed amici. Anche gli ‘nfami, i secondini. Certo debbo chiamarli «comanda’», ma così per educazione. Bastianu Saldì è proprio potente.
- Tu gli amici potenti te li sai scegliere.
- Vossia e Bastianu siti amici mia.
- E tutti e due ti abbiamo fregato.
- Nun ci criu.
- E non crederci, non crederci. Io ti voglio bene. Mi sento in colpa con te. Però tu sei uno scervellato. Che ti metti a parlare con Saldì al telefonino, usando il suo numero segretissimo?
- L’avevo fatto tante volte e nessuno niente mi aveva mai detto.
- Fino a quando a controllarti non è intervenuto il capitano Bonadies.
- Io da ccà quando esco?
- Prima possibile, Vita’ … hai visto che ho dato incarico a Pujades … il principe del foro di Agrigento …
- Una volta era Cavallaro … il mio grande paesano ..
- A Racalmuto ne avete avute tante di teste fini … ma di cose buone ne avete fatte sempre poche.
- Iu mali a nuddu nn’haiu fattu.
- Tu non hai fatto male a nessuno … io neppure, e tutti e due siamo qui alla Petrusa.
- Ma iu dintra e vossia fora.
- E la differenza non è poca … Io il carcere comincio ad avercelo dentro, ed è peggio. Una persona intelligente quando comincia a non capire finisce in un carcere dell’anima da cui nessun giudice della libertà è in grado di farti uscire.
- Capisco.
- Su col morale. Dai nostri due diversi carceri dobbiamo uscire al più presto, Vita’.
- Sissi.
Torno a Bovo Meluccio e subito si ingolfò nello studio delle carte. Noiosissime quelle della Mangoni. Impenetrabili quelle di Aurelio. A dire il vero, l’interesse per gli appunti di Aurelio veniva anche dal gioco di rintracciare nel computer i file cancellati. Il “temp” non veniva pulito da Aurelio, che per di più usava trascrivere mille volte le poche briciole di un velleitario memoriale autobiografico che non finì mai: il ritrovamento di appunti scritti e cancellati consentiva sorprese che una qualche intima soddisfazione la destavano. Come in un giallo: vari indizi che potevano portare alla scoperta dell’assassino. Del resto, per Aurelio un assassino c’era stato davvero. Ora Bonadies diceva di averlo scovato. Meluccio era convintissimo del contrario. Scoppiava un contrasto fra due intelligenze: quella poliziesca e caina e quella libresca. Quale avrebbe vinto? Meluccio tornava ad avere fiducia in se stesso.
Non v’era ombra di dubbio: bisognava indagare tra le ispezioni di Aurelio per trovare le orme del futuro assassino. E due erano le piste: quella ovvia della mafia che Mangoni prima ed ora, con sicumera, Bonadies ritenevano foriera della morte dell’ispettore e quella tenebrosa ed inafferrabile che Meluccio e, a ben vedere, il ministro dall’epa incommensurabile, pensavano doversi scandagliare.
Di ispezioni pericolose, Aurelio ne aveva fatte non molte ma sufficienti a procurargli l’esecuzione o da un versante o dall’altro. Le prime erano incolori, ma qualche sintomo e qualche preoccupazione vi si annidava. Guardiamo, ad esempio, la prima di una triade di verifiche fatte a strane banche ebree di Milano. Aurelio vi aveva notato strani giri di assegni. Aveva contestato: «l’azienda consente il pagamento, per contanti, di assegni circolari di altrui emissione». Assegni di cui al momento dell’ispezione non si sapeva o non si voleva svelare il beneficiario. Aurelio citava il caso «dei valori cambiati a certo sig. Sandro Vercelli le cui firme sulle diverse distinte di presentazione risultano palesemente difformi.»
Meluccio aveva cercato, e trovato dopo non poca fatica tra carte impolverate, quel vecchio “rapporto ispettivo”. In moduli ristampati nell’aprile del 1971. Con foderine color cenere, rilegatura con nastro marrone, incuriosì molto Meluccio l’antico elaborato ispettivo della “Banca d’Italia – Ispettorato Vigilanza sulle Aziende di Credito”. Si parlava della “visita effettuata dal 5.10.1971 al 28.1.1972” all’azienda di credito Pincherle-Levi & CC. – Spa – Milano”. Quella banca non esiste più: assorbita da una popolare lodigiana, che da piccola banchetta, per sostegno della banca centrale, oggi domina il mercato italiano e si è espansa anche tra le latebre misteriose della finanza siciliana – quanto pulita, non si sa. Forse nei 35 fogli A4 il mistero della morte di Aurelio.
