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mercoledì 19 novembre 2014

Racalmuto nei tempi antichi e in quelli di mezzo,


Il contesto storico di RACALMUTO

Note orientative. Un quadro storico di estrema sintesi.

 

Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da quasi dieci millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana sarebbe del tutto scomparsa (a meno che non abbia lasciato – come più logico - testimonianze atte a superare l’onta del tempo).

  In Sicilia, a partire dall’VIII secolo a. C., inizia il periodo delle immigrazioni greche. Racalmuto, questo nostro paese dell’entroterra agrigentino,  appare completamente estraneo – nelle fasi di esordio – a codesto processo di colonizzazione: solo, quando si consolida l’egemonia ellenica di Agrigento, qualche colono ebbe l’ardire di addentrarsi nelle parti più interne del nostro altipiano. Di documentato, però, non abbiamo nulla e dobbiamo accontentarci delle acritiche descrizioni di ritrovamenti archeologici che ci fornisce Nicolò Tinebra Martorana nella sua «Racalmuto, memorie e tradizioni». Non solo le contrade di Cometi e Culmitella ma anche quelle del Ferraro sarebbero state frequentate da Sicilioti.

Nel terzo secolo a.C., con la conquista romana, non cambia molto ed è solo sporadico l’interesse di coloni, che solitari ebbero voglia di coltivare qua e là alcune delle plaghe più fertili di Racalmuto; si può forse congetturare che più frequente fosse, specie nell’interno, la pastorizia.

Contadini grecofoni non mancarono comunque ai tempi della repubblica romana ed essi furono tassati specie per le loro produzioni vinarie, come attesta un’epigrafe rinvenuta nel territorio di Racalmuto nel XVIII secolo, di cui ebbe a fornire preziosi ragguagli il Torremuzza.  Un tal Fusco - sicuramente non racalmutese, anche se non può affermarsi che fosse un romano - deteneva in questa località siciliana “diote” per il trasporto a Roma di vino, presumibilmente in piena epoca repubblicana ed a titolo di decime sulla locale vinificazione.

Ma quel che di rimarchevole ci forniscono i reperti archeologici del luogo sono certe “ tabulae” o “tegulae” ‘sulfuris’ risalenti secondo pur sommi archeologi all’imperatore  Commodo (ma moderni più ponderati studi dissolvono quella datazione) e che in ogni caso sono collocabili tra il II al IV secolo d. C. e che stanno a comprovare una intensa attività mineraria solfifera nelle medesime zone del nord ove sino a qualche decennio fa prosperava tale industria estrattiva.

Dopo, con la caduta dell’impero romano e l’avvento dei barbari, il silenzio archeologico - oltreché documentale - è totale sino al tempo dei bizantini. Di certo, incursioni di barbari dovettero esservi specie per razziare i pregiati raccolti cerealicoli. Forse Genserico, se non nel 441 almeno nel 445, portò i suoi Vandali a devastare anche il territorio racalmutese. Possiamo congetturare che vi fu un sostegno da parte dei coloni dell’epoca all’azione militare del patrizio svevo Racimero che nel 456 riuscì a sconfiggere i Vandali ad Agrigento.  Del pari non sono da escludere presenze vandale a Racalmuto nel periodo del loro ritorno in Sicilia che si protrae sino alla cessione dell’isola ad Odoacre. Quel che avvenne, poi, sotto i Goti che dal 491 ebbero il possesso della Sicilia ci è del tutto ignoto. Si parla o si favoleggia del ‘buon governo’ di Teodorico. Probabilmente risale a questo periodo se tanti coloni poterono concentrarsi nelle contrade di Grotticelli, di Casalvecchio e della decentrata Montagna e costituirvi un consistente agglomerato che poté prosperare specie sotto i Bizantini.

Casalvecchio, il toponimo che ancor oggi persiste, è zona piuttosto ricca di testimonianze archeologiche: purtroppo riluttanze delle autorità agrigentine impediscono tuttora di studiarne in loco la portata, le valenze e la significatività. Sappiamo solo che fu fiorente la civiltà bizantina, che durò sino all’incursione araba, allorché appassì e si disperse. Alcune monete - rinvenute, però, nella periferica contrada della Montagna - portano in effigie gli imperatori bizantini Héracleonas e Tiberio  II. Il primo risale al 641; il secondo, appoggiato dal partito dei verdi, salì al trono nel 698 e venne ucciso nel 705 ([1]). Le tante e ricorrenti vestigia archeologiche (lucerne, condutture d’acqua, resti di fondamenta, ingrottamenti artificiali ad arcosolio, strutture murarie abitative affioranti,  etc.) che si rinvengono nella zona che va dallo Judì al Caliato, dalle Grotticelle a Casalvecchio e da ultimo, secondo rinvenimenti recentissimi, nella plaga sotto fra Diego, attengono alla cultura bizantina prosperata dal sesto secolo sino all’avvento degli Arabi.

Con gli Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi a Racalmuto è totalmente buio: né rinvenimenti archeologici, né testimonianze scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è, appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare che di arabo il loro paese non abbia nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi - a partire dal nome del paese - o l’etimologie saracene dei vari lemmi della parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione musulmana o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni  arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben condita di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici, religiosi. Vai a dir loro che trattasi di vaneggiamenti, di fole, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’ (frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia trasparire l’assetto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti ribellistici dei sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva 1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il governatore di Rahal-Almut, Aabd-Aluhar, per bontà di Dio servo dell’Emir Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine ricevuta dall’Emir di Giurgenta ([2]) Ma l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca di cicchettare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella che era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la «tentazione  dell’accensione visionaria, fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è falso». Ma ecco che  lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra.» ([3]) E di piacere in piacere, il falso affascina tuttora i racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo  (v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di quella falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza se nel 1984, nel presentare la mostra di Pietro d’Asaro, si lascia andare a questa arditezza storica: «... siamo nella microstoria di Racalmuto: antico paese che esisteva già, un pò più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese prende oggi il nome....». Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia sia altra o più attendibile rispetto a quanto va asserendo il solito Tinebra Martorana (v. pagg. 33 e segg.), sull’onda del famigerato abate Vella. E di fantasia in fantasia, trova ancora credibilità la favoletta che a metà dell’Ottocento confezionò il peraltro meritevole Serafino Messana quando racconta di due baldi eroi saraceni racalmutesi, Apollofar e Apocaps ([4]), distintisi nella lotta contro i Normanni.

 

Ruggero il Normanno conquistò Agrigento il 25 luglio del 1087 (se seguiamo l’Amari, o l’anno prima secondo il Maurolico ed altri). Racconta il Malaterra, nelle sue cronache coeve, che Ruggero il Normanno, una volta conquistata Agrigento e munitala di un castello e di altre fortificazioni, si accinse a conquistare i castelli dei dintorni che furono undici e cioè Platani, Missaro, Guastanella, Sutera, Rahal ..., Bifar, Muclofe, Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa. Il testo del Malaterra è inquinato e non si è certi della corretta trascrizione di tutti i toponimi. Sia come sia, Racalmuto non vi figura - salvo a fantasticare su quell’impreciso ed incompleto Rahal. Un tempo abbiamo aderito a tale tesi, dando credito al Fazello che a dire il vero include nell’elenco il nostro casale in modo esplicito. Oggi siamo convinti che a quell’epoca nessun centro dell’agrigentino portasse quel nome. Il silenzio di tutte le fonti scritte è significativo. Neppure nella celeberrima geografia dell’Edrisi della prima metà del XII secolo è rintracciabile un qualche toponimo che assomigli a Racalmuto. Là, tutt’al più, incontriamo Gardutah o al-Minsar che in qualche modo possono essere collocati nei pressi dell’attuale centro racalmutese.  Nel ricco archivio capitolare della Cattedrale di Agrigento, Racalmuto non figura mai menzionato per tutto il periodo che va dagli esordi della diocesi normanna sino ai tempi del Vespro. Il primo documento storico che parla di questo casale nelle pertinenze di Agrigento è del 1271 ed era custodito negli archivi angioini di Napoli   Mi si obietterà che l’argomento ex silentio non ha molto rilievo sotto il profilo storico. Certamente, ma tutto quello che si afferma nel silenzio delle fonti è mera congettura, che nel caso di Racalmuto trascende pressoché costantemente persino l’area della verosimiglianza. Il territorio racalmutese non ha sinora restituito neppure una testimonianza archeologica di una qualche presenza umana per tutto il tempo degli arabi, dei normanni e degli eventi che seguono sino alle repressioni saracene di Federico II. Pensare ad un prospero centro abitato, dalla conquista araba (immediatamente dopo l’anno 827) sino al 1240-1250, è francamente avventatezza storica.

