LA STORIA DI RIESI - DALLE ORIGINI AI NOSTRI GIORNI di Salvatore Ferro BODY {SCROLLBAR-FACE-COLOR: #2f4e77; SCROLLBAR-HIGHLIGHT-COLOR: #cccccc; SCROLLBAR-SHADOW-COLOR: #cccccc; SCROLLBAR-3DLIGHT-COLOR: #990000; SCROLLBAR-ARROW-COLOR: #f2f2f2; SCROLLBAR-TRACK-COLOR: #f2f2f2; SCROLLBAR-DARKSHADOW-COLOR: #990000} <!-- h1 {margin-top:12.0pt; margin-right:0cm; margin-bottom:3.0pt; margin-left:0cm; page-break-after:avoid; font-size:16.0pt; font-family:Arial; } --> A:hover {color: #000000; text-decoration: underline} Sezione: STORIA/ARTE/CULTURA/TRADIZIONI SALVATORE FERRO LA STORIA DI RIESI DALLE ORIGINI AI NOSTRI GIORNI CALTANISSETTA PREM. TIP. SALVATORE DI MARCO 1934 - XII Stampa intera opera INDICE DETTAGLIATO CAPITOLI Biografia di Salvatore Ferro IScopo del libro III feudi di Cipolla e di Riesi IIILe investiture IVtentativi di un casale Vi magazzini – la parte intellettuale o i dirigenti – il palazzo – la prima chesetta - le feste VIgiudicato – caserma e carcere - municipio VIIla chiesa della madrice – la baronia – delineazione del borgo VIIIfesta della madonna e di natale dal 1650 al 1700 IXla vecchia chiesa del rosario – le confraternite Xil 1700 – clero e popolo – i conventi XIi grandi massari, civili XIIdal poeta contadino settecentista croce cammarata XIIIla nuova chiesa del rosario XIValtre grandi case di ricchi XVla prima miniera di zolfo, buon andamento XVIl’ 800 XVIIlo zolfo - la vigna XVII bisfatti – lotte religiose XVIIIla chiesa di san giuseppe – il colera del 1837 XIXla societa’ segreta – lotte politiche XXil 1848 XXIMiseria e filantropia – colera del 54 – Aspettando, i liberali si fortificano XXIIil 1860 XXIIIla liberta’ – come dalla notte al giorno – i primi sindaci dei nuovi tempi XXIVil sindaco janni – colera del 67 – morte del quattrocchi XXVil protestantesimo a riesi fin dal 1871 XXVI seguitando la vita del sindaco janni – la causa con la baronia – il processo – condanna - morte XXVIIsindaco l’avv. don pietro d’antona XXVIIIla filossera XXIXla disgrazia della miniera grande di sommatino XXXil partito liberale dei pasqualino, del poeta Dr. don carmelo lo stimolo XXXIl’800 – la nuova vittoria del partito liberale dei pasqualino XXXIIscioglimento del consiglio comunale – R.commissario l’ex prefetto debilio XXXIIIla nuova amministrazione comunale sindaco in cav. carmelo inglesi XXXIVlo “stato di assedio” - 1894 XXXVl’arresto del cav. ingLesi - sindaco l’avv. p. di benedetto – l’acqua potabile – causa degli usi civici – sentenza favorevole XXXVIl’avv. G. carlo golisano sindaco – il primo centenario di garibaldi solennemente festeggiato XXXVIIdal Cav. Inglesi, di nuovo sindaco a don luigi d’antona XXXVIIIil suffraggio universale – caduta del potere d’antona – vittoria strepitosa degli operai con a capo pasqualino XXXIXuomini insigni e uomini grandi del secolo XVIII alcuni dei quali vissero nel nostro secolo XIX XLil senatore antonono d’antona XLImafia e delinquenza XLIIgravi delitti XLIIIgli scioperi XLIVla grande guerra XLVla “spagnuola” XLVIil bolscevismo XLVIIla mitragliatrice (famosa repubblica riesina) XLVIIIil fascismo XLIXsindaco il com. G. c. golisano – il ritiro – giuseppe martorana – la luce elettrica – vittoria del fascismo – il com. d’antona sindaco XLIX bisdai sindaci al podesta’ Lun commissario prefettizio modello LIla ferrovia - mentre scriviamo, terminando Biografia di Salvatore Ferro Nacque nel 1870 da Francesco e da Maria Matera. Colpito da paralisi infantile, era costretto a camminare con la gamba sinistra claudicante e il braccio dello stesso lato tenuto teso all’insù e con la mano immobile curvata al contrario. Per la menomazione del suo fisico non gli fu possibile imparare il mestiere del padre e del fratello Vito entrambi calzolai; avendo frequentato la locale chiesa Evangelica Valdese, mercé l’assistenza e le lezioni che gli venivano impartite dal pastore Giuseppe Ronzone, riuscì ad avere una discreta cultura che gli consentì di trascorrere una vita comoda anche se a volte raminga. Lo chiamavano "Maestro Ferro", ma per non confonderlo con l’altro maestro Ferro che insegnava nelle scuole comunali, veniva distinto col nomignolo "Manuzza" per la menomazione della mano. Frequentando assiduamente la chiesa valdese, da quell’istituto ebbe nel 1902 il primo incarico come insegnante della terza classe elementare, ove in quell’anno lo scrivente fu uno dei suoi alunni. Alla fine di quell’anno scolastico ebbe l’incarico di recarsi in Svizzera e propriamente a Ginevra e da quella città a Genova: Nel 1907, come colportore da quello stesso Istituto fu mandato in Egitto per vendere la Bibbia, libri del Vecchio e Nuovo Testamento con testi Evangelici valdesi. Colà ebbe l’occasione di girare la città di Alessandria, il Cairo e quasi tutte le località ove regnarono i Faraoni. Nel mese di febbraio del 1920 lasciò l’Egitto e imbarcato su un battello, dopo un lungo e pericoloso viaggio sul mare Mediterraneo, riuscì ad approdare a Siracusa e di là poté proseguire per Catania. Si recò poi a Grotte e da qui, come egli ebbe a descrivere nel suo libro Nell’Egitto antico e moderno fu "trabalzato" nell ‘Abruzzo-Molise. Avido di girare, accettò ancora una volta l’incarico di colportore per conto della Società Biblica Britannica e Foresteria con sede a Livorno il cui Presidente onorario era il Principe di Galles erede al trono inglese. Scopo di quella società era di far conoscere e vendere in tutto il mondo i libri della Sacra Scrittura protestante tradotta in tutte le lingue. Stanco di girovagare e per l’avanzata età, abbandonò ogni cosa e se ne tornò a Riesi "per potere ritrovare il bel sole, gli amici e il lavoro delle piccole lezioni" da impartire agli alunni privati. Scrisse il suo primo libro Nell’Egitto antico e moderno edito nel 1932 e poi l’altro La storia di Riesi dalle origini ai nostri giorni pubblicato nel 1934 e cioè dopo che poté raccogliere i fondi ricavati dalla vendita effettuata dal suo primo libro. Per la compilazione del suo secondo volume s’era avvalso delle notizie che aveva potuto apprendere dai suoi parenti che ebbero lunga vita terrena. Egli non si sposò, rimase con la mamma finché visse costei, poi abitò a casa di sua sorella ove morì l’8 novembre 1942. NOTA Biografia copiata dal libro "UOMINI, FATTI E ANEDDOTI NELLA STORIA DI RIESI" di Luigi Butera Cap. I Scopo del libro Lo scopo per cui scriviamo questa pagine, è semplicemente quello di far conoscere ai lettori le vicende più o meno storiche del nostro paese, di Riesi, rintracciandone le origini narrandone la storia, fornendoci di notizie, raccolte or qua, or là; siccome abbiamo promesso, ci azzardiamo a pubblicare “La storia di Riesi” sperando che possa essere bene accetta. Sotto l’impulso di questo desiderio, sotto questo punto di vista, nel narrare tutto ciò che sappiamo intorno al nostro paese, facciamo assegnamento non solo sulle nostre povere forze, ma su ciò che ci hanno detto e ci dicono gli altri. Per tradizioni udite, per informazioni assunte, per ricerche fatte, siamo riusciti a sapere qualche cosa: speriamo quindi che la nostra fatica non sia stata vano. Se il fine però è buono, i mezzi, come appresso si vedrà, sono scarsi. Riesi, essendo uno degli ultimi paesi nuovi, anzi nuovissimo della Sicilia non ha un vecchio Castello feudale, come ce ne sono tanti negli altri paesi che ne attestano la paternità e il nome di battesimo; non ha monumenti che indicano lo scopo per cui fu fondato; non ha documenti, manoscritti di sorta onde poggiarsi. Insomma Riesi non ha una vera e propria storia con la quale potere narrare i fatti accaduti nelle diverse epoche: tutto questo lo abbiamo architettato noi a furia di congetture. Gli è vero che il Giusti dice che — i1 fare un libro è meno che niente, — ma noi confessiamo di non essere all’altezza di tanto; tuttavia lo facciamo, implorando la benignità del lettore. La storia è la maestra della vita, ma essa va soggetta alla critica, la quale se è ben fatta, porta buon frutto; ma se è mordace, fa più male che bene. Trattandosi di un paese come Riesi, è bene che la critica ci sia, e noi l’accoglieremo col beneficio dell’inventano bene inteso, va da se; ma col fermo proposito di migliorare quanto diciamo. Incoraggiati, sorretti da questo sentimento, ci facciamo lecito stampare quanto diciamo, poiché queste pagine ci sono state suggerite di scriverle per fare un’opera buona per il nostro paese; del resto chi ne sa più di noi, faccia meglio. I paesi non nascono come i funghi che si trovano or qua, or là non seminati ma essi hanno bisogno di essere ricercati, coltivati e sorretti. Noi quindi dobbiamo prima di tutto attingere, ricercare delle notizie per sapere come e quando nacque il nostro paese; secondo, chi sono stati i padroni; terzo, chi furono i primi abitatori; quarto, lo sviluppo e lo accrescersi della popolazione; quinto, gli uomini di genio e i grandi che onorarono ed onorano il nostro paese; sesto, le lotte religiose e politiche, politiche e religiose, per cui Riesi è diventato un paese scettico in fatto di Religione; settimo infine il miglioramento, il progresso fino ai nostri giorni. Nel compilare il presente libro, ringraziamo tutti coloro che ci hanno dato una mano di aiuto, specialmente l’attuale nuovo Parroco Rev. Cav. Ferdinando Cinque da Barrafranca, il quale ci è stato largo di aiuto, mettendoci a disposizione l’archivio della chiesa Madre. Per sapere le origini di Riesi e chi furono i padroni di queste terre, nelle quali si fondò il nostro paese, ci serviamo del libro dell’avv. Don Gaetano Pasqualino Pasqualino con Il diritto nella storia; faremo conoscere in seguito lo accrescersi della popolazione mercé la chiesa Madrice per le nascite, i battesimi, matrimoni e morti, non che del Municipio per le nascite e i morti di date recenti, poiché i. Registri cominciano dal 1820; l’aiuto della Casa Fuentes non ci è mancato in parte; circa la storia raccogliamo quel che abbiamo saputo dagli antenati, dai nostri nonni,, dai nostri padri, i quali per tradizioni avute, ci fecero sapere quel tanto che ci è necessario; il progresso infine lo si è visto, lo si vede tutti i giorni. Dobbiamo dire ed inoltre fare osservare fin da principio che il nostro paese essendo un paese interno della Sicilia, isolato, che non ebbe nel passato mezzi di comunicazioni celeri, ha sempre fatto da sè, progredendo. Come una pianta di giglio che in un vasto campo attorniata di spine, lotta ed emerge, così si può paragonare il nostro paese. E difatti fra le innumerevoli difficoltà della vita stentata del popolo, si è riusciti a formare un paese simile agli altri paesi della Sicilia; anzi, diciamo di più: oggi è un paese degno del consorzio civile, invidiabile per la sua posizione, il benessere e l’attività dei suoi figli. Nacque povero, ma a furia di sacrifici, di lavoro, di miglioramenti, siamo giunti a questo punto. Tutto ciò lo vedremo man mano che si presentasse l’occasione; per ora diciamo che ogni riesino, dovrà conoscere l’origine e la storia del suolo nato per vedere chi fummo, chi siamo; che ci insegna la storia, la nostra storia. Chi n si interessa del proprio paese? chi non ama la storia? Essa ci diletta, facendoci ripetere col poeta: Il più bello di tutto il Creato È il paese dove sono nato; Qui ogni santa memoria s’aduna, Ogni fiore e ogni beltà; Qui di fiori ebbi sparsa la culla, I miei padri qui sepolti stan. Se l’uccello ama il suo nido, se le fiere amano le loro tane, l’uomo deve amare il suo proprio paese; e l’amerà ancor più apprezzandone i meriti per mezzo della storia, la quale ha per scopo di farci conoscere i fatti accaduti e ce li poni innanzi per il nostro ammaestramento. E i fatti che sono accaduti a Riesi, fin dal principio della sua fondazione, sono tanti e tali che sono degni di rilievo. Peccato che essi fatti non siano stati tutti registrati epoca per epoca e noi ne ignoriamo una gran parte Però ci atteniamo quelli che ci sono noti e crediamo che bastino per informare i lettori di quanto si dice di Riesi, mettendoci al corrente del passato. Questo e non altro è lo scopo del nostro libro che ci è costato tempo e fatica. Noi lo pubblichiamo sperando che ci si venga in aiuto alle spese della stampa che ancora oggi costa cara; e facciamo dei sacrifici, pur di avere un libro che ci parli della nostra storia. La nostra divisa è: Dire il bene, ovunque si trova, lasciando il male. Ciò posto incominciamo a vedere anzitutto l’origine, il principio di Riesi, dando uno sguardo retrospettivo alle terre che formano l’oggetto del nostro lavoro. ** Torna su ** Cap. II I feudi di Cipolla e di Riesi La prima cosa, che fa risaltare agli occhi di tutti, il nostro Don Gaetano Pasqualino Pasqualino nel suo libro che a noi qui ci serve di scorta è di sapere che Riesi e Cipolla, furono in antico, due grandi feudi interni della Sicilia, la quale, diciamo noi, passata dalla dominazione dei Saraceni agli altri governi, i sopra detti feudi furono abbandonati a se stessi, senza che per lungo tempo, e prima delle fasi del feudalismo, fossero cercati da alcuno. Ignoriamo completamente donde derivano i nomi di Riesi e Cipolla, perché tramandati dall’oscurità dei tempi. Giova pertanto sapere che detti feudi molto distanti da Palermo, lontani da Caltanissetta e dagli altri paesi vicini, come Butera, Barrafranca, Mazzarino, Pietraperzia, Sommatino e Ravanusa; traversati dal fiume Salso, non furono le terre cercate ne dagli Stati di allora, nè da singoli: sicché erano delle terre incolte, che neppure forse, vi pascolavano. mentre quelle dei su mentovati paesi, nei territori, erano beneficate. Nessuno quindi vi penetrava. perché sconosciute al demanio dello Stato: perciò possiamo dire, anzi affermare che Riesi e Cipolla erano in preda dei lupi, i soli padroni. crediamo noi. Si crede però, ed è probabile, che qui vi furono gli arabi o i Saraceni, i quali regnarono in Sicilia due secoli e mezzo, dall’ 831 av. C. al 1072, epoca nella quale Ruggero il Normanno li cacciò via. Essendo essi popoli nomadi, si sparsero dappertutto nell’isola; stabilendosi or qua, or là, ebbero a ridursi anche da queste parti. Vuolsi che sulla collina della Capreria fosse esistito un villaggio arabo, i di cui abitanti invasero il territorio, come rilevansi da alcune grotte dai ruderi di terra cotta, dai cadaveri che si sono trovati, scavando in diversi punti; cadaveri che mostrano come erano seppelliti in sarcofaghi di mattoni coi loro riti e costumi. Ad onor del vero i Saraceni con la loro presenza non ci fecero del male, anzi ci lasciarono le tracce della loro civiltà. E difatti ci coltivarono le terre, ci importarono le piante di olivo, del carrubo, del mandorlo, i fichi d’india e persino la palma che non frutta. In prova di ciò si crede che i due boschi di olivi e pistacchi nei territori di Riesi e Cipolla, siano stati opera dei Saraceni; come credesi pure che l’arte di lavorar l’argilla, viene da loro: inoltre al punto denominato la Sanguisuga esisteva una fontana con una cupola di gesso detta Cubba. Ora la parola Cubba è parola araba e significa luogo d’acqua abbondante. Spazzato via questo di mezzo, che abbiamo voluto narrare sui Saraceni, ritorniamo sui nostri passi. Venuti in Sicilia dopo i Normanni gli Austro-spagnuoli, eccoci alle investiture dei due feudi in parola Riesi e Cipolla, non ricercati, abbandonati, per cui il Pasqualino si afferma storico ricercatore. Pria di andare avanti, è bene dire due Parole qui intorno alle investiture, per avere un’idea circa il feudalismo e le tali investiture che giunsero fino a Riesi. Entrato Carlo Magno in Italia nel 1100, costui da Imperatore francese, assoggettata tutta la penisola a sè, istituì nei Comuni il feudalismo, dividendo le terre ai signori più furti. Nato il feudalismo dalla proprietà, ne vennero fuori i principi, duchi, marchesi e baroni coi loro castelli e i vassalli che erano i poveri. Mentre i signori erano tutto, i vassalli erano niente: dovevano ubbidire ai loro padroni, lavorando la terra, pagando le tasse, senza nessun privilegio