La lettura deluse molto il settantenne scrittore. Ingenuo il dire, inelegante l’accusa, insignificante il contenuto. Si vedeva lontano un miglio che Aurelio non sapeva fare altro ancora che sciommiottare il burocratese della vigilanza bancaria. Il “pro-memoria per il signor governatore” era particolarmente striminzito e disadorno. L’aristocratico Carli l’avrà accantonato con un gesto di annoiato sprezzo.
Eppure la banchetta era peculiare: posseduta da una famiglia ebraico-egiziana, aveva potuto combinare circuiti finanziari i più conflittuali dell’epoca. La pingue finanza araba, quella degli emirati, la finanza che si denominava dal dollaro e dal petrolio messi assieme, i petro-dollari, e l’acume bancario ebreo, senza patria, schivo persino, tutt’altro che sionista, si coniugavano quasi in un sottoscala di via Verdi a Milano. Le armi acquistate dall’Egitto, prima durante e dopo la guerra dei sei giorni, si pagavano tramite lo sportello giudaico di Milano. Quei micro banchieri di padre ebreo e di madre egiziana consentivano una saldatura finanziaria, diversamente impossibile. Il gioco degli assegni circolari - una concessione tutta eccezionale che la Banca d’Italia aveva dato a ristoro dei danni della persecuzione razziale del fascismo – permetteva traslazioni in dollari tra aree addirittura in guerra. Aurelio confessa nelle sue manie autobiografiche di non averci allora capito nulla. Il gioco degli assegni manco lui l’aveva scoperto. Era stato un suo collaboratore napoletano, e lui, da siciliano, l’aveva in gran sospetto e in gran dispitto.
Il rilievo passò del tutto inosservato, l’ispezione fu archiviata senza lasciare traccia alcuna. C’era dunque da perdere tempo se si avevano uzzoli polizieschi e si voleva là rinvenire chissà quale arcano che portasse all’avvelenamento del povero ispettore.
Grande importanza, invece, annetteva Aurelio a questa esperienza milanese. Il suo primo incontro col mondo ebraico fu per lui un grosso flop. Non ne aveva capito molto, di quell’intrecciarsi di conti correnti passivi, di afflussi di mezzi illiquidi, di assegni circolari trattivi sopra e di ritorno degli assegni a chiudere un circuito apparentemente inutile. Molto proficuo, però per la banca. Gli ebrei-eziziani sapevano ricavarne un conto economico pingue che il povero Aurelio aveva descritto al suo governatore come “soddisfacente” per l’equilibrio che si riusciva a conseguire tra costi anche elevati nella raccolta e ricavi più che compensativi rivenienti dai servizi e soprattutto dalle provvigioni e commissioni. Anzitempo, quel malconcio sportello del sottoscala prefigurava la banca ideale per la Vigilanza di Roma: scarsa raccolta, impieghi accorti e tantissima intermediazione finanziaria di natura non creditizia.
Restava, però, una lezione illuminante per Aurelio. Dopo si ricorderà del tipo particolare del servizio che gli ebrei denominavano “cambio assegni”. Non era il solito gioco di assegni circolari emessi dopo accrediti di assegni bancari post-datati. Non era ciò che in gergo si definiva pudicamente “autofinanziamento delle imprese”. Era compiacenza, cointeressenza, compartecipazione agli utili dell’istituto bancario. Erano tempi di separatezza tra banca ed impresa, ed i banchieri aggiravano l’ostacolo con i giochi del giro di assegni circolari che permettevano aumenti di capitale sociale delle industrie, anticipazioni per acquisto delle armi da parte di intermediari collusi con entrambi gli stati in armi - egiziani o ebrei che fossero - primi esperimenti del riciclaggio in grande e con circolazione extra nazionale (extra corporea, la chiamava un grande giornalista) del denaro sporco.