Il Garufi annotò - commentando un diploma pubblicato nell’Ottocento dal Cusa - che « ....  l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tut­tavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i  g a i t i  testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».  ([5]) Ma la tesi del Garufi appare poco credibile se si considerano le ricerche del Di Giovanni che colloca tale località in quel di Polizzi ([6]). Il Rachal Chammoùt (ύ del diploma greco del 1178 nulla ha dunque a che vedere con il casale agrigentino che corrisponde all’odierno Racalmuto.  E ciò destituisce di ogni fondamento la notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una chiesa fondata nel 1108 dal Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente all’attuale S. Maria di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui artefici sono stati i canonici agrigentini, protesi a legittimare l’accaparramento di rendite racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo. Su interessate segnalazioni dei canonici dell’epoca, il Pirri ebbe invero a scrivere, attorno al 1641: “antiquissimum est templum olim majus S. Margaritae V. ab oppido ad 3. lapidis jactum, anno 1108, de licentia Episc. Agrig. à Roberto Malconvenant  domino illius agri extructum...” ( [7]) «A tre lanci di pietra da Racalmuto sorge un’antichissima chiesa che un tempo era quella maggiore, fabbricata nel 1108, su licenza del vescovo di Agrigento,  da Roberto Malconvenant, signore di quel territorio » attesta dunque l’abate netino. Solo che la notizia si basa su documenti dell’Archivio Capitolare di Agrigento, che, stando a studi del 1961, si riferiscono ad altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice.

Svanisce così la credenza di un dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni possesso baronale dei Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe attribuire agli Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie parla, si appoggiò agli scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile; sennonché il settecentesco principe aveva in un caso interpretato liberamente una notizia del Fazello e nell’altro concessa una qualche credibilità - sia pure con espressa riserva - al Minutolo.

Un diploma angioino - autentico ed illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni baronali e, sovvertendo tutte le congetture araldiche su Racalmuto prima della signoria dei Del Carretto, ci informa che il primo feudatario di Racalmuto (o per lo meno il primo di cui si abbia notizia storica) fu tal Federico Musca, forse appartenente alla grande famiglia dei Musca titolare della contea di Modica. Sennonché Federico Musca tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo priva, nel 1271, del dominio di Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per conferirlo a Pietro Nigrello di Belmonte ([8]). Il Vespro ci mostra un comune divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia e d’Aragona, il casale è costretto a nominare dei sindaci fra le persone  più cospicue, chiamati il 22 settembre 1282 a prestare il debito giuramento al nuovo re in Randazzo. Il che equivale a sottoporsi a tassazione piuttosto pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro incarica i suoi esattori di recarsi al di là del Salso per riscuotere di persona le tasse gravanti sulle singole terre: Racalmuto deve versare 15 once ([9]). Il Bresc ne desume una popolazione di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti ([10]). Il 26 gennaio 1283 ind. XI «scriptum est bajulo judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor»  ([11]) cioè Racalmuto viene tassato per 4 soldati a piedi ed ha una struttura comunale con un baiulo e due giudici. Chi fossero costoro non sappiamo: crediamo che si trattasse di latini. I saraceni non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti probabilmente a pochi coloni, poterono forse starsene in contrada Saracino, a coltivare verdure con perizia di antica tradizione. Non erano più villani dato che il villanaggio - come dimostra il Peri - era già tramontato.

I Saraceni dell’agrigentino furono tumultuosi sotto Federico II. Nel 1235 essi furono in grado di prendere prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel castello di Guastanella fino a quando non ebbe pagato un riscatto di 5000 tarì d’oro.([12]) Federico II ristabilì l’ordine confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il risultato fu una desolazione del territorio agrigentino che si ritrovò a corto di manodopera contadina. ([13]) Nel 1248 v’è dunque un atto riparatorio da parte di Federico II verso la chiesa agrigentina che era stata spogliata dei villani saraceni, deportati in Puglia per le loro turbolenze. I danni sulla chiesa agrigentina per questa azione di polizia e per altri gravami imposti da Federico e dai suoi ufficiali furono così pesanti da ridurre il vescovo e la sua chiesa in condizioni tali da non avere più mezzi di sostentamento. Per risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i proventi sugli ebrei e quelli della tintoria di Agrigento.

Fu a seguito dell’assestamento che Federico Mosca (o un suo diretto antenato) poté fondare Racalmuto portandovi coloni suoi propri o accogliendo saraceni sbandati. Nel 1271 egli però deve cedere il casale a Pietro Nigrello - come già detto - avendo tradito l’angioino. Il personaggio riemerge sotto Pietro d’Aragona. ([14]) Nel 1282 il Mosca figura, infatti, come conte di Modica, ma non rientra in possesso di Racalmuto. Sarà Federico Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che prenderà possesso di questo casale e vi costruirà, nel primo decennio del XIV secolo, il castello con due torri cilindriche che ancor oggi si erge  maestoso ed imponente entro la cinta del paese. E’ falso quel che appare nell’elenco «baronorum et feudatariorum» dello pseudo Muscia (pubblicato dal Gregorio: Bibliotheca, II, pp. 464-70), laddove si pretende che nel 1296 Racalmuto fosse baronia di Aurea Brancaleone (l’elenco recita testualmente a pag 20 del ruolo pubblicato nel 1692 da Bartolomeo Musca: «Aurea Brancaleone, eredi, per Calabiano e Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un ulteriore elemento si vuole per dimostrare la falsità di quel pur celebre ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria sposa la vedova di Antonio del Carretto, Costanza Chiaramonte, attorno al terzo decennio del XIV secolo, e solo dopo tale data poté avere qualche pretesa su Racalmuto. Sappiamo infatti che il figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi i figli del fratellastro Antonio,  Gerardo e Matteo del Carretto. ([15]).

La narrazione sinora soltanto abbozzata  tende  ad additare un punto per noi basilare della storia di Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento angioino, segna il salto tra preistoria e storia locale. Il paese dal nome arabo dell’Agrigentino, sorto come casale ad opera di Federico Musca (sia o non sia il conte di Modica), lascia dietro le spalle il mistero del suo esistere e si accinge a divenire un’umana, fervida, sofferente, tenace, talora rigogliosa tal altra “meschinella”«dimora vitale», come la definirebbe Américo Castro.

Francamente non riusciamo a concordare con Leonardo Sciascia  secondo il quale Racalmuto «ebbe per secoli ... vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace ‘avara povertà di Catalogna’; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava. Ma la vita vi era sempre tenace e rigogliosa, si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce.» ([16])  Quell’abbarbicarsi al dolore ed alla fame produsse storia narrabile e non solo descrivibile ben al di là delle figure care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro Curto; il medico ‘specialista’ Marco Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace concetto” - martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per Denis Mack Smith ([17]) - Diego La Matina, il monaco agostiniano di “Morte dell’inquisitore”; il pittore, forse confidente dell’Inquisizione, Pietro d’Asaro. Sono i protagonisti celebrati dallo scrittore racalmutese, e per taluni versi falsati o disinvoltamente aureolati nelle sue icastiche pagine.

Da oltre sette secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere storiche e si palesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).

Le vicende di Racalmuto possono venire ricostruite con amore, con passione, con interesse ma criticamente, spregiudicatamente spazzando via tutti quegli “idola” della ingenua tradizione locale o della mistificante letteratura degli autori paesani. 

E’ una Racalmuto che va vista con occhi critici e razionali. Non può certo avvalorarsi la saga della venuta della Madonna del Monte del 1503,  così come, in buona fede, non può affermarsi che vi siano state tasse  per uzzolo dei Del Carretto con buona pace del “terraggio e terraggiolo” secondo la parabola del pur sommo Leonardo Sciascia. Noi valutiamo piuttosto positivamente la presenza del Del Carretto a Racalmuto. Reputiamo fucina di cultura clero locale, organizzazione parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento di chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite.