con tutti i loro doveri e dovevano star zitti. I vassalli perciò erano dei diseredati della fortuna, i signori erano dei privilegiati. Essi, profittando della legge, del tempo e dell’oscurantismo, commettevano ogni sorta di abuso. La Sicilia seguendo tale sistema divenne feudalista. Principi, duchi, marchesi, baroni divennero feudalisti in virtù delle Investiture, cioè della divisione delle terre ed è perciò che si fabbricarono dei Castelli, ed è per ciò che dominavano nei loro territori sopra i vassalli. Questi tigli della disgrazia generavano dei poveri coloni, atti a coltivar la terra, senza nessun profitto, salvo quello di mangiare e vivere stentatamente, nuotando nella miseria. Anco gli operai erano soggetti ai padroni del feudo, vivendo senza i diritti dell’uomo. E questo stato di cose durò tutta la lunga notte del Medio Evo. A dir la verità i coloni di Riesi non conobbero tutte le brutture del feudalismo che permetteva persino le primizie dei padroni nei matrimoni; salvo qualche abisso o sopruso degli amministratori locali, del campiere o di qualche signorotto che approfittavano del tempo e della carica; a Riesi di grave, di positivo, per quanto sappiamo, non ci fu nulla. Epperò è giusto notare anche che le investiture per i feudi dì Riesi e Cipolla, giunsero con ritardo qui. Fatta questa considerazione, rivolgiamoci dunque alla storia allo scopo di apprendere chi furono i possessori di queste terre. Da ciò vedremo lo svolgersi delle diverse investiture dei diversi governi concedenti le dette terre a coloro che l’hanno posseduto, facendone l’uso di cui si vedrà appresso. Siccome furono concessi a dei padroni stranieri, così da lontano,l’hanno fatto amministrare. ** Torna su ** Cap. III Le investiture Nel libro sul diritto nella storia, del dotto, vecchio avvocato Sig. Gaetano Pasqualino Pasqualino, mancato ai vivi il 4 Giugno 1931 alla bella età di 82 anni, libro che scrisse a proposito della Rivendica degli usi civici a favore della popolazione di Riesi nel la causa contro i principi Pignatelli-Fuentes con azione privata di singoli cittadini, formando la Società di Resistenza poscia assieme al Comune, nel detto libro adunque troviamo la base, si può di re, del nostro lavoro per le investiture di Riesi e Cipolla; con le quali investiture si viene a capo di quanto vogliamo sapere circa l’origine della proprietà che diede luogo al nostro paese. Con questo suo interessante, pregevole lavoro di interessanti ricerche, il Pasqualino ci fa conoscere le date e i nomi : le copiamo acciocché i lettori ci seguano. Secondo lui la prima investitura di Riesi e Cipolla, avvenne neI 1393 dal re Martino I°, che noi sappiamo essere venuto in Sicilia nel 1394 dalla Casa Aragona (Spagna), Egli concesse questi due grandi feudi a certo Federico Moac, spagnolo col titolo di Baronia. Però stando al Pasqualino, lo stesso Re Martino tolse i due feudi alla moglie del Moac, rimasta vedova, e li concesse a Palrmerio De Caro, un soldato di Licata, per servizi prestati allo Stato. Ciò “per ragioni politiche”. Ma — sempre dietro la scorta del Pasqualino — gli eredi della signora Ventimiglia dopo 56 anni, cioè nel 1453, reclamarono i loro beni e ne ottennero l’investitura da Simone Bologna, Presidente del Regno. Andrea Ventimiglia perciò — seguendo il diritto nella storia — fu il possessore dei su mentovati feudi. Alla morte di costui, siccome non aveva figli, la proprietà passò al nipote Ingastone di Castellar, il quale dovette ricorrere in Tribunale, perché dalla Regia Corte gli si negava tale diritto; ma la Regia Magna Curia gli diede ragione e nel 1476 ne ebbe l’investitura. Il detto Ingastone di Castellar — continua a narrar l’A.— sposando a Roma Donna Giovanna di Lanuzza, ebbe per figlia unica Eleonora, la quale andò sposa a Don Giovanni De Roys de Calcena che ebbe in dote i feudi di Riesi e Cipolla per la investitura del 1505. E dopo venne la volta — informa Don Gaetano — di Don Pietro Altariva che fu investito nel 1621, quale erede unico di Anna de Urries, la quale morendo lasciò come erede universale sua figlia Beatrìce Altariva Urries. Costei sposò Don Diego Moncaio che fu investita nel 1607. A lui gli successe il figlio primogenito marchese dì Coscoquela che nel 1609 possedette i due feudi. Indi passarono nelle mani dì Donna Francesca Heredia Ventimiglia per rinunzia fattale dal padre nel 1737 Finalmente — conclude il nostro maestro e Autore — nel 18 Agosto del 1742 passarono a Dan Giovanni Pignatelli d’Aragona, principe, primogenito di detta donna. Fin qui a dunque il nostro Pasqualino che continueremo a citare. Come si vede i proprietari di queste terre sono stati i principi Pignatelli-Fuentes d’Aragona. Questa potentissima, ricchissima famiglia viene da un incrociodei nobili principi di Napoli con conti di Fuentcs, influenti signori di Spagna, come leggesi nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni del i6oo. Il duca di Solferino, uno degli eredi della predetta famiglia, ci fa sapere che i suoi antenati furono dei guerrieri che combatterono in Italia, specialmente contro i Mori; ed è per questo motivo che hanno dei possedimenti a Cerignola (Puglia) e a Solferino (Lombardia) Detta famiglia adunque è molta antica: nessuna meraviglia, se in Sicilia ebbero tanti possedimenti, tra cui Riesi e Cipolla. ** Torna su ** Cap. IV tentativi di un casale I primi possessori di queste terre, trovandosi nella Spagna, vi mandarono qui dei Campieri, i quali facevano sorvegliare i su menzionati feudi, facendoli coltivare come meglio potevano e credevano: appresso vi mandarono degli Amministratori per rendersi conto dei loro averi. Nei primi tempi il raccolto dovette essere scarso, perché ci volle un po’ po’ di tempo per dissodare le terre ed avere i confini. Sul vasto territorio poco alla volta cominciò a delinearsi, a migliorarsi e a produrre; i proprietari, sebbene da lontano, ne tennero conto, tanto vero questo che, come abbiamo visto, la proprietà se la passarono di mano in mano nei matrimoni. Ma non contenti di ciò, vi volevano far sorgere un Casale per meglio amministrarla ed avere l’onore di possedere un abitato in questi luoghi per contare di più presso i! governo spagnolo. Avutola in dote il De Roys de Calcena, questi pensò di mettere mano all’opera per un Casale nel feudo di Riesi allo scopo di concentrare l’amministrazione diretta ed avere dei vassalli. E ciò in virtù d’un privilegio accordato dal re Ferdinando d’Aragona, presso il quale era impiegato come Segretario e che gli concedeva pure di fabbricarsi un Castello all’uso dei tempi come risulta dal libro del Pasqualino. Il De Roys fece chiamare dei contadini a Riesi per lavorare anche a Cipolla. Bisogna considerare che dopo la Casa d’Aragona, venne a regnare in Sicilia la Casa d’Austria e Spagna. Siamo quindi al tempo di Carlo V, 1500. Questo Imperatore ordinò di fabbricarsi il primo ponte sul Salso, precisamente a Capodarso su due serre, detto “il ponte del diavolo” per congiungere le terre di Caltanissetta, Pietraperzia e Riesi; e un’altro ponte consimile doveva sorgere da quest’altra parte del Saiso, a Tallarita con la serra dell’Aquila e quella di Palladio con in mezzo un pilastro, detto “il Bastione di Carlo V” che esiste tuttora, per congiungere le terre di Ravanusa con queste di Riesi; ma esso ponte rimase all’inizio e non ne sappiamo il perché: forse rimase in asso, perchè si cominciò più tardi dopo la morte dell’ Imperatore. Ad ogni modo il De Roys fu sotto buoni auspici per il suo Casale di Riesi. I coloni di questa prima impresa — afferma il nostro concittadino — si stabilirono a ridosso della collina santa Veronica che noi chiamiamo “la montagna” e precisamente di fronte alla Capreria dalla parte nord-ovest, dove a basso c’è il vallone di S.Giuseppuzzo e il Margio; cosa che a quei tempi, ci fa supporre, esservi acqua abbastanza. Ad ogni modo il Casale sorse li. Una canzone contadinesca che si accompagna con lo scacciapensieri, lo strumento tradizionale dei nostri contadini, rispecchiando quei tempi e questi luoghi, nella nenia si esprime proprio così; Ci vo’ vaniri dda-banna Riesi,, Unna cci su pagliara comu li casi E d’intra ci su picciutti comu li rosi Il che significa che il lavoro e l’amore attirarono altri a venire da quella parte della collina “cci su pagliara comu li casi” vuoi dire che il Casale per lo più era formato di pagliaia; che gli abitanti, i primi abitatori di quell’epoca si accontentavano di vivere in quella maniera, zappando la terra dei de Calcena, la cui moglie Eleonora di Castellar di Lanuzza, si disse che desiderava, spronando il marito avere non solo il Casale, ma eziandio il Castello. Crediamo che i primi ad arrivare in detto luogo furono i pietrini(Pietraperzia), perché più vicini; poscia furono quei di Caltanissetta e forse dalle parti di Palermo, giacchè ne avevano avuto sentore a mezzo del ponte di Capodarso. E’ da supporre che il nascente Casale nacque nei primi 25 unni d ‘500 e che si andava formando. Le famiglie però vivevano in continua agitazione per due ragioni; prima, perché in mezzo ai lupi che infestavano le campagne, gli abitanti privi di mezzi e senza armi nei boschi, non potevano difendersi; secondo, li vagavano i Saraceni che andavano di notte rubando i bambini col motto: “dove c’è fumo c’è cristiani”; motto che si spiega col fatto che vedendo fumo nelle case e nei pagliari, si avvicinavano per la preda. Essendo Riesi nella zona marittima di Terranova, oggi Gela, era facile un simile caso. Il Casale però non durò a lungo, si distrusse, non sappiamo quanto durò, ne come e perché si distrusse, Don Gaetano ammette la malaria ed altre cause che non spiega, qualcuno crede che vi sia stato un terremoto: fatto sta che gli abitanti fuggirono e il feudo restò deserto. Nello arare la terra sabbiosa dietro la montagna si son trovati le vestigia del distrutto casale tra masserizie, oggetti di terra cotta e persino, si disse, le fondamenta di una chiesuccia. Nella oscurità dei tempi in cui vissero quei primi abitatori, non ci permettono di fare dei nomi, ne di andare più oltre. Un altro tentativo riuscito più fortunato, di cui parla a lungo il Pasqualino, del secondo Casale di Riesi, fu quello invece di Don Pietro Altariva, “dopo 135 anni” . Di origine italiana, (i) egli, dopo la di lui investitura ottenne il decreto dal viceré di Sicilia, Filippo III° d’Austria di ripopolare il distrutto casale di Riesi, e di esercitare sugli abitanti “il mero e misto impero”. A tal uopo l’Altariva nel 1634, fece fare dal suo amministratore Cristoforo Beninati, l’invito ai contadini degli altri paesi, concedendo loro larghi privilegi, e cioè: le terre in gabella o a censito perpetuo, col canone da pagarsi sul luogo; il diritto di legnare, gessare, raccogliere erbe, lumache e di estirpare la liquirizia sulle rive del fiume: insomma i diritti d’uso civico o promiscui. Pare accertata la data che il nuovo Casale di Riesi cominciò nel 1612, perché si fece una masseria laggiù al Canale. Stavolta i nuovi arrivati si collocarono ivi, da questa parte di fronte a santa Veronica dove c’era molta acqua, sulla parte rocciosa nelle vicinanze del Margio. Indi sorsero le prime casuccie povere, basse, attorno alla masseria, alla meglio; i pagliara, le grotte, onde ripararsi i contadini dal caldo e dal freddo. La vecchia canzone si ripete anche qui e i contadini che venivano lavoravano la terra, che è la gran madre di tutti, affezionandosi al suolo sotto la guida dei campieri vi si stabilirono. Onde scansare la malaria si allontanavano dal Margio, salendo in su sulla pietra e aumentavano. La prima viuzza stretta, ripida a zig zag con l’agglomeramento delle casuccie, nacque sull’altura di giù in su, dove ora c’è il Cinema teatro: col nome di Donna Ciucella, da una donna faccendiera, residente ivi. Come osservasi il neo Casale si andava formando con altre vie più o meno larghette e lunghette dalla destra della parte montuosa, giungendo fino alla Pietra piatta. Ivi sorsero due vie larghe, una diritta in su, l’altra a sinistra verso la campagna con un agglomeramento di famiglie numerose. A prima vista credevasi che dovessero fermarsi la, ma l’abitato cresceva mercé la prolificazione e altri nuovi arrivati, di guisa che te casuccie aumentavano nei dintorni sulla pietra a venire da questa parte; i coloni si sentivano più sicuri stando uniti in quartiere. ______________________________________________ (I)Parma di Piacenza, prof. Gravina, Araldica ** Torna su ** Cap. V i magazzini – la parte intellettuale o i dirigenti – il palazzo – la prima chesetta - le feste In quel primo momento l’amministratore dei feudi fece fabbricare per conto della proprietà, ai piedi della montagna i magazzini per la raccolta dei cereali e delle olive e un trappeto per la macinazione onde avere l’olio: i primi furono fatti dove c’è la Flora dei Jannì, il secondo nella straduzza di Donna Ciucella. Successivamente a ciò vennero i due fratelli Rubbios dalla Spugna, uno dei quali nella qualità di amministratore, l’altro per prendere delle terre a censito. Essi, possedendo numerosi animali impiantarono una grande masseria. Si fabbricarono il palazzo alla punta dell’altura, d’una nuova via che va verso il poggio ove da una parte e dall’altra sorsero delle casette, divenendo la via dei Rubbios lunga e larga. La casa sorse coi balconi e delle camere sui dammusi; un gran cortile aveva magazzini e stalle. Dentro il salone sontuoso fu un lustro; al disopra fecero mettere lo stemma della loro famiglia. Erano tanto ricchi i Rubbios che a quel tempo prestavano della moneta al Municipio di Caltagirone. La prima piazzetta sorso avanti la casa, duve i contadini coloni si riunivano la Domenica sera per i loro affari coi signori Rubbios. Questa famiglia poi si apparentò coi Golisano che furono dei primi massarotti, i quali incominciarono a fiorire, ed erano venuti da Ravanusa. Dopo Venne uno dei baroni Camerata di Piazza Armerina che stabilitosi qua prese a censito tutte le terre che dalla montagna vanno a tutto Castellazzo. Messa su casa, la famiglia si fabbricò il così detto altro palazzo sull’altipiano del Crocifisso, composto di quattro camere, i dammusi ed un cortile che dà alla Pinninata e all’altra via che scende pure al canale. I Cammarata erano qui di dei nobili parenti con quei di Butera. Appresso Venne certo Don Costantino Sanfilippo di Agira, prov. di Catania. Ricco e intellettuale personaggio si stabili dalla parte del Canale in su fabbricandosi delle camerette per la sua famiglia, coltivandosi delle terre. Egli fu il primo borgomastro di Riesi, cioè il Sindaco. Visto cosi la proprietà fece erigere la prima chiesetta. sull’altipiano accanto ai Cammarata. Essa cominciò a servire di Madrice, facendo Venire un prete da Mazzarino. Ma la chiesetta trovando il terreno frollo, si diroccò subito. Allora l’amministratore e i pochi, ricchi, i primi massarotti, pensarono di far fabbricare la chiesetta del Crocifisso accanto alla diroccata . E’un errore il credere che la prima chiesa sia stata quella del Crocifisso, essa fu la seconda che servì poi di Madrice. I muratori che la fabbricarono furono due fratelli Giambarresi, Daniele e Salvatore, venuti da Modica, provincia Ragusa. Di piccola dimensione, bassa venne di stile semplice con due merletti e due entrate a scaloni. L’interno misura 24 metri di lunghezza con 7 di larghezza, pari a mq. 148. Sotto. pavimento è vuoto per la fossa dei morti; in fondo l’altare maggiore presenta l’aspetto d’una chiesetta di campagna e di fronte ha l’organo: le pareti imbiancate a Stucco mostrano quattro quadri e al disopra un cornicione. La piccola Sagrestia l’abitazione del sagrestano di dietro indicano che la chiesetta fin dal 1630 cominciò a funzionare bene; campanile e campane non ce n’erano fino ai principio del i8oo. Aperta al pubblico, nella piazzetta detta il piano, il sagrestano suonava una Campanella a mano indicando l’ora della messa e le feste solenni. Questa chiesetta che fu dedicata al Crocifisso serviva di Madrice