 Fu Sarcinelli – bisogna dirlo – che per primo comprese il forte elemento inquinante del “cambio assegni”. Decise di stroncarlo ma a modo suo. Sarcinelli fu il tecnocrate della Banca d’Italia sicuro che godesse di una extraterritorialità giuridica. Considerava giuristi, diritto e giudici l’orgia del formalismo sterile. Vi lasciò le penne come tutti sanno. Pochi, però, sono quelli che si sono resi conto che l’incidente penale del tecnico di Via Nazionale è più legato alla stroncatura del giro di assegni (a vuoto, per traslazione di denaro sporco, e via di questo passo) che alla vicenda Sindona (come pretendeva il giudice Viola) o alle storie del caso Rovelli (su cui però accentrò la sua devastante attenzione il giudice Alibrandi). Con circolari e numeri unici, Sarcinelli tentò di impedire alle banche la copertura ai falsi movimenti monetari. Non è che il gioco fosse ancora di precipua importanza. Marpioni milanesi avevano raffinato il gioco; si erano dati ai time-deposit, a rimbalzi con l’estero, specie con la Svizzera, per impedire riscontri impertinenti. Tuttavia, il disposto di Mario Sarcinelli andava a colpire le minuscole banche, le cooperative e quelle importanti – quasi tutte – erano democristiane, si legavano alla Federconsorzi, godevano della protezione dei potenti dell’epoca, dei cavalli di razza D.C. come allora si diceva. La supponenza di Sarcinelli ebbe il tonfo che ebbe. Aurelio si scontrò e duramente con Sarcinelli. Veniva dall’ispezione di una cassa di risparmio romagnola. Il piccolo ispettore siciliano si era imbattuto con il potente ICCRI, quello degli assegni speciali con i quali si erano profusi i fondi neri delle casse di risparmio milanesi e nazionali. Non aveva avuto remora a stigmatizzare compensazioni di partite tra la periferica cassa ed il proprio istituto centrale. Si era messo in testa di soppiantare il fisco. Aveva censurato comportamenti fiscali non ortodossi. Aveva avuto a ridire sulla politica dei tassi passivi ed anche su quelli attivi. Aveva ficcato il naso nei rapporti di lavoro. Non gli erano piaciuti incarichi remunerativi a figli di amministratori. Criticò la politica di bilancio. Tutto questo indignò Sarcinelli. Definì ogni cosa “bolle di sapone”. Che importanza ciò poteva avere se «l’azienda veniva definita patrimonialmente robusta», se «ottima era la situazione di redditività». Il tecnico gongolava, l’ispettore – ormai ideologicamente inquinato – contestò. Fu arrogante. «Se lei considera bolle di sapone, il peculato, il peculato semplice, il peculato mediante distrazione … vuol dire che abbiamo visioni diverse. E siccome faccio parte della chiesa che invoca il centralismo democratico, le consento come mio capo di avere un’opinione diversa dalla mia.» Si adirò davvero Sarcinelli. Apostrofò in malo modo Aurelio, lo definì sarcasticamente: Pangloss. E soggiunse: «Sa quanti sono i magistrati? Due mila? Tre mila? Ebbene io non consentirò a costoro di disintegrare le banche. Se le banche vanno bene è mio dovere difenderle, se vanno male, è mio dovere correggerle.» Qualche mese dopo l’uomo che si credeva al di sopra dei giudici finì malinconicamente a Regina Caeli … per pochi giorni s’intende.
Qui Meluccio cominciò a distrarsi per noia. Erano faccende tecniche in cui non riusciva a districarsi. Aurelio vi annetteva molta importanza nei suoi spezzoni autobiografici.  Emergeva solo che un giovanissimo ispettore, preso dalle zolfare o dalla terra di Racalmuto, veniva catapultato nei gangli dell’alta finanza senza che gli si fornissero competenze professionali. La Banca d’Italia, eccelsa negli studi economici, risultava molto fragile nei campi della ragioneria e soprattutto della più avveduta tecnica bancaria. Era il colmo. Aurelio dovette farsi le ossa da sé, da autodidatta, in un contesto competitivo dovendo fronteggiare colleghi incolti quanto lui ma decisi a far carriera. Si bleffava, si strombazzavano risultati ispettivi eclatanti. I capi ci credevano o facevano finta. A loro importava solo la statistica: il 10, il 20 per cento in più dell’anno precedente, in relazione al numero assoluto, in relazione alla massa fiduciaria ed altre corbellerie del genere che acquietavano lo stato maggiore, intento ad altre preoccupazioni, di sicuro più nobili. Il nuovo ispettore capo lanciava i giovani: costoro s’industriavano a far fare bella figura alla Vigilanza, sia come sia. I vecchi erano in difficoltà: erano disposti anche loro a barare, ma mancavano di elasticità mentale, oltre naturalmente ad essere privi di ogni idoneità professionale. Il mondo della finanza correva a mille all’ora in Italia – a Milano a velocità supersonica; la vigilanza arrancava con frustri rilievari in cui emergeva la drammaticità di “conti d’ordine” in disordine, come Aurelio andava celiando.