Questo non è un libro di lettura: è solo  sostanzialmente materiale di consultazione cui rivendico però una grande dignità, un modo inconsueto di far storia, un soffermarsi sul particolare per una visione non eroica - e deformante - di quel lieve stormire di foglie che in definitiva è la microstoria locale. A tanti non interesserà - ma ad alcuni racalmutesi sì - sapere chi erano nei passati secoli i “mastri” ed  i “magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se vi erano “facchini” (e ce n’erano); come erano pagati; chi si poteva permettere di mangiare “salsizzi” e chi doveva accontentarsi dei residui del porco; se le donnette (come ai miei tempi del resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e “gaddruzzi” ed apprendere che vi era l’imposizione del conte di una “tassa in natura” su quest’uso (l’offerta di una gallina e di un galletto al castello a prezzo calmierato), e via di seguito.

Lo studio cui ci accingiamo  ha l’ambizione di costituire una base per successivi approfondimenti e ricerche sulla storia locale. Esso è problematico come lo è ogni ricerca. Più che esaurire - pretesa che sarebbe risibile - traccia alcuni percorsi di auspicabili ulteriori investigazioni.

L’Archivio di Stato di Agrigento custodisce ben n° 69 Rolli di atti notarili che minuziosamente scandiscono la vita paesana di Racalmuto dal 1561 al 1608; n.° 71 per il periodo 1600-1707, n.° 195 per il tempo 1700-1816; n.° 56 per il tratto 1801-1860.

Quel materiale archivistico è praticamente ignoto. Tolta qualche curiosità di padre Alessi che ebbe a cercarvi con l’ausilio di un paleografo atti per il suo Pietro d’Asaro, la cronaca diuturna di Racalmuto vi si sta polverizzando.

La vendita di un mulo, la cessione di una “jnizza”, la soggiogazione di una casa, il “pitazzu” di un “inguaggiu”, vita, morte, sposalizio, tasse, risse, organizzazioni sociali, ruolo di preti monaci e chierici, rettori e governatori di confraternite, il pulsare della vita economica, sociale e religiosa di ogni giorno della Racalmuto del tempo, il suo espandersi demografico ed il suo drammatico falcidiarsi per l’esplodere di pesti, tutto ciò è il vivido quadro che i polverosi registri notarili non rivelano per la neghittosità degli storici racalmutesi. Ed i politici potrebbero ovviarvi: penso a cooperative di giovani, a sovvenzioni pubbliche comunali volte a finanziare ricerche d’archivio, a scuole di paleografia - giacché leggere quei documenti non è da tutti  - , ad incentivi economici; a borse di studio etc.

Sciascia redarguisce compiacentemente Tinebra Martorana che si produsse in una smaccata falsità a proposito della Racalmuto araba; egli spreca una delle sue splendide metafore elevando il falso del Tinebra ad una «tentazione dell’accensione visionaria, fantastica». E ciò nonostante, per Sciascia il libro del Martorana che degna di una sua alata presentazione, «va bene così com’è: col gusto e il sentimento degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l’autore, con l’aura romantica e un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro l’acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono nati, nel riverbero  del passato sulle cose presenti.»

Ma davvero il popolo di Racalmuto è così sprovveduto da aver bisogno di frottole e scempiaggini per percepire ed amare il riverbero del suo passato storico, il richiamo ancestrale della sua memoria più vera e più pulsante?

 Francamente credo di no e questo libro - bando alle ipocrisie - ha un suo codice genetico, una sua cifra culturale ed una sua vocazione storica di segno opposto non solo rispetto a Sciascia ma anche a Tinebra Martorana, a Serafino Messana, ad Eugenio Napoleone Messana, al poeta Pedalino, ai tanti esimi sacerdoti che semper sacerdotes secundum ordinem Melchisedech hanno scritto di storia racalmutese volti alle cose di Dio ed al forzoso rinvenimento dell’onnipotente presenza nelle misere cose dell’umano dissolversi racalmutese.

Il Cinquecento racalmutese che troverete descritto in questa silloge irride alle tante credenze locali, e cerca di documentare l’espandersi, il flettersi ed il riprendersi del popolo di Racalmuto nel primo secolo dell’era moderna, alle prese sicuramente con la protervia dei Del Carretto - invero in poche marginali questioni - ma principalmente con le varie curie agrigentine e parrocchiali, viceregie e spagnole, inquisitoriali ed episcopali; con il governatore del Castello, con i familiari dei Del Carretto, con un suo genero di nome Russo, uno scalcinato nobilotto che fa fortuna sposando la figlia spuria dell’omicida ed assassinato Giovanni del Carretto; con gli arcipreti - quelli buoni come l’indigeno arciprete Romano al cui spoglio aspira l’ingordo vescovo Horoczo Covarruvias  e quelli latitanti come il napoletano Capoccio; con il chierico Vella, un religioso assassino che vescovo e conte si contendono per fargli espiare nelle proprie carceri il fio della sua colpa.

I falsi del Tinebra Martorana - che nel 1886 tornarono a gravare sulle casse del Comune e tornarono davvero visto che per l’amicizia con i famigerati Tulumello quell’autore studiava a spese del Comune come attesta un anonimo conservato nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma - sono talmente tanti e perniciosi da rendere irritante la lettura di quel volumetto. Altro che spingere alla “carità del natìo loco”. E purtroppo sono stati falsi fortunati. Per colpa di essi abbiamo uno sconcio, improbabile stemma comunale. Tinebra, invero,  lo voleva pudico “con un uomo non nudo, bensì con una gonnellina dentellata ai margini, come l’antico guerriero romano”. Altri volle o rispolverò lo stemmo con l’uomo nudo.  In ogni caso l’uomo invita  al silenzio: obmutui et silui; come dire: star muto, subire e starsene zitti. Lo stemma di Racalmuto scandisce manie, prevenzioni e visionarietà della borghesia postunitaria racalmutese. Il prof. Nalbone ha fotografato interessanti documenti dei primi anni del ’Settecento ove figura il timbro a secco del Comune di Racalmuto. Ebbene, lì non vi è nulla di tutto questo. Trattasi di uno stemma a bande e chiomato, totalmente austero, dignitoso, nobile. Non vorrò di certo io, con il mio laico scetticismo, riaccendere una guerra di religione su una bazzecola come è uno stemma. Ma francamente, a me racalmutese da almeno dieci generazioni - sia pure per tre quarti, visto che l’altro quarto è narese - dà fastidio lo sguaiato stemma comunale che sembra ammiccare al silenzio omertoso ed a qualche vezzo omosessuale.

 

*  *  *

L’intreccio del volume che presentiamo poggia fra l’altro su una fonte, sinora sostanzialmente ignota, la “numerazione delle anime” che si è svolta a Racalmuto nel 1593. Essa offre spunti per descrivere usi, costumi, vicende, disavventure e, principalmente, sviluppo ed assestamento demografico racalmutese. Il segmento del secolo XVI verrà raffrontato con quello che è avvenuto prima e con quanto si è svolto dopo. Dalla tassazione dei tempi del Vespro, alle grassazioni ecclesiastiche dei papi avignonesi, ai censimenti fiscali dell’intero corso di quel primo secolo dell’era moderna, Racalmuto viene inquadrato nel suo essere un consorzio civile collegato con la realtà agrigentina, palermitana, romana e persino avignonese. Altro che essere un’isola nell’isola, nel cui ambito la famiglia era un’isola nell’isola nell’isola. Racalmuto non è certo l’ombelico del mondo ma un cordone ombelicale con il mondo ce l’ha avuto di sicuro.

Fa alta letterura di certo Sciascia quando scrive in Occhio di Capra:

«Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo  .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un discorso questo che oggi si può leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo “Meridiani”. Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.

La Racalmuto - quella che si dipana dal 1271 sin ad oggi - è solo uno scisto della storia ma tutta quanta vi si riverbera. Se leggo il magistrale libro di Fernando Braudel  su “Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” e nel frattempo trascrivo carte, diplomi, atti notarili, ‘riveli’ e simili del Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza sorprendente:  le linee e le scansioni della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate note delle sue vicende.

