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sabato 27 settembre 2014

STORIA DI RACALMUTO TERZA PARTE


La signoria di tal uomo della corte napoletana durò però poco e, nel corso del Vespro, Racalmuto appare un comune autonomo, retto da sindaci e chiamato ad un contributo di uomini in armi.

I primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e 1310. Nell'abitato vi erano almeno due chiese: quella parrocchiale retta dal  p. Angelo di Montecaveoso,  e quella forse conventuale dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).

Altra pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi avignonesi dell'Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell'arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità contributiva e raccoglierne l'imposta per togliere l'interdetto che si originava dalla rivolta del Vespro. Era l'anno 1375.

 Allora Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con non più di 800 abitanti. Nell'archivio vaticano è reperibile il resoconto delle collette redatto dall'arcidiacono du Mazel. Trattavasi di un sussidio che andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le 'mediocri', 3 per le agiate  e cioè 'qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà' ([1]). Il 29 marzo del 1375, il pio  collettore (o suoi emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il 'sussidio' e scioglieva l'interdetto  ([2]). Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili.   In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra Martorana vengono accettati - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale  lasso di tempo, la crescita si è invece limitata solo al  48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.         

Che cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto nell'intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di forestieri.

Abbiamo motivo di ritenere che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per la paura dei pirati. L'improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata  sembrano convalidare la prima ipotesi. I molti cognomi di   paesi e terre del circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei feudi racalmutesi. 

Tanti immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l'antica carica di maestri di xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d'Angiò i sopraintendenti alla sicurezza notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283 sotto Pietro d'Aragona.                            

Non è racalmutese il 'segreto' addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l'incarico - lo denunciano straniero. Il 'segreto' era l'esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che risaliva al 1296. 

Per avere un nome saraceno, Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con nome di derivazione araba. Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo e simili, possiamo  calcolare in meno di 150 gli abitanti di origine forse musulmana (su 2215 desunti dai registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per convinzione o per convenienza, si sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo latineggianti. Lo stesso dovette  verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata da parte della regina Isabella nel 1492 ([3]) o sparirono del  tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni  dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio dell'8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da Grotte.                                     

Tra la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che hanno dominato nell'ottocento. Né baroni come i Tulumello, né gentiluomini come i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora quali i D'Amella, i La Lomia, gli Ugo, i Piamontisi ed altri si sono dopo volatizzati: alcuni loro eredi  prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì. 

Verso la fine del 500, giungono a Racalmuto 'mastri' che vi attecchiranno ed oggi i loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione. Savatteri, Buscemi, Schillaci, Rizzo, Bongiorno, Chiazza, sono fra questi, per fare solo alcuni esempi.

Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di tale casale con castello, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all'inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia  proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com'è nelle sue più antiche fonti,  difficilmente potrà essere ora del tutto chiarita.

Quel che ci preme è sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un'importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa degli aragonesi. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l'altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il delegato  del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.

Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino: «Martino etc. Al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..

I lodevoli meriti delle vostre virtù ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai  grati riconoscimenti. ... e pertanto per l'autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, [vi conferiamo] il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre  benignità [ ... ]

Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente e pienamente  la prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se desiderano e vogliono mantenere la nostra benevolenza.

Dato in Siracusa, l'anno del Signore, VII^ Ind. 1398..... Re Martino - »

 Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente  Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest'ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.

La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel 1492.

Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l'anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco ebreo, dedito certamente all'usura.

«Il Vicere' Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio Raffa  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il  giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei.»

Quanto alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano assetti significativamente organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l'Inquisizione. Quel non glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non collimanti con quelle della blasfema canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.

La tradizione colloca nell'anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte. La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni ricerca storica che suonerebbe falsa ed irriguardosa. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione dell'Officio sulla nostra miracolosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si recita in latino - da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione, la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino per essere condotta nella antica città di Castronuovo. E questo fu un mero portento

Francesco Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone Messana nel 1968,  Leonardo Sciascia in una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull'evento, quasi sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di Racalmuto. Una mia personale ricerca tra vecchie carte che si custodivano in una stanza della casa che fu del canonico Mantione mi ha fatto imbattere in una pubblicazione del ‘700 cui assegnare la palma della più antica narrazione in versi della Vinuta di la Bedda Matri di lu Munti.

Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia notizia documentata - la gloriosa statua viene repertoriata con stile invero molto burocratico. Nell'Archivio vescovile di Agrigento si rinviene la relazione sulla visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge però nulla che possa richiamare alla mente un santuario prestigioso. In seconda battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l'irriguardoso ecclesiastico si limita ad inventariare il venerabile simulacro come «una figura di nostra donna di marmaro». Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode solo a partire dai primi decenni del '700, dopo l'opera del p. Signorino.

 

Poco più che trisecolare risulta la vera signoria feudale che i Del Carretto ebbero  a dispiegare su Racalmuto: dalla prima investitura baronale di Matteo del Carretto da parte di Martino d’Aragona, il giovane   - che il Villabianca colloca nel 1392, il giorno 4 di giugno - sino alla malinconica scomparsa della grande famiglia dei conti di Racalmuto, databile 10 Luglio  1716, corrono infatti 324 anni.