nei battesimi, matrimoni e sepolture. Il proprietario dei feudi vi mandò in regalo un Cristo di avorio che è stato giudicato d’una bellezza artistica. La festa del Crocifisso si cominciò a celebrare ogni anno la seconda Domenica di Ottobre con la processione dal piano del Crocifisso al palazzo Rubbios nell’ora del Vespro. Il prete mazzarinese, visto che la festa era riuscita, fece balenare in mente di celebrare l’altra festa principale di Pasqua con la processione del Venerdì Santo. Allora una croce di legno fu piantata su un piedistallo di gesso, laggiù al Canale avanti i magazzini. La processione si faceva col prete alla testa, molti uomini con una tovaglia di bucato al collo e le candele a olio, dette lumiere in mano: solo in quella occasione le donne uscivano di casa, nella primavera stagione dei fiori. La processione prendeva il piano, passava dalla Casa dei Rubbios e se ne scendeva al Canale per la Petrapiatta; al ritorno prendeva dall’altra Parte del Canale e saliva in chiesa. Così ci sono state descritte le due feste. Il Canonico Vincenzo D’Amico, nella sua pianta topografica della Sicilia, vi annovera 400 case come si diceva allora nel feudo Casale di Riesi, il che fa circa 2 mila abitanti. ** Torna su ** Cap. VI giudicato – caserma e carcere - municipio Il Governo di allora in Sicilia, informato di questo nuovo villaggio, impose di istituire il Giudicato per la giustizia la Caserma per le guardie e il Carcere per i rei. L’amministrazione locale dell’Altariva, d’accordo col borgomastro provvidero a ciò, prendendo i locali al piano del Crocifisso. Per il Giudicato presero una cameretta dei Cammarata con l’entrata dal cortile; Caserma e Carcere in due case terrane dello stesso cortile di proprietà degli stessi Cammarata. Il primo Giudice venuto a Riesi, fu un certo Liberto Gueli di distinta famiglia da Mazzarino; come Cancelliere venne un certo Antonino Ministeri da Noto (Siracusa), trascinandosi da Usciere Don Angelo Ministeri proprio parente. Tutti e tre questi signori si stabilirono a Riesi, prolificando, progredendo, tanto da diventare proprietari. Il Giudice si fabbricò delle casette a pianterreno più in giù del piano; il Ministeri una casetta al piano, dopo i Cammarata e l’Usciere delle casette a basso verso il Canale. Oltre le guardie, delle quali non sappiamo precisare il nome, i Campieri della proprietà erano autorizzati ad arrestare i ladruncoli nelle campagne e condurli legati con corda in carcere. Tutto era concentrato quindi al piano del Crocifisso. in un libretto pubblicato dalla Casa dei principi Pignatelli Fuentes, anni fa, sono elencate alcune casette di villici con sentenze emesse dal Giudicato. Cosi un tale per aver rubato una zappa fu condannato a tre giorni di carcere e un franco di multa; fra due rissanti a 5 giorni; un marito per avere maltrattato la moglie a un giorno. La punizione era pane ed acqua all’oscuro. Il Corpo delle guardie stava a sorvegliare i condannati di giorno e di notte. Esisteva fino al 1850 la sedia del Giudicato, fatta venire da Licata; sedia ereditata dai Cammarata, sedia a braccioli in legno. Il borgomastro in seguito affittò una cameretta dai Ministeri per la sede del Municipio. Là si ricevevano gli ordini dalle Autorità di Caltanissetta per la parte amministrativa dal Luogotenente del Vicere. Giustizia adunque, Municipio e amministrazione reggevano il villaggio. In quanto alla chiesetta della prima Madrice, il prete dipendeva dal Clero di Mazzarino, il cui Parroco veniva di tanto in tanto. Abbiamo potuto raccogliere tutte queste notizie accampate in aria, senza metterci nulla del nostro, data prima epoca di confusione. Ci si fa sapere che nella chiesetta del Crocifisso, precisamente in Sacrestia, vi erano dei quaderni, in cui venivano registrati gli atti di battesimo, di matrimoni e di morte; ma i topi roditori ne fecero strage, di guisa che intorno a quella prima epoca siamo perfettamente al buio, congetturando quanto diciamo. Però è bene sapere che il villaggio cresceva di numero e di casuccie dalla parte di Pietrapiatta verso il poggio. Quivi si cominciarono a formare due file di casuccie creando una via molto larga a venire in basso. ** Torna su ** Cap. VII la chiesa della madrice – la baronia – delineazione del borgo Qui a basso non ci si poteva venire, perchè vi era un ammasso di acqua morta, roveti ed erbaccia; ma la mano d’opera dei coloni, sotto la guida dei Campieri, fece si di sgombrare ed asciugare tutto, fino a trovare il taio. Si va verso la fine del 1650 e le cose si volgono al meglio. Quando il proprietario Don Pietro Altariva intese nel 1645 che nel suo feudo di Riesi, il villaggio aveva preso consistenza, incamminandosi a diventare un borgo sul serio, ideò di far fabbricare la chiesa padronale della Madrice, non bastando più la chiesetta del Crocifisso per i bisogni spirituali della nuova, nascente, ancor piccola popolazione. A tal uopo nel dettò anno 1645, si fece fare da un Architetto in Palermo un progetto da eseguirsi sul luogo. Venuti i capi d’arte palermitani, per la bisogna si scelse tutto il piano di circa due tumoli e mezzo; la parte rocciosa servì per la costruzione del nuovo Tempio. Nel progetto è detto che la chiesa doveva essere fatta a tre navate ed a Croce greca e le nuove vie dovevano sorgere lunghe, larghe e diritte come una canna,; cosa che non si fece ne per l’una ne per le altre, ne il piano fu lasciato tutto intero, E di. essa chiesa venne fatta a due navi ed a Croce cristiana. Dopo tre anni di indefesso lavoro fu consegnata la muratura e pare che la facciata sia stata fatta in gesso semplice. La storia di questa chiesa ‘Madre, è compendiata in due lapidi marmo, poste all’entrata principale alle pareti di destra e di sinistra. Esse lapidi, tradotteci dal Rev. Cav. F. Cinque, il parroco, dal latino, ci dicono, quella di sinistra: A perpetua memoria. Sia a lutti noto che l’ill.mo Don Piero Altariva, barone di questo Stato, dopo che curò d’abitare questa eresse la chiesa Madrice per il servizio di Dio e la salute delle anime; ed in essa fondò un beneficio Curato di diritto padronale come si legge negli alti del Notar Baldassare Calderaio in Palermo, 10 Luglio 1648. Essendosi però diroccata la vecchia chiesa il 25 Marzo 1726, l’Eccellentissimo signor Don Bartolomeo de Moncajo, Marchese di Coscoquela, barone di detto Stato,per devozione a proprie spese, questo magnifico Tempio riedificò. E siccome nell’anno 1734, la maggior parte di questo Tempio per puro caso rovinò, l’ill.mo Don Clemente ed il di lui figlio Don Biagio Vincules,nella qualità di Procuratori generali, curarono di restaurarlo. Finalmente nel giorno 9 Maggio1747 Matteo Trigona, Vescovo di Siracusa, Prelato domestico al sacro soglio Pontificio e Consigliere del re, per sua grazia con rito solenne la consacrò elevando a Basilica, essendo Reggente Don Antonio Guliana, Dottore in sacra Teologia. L’altra di destra dice: Regnando Benedetto XIV Pontefice Massimo e Carlo di Borbone re delle due Sicilie al tempo di Don Giovanni Pignatelli,conte di Fuentes, fondatore di Riesi barone d’Altariva, essendo Procura/ori generali i Vincales, Matteo Trigona Vescovo di Siracusa ecc. consacrò questa Basilica eretta alla SS. Vergine della catena e devotamente dedicata ai SS. martiri Clemente, papa e S. Sabina. E ricorrendo il giorno della consacrazione, a tutti i cristiani fedeli in questo Tempio, elargì 40 giorni di vere indulgenze per lo stesso giorno della consacrazione prescrisse l’Ufficio e la Messa da celebrarsi. La chiesa cominciò a dipendere dalla diocesi di Siracusa essendo queste terre considerate nella valle di Noto. Riferendoci a questi due documenti storici, sappiamo quindi che la chiusa della Madrice fu rifatta, si può dire tre volte; che essa fu dedicata alla Madonna della Catena, padrona di Riesi e ai compatroni San. Clemente e Santa Sabina: per la Madonna in virtù d’un miracolo operato a Palermo, a tre condannati innocenti che nel giorno del supplizio, accompagnati dalle guardie, a cagione di un temporale si ripararono in una Cappella di campagna dedicata alla Vergine pria di giungere al luogo della forca, le guardie, stanche, si addormentarono e i prigionieri si rivolsero alla Madre santissima e le dissero: Voi sola sapete se siamo innocenti; liberateci Voi . La Madonna scese, tolse loro le catene e quelli fuggirono. Svegliatesi le guardie non trovarono i prigionieri, ma videro li. catene appese alle mani della Madonna e gridarono al miracolo che si sparse in tutta l’isola: laonde i signori d’Altariva vollero che la chiesa della Madrice di Riesi fosse dedicata alla Vergine sotto il titolo della Catena. (Da un sermone stampato dal Can. Don Vincenzo Butera nella chiesetta del Crocifisso il 1845). Sappiamo poi che ‘nella chiesa della Madrice la facciata venne rifatta con pietre da taglio di stile dorico castigato; difatti la cornice, le colonne e i capitelli sono molto semplici; che la Sagrestia venne dalla discesa, accanto alla quale vi era un deposito per la cerimonia dei cadaveri, mentre la fossa comune era nel sottosuolo del pavimento che è tutto vuoto. Essa misura metri 40 di lunghezza con metri 10 e più di larghezza, il che fa circa 500 mq. Dalla base al campanile misura metri 27. Al disopra dell’entrata di mezzo ad una grande finestra fu posto lo stemma dei principi Pignatelli Fuentes. L’interno della chiesa è a Croce, abbiamo detto, ed è venuta un gioiello. In fondo vi è l’altare maggiore di marmo porfido, finissimo, scolpito con disegni; al disopra havvi la Cappella della Madonna, la di cui immagine, fatta venire da Palermo, è una vera bellezza d’arte; ai due lati vi sono le due statue di gesso al naturale dei compatroni S. Clemente e santa Sabina; il cielo o la cupola è una meraviglia, perché grande; ai quattro spigoli si vedono le statuette in gesso dei quattro Evangelisti S. Matteo, S. Marco, S. Luca e S. Giovanni; a basso una scalinata con cancellata di ferro, divide il popolo dal Clero per la Messa e le funzioni religiose, il quale Clero per i sacerdoti ha degli appositi sedili in legno finissimo; l’organo e il pulpito, di fronte, stanno nel mezzo della chiesa per potere il popolo sentire, udir bene. Passando nella Croce di destra, un altarino è dedicato al risorto o il Sacramento: un’altra piccola scalinata e cancellata per assistere una parte del popolo alle funzioni della essa detta dal Parroco o da un sacerdote; nella parete a destra un altarino è dedicato a S. Antonio, la cui statuetta in marmo è ben fatta; di fronte alla parete, un bellissimo quadro in una cornice di legno chiuso a porte mostra la Madonna Grazie che si crede opera d’arte del 400. Nell’altra parte della Croce di sinistra, l’altarino è dedicato al Cristo morente sulla Croce, con una statuetta in legno espressiva. Anche qui una statuetta alla Vergine. Da questa parte si immetteva nella Sagrestia per i paramenti e l’archivio , nonché per salire nell’organo. Per i quadri e gli affreschi dello pareti e per Il tetto fu fatto venire il pittore Gonzales da Madrid (Spagna). Essi quadri ed esse immagini religiose sono d’una finezza tale che attirano lo sguardo di tutti. La stuccatura ed altri lavori deI cornicione sono opera di un certo Don Michele Grosso da Bufera un artista dimorante a Gela che visse nell’ 800. Terminata la sopra detta chiesa Madre di Riesi nel 1648, quando era ancora rustica, si può dire, il proprietario Don Pietro Altariva. nel 1650 fu a Messina per stipulare l’atto con cui donava al suo paese questa chiesa della Madrice, dotandola di Are 6 di buona terra al Canale detta la chiusa della Madonna. Indi dalla Curia Vescovile di Siracusa fece nominare a primo Parroco, con una congrua parrocchiale di L.300 annuo, Don Angelo d’Angelo da Barrafranca. Visto ciò il Governo spagnolo nominò l’Altariva barone di Riesi e Cipolla, un grande di Spagna, che poteva sedere al Parlamento a patto di pagare la somma di onze 120 all’anno pari a L 2130, fornendolo pure di 12 cavalli per l’uso militare. Installatosi qui a Riesi il primo Parroco, subito dopo il barone Don Pietro Altariva moriva, ma il borgo e la chiesa Madre con il Clero, per quanto piccolo, restava. Quindi vediamo risorgere l’abitato a migliori condizioni. E difatti due grandi vie si partirono dalla chiesa Madre: una la detta piazza che fu poi il Corso; l’altra la via di Porta Licata che divenne dipoi la via del Rosario. Queste due vie con quella di via, grande che parte dalla chiesetta del Crocifisso, fecero prendere un altro aspetto al centro del borgo. Esse furono il principio di altre vie e traverse, facendo crescere sempre più l’abitato di nuove casuccie, come appresso vedremo. E al tempo dei Vincales con la stessa pietra da taglio fu fabbricato il palazzo della Baronia per l’Amministrazione dopo il 1734 vicino la chiesa, il primo cantone delle due vie. Da queste vie si delineò il borgo; esse furono il fulcro, il principio di nuove casetta sorte più belle e più solide, lasciando i pagliaia, tenendosi solamente, al di fuori, le grotte per i coloni più poveri. ** Torna su ** Cap. VIII festa della madonna e di natale dal 1650 al 1700 Dal 1650 al 700 il Clero di Riesi, fornito di buoni sacerdoti, istituì la festa della Madonna e di Natale. Così il popolino, oltre quelle del Crocifisso e di Pasqua, aveva agio di svagarsi ancor di più. La chiesetta del Crocifisso era una succursale della Madrice e quindi funzionava pure. Quattro feste all’anno per un borgo di 3 mila abitanti, quanti erano alla fine del secolo XVI erano sufficienti a far stare unito il popolino alle due chiese. Rileviamo ciò dai battesimi, matrimoni e morti che si registravano nella Madrice, ove la formula era: in queste terre di Altariva, in questa chiesa sotto il titolo M. della Catena Parroci e Cappellani venuti da fuori facevano a gara per accaparrarsi la simpatia del popolo. Di. fatti i sacerdoti la facevano da precettori nelle famiglie benestanti e i Parroci avevano una scuoletta nella Sagrestia per i figli dei poveri. Dunque la festa della Madonna cominciò a celebrarsi ogni anno la prima Domenica di Settembre. In principio il concorso degli altri paesi fu scarso, ma poi poco alla volta, ogni anno, i forestieri aumentarono a tal segno che la festa prese una proporzione tale da far concorrere tutta la Sicilia e persino gente dalla Calabria; intanto le casuccie aumentavano in queste vie principali, donde le venne poi la via dei Santi al centro; tuttavia la festa si celebrava in mezzo all’erba, alla ortica con pompa, fasto e lusso. L’orchestra di Piazza Armerina e oggi l’antica Enna venivano ad allietare la popolazione in chiesa; due musiche arrivavano da fuori per fare la questua nelle vie e viuzze, giungendo fino fuori le porte nelle campagne; due palchi rizzati al piano, poggiati alla facciata della Madrice, la sera suonavano pezzi scelti di musica classica, tenendo il popolo desto fino a tarda ora: le famiglie si portavano le sedie di casa e stavano sedute fino che la musica terminava di suonare: certamente che, data l’indole del popolino, qualche baruffa, qualche ferimento succedeva, tanto vero che si diceva: non c’è festa senza tamburini per significare che qualcosa doveva succedere sempre. Otto giorni prima, la domenica precedente si apriva la festa della Madonna con le corse dei giannetti venuti da Catania e Messina, dedicate a S. Eligio Vescovo, la cui statua in gesso al naturale, si vede a destra dell’entrata della chiesa. Tutto il popolo accorreva alla testa della Corsa per vedere correre i cavalli al suono dei tamburi, di dopo pranzo, dalla Sanguisuga al Canale al punto dove c’era la Croce. Premi in denaro e in drappi venivano dati ai migliori corridori. Il pieno della festa era dal giovedì sera a tutto il lunedì, per la durata di quattro giorni. Quindici giorni prima, dei negozianti in tutti i generi venivano a piantare le loro capanne in mezzo al verde: ricche gioiellerie da Palermo, drapperie, calzolerie, dolcerie da Caltanissetta, stavano qui per tutto il periodo della festa. Così gli abitanti avevano