E la documentazione da me esaminata è solo una minima parte di quanto è disponibile presso gli archivi: da quelli parrocchiali a quelli agrigentini, per non parlare di quelli di Palermo o di Roma o di Torno o di quanto trovasi su Racalmuto in Spagna, a Barcellona o a Simancas o a Madrid e persino a Vienna.

Racalmuto, la patria di Sciascia, potrebbe essere davvero un laboratorio di ricerca storica; potrebbero attuarsi iniziative culturali per approcci originali e mirati verso nuove forme di microstoria. Con positivi riflessi sull’occupazione giovanile locale.

Non sappiamo se siamo riusciti a superare le secche dell’eruditismo municipale. Abbiamo, comunque, tentato di abbozzare un contesto storico in cui Racalmuto è studiato per quelli che ci sembrano i suoi connotati: una terra baronale con gli alti e bassi della sua popolazione, con le sue “tande” da ripartire, con le traversie della famiglia del Carretto che si riverberavano sui paesani, con le pretese della curia vescovile che sovrastava sul clero locale e debordava nell’assetto civile, con il sorgere e l’affermarsi di confraternite laiche, con l’invadente  ruolo conventuale di francescani e carmelitani, con i rapporti tra il feudo maggiore e quelli minori contermini di Gibillini, Bigini, Gructi e Cometi, con l’assetto della proprietà terriera, con gli oneri domenicali del conte sulle case e sulle terre, con il terraggio ed il terraggiolo, con la tematica della finanza locale.

Quattro quartieri: Santa Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte, con al centro la gloriosa chiesetta di Santa Rosalia, quadripartivano l’abitato comitale, come moderne circoscrizioni. Funzionari di quartieri con i loro cognomi ancor oggi presenti a Racalmuto censivano, vigilavano, tassavano. I preti - allora - collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda fiscale era allora, come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una faccenda fiscale quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i suoi diritti “dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e, poi, tasse - e tante - di natura religiosa.

Queste ultime, secondo una nostra stima, erano in taluni periodi la metà di tutta l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie) ai “diritti di quarta”  della Curia vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di Santa Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che fare con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.

 

 

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Il lavoro di ricerca si appoggia e presume la pluriennale indagine che è stata svolta sui libri parrocchiali di Racalmuto. Sono libri, ripetesi, che annotano nascita e morte, battesimo e matrimonio, precetto pasquale di ogni racalmutese, senza distinzione di classe sociale o di propensioni religiose, dal 1554 sino ad oggi. Dapprima lo stato moderno non si preoccupò di questi aspetti anagrafici; quando poi cominciò a farlo incontrò spesso - come avvenne per Racalmuto nei primi anni dopo l’Unità - l’astio vandalico delle popolazioni inferocite e in gran parte quelle note burocratiche finirono irrimediabilmente distrutte.

Ma alla Matrice di Racalmuto, no.  Solo una mano sacrilega strappò qualche foglio, magari per provare l’indubitabile origine racalmutese di Marco Antonio Alaimo, nato sicuramente a Racalmuto nei pressi di via Baronessa Tulumello il 16 gennaio 1591, diversamente da quello che attestano le pretenziose lapidi comunali e come invece afferma l’Abate d. Salvatore Acquista nel suo saggio sul medico racalmutese del 1832, pag. 25.

Ed a ben guardare quel libretto, sembra proprio lui - l’autore - il vandalico che ha sottratto il foglio di battesimo di M. A. Alaimo. Mi riprometto di rintracciare quel foglio tra quei cinque sacchi di scritti che l’esecutore testamentario Giuseppe Tulumello depositò nella Biblioteca Lucchesiana  il 24 aprile 1879. ([18])

 

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Le carte della matrice di Racalmuto sono un po' stregate: appaiono vendicatrici. Basta che uno storico locale si sbilanci in ricostruzioni storiche che prescindano dalla loro consultazione per scattare la vendetta: esse stanno lì per sbugiardare il malcapitato paesano. Esigono rispetto, deferenza, assidua  frequentazione e meticolosa attenzione.

Quando il giovane studente in medicina - il Tinebra Martorana  - si mise a scrivere improvvisandosi storico locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali, questi lo hanno ridicolizzato smentendolo impietosamente specie nelle fantasiose saghe dei del Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di sesso del figlio Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa dalla cornata di una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra). Dispiace che il grande Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato storico e sia incappato in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale attribuzione di un nefando crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era un pio monaco e che a Racalmuto, se vi mise mai piede,  ciò avvenne poche volte e per compiti istituzionali e conventuali, limitandosi solo ad edificanti incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano. In ogni caso Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo del Carretto - che secondo Sciascia fu fatto trucidare dal monaco - era poco più che tredicenne.

Non fu, poi, questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo “grifagno ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui (ma i suoi tutori) ad accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del “terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono l’humus storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore. Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da oltre un anno con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi beni in favore dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea ( e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era, costei,  una Ventimiglia.

(E tanto grazie alle recenti scoperte d’archivio del prof. Giuseppe Nalbone. Siffatte carte ci forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di Geraci che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il 1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel  Cenobio di S. Lorenzo il   28 ottobre 1654).

 

Anche il pur meritevole Eugenio Napoleone Messana incappò in disavventure storiche per avere disatteso le carte della Matrice. Si credeva incontrollabile e storicizzò una frottola di famiglia facendo sposare nel ‘500 tal Scipione [o Sypioni o Sapioni] Savatteri ad una inesistente figlia dei Del Carretto per legittimare una inverosimile ascendenza nobiliare. Impietosamente - anche qui - i libri di matrimonio e di battesimo della Matrice di Racalmuto danno i dati anagrafici di detto Scipione Savatteri, oriundo peraltro da Mussomeli, di rispettabile stato piccolo borghese, andato sposo ad un’altrettanta plebea Petrina Saguna:

12/10/1586 - SAVATERI SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA sposa  SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E MARCHISA. Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI:  Montiliuni Gasparo notaro e cl. Cimbardo Angilo

 

Superfluo aggiungere che quella “Marchisa” - madre di Petrina - è solo un singolare nome e nulla ha a che fare con storie di nobiltà locale.

 

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Se poi consultiamo le tantissime carte dell’Archivio della Matrice sulle congregazioni o sui pii legati e simili, abbiamo piacevoli sorprese sulla vera storia di Racalmuto. Certo, svanisce nel nulla la vicenda del prete Santo d’Agrò che da solo costruisce l’attuale Matrice: anche qui ci troviamo di fronte ad una distorsione del Tinebra, che viene ripresa da Sciascia per una sua impareggiabile rilettura. E’ però una rilettura che esplode in una irriverente raffigurazione dell’incolpevole e probo sacerdote Agrò: questi viene immerso in deliri erotici ed addirittura proteso in viaggi allucinati, deposto sulle spiagge del deliquio sensuale, e, con immagine spagnola, sommerso nell’Alumbramiento onirico (vedi Sciascia: Introduzione al Catalogo illustrato delle opere di D’Asaro, pag. 20).  

E dire che sarebbe bastato un fugace sguardo ad un atto transattivo degli eredi di detto sacerdote  - atto transattivo che si conserva in Matrice -  per fugare tali infamanti sospetti e rispettare la verità storica sulla “fabbrica della Matrice”; la quale ben due rolli - sia detto per inciso - seguono passo passo, sino al primo ventennio dell’ottocento. Per lo meno si sarebbero evitate ricadute che non si possono non lamentare in libri pubblicati non più tardi dell’altro ieri.

 

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Mi rincresce davvero dover qui dissentire da quanto scrive lo scrittore nostro compaesano sulla sua origine racalmutese. I registri parrocchiali - che il grande scrittore invero disdegnò di consultare approfonditamente - forniscono dati sulla genealogia di Leonardo Sciascia che vanno ben al di là del “nonno di suo nonno” (cfr. Occhio di Capra, ed. 1990 pag. 12).