Furono approcci al mondo delle banche di un ingenuo dipendente venuto dalla Sicilia, da famiglia non adusa alle tecniche dei movimenti dei capitali, appartenente ad un mondo contadino e zolfataro ove il denaro ha senso quale rado elemento di scambio, non certo di ricchezza finanziaria e speculativa. Comprensibilissimo lo smarrimento di Aurelio. Tentò una mimesi professionale. Impacciato nel parlare, evitava per quanto  possibile il dialogo. Diceva che nella banca v’era un dio ascoso – anzi, riferendosi a Mammona, un demone ascoso. Bisognava far silenzio per scoprirne gli intimi afflati, sicuramente pestiferi. Del resto, il mondo che indagava era quello dei numeri. Occorreva saperli leggere.
Fu in un’altra banca d’ebrei milanesi che acuì il suo intelletto numerico. Vi era una doppia contabilità. Capì davvero cosa significasse. Vi indagò dentro con acume. Fece un solo rilievo: amplissimo e consendatamente tecnico. Fece sensazione. Divenne un mito tra i suoi colleghi giovani che annaspavano anche loro in un mondo che non gli apparteneva. Assurse a maestro e costrinse quelli della Vigilanza a leggere Onida, ad infarinarsi di scienze aliene quali l’economia aziendale, quale la ragioneria. I superiori furono costretti ad apprezzarlo. E lo sfruttarono in ispezioni cattive ed astiose. Forse lì lo condannarono a morte.
 Aurelio, contadino mancato, ispettore di vigilanza bancaria inventato, subì la sua metamorfosi politica durante quell’ispezione milanese che lo portò ad indagare sulla contabilità nera delle banche. A quell’epoca tutte le banche avevano i loro conti neri; si chiamavano sussidiari del conto economico. Lì facevano affluire proventi occulti e da lì prelevavano emolumenti riservatissimi. Non è che non ci fosse contabilità: le banche non possono permettersi di omettere minuziose evidenze di ogni loro fatto di gestione. Se danno una regalia, la devono contabilizzare. L’occultamento consiste nel tenere conti che apparentemente significano una cosa, in realtà seguono minuziosamente ma cripticamente gestioni cosiddette parallele. Fu quella l’epoca in cui si dava ai depositanti più cospicui il “sottobanco”. Enti statali, enti pubblici, grandi imprese dirottavano cospicue giacenze liquide presso gli istituti di credito a tassi irrisori. “Sottobanco” l’azienda bancaria erogava ai politici, agli alti dirigenti, agli intermediari integrazioni dei tassi prelevandole dai conti sussidiari del conto economico. La Banca d'Italia non solo sapeva ma voleva sapere con informative riservate: I giovani ispettori del momento – ed Aurelio in testa – si ribellarono. Dissero che non era conforme alla legge bancaria che invocava per le aziende di credito una “funzione di pubblico interesse”. Quella volta vinsero scavalcando persino gli umori del governatore dell’epoca. Ma era effimero moralismo.
Alla Banca d’Italia cambiava la filosofia del credito: non si intendeva intervenire nella gestione del credito. Carli era perentorio: niente controllo qualitativo del credito. Si andava verso una visione aziendalistica: bastava che una banca fosse patrimonialmente sana, redditivamente valida, con equilibri finanziari per doverla non solo rispettare, persino difenderla dal fisco e dalla magistratura. Non si può dire che Sarcinelli fosse in disaccordo. Le “funzioni di pubblico interesse” – locuzione derisa – andassero pure al diavolo: la vigilanza non ne doveva tenere conto. Gli ispettori si astenessero da giudizi di valore che sapevano di politica o peggio di moralismo. Aurelio dissentiva.