l’agio di fare le provviste necessarie per tutto l’anno. Gli antichi dicevano che la festa della Madonna della Catena di Riesi era cosi solenne e ricca che i forestieri se ne andavano impressionati Due scherzi di fuoco con l’ossatura al piano venivano sparati la sera della domenica e il lunedì. Il giorno della festa, dalla mattina per tempo fino a mezzogiorno per la Messa cantata, era un via vai di devoti e devote dai paesi a portare a piedi scalzi doni e ceri, mentre alla chiusa si svolgeva la ricca, fiera de!la Madonna. Uscendo nel pomeriggio il simulacro, la processione assumeva un aspetto caratteristico: Clero, musiche e popolo compresi i forestieri, appresso al simulacro con ceri accesi, si ritiravano dopo l’Ave. Il lunedì era pure festa per i Paesani per il grande traffico che avevano avuto durante gli Otto giorni; le musiche restavano , mentre gli altri sfollavano: passata la festa . E l’altra festa di Natale del 25 Dicembre, la chiesa della Madrice cominciò pure a celebrare. Ogni anno il popolo vi accorreva per vedere, alla mezzanotte, la nascita del bambino Gesù. Siccome prima di recarsi in chiesa, gozzovigliavano, molti vi andavano con la testa avvinazzata, di guisa che la funzione si svolgeva tra il baccano, le grida e la confusione. Bella, caratteristica la cornamusa, ciaramedda, strumento tradizionale dei pastori, che uscendo di chiesa allietavano il popolo, specialmente i ragazzi, i quali svegliandosi, si alzavano per sentirla. Non vogliamo lasciar passare inosservata la festa di Carnevale a cui il popolo molto ci tiene, tanto da dire: Pasqua e Natale farli con chi vuoi, ma Carnevale farlo con i tuoi. Questa festa baccanale, ereditata dai pagani, una festa di crapule e di brio. I buontemponi della vita ci sono stati sempre per divertirsi e far divertire, scherzando, chiassando; mangiando bene e bevendo meglio, si sollazzavano. A Riesi, nei tempi antichi, tutti gli anni il Carnevale era aspettato con ansia. Le maschere, i mascherati facevano a gara, ci si diceva, per concentrarsi al piano della Madrice. Si ballava si scialava, si rideva a crepa pancia le Domeniche di giorno. La sera di Carnevale le famiglie, riunite coi parenti,la passavano allegramente. L’indomani, primo di Quaresima, tutti in chiesa per il memento homo, ricordati che sei uomo. La lunga Quaresima, come si sa, culminava con la festa di Pasqua e il Venerdì Santo al Canale. Queste feste, fin dai primi momenti, tenevano legato il popolo al Clero, il quale si dimostrava premuroso verso la chiesa, la Baronia, le Autorità e si cresceva di numero e di cosucce. In cinquant’anni, dal 650 al 700 i Parroci e i preti da fuori furono i seguenti: Don Angelo d’Angelo ci stiede fino al 1657; lasciò Riesi e ritornò nella sua Barrafranca perchè come dice il Don Gaetano Pasqualino, non ci poteva vivere con lo scarso stipendio. 11 secondo fu il vice Parroco Don Paolo Caci, di cui non si sa da dove venne, assieme ai Canonici l)on Taddemi e Don Francesco Costantino e Gambacurta fino al 64. Lo sostituì Don Giuseppe Lostimolo da Castel di Lucio, provincia di Messina. Altri preti furono; Don Giuseppe Averna , Don Pietro Antoni; il quarto Parroco fino al 70 fu don Michele Ferrigno con Don Filippo Margotta , sesto Parroco fino al 74,Don Pietro Zancari rimase in carica fino al 1707,aggiungendovi altri nuovi sacerdoti Cappellani. Il più di tutti rimase in carica (17 anni) chiudendo il secolo e aprendo il nuovo, l’ultimo parroco Don Pietro Zangari che dal cognome pare sia stato proveniente da Gela. ** Torna su ** Cap. IX la vecchia chiesa del rosario – le confraternite Negli ultimi anni del secolo XVI o probabilmente al principio del nuovo secolo, il Zangari animato da santo zelo, vista la religiosità del piccolo popolo, fece fabbricare assieme agli altri, la vecchia chiesetta del Rosario a metà della via di Porta Licata. La terza chiesa, Per quanto piccola, servì a dare più importanza al borgo. Essa bassa, povera, con un altarino, fu dedicata alla Madonna del Rosario, dando il nome alla via. Posta dove ora c’è il Municipio, nella discesa, dava nell’aperta campagna; ai lati sorgevano delle caselle e la via si andava formando. Un’altra festicciola fu istituita per la Madonna del Rosario la terza Domenica di Ottobre. Essa veniva celebrata alla buona, senza pompa, con la sola processione. Clero e popolo vi partecipavano con devozione. In detta chiesa vi si celebrava una Messa ogni tanto di modo che era pure aperta al pubblico. Con queste tre chiese il Clero volle fondare le così dette Confraternite, per come erano negli altri paesi. Associazioni di uomini devoti ai diversi santi, costituivano una classe privilegiata sotto la guida di un prete che era il Canonico della chiesa. Ogni socio pagava un contributo per il mantenimento della propria Confraternita e per le spese occorrenti nella chiesa alla quale apparteneva. Un Regolamento chiamato Verbo Regio faceva godere dei diritti in caso di malattia o di morte; i funerali si facevano con l’accompagnare il cadavere in chiesa con il prete, la Croce e i membri, i quali indossavano la sottana bianca e il bavero a colori, secondo la Confraternita alla quale si apparteneva. Ben presto adunque a Riesi sorsero, prima che finisse il secolo, le tre Confraternite della Madrice, del Crocifisso e del Rosario. Tutto andava bene, ma.... c’ è un ma che ha bisogno di una spiegazione. La chiesa del Rosario, dopo un quarto di secolo tra il vecchio e il nuovo, si diroccò; non fu fatta più innalzare ne riparare, si distrusse e rimase un casalino di lato al Comune. Essa chiesa fu un ricordo, di cui solo i primi abitanti del 700 ne parlarono. Sicchè Riesi, per lungo tempo, ebbe le sole due chiese, aspettando di rifare altrove quella distrutta. Ad ogni modo, non pertanto i nostri antenati di quell’epoca si scoraggiarono: la Confraternita della Madonna del Rosario andò ad ingrossare quella della Madrice e quella del Crocifisso; ne il Clero, che si faceva sempre più numeroso, si tirò indietro, per il servizio di Dio e la salute delle anime. Il locale distrutto della prima chiesa della Madonna del Rosario lo chiamarono poi Il Rosario vecchio . Tanti e tanti dei nostri vecchi l’hanno designato sempre con tal nome, significando che vi fu la prima chiesa del Rosario. Essa non fu più neppure fabbricata a casetta: rimase lì come un luogo comune. ** Torna su ** Cap. X il 1700 – clero e popolo – i conventi A cominciare dal 1700, Riesi fa un altro passo avanti nella via del progresso numerico, industriale, edilizio. Il secolo XVII si apre sotto buoni auspici. Alcuni fatti provano il nostro. asserto, poichè siamo informati di quanto diciamo. L’immigrazione continua; dei campagnoli si fanno avanti per diventar massari; altri uomini ricchi Vengono a stabilirsi qui; degli operai affluiscono da tutte le parti della Sicilia e persino dalle Calabrie; case e casette belle sorgono attorno alla periferia ed al centro; spiccano i ricchi signori; il popolo ama il lavoro; il Clero, sotto la guida di buoni Parroci, diventa più numeroso: insomma il borgo passo passo, durante il corso di un secolo, diventa un paesetto bello e formato con vie, traverse, cortili e camerette. La Baronia dei Fuentes accoglie bene i nuovi arrivati, agevolandoli. Nel narrare tutto ciò come meglio possiamo e sappiamo, ci facciamo lecito di chieder venia, se possiamo cadere in qualche errore; se vi sono dei lettori che non sono informati meglio, ci possono mettere in carreggiata, compatendoci. Anzitutto è bene riferire che da ora in avanti Riesi non è più un feudo, ma un paesetto nelle terre di Altariva; il suo stato o territorio prende il nome di feudo Calamuscini con le diverse contrade. Siccome l’intero feudo di Riesi era abbastanza grande, così la proprietà lo divise in altri sei feudi che sono: Tallarita, Gurretta, Palladio, Spampinato, Contessa, in tutto 7 feudi. Dalla penna del nostro concittadino avv. Gaetano Baglio nel suo volume di 6oo e più pagine sulle ricerche dei lavoratori in Sicilia: lo zolfataio, riportiamo: Riesi sorge sul declivio di un poggio di 300 metri sul livello del mare.Il suolo che costituisce il territorio, fortunatamente ondulato, di natura or calcareo, or argilloso, è povero d’acqua. Il territorio confina a nord col feudo di Cipolla; ad est e sud col territorio di Mazzarino e di Butera; ad ovest col fiume Salso. È situato ,nel più importante bacino zolfifero della Sicilia e ne è il più antico centro. Come bene osservasi, il territorio è abbastanza ristretto, perchè Mazzarino e Butera sono vicinissimi, si può dire,. alle porte di Riesi; oltre il fiume altre terre, di altri proprietari ci dividono; Cipolla distante rimase tale e quale diviso in Cipolla superiore e Cipolla inferiore: ed è per questo che i riesani così chiamavansi anticamente gli abitanti di Riesi sono stati costretti a coltivare le terre fuori territorio. Dopo il settimo Parroco Don Pietro Parisello, dal 1707 al 1742 venne da Caltanissetta Don Felice Amico. S. T. D. con altri sacerdoti e dopo di lui. il nono fu Don Antonio Baldassare Giuliana, gia Parroco di Vallelunga e qui Primo, Arcipresbitero fino al £746, di cui noi già conosciamo. Qui cominciarono a venire dei preti Cappellani di buone famiglie del luogo, il che significa che il paesetto era in progresso verso l’avvenire. In quell’epoca perciò fiorivano finanziariamente, intellettualmente e moralmente. Esse famiglie si affezionavano alle due chiese e ai preti. Ecco intanto alcuni nomi di famiglie che i primi Parroci trovarono registrati in certi quaderni - dicono essi, nella chiesetta del Crocifisso, per vedere chi furono coloro che cominciarono e seguirono a popolare il feudo, cioè: BALDACCHINO BIAGIO, SEMINERIO DOMENICO, PALERMO VINCENZO, CANNAROZZO DOMENICO, SCARDINO FILIPPO, LA TORRE VINCENZO, VITELLO DOMENICO, D’AMICO ROSARIO, CHIOLO FRANCESCO, BURGIO SEBASIANO, LO GRASSO FELICE, PISTONE ROCCO, GOLISANO ROSARIO, RUSSO ROCCO, RAMPANTI SALVATORE, VALENZA RAFFAELE, MULE’ PIETRO, LA MARCA FILIPPO, GIULIANA PAOLO, SCIMONE FILIPPO, ARONICA PAOLO, TAGLIAVIA PIETRO, MARCHESE FILIPPO, ATTURIO FILIPPO, GERBINO PAOLO, DI SILVESTRO PAOLO, CUTAIA PIETRO, PIZZUTO PLACIDO, MAURICI NATALE, BONSIGNORE NICOLA, JANNELLO ANTONIO, GRIMALDI ANTONIO, STUPPIA MICHELANGELO, GALLO MODESTO, ASSENNATO MELCHIOR, CIULO MATTEO, FONTI LUCIANO, GUELI GIUSEPPE, SABBIA ROCCO, BAGLIO ANTONINO, DI BUONO ANGELO, CALI’ SALVATORE, CAPIZZI GIACOMO, SCIBETTA LORENZO, OLIVERI GIUSEPPE, SESA GIOVANNI, GRIFASI GIACOMO, LA JACONA GIUSEPPE, LO BLUNDO GIOVANNI, MEDICINA VINCENZO, DESTRO ANDREA, PELLEGRINO ANTONINO, ALDUINO ANTONIO, CALASCIBETTA ANGELO, ZARBO LUCIO, LAURICELLA ANTONIO, LA ROCCA ALESSANDRO, LUPO GIUSEPPE, TALIANO ROCCO, ZUCCALA’ FRANCESCO, BURGIO FILIPPO, SFERRAZZA GIACOMO, RIMBISI LUCIO, LA ZIA FILIPPO, GUASTELLA DOMENICO, CINARDO MARTINO, CIANCI ROSARIO, SCIMECA LUIGI, BRUNITO DIEGO, COCITO MICHELE, GIGLIA NICOLO’, LA PIANA MARIANO, PARISI FRANCESCO, FRANCESCO E SALVATORE GIAMBARRESI, ECC, ECC. Fra i nuovi arrivati, al principio del 700’ abbiamo: i DEBILIO STEFANO, MATTEO e PAOLO, i VITELLO, i GIULIANA, i MARTORANA, i GIARDINA, i SESA, ed altri. Su questi e altri nomi che non abbiamo potuto raccapezzare si basò la fondazione del paesetto al principio del secolo. Alcune famiglie di questi nomi si sono estinte; altre ne vennero a sostituirle, e fra i rimasti alcuni si sono elevati a Massarotti; come pure si moltiplicavano. Giunti a questo punto è bene dire due parole sui Conventi, sebbene non esistono più da noi. Non c’è paese, non c’è popolazione per quanto piccola che non abbia avuto i suoi Conventi per la parte asceta. Da noi ve ne furono due. Il primo sorse al poggio Grande a sud della roccia. A memoria d’uomo nessuno si ricordò di esso, ne si seppe quando fu fabbricato, nè se fu abitato e quanto tempo ci stiedero. Il fatto sta che fin dal 1750 fu trovato distrutto. Esso era piccolo e fu chiamato il Conventino. Aveva quattro cellette e i muri non erano tanto solidi. Dacchè fu distrutto vi crebbe rigogliosa l’ortica, poi divenne una mandra: i ragazzi fino alla metà del i8oo vi andavano a giocare. Nell’oscurità dei tempi in cui ci troviamo, è inutile fare delle congetture, perciò passiamo all’altro. Il secondo era più grande e fu fabbricato sopra la roccia forte e grande di Porta Licata ad oriente e agli alti venti esposto, bene arieggiato. Esso aveva 8 celle, oltre la chiesetta, il refettorio e la cucina. Nella roccia furono scavate delle grotte per la stalla, la cantina o dispensa e la legna. Nell’atrio fu scavata una profonda, larga cisterna per raccogliere l’acqua piovana. Di fronte all’entrata un orto per la verdura e la frutta da servire ai monaci. I Conventi erano opera dei PP. Benedettini di Palermo; questo di Riesi fu dedicato a S. Antonio ed ebbe in dote tumoli otto di terra adiacente per la seminagione dei cereali. Pare che esso sia stato fabbricato dopo la distruzione d primo. Ogni anno un Priore veniva da Caltagirone per fare gli esercizi spirituali; il popolo vi accorreva. Fino al 1824 fu abitato da sei frati, ma da quell’anno in poi i frati se ne andarono e non ritornarono più; il Convento rimase deserto in balia del Clero per conto della chiesa. Onde completare la storia di questo Convento, mezzo diroccato, facciamo conoscere che esso fu venduto a alla terra dal Parroco D’Antoua a certo Filippo Livolsi nel 1876. Il Parroco l’aveva acquistato dalla vendita dei beni ecclesiastici dopo la legge del 6o che furono espropriati; il Rivolsi lo fece in parte riparare per la sua abitazione, per affitto, facendovi fabbricare altre casuccie accanto e scavare altre grotte di abitazioni. Oggi il Convento è il centro di un grosso rione, di guisa che il figlio del Livolsi, con l’eredità lasciatagli dal padre, vive di rendita. E questo fia suggel che … Tutto ciò prova che il sentimento religioso c’era nel popolino primitivo; che il Clero faceva causa comune con quegli abitanti. Infatti alcuni frati riesini di Messa venivano in quell’epoca a battezzare nella chiesa della Madrice o al Crocifisso. ** Torna su ** Cap. XI i grandi massari, civili Fra le grandi Case che s’innalzarono alla dignità di Massari e poscia a civili, oltre i Golisano, già Rubbios, i Cammarata, i Gueli i Ministeri, nella prima metà del secolo XVII cominciarono a spiccare le seguenti: La famiglia dei Rubbios di origine spagnola, come sappiamo, cedette il posto ai Golisano che venuti da Ravanusa da semplici Massarutti — leggesi nei matrimoni — ne sposarono le figlie e si nobilirono. I tre fratelli Stufano, Matteo e Paolo Debilio venuti dalla vicina Sommatine, al principio del secolo e precisamente nel 1701/2, si stabilirono qui per le cave di gesso. Arricchitisi di molto, lasciarono il loro mestiere e presero delle tèrre a cenasito, impiantando una grossa masseria. I figli, mandati fuori a studiare, divennero dei professionisti. Due di essi si fabbricarono i palazzi nel centro della via che portò il loro nome. Detti palazzi furono sontuosi con camere, saloni e due grandi cortili di entrata con annessi la dispensa, i magazzini e i ripostigli. La Casa dei Debilio gareggiò con quella dei Rubbios-Golisano. Erano tanto numerosi gli animali che possedevano che allorquando il bovaro li conduceva ad abbeverare al Canale, essi invadevano la via del Rosario, passando per il piano della Madrice e si diceva che non finivano mai. Appresso, nel 1704, vennero i Vitello da Ravanusa, in principio erano dei piccoli borgesì, ma poi a poco a poco si innalzarono a Massari. Fabbricatasi la casa in questi paraggi. Vicino al piano, ebbero terre ed animali, figurando accanto ai Golisano, Cammarata, Gueli e gli altri. Dal 1710 in poi comparvero i signori Giardina da San Cataldo. Essi erano anche degli intellettuali,. di guisa che, oltre a badare alle terre, studiando, divennero una famiglia di Notari. Un corpo di casette sorte nella via Grande formarono una traversa. Essi prolificarono e si .arricchirono. Il primo Notaro però venuto a Riesi fu Don Giacomo Martorana da Licata. Egli