 
    1690 circa  -   SCIASCIA             LEONARDO M.°
    29.9.1726   -  SCIASCIA              GIOVANNI M.°
    7.1.1754    -  SCIASCIA               LEONARDO M.°
    24.2.1802   -  SCIASCIA               CALOGERO
    26.8.1810   -  SCIASCIA               PASCALIS
    25.10.1884 -  SCIASCIA              LEONARDO
    27.3.1920    -  SCIASCIA               PASQUALE
    8.1.1921   -    SCIASCIA                LEONARDO

 

Sciascia è racalmutese per lo meno a partire dalla fine del Seicento e non dai “primi dell’Ottocento” come amò credere sulla scia di una sua metafora irridente all’irridente avversione locale verso i “nadurisi” (Occhio di Capra, pag. 95). Là Sciascia ama inventarsi un bisnonno appunto “nadurisi”. Per i racalmutesi: «Venire dal Naduri - cito Sciascia - era come venire da una sperduta contrada di campagna: essere dunque zotici e sprovveduti. Quasi peggio dei milocchesi. Dal Naduri è venuto a Racalmuto il nonno di mio nonno, Leonardo Sciascia: da contadino che era stato, a Racalmuto intraprese il mestiere di conciatore di pelli, pure commerciandole”. Non so dove abbia appreso  queste notizie il grande scrittore: so solo, però, che i libri parrocchiali lo smentiscono su tutta la linea. Da lì vien fuori un albero genealogico di Leonardo Sciascia ben diverso da quello che tratteggiò lo stesso Sciascia.

L’invocato “nonno del nonno” era un apprezzato mastro locale, fedele appartenente alla “maestranza” ancora esistente all’Itria. Di nome Calogero (e non Leonardo), apparteneva ad una famiglia di mastri che in linea diretta ci conduce sino ad un capostipite del Seicento di nome Leonardo, sposatosi con l’agrigentina Vincenza Quagliato.

“Lapsus della memoria” vorrebbe la famiglia - da me consultata. Può darsi: ma non può neppure affermarsi - come è stato fatto - che il grande scrittore volesse riferirsi al “nonno di sua nonna”, che in effetti si chiamava Leonardo Sciascia.  Invero, anche costui era racalmutese, figlio di racalmutese, fratello di quell’Antonino Sciascia, professore universitario, di cui parla il Tinebra ed a cui  lo stesso Leonardo Sciascia teneva particolarmente.

Mi si perdoni questo mio insistere sulle origini racalmutesi dello scrittore. Il «'lapsus' della memoria» mostra, a mio modesto avviso, un atto trasfigurante occorso - o cui il grande scrittore ha indulto - per esigenze dell'intelligenza ai fini di uno dei suoi raffinati aforismi. Se voi - se noi - racalmutesi avete in uggia i 'nadurisi', ebbene allora io sono 'nadurisi'. E con ciò? Il dramma o la farsa di essere «un'isola» o «un'isola nell'isola» o «un'isola nell'isola dell'isola..» etc. permane non so se borgesianamente o esistenzialisticamente.

 

Racalmuto non ha una storia esemplare. E' una storia paesana, qualche volta violenta, tal altra generosa, ma sempre entro le righe, in un pentagramma di invariabile moderazione. L'unica sua gloria è Sciascia. Svetta e se ne distacca. Radicarlo nella terra del sale, è un mio orgoglio ed una mia ambizione. 'Occhio di Capra' sembrava smentirmi: le carte della Matrice mi rasserenano e suffragano la mia convinzione.

Non pretendo certo di scandagliare il mondo dei sentimenti verso Racalmuto del grande Sciascia: viceversa, ho tentato di risalire la corrente pluricentenaria di quella 'blasfema ironia' che Sciascia ritaglia per Racalmuto (Kermesse, pag. 54 ), convinto che da quelle antiche propaggini si diparte l'insondabile gene atto a far sbocciare il genio inquieto ed irriverente dello Scrittore racalmutese.

La storia di Racalmuto va integralmente rivisitata. Non siamo certamente noi quelli che possiamo espletare un siffatto improbo compito. Ma un tentativo vogliamo egualmente esperirlo. Speriamo in una pioggia di critiche, rettifiche, approfondimenti, completamenti. Chi avrà pazienza di leggerci noterà una dissacrazione della storia racalmutese consolidata, anche se porta l’avallo del grande Sciascia. Valga come provocazione. Sarà un progresso che dissolverà la solita favoletta fatta di baroni e conti, jus primae noctis, preti affetti di satiriasi senile, frati omicidi, contesse fedifraghe, terraggio e terraggiolo, chiese di inaccettabile vetustà, ripicche di grandi (e mediocri) famiglie, sindaci e podestà dediti all’omicidio ed allo stupro di minorenni, fascisti e sansepolcristi ed una pletora di gesuiti, di papa neri, di santi e di venute miracolose, di risse chiazzotte, di infamie municipali, di toponomi improbabili e tradizioni sicane, di miniere e di illeciti arricchimenti: una paccottiglia francamente indigesta. Zolfatai e salinai eroici noi non ne abbiamo mai conosciuti; martiri per la libertà di pensiero non ci paiono possano allignare tra i miasmi dei calcaroni solfiferi o tra il picconare nelle viscere di Pantanella montagne di salgemma umido e apportatore di nistagno. I bambini delle elementari si misero a riguardare Racalmuto ed i loro “sguardi” ebbero l’onore delle stampe nel settembre del 1995. Con gli occhiali delle loro maestrine, i piccoli storici si addentrarono nei misteri delle origini racalmutesi ed ebbero certezze su tutto: arabi e conventi, chiese e monumenti, congregazioni e feste, miniere ed artigianato, acque e sorgenti, strutture sociali e naturalmente una pletora di uomini illustri (oltre 18). Sono, invero, ‘sguardi’ dignitosi  ma quei bambini non potevano scrutare ciò che sinora è occulto, ignoto, ignorato.

Il nostro ‘sguardo’ si avvale di ricerche d’archivio, della consultazione di testi antichi, di recenti reperti archeologici, di studi nuovi e di materiale epigrafico e numismatico vecchio e nuovo. Troppo e poco, al contempo. Ma per l’avvio di  una rivisitazione della storia (o microstoria, che dir si voglia) di Racalmuto ci si potrebbe accontentare.


 

BREVE SINOSSI ARCHIVISTICA ARCHEOLOGICA E BIBLIOGRAFICA

 

Il nostro interesse per la storia di Racalmuto ebbe inizio allo spirare degli anni ’Settanta ed esordimmo con alcune ricerche presso l’Archivio Segreto Vaticano. Consultando le “relationes ad Limina” dei vescovi agrigentini, c’imbattemmo immediatamente nella questione della tassazione ecclesiastica di Racalmuto. Ne trattava il vescovo spagnolo Orozco Covarruvias nell’agosto del 1598: in una tabella figurava l’arcipretato racalmutese con proventi di ben 250 once annue ([19]). Le ricerche d’archivio vennero, quindi, allargate ai libri e rolli della Matrice e da qui ai fondi degli archivi di Stato di Palermo, Roma ed Agrigento, nonché a quelli della Curia Vescovile di Agrigento. Il materiale acquisito ci ha portato ad abbozzare una prima ricostruzione storica della natia Racalmuto, che col passare degli anni si è via via modificata, aggiustata, integrata, corretta, riformulata. Una fatica di Sisifo! Nello scrivere queste note iniziamo con una versione che ci accingiamo a sunteggiare. Alla fine dello scritto, la nostra narrazione apparirà invero già modificata. Non ce ne voglia l’eventuale lettore.

 

La primordiale presenza umana potrebbe venire  attestata dalla grotta di Fra Diego che ci riporta sino ai tempi dell’uomo di Cro-Magnon (30 mila anni fa) ([20]). Ma sono i Sicani quelli che per primi consolidarono il loro insediamento nelle plaghe del nostro altipiano: le tombe a forno che suggestivamente fanno da corona alla grotta di Fra Diego sono la palpabile testimonianza di quella civiltà preistorica risalente a quattro mila anni fa.

Nel 1880, nel corso dei lavori per la costruzione della ferrovia Licata-Porto Empedocle, si rinvenivano nel territorio di Racalmuto, a 10 km. da Canicattì, altre tombe a forno con corredi di ceramica del secondo millennio a. C., sufficientemente investigati dagli archeologi dell’Ottocento. Purtroppo, successive indolenze impediscono tuttora la seria conoscenza della ricca e peculiare archeologia racalmutese.