La sua folgorazione avvenne appunto in occasione della seconda ispezione alla banchetta ebraica milanese. Scoprendo il sussidiario del conto economico, Aurelio s’imbattè in una strana operazione. Un esito di poche migliaia di lire per l’acquisto dei diritti di opzione di una immobiliare entrava ed usciva dal conto economico in modo davvero strano. Occorse del tempo per capire che in un primo momento l’esigua cifra veniva iscritta in bilancio quale spesa a copertura dell’esito di cassa; subito dopo si iscriveva all’attivo una partecipazione di qualche milione che trovava riscontro a rendite come sopravvenienza attiva.
Meluccio mandò al diavolo Aurelio: che cosa volesse dire con quelle annotazioni nel suo memoriale non si riusciva davvero a comprendere. Lo scrittore, d’altra parte, era tutto all’infuori di un ragioniere.  Per fortuna Aurelio si mise a raccontare. Un muratore negli anni Sessanta, scarpe grosse e cervello fino, capì che le isole cessavano di essere luoghi di pena e si proiettavano come luoghi turistici d’alto bordo. Il nostro imprenditore si accaparrò mezza isola d’Elba.  Ebbe naturalmente bisogno di assistenza finanziaria: la piccola banca milanese gliel’accordò di buon grado. Gli fece costituire un’azionaria a base familiare: marito e moglie, cioè. Accordò un’anticipazione su titoli. Vennero pignorate, in altri termini, le azioni in cambio di una decina di milioni. Vai a vedere che vi si annidava l’insidia dell’art. 2352 del codice civile. Occorreva stilare una “convenzione contraria” per mantenere il diritto di voto in capo ai proprietari. Ma ill muri-fabbro milanese chi poteva salvaguardarlo in un campo giuridico così sofisticato? Alla prima chiusura d’esercizio, il bilancio fu tutto fatto dalla banca: perdita totale del capitale, azzeramento e ricostituzione entro i minimi legali. Si chiese apporto di denaro fresco all’imprenditore-speculatore dell’isola d’Elba. Questi, ovvio, era in difetto di liquidità. (Meluccio si incantò alquanto di fronte al linguaggio tecnico di Aurelio). La banca fornì altri fondi, questa volta con un prestito chirografario. Forse scattava la fattispecie penale di cui all’art. 2358 codice civile in combinato disposto con l’art. 2630 codice civile. Era, però, epoca in cui in Italia il diritto penale bancario era tabù per i magistrati: segreti d’ufficio, segreti bancari e soprattutto incompetenza avevano creato una zona franca nello specifico settore penale. Libertà di reato, dunque. Alla Banca d’Italia si ritenevano quelle infrazioni estranee al rispetto della legge cui doveva presiedere: non si trattava di “legge bancaria”. Guai all’incauto ispettore che avesse osato addentrarcisi. Neppure Aurelio osò, ma dopo ne ebbe rimorso. In effetti mancava di cultura giuridica specifica e la Banca d’Italia si guardava bene dall’addestrare in tal senso i suoi ispettori di vigilanza. Altre le incombenze, altre le culture.
Il giochetto dell’azzeramento del capitale per effetto delle spese eccedenti i ricavi, cosa fisiologica in un’impresa in fase di avviamento, si ripeté per due o tre esercizi consecutivi. Il debito bancario aumentava a dismisura. Alla fine venne detto che non si poteva più aumentare il rischio stante il divieto della Banca d’Italia in ordine ai fidi eccedenti. L’imprenditore buttò la spugna. La banca fece valutare al borsino di Milano i diritti di opzione. Se li comprò. Mezza isola d’Elba entrò nel patrimonio della banca, o meglio dei proprietari della banca. A carico del conto economico ufficiale andò a finire il credito sotto veste di “sofferenza” ammortizzata. Si iscrisse una posta evanescente all’attivo come partecipazione immobiliare. Il costo dei diritti di opzione sconfinò nel “sussidiario” del conto economico. La ripulitura finale passò attraverso gli storni di cui si è detto. Un capolavoro di ingegneria contabile, insomma.
Comprensibili le reazioni del povero muratore milanese: istanze al giudice civile, denunce alla procura. Niente di niente. Lettere e proteste ai giornali, alle autorità, alla Vigilanza: niente di niente.