mise il suo studio nella stessa via Grande, dove si fabbricò delle camerette ed un cortile. La famiglia dei Martorana si sparse dappertutto a Riesi facendo buoni matrimoni. Certo Giorgio Radosta, un contadino intelligente nato alla Pietra-piatta, messosi a fare il misuratore di terre divenne benestante, istruendo i figli. Così dicesi di un Giacomo Ciglia che si elevò pure a benestante con un corpo di casette alla discesa del Canale. E lo stesso fu Don Michele Brunito che diede il nome alla via dalla parte opposta in su verso il poggio Grande; così dicesi pure degli Scardino. Da queste famiglie nacquero dei sacerdoti del borgo che abitavano in modeste camerette. Un’altra famiglia benestante di quell’epoca furono i Sesa che si fabbricarono una casa in cima alla via Brunito come pure, in sul finire della prima metti del secolo, l‘altra famiglia del Massaro Luigi Mirino la venne a prendersi a censito sei salme di terra, alle Murgitella per una Masseria, fabbricandosi. la casa sull’ascesa ai piedi del poggio Grande, all’angolo della quale casa ne venne dipoi la via Gallè, altro nome di benestante, la quale via porta all’entrata della figurella del Crocifisso verso Mariano dove ci avevano molte terre i Vìtello. I Baglio venuti da San Cataldo furono una famiglia di Massari, stabilitisi alla Pietra-piatta con un corpo di casette onorando quel quartiere con il lavoro e l’onestà. Dal Massaro Cataldo Baglio in poi, progredirono. La riuscita di questa famiglia l’abbiamo avuto ai nostri tempi con un valente avvocato civilista a Napoli, prima Segretario dell’ Università di Genova, poscia R. Provveditore agli studi a Bari e ora pensionato; e con un ex Colonnello in ritiro. Ora tutti questi Massani ed altri ancora più o meno piccoli davano lavoro ai contadini e agli operai che man mano venivano ad ingrossare il borgo. Muratori ce n’erano; i Calamita dei fabbri-ferrai vennero da Licata, i Muzzapica da falegnami ignorasi. Il primo calzolaio fu un certo Giovanni Vinci da Barrafranca e fu il papà di tutti i calzolai di Riesi. A quell’epoca gli abitanti reclamarono i mulini ad acqua per macinare il grano ed avere la farina per il pane e la pasta di casa; la Baronia fu sollecita nel far fabbricare i mulini della Ciarla “ e di Jusu in riva al Salso. Gli è vero che l via dalla Scalazza è scoscesa e brutta, ma è vicina e gli abitanti non andarono piu a Piazza Armerina e all’antica e nuova Enna, molto distanti. Oltrepassata la prima metà del secolo, nei successivi cinquanta anni si continua a prosperare di bene in meglio con altre famiglie di ricchi e con altre belle e grandi case. Ma prima di continuare su ciò, fermiamoci su due fatti: il poeta settecentista Croce Cammarata e la nuova chiesa del Rosario terminando il secolo XII con la prima miniera di zolfo. Vediamoli: ** Torna su ** Cap. XII dal poeta contadino settecentista croce cammarata Il poeta settecentista, il contadino Croce Cammarata, nacque a Riesi nel 1695 da Filippo e Angela Scimeca. I suoi genitori erano poveri, perchè discendenti da un certo Trentacoste, fattore dei baroni Camerata di Butera, che andava e veniva da Riesi. Il padre viveva con due tumoli di terreno ad orto alla Sanguisuga ed una casuccia avuta in dote ai piedi del poggio ‘Grande in via Mirisola. Da bambino il ragazzo di nome Croce, figlio unico, frequentò la scuoletta della Sagrestia, ove apprese i primi elementi del leggere e dello scrivere. Cresciuto in età, da giovane si mise al lavoro, zappando la terra a giornata. Nell’anto, sul lavoro s’avvide che aveva la vena poetica e deliziava padroni e compagni coi suoi versi estemporanei. Tutti quindi lo conoscevano come un poeta e lo stuzzicavano per sentirlo poesiare. I padroni lo amavano ed i compagni erano felici di lavorare assieme a lui; di rado il Croce si vedeva in paese e quando la Domenica andava a Messa, molti lo attorniavano per sentirlo. Lu nnu Cruci Cammarata era devoto della Madonna della Catena perciò di sera frequentava spesso la chiesa. Nelle annate scarse, d’inverno, a cagione delle piogge continue, il nostro Cammarata, con la sua sacchina girava per le masserie e i mulini per avere qualche soccorso. I suoi genitori erano morti ed egli si era accasato con una povera donna di nome Lucia Chiolo, dalla quale ebbe un figlio: quindi il Croce doveva provvedere ai bisogni della casa. Una volta stanco del cammino, con la pioggia, pieno di freddo, entrando in paese volle ripararsi in Sagrestia. Il Parroco Don Giuseppe Tagliavia che lo conosceva bene, lo accolse, lo fece riscaldare, lo rifocillò. Indi lo invitò a dire qualche cosa. Cosa vuole che le dico? Nnaiu firriatu marcati e mulina Nuddu m’à datu na impastata sana Si nun fussi ppri la Bedda matri di la Catina Arrifiutassi la fidi cristiana Questi versi furono ripetuti dinanzi al Clero, e valsero al poeta tutta la stima e la simpatia. I preti lo conducevano spesso nelle loro campagne non solo per farlo lavorare, ma; anche per divertirsi e nello stesso tempo lo istruivano nella, storia, geografia. religione ecc. ed è per questa ragione che il poeta Croce Cammarata, anche in prosa, ne sapeva più degli. altri. I contadini analfabeti alle volte lo andavano a trovare in casa per farsi spiegare tante cose intorno ai misteri della vita, Leggeva qualche libro che gli prestavano e, avendo un fine acume, era contento di apprendere. Si ricorda di lui questo fatto; propose questo enigma: “Io lo trovo sempre, il re di tanto in tanto, Dio non lo trovo mai!…” Come?… gli dissero: Voi si Io trovate e ,Dio no? Ebbene, spiegò egli: Io posso trovare un altro uomo como me, il re può trovare un altro re, ma Dio non può trovare un altro Dio. Tutti rimasero a bocca aperta; come Sansone, di cui conosceva la storia, così il Cammarata se ne uscì vittorioso. Ma sopratutto, egli si distinse in occasione della venuta a Riesi del principe Don Giovanni Pignatelli Fuentes d’Aragona per visitare i suoi beni. Saputa la notizia lu nnu Cruci, il giorno dell’arrivo, siccome gli impiegati e dei curiosi vi andarono incontro, così il poeta si confuse fra questi ultimi, accorrendo anche lui. Giunti dietro al Canale, dove il principe scese. dalla lettiga, il contadino Croce Cammarata salito sopra una pietra, facendo fermare tutti, recitò i seguenti versi: Principi ereditario di la Spagna, Ca tiniti la spata ntra li pugna E siti vistutu ccu la cappa magna. Di stu paisi Vostra Eccellenza cchi ci guadagna? Riesi è divintatu na cuccagna, E l’impiegati si liccanu l’ugna Il principe non ci capì nulla. Siccome con questi versi il Cammarata toccava la suscettibilità gli impiegati, così fu lasciato in asso in segno di disprezzo. Ma il poeta non si perdette ’animo. Che fece? L’indomani si azzardò a voler parlare personalmente col principe. Vestito contadinescamente calzoni corti, calze di lino lunghe di fuori, giacca di braccio e la berretta, salì le scale della Baronia. Qui il Segretario Sensalez, trattenendolo sul pianerottolo, lo voleva rimandare, ma il nostro poeta col dito teso gli sì piantò dinanzi; ed ebbe il tempo di recitargli questi Versi che noi riportiamo, avendoli raccolti, come del resto altri che ci sono stati tramandati dai nostri antenati, i quali se li ripetevano ad ogni pie sospinto per parlare del poeta contadino riesano settecentista Don Croce Cammarata. I versi sono così belli che meritano la nostra attenzione, eccoli: Adamu fu lu succu e nui li rami; Di un fierru su stirati tanti Iami; Di un linu su stirati tanti trami; Di un critu su furmati tanti dami. Un mari ricivi acqui di tanti fiumi, La Vera nubiltà su li custumi! In questo, sentito il rumore, si affacciò il principe. Persona colta e gentile, invitò il ammarata ad entrare, ricevendo!o nel suo appartamento. Subito dopo si annunziò il Parroco Giuliana, al quale Sua Eccellenza domandò chi era questo contadino; e il Parroco le rispose che era il nostro bravo poeta, un devoto della Madonna della Catena, facendogli ripetere, spiegandole, alcune poesie, specie quella della Madonna per la di lui fede. Bene, bene; bravo, bravo I fece il Principe battendo la spalla al Cammarata. Ditemi buon uomo, che desiderate? E al Cammarata, botta e risposta, gli fece dire che voleva il posto di sagrestano della Madrice. Subito il principe lo raccomandò al Parroco, il quale lo condusse in chiesa e lo vestì da Sagrestano delle due chiese. In questa seconda fase della sua vita, il Cammarata prese, il Don e poteva meglio sbarcare il suo lunario. Tutti di Don Croce ne furono Contenti. Ora una Domenica, in Sagrestia, i preti lo incitarono a dire una poesia in proposito ed egli, senza farselo dare duo volte, declamò: Chistu ie lu fattu di santu Agustinu E di lu tempu quann’era paganu Ca illuminatu di spiritu Divinu Di turcu si fici cristianu Mentri voli accussi’ lu ma distino Di livarimi la zappa dili manu Nun sugnu nnè monacu nnè parrinu Mi misiru lu do’: fora viddanu ….! La presente ottava trovasi inserita in un fascicolo della Antologia nella Biblioteca di Palermo fra i poeti settecentisti della Sicilia con la dicitura: “ Versi di Croce Cammarata di Riesi “. Il nostro compaesano aveva un quaderno, ove scriveva tutte le sue poesie, ma dopo la di lui, morte, la moglie ignorante, non solo non le conservò, ma peggio ancora le stracciò, distruggendo i versi del Cammarata di modo che la famiglia non ereditò nessuna poesia; a stento ne abbiamo potuto raccogliere un’altra della prima fase della vita del poeta. Quando fu in miseria si adattava pure a fare dei liami per venderli e vivere. Con un suo compagno una volta si recò a Caltanissetta a vendere i liami. Una donna curiosa gli si avvicinò stuzzicandolo, disprezzando i suoi liami; ed egli: A la mia liama mintiti difetta? Ca cu l’accatta la riscedi tutta? Nun s’avi a diri intra Cartanissetta D’essiri criticata di na brutta Togliamo da questa sestina gli ultimi due versi, perché osceni. La donna se ne andò mortificata. Abbiamo parlato col vecchio nipote che porta lo stesso nome del nonno e ci dice che non lo conobbe, ma che la madre gli raccontava bambino le prodezze del di lei suocero. Per altro il Cammarata era un tipo bislacco che di tanto in tanto, a piedi, si recava a Palermo. Egli visse povero ed onesto e come tale mori sazio di giorni il 1766 cd ebbe onorata sepoltura nella chiesa Madre dal Parroco Don Giacomo Ballistreri da Caltagirone i cui parenti facoltosi nei sette anni di Paracato, 66-72 vennero a stabilirsi qui. I più vecchi che lo conobbero al principio dell’ 800 parlavano con ammirazione di Croce Cammarata, poeta, riportando i noti versi che sono giunti fino a noi. Evocando la di lui memoria con questa pagina, crediamo di aver fatto cosa grata additandolo a coloro i quali lo ignoravano.Don Croce Cammarata fa parte della nostra storia di Riesi. ** Torna su ** Cap. XIII la nuova chiesa del rosario L’altra nuova chiesa del Rosario fu fabbricata nella seconda metà del secolo, probabilmente all’epoca di cui accenniamo, cioè dopo la partenza del Principe e del poeta Cammarata per l’altra vita. Poiché non abbiamo nessun documento. poiché non c’ è nessuna traccia, ci serviamo dell’esistenza di essa. I muratori che la fabbricarono, ci vien detto, furono i fratelli Pietro e Vincenzo Medicina, venuti da Pietraperzia. Notiamo la presenza dei Medicina a Riesi fin dal 1745. Essi da muratori seppero elevarsi a coltivatori di terre, fabbricandosi una modesta casa laggiù alla via Larga con un trappeto sulla roccia. Divennero anche degli intellettuali, avendo avuto in famiglia due sacerdoti Vincenzo prima e Giuseppe dopo. Lo stesso dicasi dei Piccadaci famiglia di contadini benestanti che ebbero un sacerdote, dei Radosta e degli Scardino. Naturalmente la nuova chiesa del Rosario si imponeva. Essa fu posta nella stessa via, si può dire alla punta estrema. Bassa, piccola. di stile barocco di fuori, dentro misura m.30 dì lunghezza con m. 6 di larghezza, pari a mq. 180. Un altare, delle immagini alle pareti, un fonte battesimale è tutto l’ornamento di questa chiesa. L’immagine della Madonna del Rosario è alquanto bella. La sua festa si cominciò a celebrare con pompa ogni seconda Domenica di Ottobre. Risorse la Confraternita. Fuori la chiesa porta la data del 1775 con le parole dell’Angelo: Ave Maria gratias plena. Fu sfornita di campanile fino al 1877. Di fronte alla chiesa si aprì una larga, corta via con le case dei Chiantia da mia parte e dall’altra; attorno e lungo la via di detta chiesa si andavano fabbricando case, e camerette la discesa diede il nome alla via Medicina; dopo la Sagrestia si cominciò pure a fabbricare arrivando fino al punto detto del Serraglio che è un buco lungo formato di case e casucce. In questa via del Rosario in seguito sorgevano dei palazzi. La nuova chiesa diede luogo ad un quartiere del proprio nome. Tutte e tre le chiese si divisero in quartieri che aumentavano di giorno in giorno. Fu giocoforza quindi avere un Municipio più grande, un nuovo Carcere, una nuova Caserma ed un Giudicato più adatto. Per il Municipio si scelse il salone dei Golisano, per la Giustizia la casa dei Di Benedetto; la Caserma fu fabbricata in un dammuso al piano della Madrice e il Carcere in due casette con sotterranei per le donne alla discesa del Canale dalla parte del piano. Possiamo dire che dalla fondazione della nuova chiesa del Rosario in poi, vale a dire dal 1775 Riesi prese un’altro aspetto. Con l’andar del tempo però la chiesa si diroccò, il tetto sprofondò e rimase un poco di tempo guasta: essa venne riparata ai tempi nostri con elargizioni popolari mercè il Vescovo di Piazza Armerina ed il Sindaco Cav. avv. Don Pietro Di Benedetto. Stando a quell’epoca, dopo il 1775 gli eredi dei Golisano fabbricarono altri palazzi, due al Corso e uno di fronte al Corso che diede luogo ad una seconda via Golisano, non che il palazzo al piano della Madrice. Oggi la chiesa del Rosario, è in piena funzione, ha un Cappellano e Serve di parrocchia; cosa che non è la chiesa del Crocifisso, la quale merita di essere riparata e rimessa al suo primiero stato. Elevata a Parrocchia la chiesetta del Rosario funziona bene, dividendo il paese in due parti. ** Torna su ** Cap. XIV altre grandi case di ricchi Seguitando a narrare gli avvenimenti dell’altra metà del secolo; troviamo che altre grandi Case di ricchi vengono a fondarsi e sono le più importanti. Negli ultimi 25 anni si progredisce ancor meglio, con gli intellettuali. Verso quell’epoca apparve a Riesi il primo dei Pasqualino. Stando alla Araldica del prof. V. Gravina di Caltagirone, l’origine di questa nobile famiglia discende da Parma di Piacenza (Emilia). Perseguitati i membri dal duca di Mantova per ragioni politiche, dapprima si rifugiarono a Bari nelle Puglie e poscia se ne vennero a Palermo. Nella capitale dell’isola,’ sotto il vicere Caracciolo, trovarono appoggi, onori, protezioni e alti gradi, fino ad arrivare al titolo di marchesi Uno di essi di nome Cav. Giuseppe, si ridusse a Riesi, da sconosciuto, nella seconda metà del secolo. Tipo bislacco a quanto ci si dice, si impiegò al Municipio. Fattosi conoscere, sposò la figlia del Sindaco Maria Vitello che oltre appartenere a cospicua famiglia, era un’ Ester formosa e di bello aspetto. Da questa coppia fortunata, nacquero figliuoli e figliuole, esprimendoci con la bibbia, che furono poi ben posizionati, ricchi ed intellettuali. Un Giuseppe fu Giudice che promosso al Mandamento di Gela non vi poté andare, perché morì. Egli, che si aveva fabbricato il palazzo al piano del Crocifisso, lasciò la famiglia in prospere condizioni; Don Salvatore, che visse da proprietario aveva un corpo di case terrane dopo il palazzo; Don Francesco Pasqualino fu un accreditato Notaio presso l’Amministrazione della Baronia. Venuti i principi per visitare i loro possedimenti, avevano con loro un Segretario di nome Don Francesco Lentini; siccome ci stiedero un bel po’, così alla principessa venne in mente di voler sposare qui il Lentini con una distinta giovane del borgo; ne parlarono al Notaio, il quale mise avanti la nipote del vice. Parroco