Casuali rinvenimenti di monete greche (con il granchio agrigentino o col cavallo alato siracusano) comprovano presenze siciliote nella zona di Casalvecchio-Grotticelle.

L’iscrizione latina in una “diota” della Roma repubblicana rievoca un intenso commercio vinario di quel tempo ad opera di un mercante della “Famiglia” dei “Fuscus”.

Fa spicco una serie di “tegulae sulphuris” (gàvite) rinvenute in varie località di Racalmuto, una delle quali documenta l’esistenza di miniere di zolfo nei pressi di Santa Maria durante l’impero di Comodo (180-190 d.C.),  come si avventò a dire il Salinas.

Per Biagio Pace, le Grotticelle sarebbero un ipogeo cristiano e l’importante ritrovamento di un tesoretto di monete bizantine del VI-VII secolo d. C. nella contrada della Montagna contrassegna un’operosa presenza cristiana sin dagli albori della diffusione del verbo di Cristo in Sicilia.

Ultimamente sono affiorate “strutture murarie abitative” molto latamente riferite ad “epoca ellenistica-romano-imperiale” nella zona di Grotticelle il cui studio è rinviato al tempo in cui i “programmi dei BB.CC. di Agrigento” potranno snodarsi “con maggiore continuità”.

La pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi una storia quasi trisecolare completamente oscurata.

Di certo sappiamo che, caduta Agrigento attorno all’ 829 in mano dei Musulmani, quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio racalmutese finì sotto il dominio arabo. Di sicuro, verso l’840 i nuovi e più stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi, tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua greca? Noi pensiamo di no.

Pochi, di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’ (romani o cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo senso razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra landa o a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli cui quella ‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo - per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico su cui, in modo mascherato e variegato, si radicano le leggi della economia.

Così poté esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario. Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d'ortaggi, in cui erano maestri e che i rum (i cristiani) ignoravano. Dai rum, l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.

Forse semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da noi,  introdussero sistemi di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. ([21]). I secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli di dominazione araba sull’intero altipiano di  Racalmuto.

Un documento greco del 1178, che purtroppo non può riferirsi al nostro paese, diversamente da quello che sostiene l’autorevole Garufi, riporta un toponimo che richiama l’etimologia araba di Racalmuto: Rachal Chammoùt. Nulla però può ricavarsi che possa tornare utile alla storia (quella veridica) del paese agrigentino.

Per quanto buia  sia la pagina araba racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo. Già nel XVI secolo il colto Fazello attestava l’origine saracena di Racalmuto. «Castello saraceno - lo definiva - dove è una Rocca edificata da Federico Chiaramonte». Più in là non andava. Tra il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria Amico, nel suo “Lexicon topographicum siculum”  rivestiva purtroppo di patina scientifica la funerea etimologia di paese “diruto, morto” e simili. L’avv. Giuseppe Picone accenna ad una derivazione da due termini arabi: Rahal (‘villaggio’ e sin qui correttamente) e Maut (‘della morte’ e qua invece arbitrariamente). Il nostro Tinebra Martorana, con fervore giovanile, vi correva dietro. Leonardo Sciascia, ovviamente poco incline alle pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed autorevolissimo avallo.

Diviene difficile  per chicchessia procedere ora alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il compaesano gesuita padre Antonio Parisi: «... emerge la probabilità, se non la certezza - scrive il dotto gesuita - che fosse stato un Hamud [...]  a dare il nome all’abitato. Rahal, pronunziato Rakal [ ...]; Hamud, pronunziato Kamud o Kamut [...] dava Rakal-kamut; ed a togliere la cacofonia si soppresse il secondo “ka” e rimase “Rakal-mut” = Ralmanuto!».

Con la sua indiscussa autorità, il Garufi debella la fantasiosa etimologia di Racalmuto quale lugubre “Paese dei Morti”, come si è potuto vedere in precedenza. Va detto che la lezione del Garufi, purtroppo, non è stata recepita dai moderni storici alla Henri Bresc. Un grandissimo arabista contemporaneo si è data la briga di riesaminare il toponimo. Non accetta la versione tradizionale. E ci dà una nuovissima lettura: Racalmuto quale ‘paese del moggio’. ([22]) Per il grande arabista, infatti, il paese: «deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta, casale’ del Mudd <latino modium 'Moggio’». "Paisi di lu Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino monte “Formaggio” di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Comunque sia, almeno niente più accenni mortuari che ci tornano infausti. E’, dunque, un passo avanti.

Dipanata in qualche modo la questione del significato, nasce quella del periodo in cui si ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il periodo della dominazione berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va spostato nei tempi immediatamente successivi alla caduta dell’Emiro di Girgenti, Hamùd (25 luglio del 1087),  oppure si collega alla signoria di uno degli emiri di Naro, come noi siamo inclini a credere? Mancano dati ed elementi per aggrapparsi ad una di queste ipotesi.

La conquista da parte di Ruggero il Normanno del territorio agrigentino, nella primavera del 1087, non pare abbia trovato un Racalmuto popoloso e prospero.

Un piccolo barlume potremmo forse trovarlo nelle cronache del Malaterra. Facendo anche noi ricorso alle congetture, una volta propendevamo ad identificare Racalmuto in un toponimo, evidentemente corrotto nelle tante trascrizioni del testo malaterrano, che si rifà ad un impreciso “Racel....”. Goffredo Malaterra fu un cronista normanno dell’XI secolo.  Il manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo Zurrita, fu  pubblicato a Saragozza nel 1578. Del manoscritto originale si sono perse le tracce. Michele Amari ovviamente se ne serve e riduce in Rahl il Racel che si trova nel punto in cui si parla della conquista dell’agrigentino e che potrebbe riguardare proprio il nostro paese: Racalmuto.

In effetti il Malaterra parla di undici castelli nei dintorni di Agrigento conquistati dal conte Ruggero «.. Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Racel .., Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, [che nella nostra lingua significa “Villaggio delle donne”], Licata, Remunisce». Tra Sutera. Bifara, Milocca, Naro e Caltanissetta, quell’incompleto “Racel....” potrebbe essere proprio Racalmuto. Ma il  limite di mera congettura, resta.

Incrostano le origini di Racalmuto due falsi storici, peraltro in contrasto fra loro. Da un lato, si indica Racalmuto insediato a Casalvecchio con questo improbabile nome in lingua volgare sin dai tempi post-arabi; dall’altro, si vuole il centro sito nei pressi di Santa Maria per volontà di Roberto Malconvenant, sin dal 1108.

L’Assessorato Turismo Comunicazioni e Trasporti della Regione Sicilia nel n.° 39  del 22 dicembre 1991 de “L’Amico del Popolo” si reputa in grado di affermare: «Distrutto Casalvecchio, come riferisce Michele Amari, il nuovo centro abitato venne spostato di alcuni chilometri e dagli Arabi venne denominato Rahal Maut...». Il passo dell’Amari non è citato ed è quindi impossibile accertarne la correttezza del richiamo letterario. Noi crediamo che ci si riferisca alla Storia dei Musulmani, vol. II, pag. 64. Là si parla, invero, di Castel Vecchio ma è località a quattro miglia da Agrigento, in arabo chiamata Raqqâdah (Sonnolenta). Comunque la si giri, non mi sembra proprio che Racalmuto c’entri proprio. Ritrovamenti archeologici provano magari insediamenti greci e romani in quelle parti. Nulla di arabo finora è emerso. Men che meno reperti attestanti presenze abitative collocabili nel Basso Medio-Evo. L’arcidiacono  Bertrando Du Mazel, che ebbe a fare censimenti nel 1375 (29 marzo) proprio a Racalmuto, nella documentazione rimessa ad Avignone, attesta l’esistenza di un centro abitato (appena 136 “fuochi” in case per la gran parte coperte di paglia)  che appaiono sparse nei dintorni della fortezza, denominata  “lu Cannuni”.

L’altro falso è l’erezione di una chiesa nel 1108 là dove oggi stanno i ruderi di Santa Maria di Gesù, su cui già abbiamo fornito accenni.