Bisogna, invero, aggiungere un preludio quasi secolare di presenza dei Del Carretto (dal  1307, data del matrimonio tra Costanza Chiaramonte ed il marchese di Savona e Finale, Antonio del Carretto, sino all’investitura baronale di Matteo del Carretto), ma trattasi di ambigua signoria, malcerta e di sicuro intermittente, emergendo una egemonia sovraordinata della potente famiglia agrigentina dei Chiaramonte.

Il primo e vero storico della famiglia dei Del Carretto, baroni prima e conti dopo di Racalmuto, riteniamo essere l’arcigno Marchese di Villabianca con la sua diligente opera del 1759: prima di lui il Fazello, il Pirri, l’Inveges, il Mugnos, il Di Giovanni, il c.d. Muscia, il Barberi, il Ciacconio, il  Crescenzi, il  Barone, il Savasta ed il Sansovini, tutti costoro  avevano mostrato interesse alle vicende dei Del Carretto, ma erano stati accenni qualche volta infelici, non sempre attendibili, in ogni caso incompleti. Quel signore settecentesco, reazionario e fieramente aristocratico e feudale, ci fornisce un quadro lucido, documentato ed appassionante - anche se lo stile è ovviamente arcaico - di quella che è stata la vicenda feudale della baronia e contea del nostro paese. Dopo il Villabianca, tanti si sono cimentati nella ricostruzione storica della pagina araldica dei Del Carretto, ma ci appaiono tutti tributari del nostro marchese e, sostanzialmente nulla aggiungono a quanto saputo, ove si eccettui una qualche nota critica. Così è sicuramente per la ponderosa opera del San Martino-Spucches.

Ebbe di certo tra le mani l’opera del Villabianca il racalmutese Tinebra-Martorana e vi razziò ingordamente: era, però, appena ventenne e non aveva né voglia né tendenza ad analisi critiche: qualche documento locale, come quello del sarcofago di Girolamo del Carretto o come quelli fornitigli maliziosamente dai Tulumello sul terraggio e terraggiolo da corrispondere a quei conti di Racalmuto, gli fu sufficiente per imbastire una storia non sempre precisa sulla signoria dei Del Carretto, la quale storia ebbe, a distanza di quasi un secolo, il non corrodibile avallo del grande Leonardo Sciascia.

Chi, da ultimo, si è industriato per recuperare alla memoria eventi certi del casato dei Del Carretto è stato il prof. Giuseppe Nalbone. Dall’8 aprile 1993  egli ha scandagliato gli archivi di stato di Palermo e la sua fatica è stata premiata con il rinvenimento di molteplici diplomi, privilegi e documenti che irradiano una vivida  luce sulla storia dei Del Carretto e finalmente ce la restituiscono nel suo intenso ed obiettivo defluire. Poco o punto è il risultato rettificativo dell’opera del marchese di Villabianca, ma tanta è la portata esplicativa di istituti, interventi, ruoli, imposizioni, condizionamenti ed altro di una vicenda feudale trisecolare che investe l’essere ed il forgiarsi della vita civile e sociale dei nostri antenati racalmutesi. Riaffiorano nomi e cognomi di segreti, castellani, giurati, maestri notari, fiscali, capitani etc. Tanti di loro non hanno più eredi a Racalmuto, ma taluni sono  invece ricollegabili a figure tipiche del grande teatro che tuttora persiste tra la gente del nostro altipiano.

Il diciottesimo secolo vede Racalmuto alla prese con gli eredi dei Del Carretto. Si ebbero varie controversie. Quella più celebre fu mossa prima dal Sac. Nicolò Figliola (luglio 1787) e successivamente dall’arciprete d. Stefano Campanella contro il “terraggio” ed il “terraggiolo”. La vertenza si chiuse il 28 settembre 1787 con sentenza liberatoria per i racalmutesi. Cadeva al contempo il “diritto del mero e misto impero” che l’erede dei del Carretto, il Requisenz, pretendeva ancora a danno degli abitanti della decaduta contea di Racalmuto.

Nell’Ottocento, ebbe l’abbrivo lo sfruttamento delle miniere di zolfo e del salgemma ed esplose un risvolto borghese che ancor oggi suscita consensi entusiastici o stroncature impietose.

Il Novecento - prima giolittiano, poi fascista e quindi, nel dopoguerra, contraddistinto dal vorticoso gioco delle alternanze democratiche - contrassegna eventi troppo prossimi per trattarli con il dovuto distacco storico.