Esasperato, maniaco, grafomane, il malcapitato dirottò per il Quirinale e l’inondò di ricorsi impropri, di rimostranze e poi di gravi sospetti, di insinuazioni irriverenti, di vilipendi, di improperi, di calunnie, di inammissibili accuse. La bonomia partenopea dell’inquilino dell’epoca è cosa notoria. Educate risposte all’inizio, inviti alla moderazione in seguito, quindi richieste ufficiali di chiarimenti, intese telefoniche, comprensione verso i ricchi e ossequiosi ebrei meneghini. Interessamento del CSM. L’inghippo finì al giudice più giovane e più brillante. Era bello, facondo, ricevuto dai salotti bene di Milano. Anche la grande scrittrice lo teneva in considerazione. Subirà quel giudice dalla scrittrice la più sferzante invettiva della storia giudiziaria italiana: «giustizia all’italiana maniera, che inventa le colpe dei deboli ed affossa i misfatti dei potenti». Ma tutto con bonomia, quasi con ammiccamenti. Il giudice finirà, poveraccio, crivellato dalle lupare della ‘ndrangheta.
Questo, però, molto dopo. In quel tempo, rasserenò il Quirinale: si trattava di uno speculatore edilizio andato a male. Lo si poteva considerare alienato di mente. Emise il provvedimento cautelare gradito alle alte sfere: il defraudato dell’isola d’Elba finì internato in un manicomio.
Aurelio ne fu scosso: non fu capace però di ristabilire un briciolo di giustizia. Scrisse: «appare opportuno adottare d’urgenza provvedimenti cautelativi». Furono parole buttate al vento.
Meluccio si chiese come mai faccende del genere siano sempre finite sotto totale silenzio: a motivo della complessità ed inestricabilità tecnica si rispose. Non ne era del tutto convinto. Il potere sa essere potente, i miseri sono troppo soli per avere giustizia. Finiscono persino alla gogna. Il muratore di Milano tentò la speculazione dell’isola d’Elba. Quasi vi riusciva. Altri più astuti, più integrati con coloro che comandano ebbero la meglio. Così vanno le cose di questo mondo. Il piccolo racalmutese poté solo capire. Gli venne consentito. Era già molto.
In quell’ispezione, Aurelio si scontrò con un’altra realtà, lontana oltre mille e cinquecento chilometri, altrettanto traumatica, egualmente significativa. Atta a turbare, sconvolgere e ribaltare l’ideologia di Aurelio. Era stato molto cattolico, poco praticante, però. Si portava dietro l’impalcatura di valori etici, politici e sociali di un’infanzia vissuta in paese, plasmata da pii genitori, preti tradizionalisti, monache e bizzoche addette alla dottrina cristiana dei bambini. Eretico chi non credeva a Dio ed ai santi; soprattutto chi si atteggiava a comunista.
Tra Stalin ed il demonio nessuna differenza; Hitler un illustre sconosciuto, Mussolini un grand’uomo amico della chiesa. Migliori di tutti De Gasperi e l’on. Ambrosini. Reminiscenze infantili sbiadite, eppure oltremodo condizionanti. 
 Ora avvenne che durante quell’ispezione un grave fatto di sangue si consumasse nel lontano paese natale. In piena domenica, in un pomeriggio primaverile, quando frotte di paesani col vestito della festa passeggiavano lungo il corso …..
[ ………………………………………………………………………………..]
Il prosieguo dopo, a suo tempo e luogo …. Se dio ed i troppi miei anni me lo consentiranno.
Grazie comunque!
“Fa alta letteratura di certo Sciascia quando scrive in Occhio di Capra:
«Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo  .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un discorso questo che oggi si può leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo “Meridiani”. Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.
La Racalmuto - quella del Cinquecento, quella di prima e quella di dopo - è solo uno scisto della storia ma tutta quanta vi si riverbera. Se leggo il magistrale libro di Fernando Braudel  su “Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” e nel frattempo trascrivo carte, diplomi, atti notarili, ‘riveli’ e simili del Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza sorprendente:  le linee e le scansioni della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate note delle sue vicende.”
[Da  “QUESTIONI E PROBLEMI DELLO SVILUPPO DEMOGRAFICO  DI RACALMUTO  NEL XVI SECOLO” di CALOGERO  TAVERNA : conferenza del 18 giugno 1995alla Fondazione Sciascia, l’unica consentiagli dai maggiorenti sciasciani, racalmutesi e non].