Del tutto singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi località chiamata Racalmuto nelle più antiche carte capitolari del vescovado di Agrigento per il periodo che va dal 1092  al 1282. Si suol dire che il silenzio nella storia equivale al nulla. In questo caso, però, si deve ammettere che per un paio di secoli Racalmuto non fu tributario in modo esplicito della potente curia agrigentina, né ebbe a pagare censi, canoni e livelli agli ingordi canonici del capitolo della cattedrale di San Gerlando. Basta scorrerle, quelle carte, per rendersi conto di quanto fiscali fossero il prelato e la sua corte agrigentina sin dal tempo in cui Ruggero il Normanno istituì - o si pensò che avesse istituito - quella diocesi affidandola al santo, o santificato, consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo di bell’aspetto e di copiosa dottrina, secondo quel che vogliono le cronache. Se nessuna terra delle pertinenze agrigentine, che si richiami ad un toponimo che magari vagamente rassomigli a Racalmuto, figura trubutaria in quel periodo, ciò lascia intendere che non esisteva, almeno come centro organizzato  suscettibile di imposizione.

Entriamo, ora, nella storia documentata di Racalmuto.

Nei primi decenni del XIII secolo, riusciva ad impossessarsi di Racalmuto tal Federico Musca.  Questi tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e costui lo priva del dominio di Racalmuto nel 1271 per conferirlo a Pietro Nigrello di Bellomonte (vedi quanto segnalato prima.)

La signoria di tal uomo della corte napoletana durò però poco e, nel corso del Vespro, Racalmuto appare un comune autonomo, retto da sindaci e chiamato ad un contributo di uomini in armi.

I primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e 1310. Nell'abitato vi erano almeno due chiese: quella parrocchiale retta dal  p. Angelo di Montecaveoso,  e quella forse conventuale dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).

Altra pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi avignonesi dell'Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell'arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità contributiva e raccoglierne l'imposta per togliere l'interdetto che si originava dalla rivolta del Vespro. Era l'anno 1375.

 Allora Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con non più di 800 abitanti. Nell'archivio vaticano è reperibile il resoconto delle collette redatto dall'arcidiacono du Mazel. Trattavasi di un sussidio che andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le 'mediocri', 3 per le agiate  e cioè 'qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà' ([23]). Il 29 marzo del 1375, il pio  collettore (o suoi emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il 'sussidio' e scioglieva l'interdetto  ([24]). Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili.   In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra Martorana vengono accettati - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale  lasso di tempo, la crescita si è invece limitata solo al  48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.         

Che cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto nell'intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di forestieri.

Abbiamo motivo di ritenere che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per la paura dei pirati. L'improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata  sembrano convalidare la prima ipotesi. I molti cognomi di   paesi e terre del circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei feudi racalmutesi. 

Tanti immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l'antica carica di maestri di xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d'Angiò i sopraintendenti alla sicurezza notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283 sotto Pietro d'Aragona.                            

Non è racalmutese il 'segreto' addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l'incarico - lo denunciano straniero. Il 'segreto' era l'esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che risaliva al 1296. 

Per avere un nome saraceno, Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con nome di derivazione araba. Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo e simili, possiamo  calcolare in meno di 150 gli abitanti di origine forse musulmana (su 2215 desunti dai registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per convinzione o per convenienza, si sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo latineggianti. Lo stesso dovette  verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata da parte della regina Isabella nel 1492 ([25]) o sparirono del  tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni  dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio dell'8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da Grotte.                                     

Tra la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che hanno dominato nell'ottocento. Né baroni come i Tulumello, né gentiluomini come i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora quali i D'Amella, i La Lomia, gli Ugo, i Piamontisi ed altri si sono dopo volatizzati: alcuni loro eredi  prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì. 

Verso la fine del 500, giungono a Racalmuto 'mastri' che vi attecchiranno ed oggi i loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione. Savatteri, Buscemi, Schillaci, Rizzo, Bongiorno, Chiazza, sono fra questi, per fare solo alcuni esempi.

Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di tale casale con castello, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all'inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia  proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com'è nelle sue più antiche fonti,  difficilmente potrà essere ora del tutto chiarita.

Quel che ci preme è sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un'importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa degli aragonesi. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l'altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il delegato  del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.

Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino: «Martino etc. Al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..

I lodevoli meriti delle vostre virtù ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai  grati riconoscimenti. ... e pertanto per l'autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, [vi conferiamo] il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre  benignità [ ... ]

Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente e pienamente  la prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se desiderano e vogliono mantenere la nostra benevolenza.

Dato in Siracusa, l'anno del Signore, VII^ Ind. 1398..... Re Martino - »

 Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente  Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest'ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.

La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel 1492.

Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l'anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco ebreo, dedito certamente all'usura.

«Il Vicere' Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio Raffa  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il  giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei.»

Quanto alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano assetti significativamente organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l'Inquisizione. Quel non glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non collimanti con quelle della blasfema canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.

La tradizione colloca nell'anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte. La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni ricerca storica che suonerebbe falsa ed irriguardosa. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione dell'Officio sulla nostra miracolosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si recita in latino - da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione, la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino per essere condotta nella antica città di Castronuovo. E questo fu un mero portento

Francesco Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone Messana nel 1968,  Leonardo Sciascia in una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull'evento, quasi sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di Racalmuto. Una mia personale ricerca tra vecchie carte che si custodivano in una stanza della casa che fu del canonico Mantione mi ha fatto imbattere in una pubblicazione del ‘700 cui assegnare la palma della più antica narrazione in versi della Vinuta di la Bedda Matri di lu Munti.

Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia notizia documentata - la gloriosa statua viene repertoriata con stile invero molto burocratico. Nell'Archivio vescovile di Agrigento si rinviene la relazione sulla visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge però nulla che possa richiamare alla mente un santuario prestigioso. In seconda battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l'irriguardoso ecclesiastico si limita ad inventariare il venerabile simulacro come «una figura di nostra donna di marmaro». Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode solo a partire dai primi decenni del '700, dopo l'opera del p. Signorino.

 

Poco più che trisecolare risulta la vera signoria feudale che i Del Carretto ebbero  a dispiegare su Racalmuto: dalla prima investitura baronale di Matteo del Carretto da parte di Martino d’Aragona, il giovane   - che il Villabianca colloca nel 1392, il giorno 4 di giugno - sino alla malinconica scomparsa della grande famiglia dei conti di Racalmuto, databile 10 Luglio  1716, corrono infatti 324 anni.

Bisogna, invero, aggiungere un preludio quasi secolare di presenza dei Del Carretto (dal  1307, data del matrimonio tra Costanza Chiaramonte ed il marchese di Savona e Finale, Antonio del Carretto, sino all’investitura baronale di Matteo del Carretto), ma trattasi di ambigua signoria, malcerta e di sicuro intermittente, emergendo una egemonia sovraordinata della potente famiglia agrigentina dei Chiaramonte.

Il primo e vero storico della famiglia dei Del Carretto, baroni prima e conti dopo di Racalmuto, riteniamo essere l’arcigno Marchese di Villabianca con la sua diligente opera del 1759: prima di lui il Fazello, il Pirri, l’Inveges, il Mugnos, il Di Giovanni, il c.d. Muscia, il Barberi, il Ciacconio, il  Crescenzi, il  Barone, il Savasta ed il Sansovini, tutti costoro  avevano mostrato interesse alle vicende dei Del Carretto, ma erano stati accenni qualche volta infelici, non sempre attendibili, in ogni caso incompleti. Quel signore settecentesco, reazionario e fieramente aristocratico e feudale, ci fornisce un quadro lucido, documentato ed appassionante - anche se lo stile è ovviamente arcaico - di quella che è stata la vicenda feudale della baronia e contea del nostro paese. Dopo il Villabianca, tanti si sono cimentati nella ricostruzione storica della pagina araldica dei Del Carretto, ma ci appaiono tutti tributari del nostro marchese e, sostanzialmente nulla aggiungono a quanto saputo, ove si eccettui una qualche nota critica. Così è sicuramente per la ponderosa opera del San Martino-Spucches.