Don Giuseppe Inglesi da Mazzarino di nome Caterina. Il Pasqualino ebbe l’incarico di combinare il matrimonio, e andò a trovare il prete che abitava in due camerette della così detta piazza. Quando gli parlò dell’affare, il buon sacerdote lo apostrofò dicendogli: “Non sia mai, caro Don Francesco, amico mio, ch’io dia mia nipote ad un forestiero, allontanandola da me!...” Allora il Notaio con una presenza di spirito gli disse: “Ebbene, Reverendo, se lei non la vuole dare ad uno Sconosciuto, sposi sua nipote con un altro Don Francesco di qui . Chi? “Io stesso, se... “Accetto, se mia nipote vuole!...” Caterina accettò. Saputo ciò i principi, montarono su tutte le furie, ma il Pasqualino li lasciò cantare. Egli sposando la Inglese ebbe in dote dallo zio 4 mila onze (L. 50 mila) e quattro salme di terra dai parenti a Mazzarino. Venduta quella proprietà, acquistò la tenuta di Passarello, territorio di Butera: indi impiantò una Masseria e si fabbricò il palazzo in linea dei due fratelli, dopo la traversa, formando il primo cantone dei quattro canti, dove visse con la sua famiglia da signore intellettuale. I principi gli fecero dieci anni di causa per espropriargli le terre della Oliva, ma inutilmente. Morendo lasciò detto ai figli di mai avere a che fare con la Casa dei principi. Così uno dei più vecchi intelligenti dei Pasqualino. La famiglia dei Pasqualino quindi s’impose con l’ingegno e il censo e cominciò a regnare nel borgo nobilmente. Gli eredi intelligenti, studiosi, sia maschi che femmine, vivendo da signori, a quel tempo erano riguardati dal popolino come persone altolocate. La storia ci dice che i loro discendenti si sono sempre distinti, come in seguito vedremo, nel senso in cui diciamo. In seguito, durante il periodo della rivoluzione francese del 1789/93, venne qui la famiglia dei Napoletano, nascosta sotto questo falso nome. Detta famiglia, perseguitata perché liberale di Napoli, giunta a Palermo venne esiliata a Riesì. Il capostipite fu il conte Don Gaetano, il quale fu imprigionato in questo carcere e pare sia stato fatto morire. Lasciando la famiglia, questa si immiserì e i figli si adattarono al lavoro. Un’altra famiglia di origine nobile fu quella degli Inglesi. Secondo il prof. Gravina, detta famiglia discende dai nobili guerrieri di Alessandria della Rocca, provincia di Agrigento. Il primo, Giuseppe, era venuto qui per sposare una Golisano, ma non fu fortunato nel matrimonio, perché la moglie morì dopo breve tempo ed egli se ne andò a Mazzarino, ove passò a seconde nozze. Un erede di Don Giuseppe di nome Onofrio Inglese se ne venne qui come Notaro, futurista presso lo studio di Don Luigi Pasqualino, morto il quale rimase Don Onofrio come titolare con lo studio al piano del Crocifisso. Nei paraggi abitava nel Cortile la famiglia Butera in buona posizione di Massarotti.e il notaio Don Onofrio Inglesi ne sposò la figlia Maria Anna. Da coniugi gli lnglesi-Butera si fabbricarono un bel corpo di case al principio del Corso, la piazza dall parte opposta della Madrice. Nella detta casa prolificarono, accumulando ricchezze a ricchezze e acquistando persino dei feudi. E un’altra buona, ricca famiglia, fu la famiglia Batoli-Capizzi,. della quale dobbiamo intrattenerci un po’. Certo Dan Gaetano Capizzi, un ex frate di Mazzarino inteso l’Abate Capizzi, volle venire a stabilirsi a Riesi. Uomo facoltoso, intelligente e pio, nello acquistare molte terre nei dintorni di Riesi e fuori territorio, si fece fabbricare una ricca, sontuosa, bellissima casa. Il punto che scelse fu di fronte la casa Inglesi. Mandato a chiamare un cupo d’arte da Caltagirone, questi si mise subito all’opera. La solida costruzione col piano di sopra, col giardino e tre portoni di entrata, abbraccia quattro vie; nell’interno, oltre le sale e i saloni, vi fu una chiesetta ben messa, bene adornata. Durante la muratura, tra una alcova ed un’altra vi fece murare una cassa di sette palmi piena di monete d’argento. Finita la costruzione, fece venire due decoratori da Comiso per adornare l’interno. I fini disegni, le pitture erano degne d’una casa principesca; già i gattoni sostegno dei balconi, lavorati in pietra a forma di animali, mostrano ancor oggi il lavoro. Abate Capizzi era felice neÌle sue stanze dorate, col giardino, la chiesa; egli conviveva con una sua nipote di nome Carmela, figlia del fratello e la serva. Benefattore, religioso, ogni anno per la festa di S. Giuseppe, il 19 Marzo, invitava tutti i poveri che incontrava alla tavolata in onore del Santo per il quale si suole fare l’altare e dopo averli satollati, riempiva loro le tasche di baiocchi. La vita del signore Abate era considerata un tessuto di beneficenze: egli non conosceva il male, ma piuttosto il bene. Ma ohimè! una triste fine lo aspettava. La nipote andò sposa a Don Vincenzo Bartoli, proprietario di Mazzarino, alla quale lo zio diede in dote 4 mila onze e una salma di terra qui a Riesi. I coniugi si stabilirono a Mazzarino, dove Donna Carmela Bartoli-Capizzi ebbe otto figli maschi ed era incinta del nono, quando avvenne il fattaccio. L’Abate Capizzi invecchiato, fece il suo testamento a Riesi, lasciando erede universale il fratelli. Ciò dispiacque al nipote Don Vincenzo, il quale meditò un orribile delitto. In occasione della festa della Madonna del Mazzaro chiamò lo zio per farlo divertire, ma una notte lui e il figlio maggiore Giuseppe assassinarono il povero Abate a colpi di pugnale e scapparono, avendo il tempo di salpare le acque e ridursi a Livorno. Trovato il cadavere dietro il portone immerso in una pozza di sangue, fu arrestata la signora Carmela, La quale fu deportata nel carcere di Piazza Armerina, dove partorì il di lei ultimo figlio Gaetano: gli altri sette rimasero i balia dei parenti. Fattasi, la causa al Tribunale, la signora fu assolta per innocenza; rimessa in liberta, ritornò a Riesi coi suoi figli; morti i di lei genitori, figlia unica, ereditò tutto il patrimonio. La casa Bartoli-Capizzi quindi cominciò a brillare, ma alla morte della madre si divisero tutta la proprietà, I. figli furono: Vincenzo, Francesco, Lorenzo, Lucrezio, Baldassare, Stanislao e Gaetano; Francesco Dottore e Lorenzo sacerdote morirono giovani. Al piccolo Don Gaetano toccò la parte della casa dove era nascosta la moneta. Ora il muratore che aveva murata la cassa, prima di morire aveva confidato al proprio figlio il segreto del tesoro nascosto questi venne a dire a Don Gaetano se volesse smuruta la tabia previo un compenso. Don Gaetano mangiandosi la foglia, come suol dirsi, gli promise di mandarlo a chiamare; ma intanto da solo, tastando e ritastando, tuonando e rituonando si disse di averla trovata: fu quindi il più ricco di tutti. Compratasi la tenuta della Donna, sposò poi Donna Antonina inglesi del Notaro Onofrio. Fattore della Casa Bartoli-Capizzi fu u Massaro Vincenzo Mezzatesta da Pietraperzia, il quale fabbricatasi una casetta con camere nella traversa della via Giuliana, di fronte al portone dei Bartoli, diede il nome alla via che va verso il poggio; un’altra via consimile sorse contemporaneamente dalla parte della casa Inglesi nella via Fiandaca verso lo stesso poggio con magazzini e casetta del Massaro Calogero Di Letizia. E questa è una storia che va dalla fine del 1790 fino al 1830. Bisogna distinguere qui le altre due famiglie dei Capizzi e dei Bartoli. La prima, di vecchia data, è stata una famiglia di proletari. in tutti i mestieri; la seconda oriunda da Messina sullo scorcio del secolo XVII, è stata una famiglia di lavoratori di argilla i quali si son tramandati, di padri in figli, la lavorazione della terra cotta. Trovata adatta, porosa la creta dietro la Montagna, perfezionandosi e perfezionandola sono arrivati a farla apprezzare, tanto che si dice “Creta di Riesi” mantenendo fresca, chiara l’acqua nelle quartane, giarre e giarruna Il Giornale di Sicilia in diversi articoli l’ha elogiato e gli operai sono stati premiati; Ultimamente l’operaio Salvatore Bartolì, avendo presentato nel 1931 alla IV Fiera Campionaria di Tripoli due anfore e due vasi da fiori ben lavorati, ebbe il Diploma con medaglia d’oro e medaglia di argento. Onore al merito! Merita ora speciale attenzione la ricca, importante casa dei signori D’Antona. Quattro fratelli, Cateno, Vincenzo, Luigi e Rocco da Canicattì, feudatarii, avevano una Masseria a Castelluzzo e Gorgazzi. Essendo vicini a Riesi, vollero piantare le loro tende qui da noi. Dapprima si stabilirono ai piedi del poggio Grande sulla parte orientale, con delle modeste case. Ivi il Massaro Cateno, abile, intelligente agricoltore, sposò una certa Pasqua Di Legami, di famiglia benestante a quanto pare. Da essa ebbe undici figli, cinque femmine e sei maschi. Col lavoro dei campi, progredendo, Scesero a basso e si fabbricarono la casa all’estremo limite della via Grande; due dei figli, Don Gaetano e Don Salvatore presero la carriera ecclesiastica mentre gli altri, istruendosi s’incivilirono e nei matrimoni fecero fortuna; le donne furono ben posizionate. Anche gli altri fratelli lasciarono il poggio Grande e vennero a fabbricarsi i palazzi nella stessa via di fronte e accanto al primo. La famiglia D’Antona, divenuta così numerosa e ricca, incominciò a regnare pure. Nello stesso tempo venne la famiglia Rindone da Raddusa, prov. di Catania. Un Don Francesco Rindone per il primo si fabbricò il palazzo sopra la via Debilio, avendo pure una Masseria. La famiglia Accardi, proveniente da Mazzarino, impiantando una Masseria, si fabbricò la casa vicino al Lago. Un Don Francesco sposa una Federico di famiglia ricca nella stessa via che prese il nome Accardi, stretta ripida che va verso il poggio Grande. Così dicesi dei Riggio, dei Verso e dei Vecchio. Chi diede un buon impulso al paesetto furono i Trapani. L’avv. Giuseppe Gaetano Trapani da Canicatti venne a sposare qui Donna Lucia Debilio Palacino. Essi si fabbricarono il palazzo accanto alla vecchia chiesa del Rosario, facendo nascere la via Trapani che scende a basso. in detta via del Rosario si formarono la via Valanzola, la via dei Coniglio e la traversa Zagarella di case e casette basse. Il paese passo passo si andava arricchendo di case e casette. Tra civili, Massari, campagnoli e operai li riisani popolavano il feudo nelle terre di Altariva, di cui si diceva poi Comune. ** Torna su ** Cap. XV la prima miniera di zolfo, buon andamento Negli ultimi anni del 700, prima che finisse il secolo, fu trovato lo zolfo al punto denominato Portella di Pietro, feudo Spampinato. Questa scoperta fece rallegrare tutti, cioè i Rappresentanti dei principi e la popolazioncina. La notizia li mise in moto, constatando il fatto. I primi a portare la nuova furono i contadini che arando quel pezzo di terra montuoso e pietroso, scorsero il minerale. La prima miniera di zolfo dunque, nel territorio di Riesi, fu Portella di Pietro. L’impresa di scavare più a fondo fu data in economia; alcuni operai pratici venuti da Sommatino e da Ravanusa fecero i buchi e i calcaroni, li riisani da manuali cominciarono a divenire pratici. Bruciandosi lo zolfo, per quanto piccola fosse la miniera, si ebbero dei guadagni seducenti che allettarono i lavoratori. Trovandosi Portella di Pietro a 2 km di distanza dal paesetto, la via la facevano a piedi, rientrando la sera a casa per ritornare l’indomani a lavoro. Nelle vicinanze della miniera i contadini, spinti dalla curiosità, andavano a vedere la lavorazione dello zolfo. La proprietà vi manteneva un impiegato a posto fisso onde controllare le giornate dei lavoranti che tra grandi e piccoli ve ne potevano essere una dozzina. L’Amministrazione della baronia ogni tre mesi mandava a vendere lo zolfo fuso a Licata sugli asini: ecco quindi un’altro fornite di lavoro per le famiglie povere paesane. Chi aveva un somarello poteva guadagnarsi una discreta giornata: erano dei contadini che venivano adibiti a tale lavoro, aspettandolo come la manna dal cielo. In questa prima miniera di Portella di Pietro, altri andavano e venivano a cercar lavoro nello zolfo, e quantunque essa miniera progrediva lentamente, qualcuno dei paesani, levandosi la zappa dalle mani, impugnava il piccone, stritolando il materiale nelle viscere della terra. Il lavoro era più pesante, ma il premio della giornata fissa compensava la fatica. Ve ne erano di quelli che lavoravano la notte al lume di una candela di creta ad olio col meccio di cotone chiamata 1umera, nome che viene dal francese, facendo luce, lumiére; e queste 1umiere usavano nelle case la sera le famiglie basse; e queste 1umere tenevano accese davanti la porta i bottegai e i macellai. I ricchi avevano i candelieri di rame, di stagno o di latta, a seconda la loro possibilità: erano i candelieri a uno, a due e a tre mecci alimentati ad olio. Il paesetto quindi giaceva completamente all’oscuro e in mezzo al fango. Nei casi di urgenza, la notte per poter uscire si accendevano un pugno di frasche con busci dette fonare avendo lo zolfo, era facile avere il fuoco per accendere la legna. La vita adunque si svolgeva così miseramente, eppure lo chiamavano: Buon andamento. Il vero buon andamento però si svolgeva nella chiesa e nel lavoro. Durante tutto il 1700 si celebrarono più di mille battesimi e 500 matrimoni. Dalla metà del secolo in poi i sacerdoti erano quasi tutti paesani; i Parroci del 700 furono: Dal 1702 al 1712 Don Pietro Zangari; dal 13 al 29 Don Pietro Tagliavia; dal 30 al 47 Don Giuseppe Medicina; dal 47 aI 64 Reggente Don Baldassare Giuliana nono Parroco e primo Arciprete; dal 65 al 77 Don Giacomo Ballistreri da Caltagirone; dal 78 all’ 81 Don Antonio Verso da Palermo, secondo Arciprete; dall’ 81 all’ 86 Reggente Don Giovanni Maglietta da Palermo, terzo Arciprete; dall’ 87 a11’ 88 vice-Rettore Don Giuseppe Inglesi, vicario foraneo; dall’ 89 aI 1802 Don Giuseppe Fernandè Reggente Arciprete caltagironese. E’ da supporre che i signori Verso, attirati dallo zio Parroco, vennero da Palermo a dimorare qui. Uomini intraprendenti, d’una certa perspicacia e istruiti, sposarono delle figlie di Massari e massarotti, fabbricandosi palazzi e case e acquistando delle terre che coltivarono. Così dicesi dei Ballistreriri venuti da Caltagirone, uomini facoltosi, ma semplici e alla buona. Vediamo quindi clic il secolo XVII si chiude con un crescendo meraviglioso di popolazione non solo rurale, ma anche intellettuale in tutti i campi dello scibile umano. Il borgo per quanto ancora circoscritto, da un calcolo fatto poteva contare un 4 mila anime, aprendo così il nuovo secolo sotto migliori auspici. ** Torna su ** Cap. XVI l’ 800 Affacciandoci al 1800, col secolo XVIII, un’era nuova di pace, di prosperità, di benessere per tutti si inizia a Riesi col lavoro. Tra lo zolfo la vigna, le case, i palazzi che crescono, gli altri mestieri prosperano perchè, lavorando la muratura, tutti ne godono; la moneta circola, quindi la popolazione aumenta; molti vengono da fuori a trovare pane e lavoro e persino fortuna. Il lavoro incalza, le case e casette aumentano e per conseguenza le nuove vie. Qui è d’uopo smentire di sana pianta una diceria che alcuni fanno circolare e cioè che Riesi fu una terra di domicilio coatto. Ciò non è vero. Coloro i quali venivano qua erano attratti dal guadagno per mezzo del lavoro. Certamente non si può negare che chi sta bene nel proprio paese, generalmente non si muove; che dei facinorosi ve ne furono; ma fra questo fatto e il dire che Riesi era una terra di coatti, ci corre! Sfatata questa diceria per l’onore del nostro amato paese, seguitiamo a narrare la storia, giacchè la luce in questo secolo si fa più viva, noi ne siamo meglio informati. Col secolo XVIII fioriscono gli ingegni, la politica si fa sentire, si lotta per la liberta; i professionisti spiccano, una parte del popolo li segue. Per quanto in principio col Governo dei Borboni siamo ancora nell’oscurantismo, pure il paesetto di Riesi si fa sentire, si fa notare fra i paesi attorno. Le scuole vi sono e ne usufruiscono tutti, salvo le donne, le quali dipoi rompono