GLI   EVENTI RACALMUTESI PRIMA DEL 1271

Miocene [4]
(c.a. 25 milioni di anni fa)
 
Una sconfinata invasione di un particolare vibrione (il desulfovibrio desulsuricans) si spande sull’intero altipiano di Racalmuto; per un singolare processo chimico (nutrendosi il vibrione di petrolio grezzo e rubando ossigeno al solfato di calcio dà luogo ad idrogeno solforato ed attraverso una normale ossidazione si trasforma in zolfo) si hanno le sedimentazioni solfifere racalmutesi.
Pliocene[5]
(c.a. 7 milioni di anno fa)
Si concludono le regressioni di acqua marina e si definisce l’attuale facies  del territorio di Racalmuto.
XXX millenio a. C.
Se qualche homo sapiens sapiens (del tipo di Cro-Magnon) ebbe a stanziarsi a Racalmuto, non poté trovare migliore dimora della grotta di Fra Diego.
II millenio a. C.
I sicani si stabiliscono e prosperano in varie plaghe dell’Altipiano. come attestano le tombe a forno attorno alla cennata grotta o quelle disseminate dal Castelluccio sin ad Est, nei pressi della Stazione ferroviaria di Castrofilippo.
XIII a. C.
Decade la civiltà sicana nelle nostre terre, mentre prospera quella d’influsso miceneo di Milena e S. Angelo Muxaro e zone limitrofe. 
581 a. C.
I Geloi vanno a fondare Agrigento, ma percorrendo un itinerario del lungo costa con centro Licata ed evitando le impervie zone dell’interno. L’Altipiano racalmutese, desertico ed impraticabile, non viene per vario tempo acquisito alla colonizzazione ellena.
Secc. V, IV e III a. C.
La presenza greca è variamente avvertita, ma non è tale da far pensare a qualche rilevante centro. Abbiamo solo sporadiche testimonianze numismatiche.
210 a.c.
Sotto il console Levino, Agrigento cade definitivamente sotto il dominio di Roma: Racalmuto ne segue le sorti.
70 a.c.
Cicerone fa un viaggio in Sicilia per preparare la sua celeberrima accusa contro Verre: il territorio di Racalmuto non figura visitato. Qui, però, è da tempo che vengono  riscosse le decime sul grano, sul vino e su quant’altro. Una diota , rinvenuta nel XVIII secolo, dimostra come un tal Fusco praticasse l’incetta del vino destinato a Roma.
180 d.C.
Un contadino rinviene a S. Maria una “gavita” che secondo il Salinas si riferisce al 180 d.C., al tempo di Commodo: è un’importante testimonianza dello sfruttamento delle miniere solfifere di Racalmuto da parte di Roma imperiale.
Sino al IV sec.  d.C
Ferve un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio.
 
Dopo il IV sec. d.C.
Uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
 
V e VI sec. d. C.
Scarse sono le conoscenze che si hanno per questo periodo in tema della più generale storia della Sicilia.  Se l’Isola fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia  e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).


 
Fine del VI sec.
A Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou.
829
Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.
 
1087
Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare  che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluc­cio, vuoi  'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire in arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza - se esistette -  era sotto il domi­nio di Chamuth.
Secolo XI
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi  due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.
 
Sino al 1271
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva  con spirito predatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.
 

 


CENNI GEOLOGICI

Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in epoca piuttosto recente. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([6]). Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo momento,  “formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.

Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan ([7]) Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.

Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A.([8]) - i terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:

1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;

2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;

3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese. 

4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).

Completano la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»

 

Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura  uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo» ([9]). Secondo tale affascinante teoria,  le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di malefica premonizione.

 

LA  PREISTORIA

 

Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?

Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni racalmutesi.

Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.

Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro,  in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.

Il primo insediamento è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che pare angosciasse i nostri antenati. ([10])

Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso  si effigiano uomini e dei ([11]). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.

Il secondo insediamento viene fatto risalire al XVIII secolo a.C.  Le pertinenti solite tombe a forno vennero scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. ([12]) I reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le tombe a forno, che si trovavano nei pressi della stazione ferroviaria di Castrofilippo, si sono te del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.

Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle ferrovie ([13]). Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([14]) Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.  [...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([15]) Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un corno”.  Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([16]) - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»

Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.

Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.

Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([17]) Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come l’assenza di ogni testimonianza archeologica pare dimostrare.




[1]) Peri I., La Sicilia dopo il Vespro, Laterza 1982, pag. 235
[2]) AVS - Reg. Av. 162 f.419v.
[3]) cfr. G. Picone - Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.
[4]) John A. Garraty e Peter Gay - Storia del Mondo - Mondadori 1973 - Vol. I - pag. 15
[5]) Ibidem. pag. 15.
[6]) Ferdinando Milone: Sicilia, la natura e l’uomo - Torino, 1960, pag. 13.
[7]) L. Trevisan: Les mouvements tectiques récents en Sicile - Hipothèses et problèmes.
[8]) Luigi Romano: Idrogeologia della propagini sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto - GEOLOGIA  - Università di Palermo - Facoltà di Scienze - Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[9]) Pratesi e Tassi: Guida alla natura della Sicilia, Milano 1974, p. 21 ss.
[10]) Cfr. S. Tinè: L'origine delle tombe a forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.
[11]) C.I. Solinus, 5\ 18; 19
[12]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe  .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880.
[13]) Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata  e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere ingegnere e  direttore  dell’Ufficio Centrale di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di Roma - Fondo:  ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 - Fascicolo 40.5.2 ).
[14]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe  .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880, pag. 17.
[15]) Luigi Mauceri: op. cit. pag. 18.
[16]) Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del finitimo Castrofilippo.
[17]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale.  - Roma 1983 - pag. 114.

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