Postfazione finale
Uomini, cose, vicende, racconti omonimie sono tutti totalmente immaginari: sogni di un vecchio demente. Mica lo si può scomunicare per questo. Le vicende più oscene rassomigliano più a sogni erotici, delizia di ermeneutica esistenziale di psicanalisti di Vienna e dintorni, che davvero confessioni criminali. Se risorge questo o quello, potrebbe ravvisarvi la parodia di qualche suo gongolante racconto. Ma per quanto ne so, tutti costoro sono morti e sepolti da tempo: come possono reagire? Ma quando lassù (molto improbabile) o laggiù (probabilissimo) mi quereleranno presso il padre eterno, o mi giubileranno vieppiù (bello ‘sto  termine vetero-burocratico) presso Lucifero o Mammona (molto più pertinente alla retribuzione del mio lavoro) o Mefisto (demone a me caro per quella faccenda del Faust, dato l’approssimarsi del mio ottantesimo anno di vita), oppure un demone blasfemo (corteggiavo mia moglie sussurrando con Heine: è il giorno del giudizio, i morti risorgono all’eterna  gioia o all’eterno dolore: Abbracciati insieme non ci curiamo di nula, né di inferno, né di paradiso).
 Suppongo che le disincantate Mariucce del mio paese non rimarrebbero insensibili a siffatti afflati romantici. Certo non detti da un vetero-vecchietto, quale oggi io sono. Non temo Eros: io e Desario eravano considerati due monogami irriducibili dell’ Ispettorato Vigilanza di Bankit. Quanto agli altri, beh! Lasciamo perdere: l’ora erotica in fin dei conti l’ha inventata un capitano di lungo corso, finito a capo dell’istituto ispettivo.
Se continuo, va a finire che disvelo il vero che ho tentano di dissimulare. Se qualcuno è ancora vivo e si riconosce (cosa impossibile) in qualcuno dei sopra estesi apologhi allusivi particolarmente sfottenti, per cortesia, non si inalberi troppo. Tutto quanto è scritto qui è solo frutto di fantasia. Tutto è assolutamente immaginario (volevo dire irrealissimo e uomini e cose e fatti sono del tutto immaginari: Se qualcosa di vero dovesse emergere è per mera e semplice coincidenza e da parte mia sottoscrivo le più ampie scuse). Ma non esagero? Quello che è indubitabile è il fatto che inizio, prosieguo e fine di questo ampolloso, insenso, vacuo raccontino, si esauriscono oltre un settennio fa. Come si dice sono cose datate e superate dallo sconvolgente decorso di quest’ultimo decennio. Berlusconi se ‘nnè ghiuto. V… aspetta la rivincita. Grassone suona la grancassa a Londra. Qualche arcivescovo è sepolto. Qualche cardinale resiste ma non conta più niente. Un paio di banchieri si sono fatti suicidare. I cambi ora non sono né fissi né  flessibili. Quattro o cinque Governatori sono ruotati, taluni melanconicamente, tal’altri gloriosamente, tal’altri ancora senza infamia e senza lode, uno scandalosamente infilzato dai poteri forti – adirati per il suo lungimirante vade retro satana rivolto alla moneta unica, un signorino non autoctono è passato a miglior vita all’estero.
Ed allora perché questo racconto? Perché non è consentito ad un vecchietto, privo di lussuriose rimembranze, di raccontarsi immaginarie oscenità finanziarie a suo uso e consumo? O orecchie di caste fanciulle non leggetemi: vi annoiereste e forse un tantinello arrossireste. O voi preti, spesso birichini, leggetemi, divertitevi e poi anche scomunicatemi: per la bruciatura però non c’è più il braccio secolare cui consegnarmi.
Ogni riferimento a fatti e persone reali è meramente casuale. Questo è sicuro.















INDICE
Prefazione (quattro righe, tanto per dire).

 CONCOMITANZE

      Capitolo secondo - L’osceno collega di Aurelio
Capitolo III - Cavatieddi cu sucu di cuniggliu sirbaggiu, ficatieddi e sanzizza agliannariata ed antri cosi bboni

      Capitolo IV - I QUAQUARAQUA’
      CAPITOLO QUINTO - Incupito, Meluccio
 Postfazione finale


 
 

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