il ghiaccio; la chiesa della Madrice si abbellisce sempre più ed una nuova chiesa cresce. Per contro nel detto secolo dobbiamo assistere ad una sequela di disgrazie, una più terribile dell’altra; si rimane scossi ma non si perde d’animo, si va avanti. Noi narrando praticamente i fatti accaduti, abbiamo fatto appello ai nostri vecchi ed infine alla nostra memoria. Un signore che rasenta il secolo, nato nel 1840, intelligente, di buona famiglia, istruito, ci fa notare la differenza tra l’epoca passata e la presente; un operaio della stessa epoca passata, del pari intelligente, ci racconta molte cose; un vecchio contadino di quel tempo si ricorda dei suoi giorni passati nelle campagne: nato sul poggio grande in mezzo alle mandre dei pastori, ci descrive la vita misera, stentata del suo quartiere, come al piano della Madrice vi cresceva ancora l’erba e vi venivano a pascolare le pecore. ** Torna su ** Cap. XVII lo zolfo - la vigna Al principio del 1800, fu trovato lo zolfo nel feudo Tallarita, alla riva sinistra del fiume Salso, mentre all’altra riva vi era la grande, ricca miniera del principe Trabia, in territorio di Sommatino. La nuova miniera prese il nome del feudo e cominciò ad essere pure importante simile all’altra vicina. Ecco la ricchezza. Assieme a quella di Portella di Pietro, gli operai zolfatai aumentano. Lo zolfo è un minerale utile che serve a tanti usi: alla fabbricazione della polvere da sparo, all’acido solforico medicinale, per le tinte dei tessuti, per i fiammiferi, per la vite ccc. La miniera Tallarita fu data in appalto ad una Società inglese per 39 anni. Dettà Società venne qui ad impiantare un cantiere. Operai di Riesi e di altri paesi accorsero per la lavorazione, di modo che la Domenica il suono dell’argento tintinnava nelle mani e nelle tasche di tutti. Immettendosi l’acqua del fiume dentro la miniera, abbisognarono delle sbarre di legno per tirarla fuori di notte e di giorno e di conseguenza nuovi operai nella mano d’opera. Allo scopo poi di agevolare gli operai, una piccola casuccia fu trasformata in cantina di vino e per vendita di pane e cacio. Coloro che la sera restavano in miniera, potevano rifocillarsi alla meglio. La Società inglese lasciò la miniera Tallarita prima di scadere il termine del contratto, nel 1825. Un operaio ardito di nome Giuseppe Faraci, vero tipo di zolfataio, azzardò di prenderla lui e lavorando e facendo lavorare, in 20 anni si arricchì di motto. Questo è lo zolfataio di cui parla il Baglio nel suo libro, dicendo che “divenne il più ricco proprietario del paese” . Giuseppe Faraci nacque il 4 Dicembre del 1799 da Giuseppe e Filippa Chiantia. Suo padre era un zolfataio, ma. il fratello del padre, Don Salvatore, era un agiato agrimensore. Giuseppe Faraci e il padre lavorarono da picconieri nella miniera Tallarita. Lasciatala gli inglesi, il figlio Giuseppe, con, l’aiuto dello zio che era ben quotato presso l’amministrazione dei Fuentes, volle pigliarsi in appalto la miniera e siccome la fortuna gli arrise, riuscì a farsi una buona posizione, disponendo di bella moneta. Non contento di ciò, prese pure in affitto la piccola miniera di Portella di Pietro e l’altra nuova di Strozzo nel feudo Spampinato. Lasciata la miniera Tallarita, prese quella di Galati nel territorio di Barrafranca, dove si arricchì ancor di più. Don Giuseppe Faraci da ricchissimo si fabbricò la casa o palazzo Faraci dalla parte del Lago, dando principio alla via che porta il suo nome. L’amministrazione o Casa Faraci a Riesi divenne importante. Da ricco sposò una certa Lucia La Marca di distinta famiglia, i di cui parenti furono piu volte Sindaci. Quando Don Giuseppe Faraci per la vendita dello zolfo andava a Licata, Catania, Messina o Palermo, viaggiando sfarzosamente col suo seguito, era Conosciuto e rispettato. A Palermo conobbe il Dott. Rosario Vassallo da S.Cataldo, professore d’Università che era vedovo. Il Faraci tanto fece, tanto disse che lo condusse a.Riesi dove gli fece sposare la figlia dello zio Don Salvatore Faraci che abitava di fronte la vecchia chiesa del Rosario. Ecco un’altra famiglia benemerita del paesetto, dove insieme alle altre si distinse; e oltre a queste famiglie, altre ne venivano e se ne aggregavano, dando maggior incremento, spiccando, onorando questo suolo col lavoro, la vita e l’ingegno, Già nel 1804 si era laureato in giurisprudenza, a Catania, il Sig. Matteo Sanfihippo, avvocato d’un certo valore che poi fu un Amministratore della Baronia. Questa nuova, ricca famiglia, era venuta da Palermo e non aveva a che fare con la prima, la quale era in decadenza. Nel 1806 venne qui come Notaro Don Gaspare Musarra. Egli, oltre ad essere Notaro, fu amministratore dei principi di Casa Trabia. Siccome il Musarra era molto ricco, rifiutò altre terre dei principi, dicendo che quelle che aveva a Riesi erano più che sufficienti. La famiglia Musarra viveva nelle case basse nei paraggi del piano del Crocifisso e il piano della Madrice. Dopo il Musarra nel 1810 venne Don Giuseppe Amarù da Pietraperzia, nella qualità di Ricevitore. Sposando la figlia Rosaria con il farmacista Don Francesco Correnti, si fabbricarono il palazzo in questa via del Rosario. Verso 1815 vennero da Delia i. tre fratelli Calogero, Rocco e Francesco Riccobene. Essi erano uno calzolaio, uno sensale e uno commerciante. Qui vi trovarono la fortuna e si fecero ricchi, acquistando terre e fabbricandosi delle case con camere. il Calogero sposò la figlia di un G. Pasqualino e si fabbricò la casa con il fondaco di fronte al suocero al piano del Crocifisso e mise su una piccola locanda con l’entrata dal cortile in via Grande. Nel 1802 altri tre fratelli fabbri-ferrai erano da Barcellona Pozzo di Gotto (provincia di Messina) per fare !a cancellata interna della chiesa della Madrice, il Campanile e la Croce alla facciata. Essi furono: Vito, Stefano e Luigi Matera. Tutti e tre presero moglie qui e prolificarono. Mastro Vito Matera fu il primo a mettere una botteguccia di merceria ai Quattro canti di fronte alla casa Pasqualino, innalzandovi due camerette al dammuso per fare il terzo Cantone di fianco al palazzo Correnti Giuseppe, al quale il padre Antonino aveva fatto fabbricare, sposandolo con Donna Vincenza Calafato. Rimaneva solo il quarto Cantone dalle casette basse col cortile dei signori Gueli e più in giù un altro cortile grande con la casa degli Scimena di fronte alla casa dei Dì Benedetto, allungarono il Corso. Nella merceria di mastro Vito Matera, per comprare i generi affluivano da tutti i punti e siccome vicino vi erano le bottegucce di generi alimentari, così gli abitanti si vedevano spesso in piana. La Casa Correnti-Calafato poteva dirsi rispettabile per censo, avendo molto traffico coi contadini. Le miniere di zolfo intanto avevano preso un serio è grande sviluppo: oltre Tallarita, Portella di Pietro e Strozzo, nel territorio si aggiunsero Pacienzia e Vallone fonduto. La Moculufa nel territorio di Ravariusa e Galati, vicine, diedero un buon contingente di zolfatai: un terzo della popolazione lavoratrice, possiamo calcolare che viveva del lavoro di dette miniere. Cli zolfatai erano considerati degli operai. Il lavoro faticoso li rendeva abbrutiti, ma in compenso, mentre per 6 giorni in miniera mangiavano pane e cipolla, il sabato sera, la domenica e il lunedì mattina in paese facevano una vita spendereccia. Nei giorni di festa vestivano bene col berretto e il fiocco e le loro donne, specialmente nei battesimi, in chiesa e nei matrimoni, sfoggiavano in lusso con lo scialle e piene d’oro. Lo zolfataio si distingueva subito nella vita. Andando in miniera, lavorava nudo, estirpando lo zolfo a colpi di piccone, che veniva trasportato fuori a spalla dai carusi, i quali erano pagati ad una misera giornata, mentre il picconiere era pagato a cottimo e per ogni cassa di un metro cubo riempita. I picconieri lavoravano a cottimo ed a partite di quattro o cinque. Ogni picconiere aveva due, tre o quattro carusi, i quali messi a quel lavoro per guadagnarsi la spesa fin dall’età di sei anni, crescevano deformi, rachitici e per lo più restavano carusi fino all’età matura e ignoranti. Entravano e uscivano dalla miniera come tanti diavoli, sotto il peso del masso grezzo, salendo le scale ripide, fetide e pericolose. Adolfo Rossi nella Tribuna del 1893 paragonò i buchi delle miniere di zolfo a tante bolgie dantesche. Quello che era vergognoso per i carusi era il cosiddetto morto. Consisteva nel dare il picconiere un anticipo alla famiglia del caruso; con una somma di lire cinquanta, cento e persino duecento il caruso rimaneva vincolato col suo principale fino a che scontava il morto: era difficile potersi svincolare il povero caruso, perchè le famiglie erano in ristretto bisogno. Picconieri e carusi nelle miniere ubbidivano al capo. mastro, al quale portavano rispetto. Questo stato d cose ora non c’è più, ma le miniere hanno continuato a dar pane e lavoro a molti operai. Un’altra fonte di ricchezza del secolo XVIII che si può chiamare il secolo d’oro per Riesi fu la vigna. Trovata adatta calcarca la terra, dal 1820 in poi tutti si misero a piantare la vite. Lo stato di Riesi, ossia la proprietà, essendo divisa e suddivisa, ancora gli operai erano dei piccoli proprietari, avendo, ognuno la loro vigna. Si soleva dire che: Chi ha una vigna, ha pane, vino e legna. E con la vigna nasceva il lavoro per tutti i contadini braccianti: zappa, potatura, vendemmia, l’allegra vendemmia e in mezzo alla vigna gli alberi da frutta, i parmenti per pigiare l’uva, la casa per i proprietari. Lavoro quindi non ne mancava, ed questa la ragione per cui da noi non vi sono mai stati tanti accattoni per le vie. La vigna!... la bella, rigogliosa vigna, dalle verdi pampine, dall’uva nera, bianca, rossa, dai grappoli dagli acini grossi, grandi, pesanti; e con l’uva i frutti abbondanti e il vino, il rinomato vino di Riesi! i contadini molto poveri (e ce n’erano a Riesi che formavano la classe dei diseredati, campavano la Vita stentatamente vendendo verdura di campagna: e cicoria, cardonì selvutìci, carciofi di spina, finocchi, fichi pali ecc. Tutti allevavano il maiale in casa, ma i detti contadini lo allevavano per risolvere il problema della casuccia in fitto. Per un anno lo tenevano in casa, carezzandolo, assieme con l’asino e le galline, poco curandosi de lo spettro della civiltà, come ebbe a scrivere una volta Napoleone Colajanni, il grande statista, parlando dei nostri paesi a proposito dell’animale immondo che i proprietari tenevano nella stalla. Quando vendevano il maiale che ammazzavano in casa propria, nella famiglia facevano festa perchò si trattenevano le entraglie, robs d’intra, e solo allora la povera gente poteva assaggiare la carne. Erano tempi di. miseria anche quelli del secolo scorso in cui vissero i nostri nonni. Relativamente a Riesi si stava bene, ma... contadini stavano male dappertutto: essi un po’ per la loro ignoranza un po’ per l’ingordigia padronale, sono stati sempre disprezzati. Col governo borbonico, specialmente, tutto andava a rotoli. Dal 1820 in poi con la legge napoleonica, nei Municipi si istituirono i Registri per gli atti pubblici, nascite, morti, matrimoni; parve che la vita doveva migliorarsi, ma fu un passo lento, il primo passo della civiltà, frutto della Rivoluzione francese coi diritti dell’uomo. Bisogna considerare però che si era sotto il Governo dei Borboni che lasciava i paesi del Regno delle Due Sicilie in completo abbandono e di conseguenza, quantunque abolita la feudalità, i signorotti, con le loro prepotenze, vi erano sempre. Venendo su gli anni, inoltrandoci nella prima metà del secolo, da bambini si cresceva e si diventava uomini nel senso vero della parola, atti a comprendere la dignità della vita. Ad ogni modo a Riesi tra lo zolfo e la vigna, col benessere, nella classe operaia c’era una specie di indipendenza; il popolo riesino si distingueva in tutto. ** Torna su ** Cap. XVII bis fatti – lotte religiose Per quanto da noi c’era quel che c’era, il paesetto di Riesi se da una parte cresceva, se aumentava, se c’era la divisione di classe, se i ricchi primeggiavano, se le scuole erano frequentate, si era ancora come le talpe. Onde provare in quale stato si trovava Riesi in quei. tempi, citiamo dei fatti. La viaggiatrice inglese Giovanna Pouwar che nel 1830 girò palmo a palmo la Sicilia, lasciandoci una Guida dei paesi dell’isola, giunta a Pietraperzia sul Capodarso, scrisse queste precise parole: “Al di là del Finocchiero trovasi Riesi dove vi sono delle zulfare “. La Pouwar divide il fiume Salso in tre nomi che sono: Il Petroliero che dalle sorgenti delle due Petralie va fino a Caltanissetta; il Finocchiero che bagna le terre di Pietraperzia, Riesi, Sommatino e Ravanusa e il Fangoso che va da Ravanusa a Licata, sua foce. Non sappiamo perchè la detta viaggiatrice chiami il Finocchiero questo braccio del fiume. Due decreti uscirono nel 1836 e nel 1838 dal re Ferdinando di Borbone per nostri paesi. Col primo decretò di fare una nuova Trazzera Regia da Barrafrunca, Riesi, Butera e Terranova (Gela) per agevolare il trasporto degli zolfi col secondo decreto aboliva la feudalità, dando alle popolazioni i diritti d’uso civico. “Visto — dice egli che aveva girato qua e là in Sicilia — le misere condizioni in cui si trova il nostro amato popolo, abbiamo decretato di dare i diritti d’uso civico, nascente dalle terre, spettante ai Comuni . La Trazzera Regia nominata Montagne e Marine che passa dalla Finocchiara va fino a Messina. Circa gli usi civici, una Circolare fu diramata dal vicerè marchese di Satriano agli Intendenti Prefetti di Sicilia per cercare nei Comuni se vi fossero tali diritti. E l’intendente di Caltanissetta per tre volle si rivolse a questo Decuriunato del tempo e per ben tre volte il Decurione (Sindaco) respinse la proposta dicendo che a Riesi non esistevano usi civici. Dopo questo fatto, un illustre sconosciuto fu di passaggio a Riesi. Venendo a cavallo da Butera, che allora era suffraganeo di Riesi, cerco alloggio nell’unica, piccola locanda dei Riccobene, ma non trovando posto, lasciato il cavallo al fondaco, se ne venne in piazza costernato. Certo Giorgio Ingrascina, uomo faceto, curioso e liberale (famiglia estintasi) gli si. avvicinò, levandolo dalla costernazione con dargli alloggio a casa sua. L’ospite illustre accettò. Lo Ingrascina aveva una btteguccia di terraglie vicino gli Accardi; sposato di recente, fece mettere alla moglie le lenzuola di bucato, mentre mandò la stessa a dormire dalla madre, certa Federico. Quella sera la cena si componeva di una minestra di cicoria, due uova e il solito tradizionale fiasco di mezzo litro di vino. Condivisero la cena e andarono a letto. La dimane, alzatisi per tempo, si recarono al fondaco a rilevare il cavallo dovendo il forestiero trasferirsi altrove, e anche qui il riesino volle essere gentile, accompagnandolo alle porte del paese. Giunti dietro la Montagna, nell’atto di dividersi, il forestiero nel ringraziare Ingrascìna gli diede una carta. Era nientemeno il Segretario del viceré, Cav. Ruggero Mistrangelo I°. Rientrato in paese, Don Giorgio fece sfoggio dell’illustre nome e saputolo il Decurione, montò su tutte le furie, dicendo che lo doveva condurre da lui, ma il nostro compaesano mostrandosi misterioso, si scusò. di non averlo conosciuto. Ma la storia non finisce qui. Si disse che lo Ingrascina dipoi andò a piedi a Palermo a trovare il suo ospite illustre, il quale lo accolse gentilmente, tenendolo con sè alcuni giorni. Ritornato a Riesi, mostrò il decreto di sensale Regio. Mentre il paesetto si allargava da tutti i punti, facendosi strada, diamo uno sguardo alla chiesa Madre e al Clero. Fin dal principio del secolo la chiesa e il Clero di Riesi passarono sotto la Diocesi di Caltagirone; perciò i Parroci venivano di li mentre i sacerdoti Cappellani erano quasi tutti del paese. Fermiamoci un momentino su Don Giuseppe Fernandez. Questo Parroco ci stiede 10 anni. Una sera, mentre egli si trovava in