Ebbe di certo tra le mani l’opera del Villabianca il racalmutese Tinebra-Martorana e vi razziò ingordamente: era, però, appena ventenne e non aveva né voglia né tendenza ad analisi critiche: qualche documento locale, come quello del sarcofago di Girolamo del Carretto o come quelli fornitigli maliziosamente dai Tulumello sul terraggio e terraggiolo da corrispondere a quei conti di Racalmuto, gli fu sufficiente per imbastire una storia non sempre precisa sulla signoria dei Del Carretto, la quale storia ebbe, a distanza di quasi un secolo, il non corrodibile avallo del grande Leonardo Sciascia.

Chi, da ultimo, si è industriato per recuperare alla memoria eventi certi del casato dei Del Carretto è stato il prof. Giuseppe Nalbone. Dall’8 aprile 1993  egli ha scandagliato gli archivi di stato di Palermo e la sua fatica è stata premiata con il rinvenimento di molteplici diplomi, privilegi e documenti che irradiano una vivida  luce sulla storia dei Del Carretto e finalmente ce la restituiscono nel suo intenso ed obiettivo defluire. Poco o punto è il risultato rettificativo dell’opera del marchese di Villabianca, ma tanta è la portata esplicativa di istituti, interventi, ruoli, imposizioni, condizionamenti ed altro di una vicenda feudale trisecolare che investe l’essere ed il forgiarsi della vita civile e sociale dei nostri antenati racalmutesi. Riaffiorano nomi e cognomi di segreti, castellani, giurati, maestri notari, fiscali, capitani etc. Tanti di loro non hanno più eredi a Racalmuto, ma taluni sono  invece ricollegabili a figure tipiche del grande teatro che tuttora persiste tra la gente del nostro altipiano.

Il diciottesimo secolo vede Racalmuto alla prese con gli eredi dei Del Carretto. Si ebbero varie controversie. Quella più celebre fu mossa prima dal Sac. Nicolò Figliola (luglio 1787) e successivamente dall’arciprete d. Stefano Campanella contro il “terraggio” ed il “terraggiolo”. La vertenza si chiuse il 28 settembre 1787 con sentenza liberatoria per i racalmutesi. Cadeva al contempo il “diritto del mero e misto impero” che l’erede dei del Carretto, il Requisenz, pretendeva ancora a danno degli abitanti della decaduta contea di Racalmuto.

Nell’Ottocento, ebbe l’abbrivo lo sfruttamento delle miniere di zolfo e del salgemma ed esplose un risvolto borghese che ancor oggi suscita consensi entusiastici o stroncature impietose.

Il Novecento - prima giolittiano, poi fascista e quindi, nel dopoguerra, contraddistinto dal vorticoso gioco delle alternanze democratiche - contrassegna eventi troppo prossimi per trattarli con il dovuto distacco storico.



[1]) Georg Ostrogorsky : Storia dell’impero bizantino, Torino 1993. Per ERACLEONA v. pp. 95, 99, 100 e 543; per TIBERIO II v. pp.  120-122, 157 e 543.  Le notizie sulle monete ed i dati di riferimento cronologico sono desunti dagli studi di André Guillou (v. Arch. Stor. Sirac., n. s. IV. 1975-76, pag. 74, n. 149 ove si accenna ad un tesoro di «205 pezzi, riferentisi a Tiberio  II - Héracleonas».)
[2]) Nicolò Tinebra Martorana: Racalmuto - memorie e tradizioni - Palermo 1982, pp.  35 e ss.
[3]) AA.VV.: Pietro D’Asaro, il Monocolo di Racalmuto - Palermo 1985, pag. 20.
[4]) Da un manoscritto sunteggiato da Eugenio Napoleone Messana: Racalmuto nella storia della Sicilia, Canicattì 1969, pag. 39.
[5]) Carlo Alberto Garufi, PATTI AGRARI E COMUNI FEU­DALI DI NUOVA FONDAZIONE IN SICILIA, parte II dell'articolo, in ARCHIVIO STORICO SICILIANO, anno 1947, pag. 34.
[6]) Vincenzo Di Giovanni: Il Monastero di S. Maria di Gàdera, poi Santa Maria de Latina esistente nel secolo XII presso Polizzi, in Archivio Storico Siciliano 1880  pag. 15 e ss.
[7]) Rocco Pirri: Sicilia Sacra - Notizie della Chiesa Agrigentina - pag. 758.
[8]) Registri della Cancelleria Angioina - vol VIII - n.° 209 - Napoli 1957.
[9]) Documenti da servire alla storia di Sicilia - Prima Serie - Diplomatica , Palermo 1882 - De Rebus Regni Siciliae (9 settembre 1282-26 agosto 1283) Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona di Aragona - pag.295.
[10]) Henri Bresc, Un monde méditerraneéen.  Économie et société en Sicile - 1300 - 1450 - Regione Siciliana Assessorato ai Beni Culturali e Ambientali e della Pubblica Istruzione - Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo  - 1986, Tomo I, pag. 64.
[11]) Documenti da servire alla storia di Sicilia - Prima Serie - Diplomatica , Palermo 1882 - De Rebus Regni Siciliae (9 settembre 1282-26 agosto 1283) Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona di Aragona - pag. 9 e 364.
[12]) Scrive il Pirri  «cum Agrigentina ecclesia propter bellum Saracenorum et propter amissionem villanorum, quibus quondam Fridericus Imperator eamdem ecclesiam spoliavit, eos in Apuliam tranferendo, tum propter alia gravamina, quibus tam dictus Fridericus quam officiales sui supradictam ecclesiam vexaverunt, ad eam tenuitatem et inopiam devenerit ut dictus episcopus [Rainaldo d’Acquaviva] non haberet unde se et ecclesiam suam sustentaret, ei concessit omnes redditus et proventus judaeorum et tintoriae civitatis Agrigenti.. » Cfr: Rocco Pirri: Sicilia Sacra - Notizie della Chiesa Agrigentina - pag. 704.
[13]) ibidem
[14]) Scrive il Surita: « a onze del mismo mese de Noviembre  [1282] Federico Musca conde de Modica , que estava en la Escaleta, con gente de guerra, y tenia cargo de la costa de Catania, y del val de Noto, embio cinco mil almogavares a Calabria contra los lugares vezinos de Rijoles.» Cfr.: ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO REYNO:  ANALES DE LA CORONA DE ARAGON - ÇARAGOÇA 1610 - Libro IIII de los Anales - MCCLXXXII - De la passada de los Almogavares a la Corona, y del destroçio que hizieron en la gente de armas que alli estana. XXVII (pag. 253).
[15]) «Praedictus dominus Gerardus - recita un diploma dell’archivio palermitano - tamquam primusgenitus habet et habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice domine Constantie de Claramonte eius avie, quam etiam  hereditatis magnificorum  quondam domini Antonij de Carretto et quondam domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici  domini Jacobinj de Carretto eius fratris, quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et etiam quocumque alio iure  competente domino domino Gerardo aliqua ratione occasione vel causa et specialiter in baronia Racalmuti ut primogenito magnificorum quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris, et eius territorio castro et casali nec non in bonis burgensaticis ....».
[16]) AA.VV.: Pietro D’Asaro, il Monocolo di Racalmuto - Palermo 1985, pag. 20.
 
[17]) Denis Mack Smith: Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1973 - vol. I pag. 207.
[18]) Domenico De Gregorio: Biblioteca Lucchesiana Agrigento, Palermo 1993, pag. 209
[19] ) Archivio Segreto Vaticano. Relationes ad limina - Agrigentum - 18/A f.18
[20]) Cro-Magnon  (Francia), località del Périgord, nel dipartimento della Dordogne. Uomo di Cro-Magnon. Razza di Homo sapiens sapiens, cui appartengono i resti scheletrici rinvenuti nella località omonima e risalenti al Paleolitico superiore.
[21]) Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag. 305-306, dal Kitab 'al Falah, Libro dell'Agricoltura di Ibn 'al Awwam
[22]) Giovan Battista Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - i nomi geografici italiani - UTET 1990.
[23]) Peri I., La Sicilia dopo il Vespro, Laterza 1982, pag. 235
[24]) AVS - Reg. Av. 162 f.419v.
[25]) cfr. G. Picone - Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.

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