Sagrestia, fu fatto segno, da mano ignota, ad un colpo di pistola andato a Vuoto. L’indomani mattina il Fernandez prese una cavalcatura, per far ritorno alla sua città e arrivato alla figurella del. Crocifisso messosi a cavallo, rivoltosi all’indirizzo di Riesi disse: “Mandra ti trovai, mandra ti lascio mandra sarai…”. In sostituzione fu nominato Parroco Don Rocco Veneziano, di indole buona, mite e di famiglia patrizia, parente dei Jannl. Qui cominciano le dolenti note . Aspirando a tale carica il Cappellano Don Giuseppe Golisano, il Clero si divise in due partiti e malgrado il Veneziano avesse fatto fondere nel 1818 a Catania la Campana di mezzo, pure fu avversato tanto che si voleva dimettere; tuttavia rimase a quel posto fino al 1837. Aspiravano alta Parracatura i due giovani sacerdoti Don Gaetano D’Antona e Don Vincenzo Butera. Il D’Antona nato nel 1804 oltre ad essere un sacerdote, era un ricco possidente che continuò a fare l’impresa del padre nei feudi; il Butera era un principe della Teologia, persona stimata,. Giustizia vuole però il dire che in occasione della visita pastorale di Monsignor Menichini il prete D’Antona fu nominato Vicario. La lotta religiosa non cessò sì presto. Andato il D’Antona a Caltagirone, ritornò col titolo di Parroco. Il Butera concorse al posto di Pietraperzia e vi fu nominato, ma, oh ironia della sorte! anche il fu perseguitato, deposto, .e quindi costretto a ritornare a Riesi.. Così ci disse il vecchio prete Don Salvatore Riggio, morto ultimamente in età di 81 anni. .. . Dal 1838 dunque fu Parroco Don Gaetano D’Antona. Egli diceva: “Quanto mi dà a rendere quel tumolo di terra (la chiesa) nemmeno un feudo”. Sotto di lui il Clero era ricco e numeroso. Generoso quanto mai il Parroco D’Antona, senza trascurare la chiesa ne i parenti, volle incettare pure nelle miniere di zolfo, prendendo in gabella assieme ai fratelli Turco la miniera Taltarita, dove si arricchì ancor di piu La Casa del Parroco D’Antona, gareggiando con la Casa Faraci, divenne a Riesi motto importante il fratello Don Salvatore era il Vicario; i suoi parenti tutti vivevano del prestigio della Casa. Per altro egli era molto coraggioso. Si racconta di lui, che una volta trovandosi in campagna, a Castelluzzo, una compagnia di briganti la sera lo andò a trovare per una visita. L’Arciprete D’Antona apri loro le porte, li fece entrare, diede loro a mangiare e mise avanti il suo portafogli dicendo: “ Servitevi”. Quei galantuomini accettarono solo dei sigari, lo ringraziarono, si licenziarono, gli baciarono la mano dicendogli: “Vossignoria può camminare di notte e di giorno!”. Lasciamo per un momento il Parroco e passiamo ad altro. ** Torna su ** Cap. XVIII la chiesa di san giuseppe – il colera del 1837 Fu appunto in quei tempi che sorse, si fabbricò la simpatica chiesa di S. Giuseppe a spese di un ricco signore. Un privato si rese benemerito di questo grazioso dono, adornando al piccolo paese che si accrebbe di un’altra chiesa, di un’altro quartiere. Il Dott. Don Rocco Correnti, devoto di S. Giuseppe, pensò di lasciare questo monumento storico. Egli abitava nel palazzo lungo il Corso, ed essendo affetto da podagra, si faceva trasportare dai servi su una sedia a braccioli nella chiesa della Madrice. Ricco, munifico signore intellettuale, senza prole, tutta la sua proprietà, si può dire, l’adoperò a beneficio di detta chiesa. Scelto il punto sull’altura del poggio in linea retta del Corso che guarda la chiesa Madre, si mise all’opera, facendo venire un capo d’arte da Caltanissetta che fece il progetto da eseguirsi subito. Vi lavorò nella muratura il giovane manuale mastro Rosario Puzzanghera, nato il 1813 che, come vedremo in seguito, tanta parte ebbe negli avvenimenti politici del nostro paese. La muratura cominciò nel 1836 e fu consegnata dopo un anno indefesso lavoro; la facciata che prese la forma semplice con dei sostegni a metà della porta per l’illuminazione a lanterne, col suo campanile i merli, parve una cosa meravigliosa; su l’altura venne fatta una comoda scalinata per la facilità del pubblico. Un decoratore-disegnatore venne da Siracusa per l’interno della chiesa. Le ricche immagini, l’altare, il cornicione, l’organo e il pulpito sono lavori fini dell’8oo. La sagrestia accanto dava accesso ad un piccolo orto dalla parte di dietro la discesa. Insomma la chiesa di S. Giuseppe che misura m. 40 di’ lunghezza con m. 10 di larghezza, pari a mq. 400 e capace di contenere 2000 persone, fu aperta con un gran successo, accrescendo a Riesi un’altra Confraternita col Cappellano. La festa di S. Giuseppe si cominciò a celebrare la terza Domenica di Luglio; la statua del santo in legno massiccio tocca la perfezione dell’arte scultoria siracusana; un bastone di argento massiccio fu regalato. Dopo la festa della Madonna, possiamo dire che la festa di S. Giuseppe assunse ad una solennità tale da attirare numerosi forestieri; con musica e fuochi di Bengala, con la processione e le confraternite, si è sempre rallegrato il paese; l’illuminazione poi nei primi tempi, dentro e fuori la chiesa, era meravigliosa, fantastica. La Confraternita di S. Giuseppe fu la più numerosa di tutte. Composta di operai benestanti aveva un buon fondo di cassa che serviva per aiutare i confratelli nei bisogni della vita, specialmente nei funerali. Le quattro Confraternite avevano ciascuna il loro tamburo, quella di S. Giuseppe vestiva il bavero celeste. Il signor Rocco Correnti per la nuova chiesa fece ancora di più: donò quattro tumoli di buona terra al Margio come patrimonio del Cappellano, a patto però dice il contratto - che esso doveva essere un parente delle famiglie Correnti, Calafato o Golisano. E difatti in prima ci fu un Giuseppe Correnti, uno dei Calafato e indi il sacerdote Cappellano Don Luigi Molisano. E il Parroco D’Antona, volendo essere riconoscente al donatore della chiesa di S. Giuseppe Don Rocco Correnti, a nome della stessa, neI 1840 la processione dal Canale cominciò a farla passare avanti la detta chiesa e la casa del Correnti lungo il Corso. Fece fare una Croce di pietra, mettendola sul comignolo del poggio Grande, che d’allora prese il nome di quartiere della Croce. La festa del Venerdì santo prese un aspetto solenne, meraviglioso con la discesa dalla Croce del Cristo su una apposita urna di cristallo, tanto che si dice: Giunta di Terranova a scinnenza di Riesi,. La processione sull’imbrunire, dopo la giunta dei quattro canti tra l’Addolorata uscente dalla chiesa del Crocifisso e il Cristo dalla Madrice, sembrava una ferie. Nel brio della primavera tutto il popolo, senza distinzione di ceto, si riversava ai piedi della croce a fare “il viaggio, e dopo le tre ore dell’agonia, la processione bene ordinata, al lume delle candele, comparendo il letto dalla chiesa di S. Giuseppe, lentamente per la scalinata, attraversava il Corso per finire alla chiesa Madre. Ogni anno questa festa si celebra così, aggiungendovi anche la musica che suona marce funebri, ma le Confraternite da tempo non ci sono più. La festa di Pasqua con la Giunta al piano della Madrice o del Crocifisso o del Rosario, la mattina col Cristo risorto, il Salvatore degli uomini, la Madonna parata a festa e due enormi statue rappresentanti S. Pietro e S.Paolo, prendono la via dei Santi, seguiti dal popolo. Non sappiamo spiegarci che c’entra S. Paolo, il cieco fariseo, nella Resurrezione, come non sappiamo spiegarci che il Clero, tanto intelligente, abbia fatto passare questo anacronismo. Ad ogni modo, cosa fatta, capo ha; paese che vai,usanza che trovi. Ora dalle feste, passiamo al lutto. Proprio in quell’anno 1837 appena terminata la muratura della chiesa e si erano iniziati i lavori decorativi, in tutta la Sicilia scoppiò fulmineo il colera. Dappertutto si fecero i cordoni sanitari, sicchè nè la famiglia del capo d’arte, nè il’ decoratore poterono partire. I colerosi nei Comuni erano numerosissimi, i morti non si potevano contare. Chi vuole avere un’idea del terribile colera del 37 in Sicilia, legga nel bel romanzo di Giacomo Oddo su L’Apostata siciliana, la pagina che riguarda Palermo. Non c’era famiglia nella quale non vi fosse uno o due morti di colera; basti dire che i becchini la sera non avevano il tempo di trasportare i cadaveri, tanto che il Sindaco diede ordine di accendere un fanale avanti la porta dei deccesi dl morbo crudele. Le notti scrive lo scrittore, Palermo era tutta illuminata. Immaginiamo quel che ci poteva essere nelle vie di Riesi, nelle case, fra le famiglie. Presi alla sprovvista, non conoscendosi il male e senza mezzi di soccorso, la povera gente non sapeva che cosa fare. I medici chiamati a destra e a sinistra non sapevano nulla di nulla, cosicché anche i ricchi morivano colpiti dalla peste; pochi erano coloro che si salvavano dal colera morbus. Vi erano quelli che dicevano: Ci vien dagli uomini, non vien da Dio Molti credevano che il colera lo gettassero, certuni lo credevano e lo credono tuttavia per ignoranza o in buona fede, altri lo facevano credere allo scopo di rubare, come altresì si credeva al lupo Mannaro per lo stesso scopo; e questa superstizione del lupo Mannaro esiste nel popolo basso napoletano. Essa viene raccolta dal Dott. Axel Munhte ad Anacapri nel suo meraviglioso libro: La storia di S. Michele (voI. di 6oo pag. Fratelli Treves). Nessuna meraviglia adunque se nei riesini, popolino sparso in fondo alla Sicilia, vi era tale superstizione. ci viene dagli0. uomini il colera per causa dell’igiene. Ad ogni modo il colera durò tre mesi: Giugno, Luglio ed Agosto e fu il caso poi che i palermitani condussero seco loro il giovane R. Puzzanghera, il quale, perfezionatosi nella muratura, ritornò a Riesi e mise su casa. Questo operaio analfabeta, filosofo, contribuì con la vita e il lavoro al liberalismo e all’incremento del paese ** Torna su ** Cap. XIX la societa’ segreta – lotte politiche Riesi non progrediva solamente numericamente e finanziariamente, ma progrediva anche intellettualmente e liberalmente. Formatosi il ceto pensante con una schiera di buoni professionisti, alcuni di essi volsero il pensiero all’idea della libertà politica, immischiandosi nei Risorgimento italiano ed aprendo gli occhi ad una fazione dei popolo tra operai, zolfatai e contadini. I nostri professionisti liberali, cercando il miglioramento della vita sociale, si affermarono lottatori intrepidi, coraggiosi e benefattori. Essi ebbero di fronte il Governo, la chiesa e la Baronia, eppure non retrocessero. Che importava se i loro padri la pensavano diversamente? Che importava se ebbero umili natali? Bisognava lottare. Era ben naturale che i figli dei ricchi, degli agiati e persino degli operai benestanti andassero fuori a studiare. I padri facevano enormi sacrifici pur di riuscire i figli, ma le difficoltà erano immense. Senza mezzi dì comunicazione, con le sole trazzere regie, coi dirupi e scoscesi negli accorciatoi, con le piene del Salso, a quei tempi era un problema molto difficile il viaggiare in cavalcature. Aggiungete a tutto questo il pericolo degli amici, cioè i briganti, che trovandosi alla passata vi domandavano o la borsa o la vita e spesse volte vi levavano e la borsa e la vita. Gli è vero che c’erano i Compagni d’armi che sorvegliavano le campagne, ma costoro erano ladri di notte sbirri di giorno cioè complici dei ladri. Il governo borbonico aveva la massima di reclutare i vagabondi dei paesI per non farli rubare, vestendoli da militi a cavallo, ma quegli erano l’uno e l’altro e salvo a pagare una grossa taglia per aver salva la vita, i Compagni d’armi facevano quel mestieraccio. Vestivano in divisa con una lunga sciabola, armati di moschetto e pistola, andavano a cavallo e nei paesi del Governo dei Borboni rappresentavano la forza pubblica. Detti sbirri, amici degli amiici, odiavano i liberali. A Riesi ce n’erano una mezza dozzina. Tutto questo lo abbiamo detto incidentalmente, per provare come il viaggio degli studenti e dei loro padri, ai tempi dei quali scriviamo, era un serio rischio. Bello l’esempio i Don Giuseppe Correnti, il quale andò a chiudere i due suoi figli Antonino e Giuseppe a Bronte (prov. di Catania) e mai volle farli venire a Riesi, malgrado l’ardente desiderio della madre, fino a che terminassero il Ginnasio. A Bronte vi era un rinomato Collegio dei gesuiti e molti vi andavano per studiare, ma si andava anche a Caltagirone, Piazza Armerina, Caltanissetta, Catania e Palermo. I laureati adunque, ritornati in paese esercitavano con onore la loro professione. E bene sapere che i loro guadagni non erano tanto famosi e per lo piu vivevano del proprio. Ci si informa che un medico nelle famiglie ricche, pagato ad anno, aveva dieci lire e spesse volte domandava l’anticipo di sei mesi; una visita agli ammalati era tre turi, pari a una lira e 25 centesimi; nelle famiglie povere un galletto che costava una lira o qualche altro regaluccio. Alcuni di essi laureati nel 1840 fondarono la Società segreta “La Giovane Italia” a cui faceva capo il grande pensatore genovese Giuseppe Mazzini, l’apostolo della libertà italiana. I primi furono: il Dott. Don Giuseppe Matera, il Dott. Don Gaetano Giuliuna, l’avv. Don Calogero Accardi, il farmacista Don Salvatore Bartoli, il negoziante DOn Salvatore Di Lorenzo, mastro Rosario Puzzanghera, lo zolfataio Leopoldo Turco il falegname Michelangelo Mazzapica e i contadini Calogero Chiolo, Rocco Scimeca e un certo Santo Balbo. Anima della Società segreta era il giovane studente Giuseppe Quattrocchi del fu Dott. Luigi e Mara Anna Pasqualino, nato nel 1830 Nipote del Giudice Don Onofrio Pasqualino, che fu il più piccolo dei figli di Don Francesco e Caterina Inglesi; il giovane Quattrocchi da ragazzo fu inviso allo zio per l’ingegno, la politica e la vivacità. Il Dott. Matera, nato nel 1809, era figlio di mastro Vito e Saveria Sarpietro. Contrariamente alla volontà del padre che lo aveva mandato a Caltagirone a perfezionarsi nel mestiere di chiavettiere, il figlio fuggi a Catania dove, studiando, si laureò in medicina. Il Dott. Giuliana. figlio del Massaro Salvatore e di Filippa Giuliana, nacque nel 1810. Avendo da bambino dimostrato di avere buon ingegno ed appassionandosi nella medicina, la famiglia lo assecondò nelle di lui aspirazioni, per cui divenne un bravo melico. L’avv. Accardi era figlio del Massaratto Giuseppe e di Provvidenza Verso. Nacque nel 1807 e studiò legge a Catania. Irruente nelle difese, era un uomo coraggioso. Il farmacista Don Salvatore Bartoli, figlio di mastro Giacomo, cretaio, e di certa Di Benedetto, nacque nel 1818. Contrattò matrimonio con Crocifissa Di Lorenzo ed apri la sua farmacia in via Grande. Di Lorenzo fu un negoziante di tessuti. Venuto da Lipari. sposò qui Maria Catena Butera e fece fortuna, fabbricandosi la casa in via Grande. I membri della Società segreta si riunivano in una cameretta di certa Maria Lupo nel cortile del piano del Crocifisso che dava nel Corso. Ivi la notte si congiurava, leggendosi le lettere di Mazzini e di Garibaldi. Si dice che le lettere erano scritte col sugo di limone e che bruciandosi la carta, il contenuto si leggeva perfettamente bene, indi si distruggevano. Ben presto però la polizia borbonica venne a sapere i nomi degli affiliati della Giovane Italia, che ne erano spiati continuamente. il giovane Quattrocchi, trovato sospetto, fu arrestato a Catania e mandato a domicilio coatto a Favignana, per sei mesi. Lo zio avv. Don Luigi Pasqualino vi andò a tenergli compagnia cercando di dissuaderlo, ma Peppino, negando, si mantenne serio. Siccome lo zio era un pezzo grosso della Polizia, cosi lo liberò. Venuto a Riesi, abbracciò la madre cercò i compagni e’ riparti per Catania, onde continuare a frequentare l’Università ramo legge. A Catania una volta in una villa si incontrò con Mazzini che lo baciò alla presenza degli affiliati catanesi. La Società segreta qui era terribilmente avversata dal potere giudiziario, di cui era Giudice, dopo la morte del fratello l’avv. Don Onofrio Pasqualino; dal potere amministrativo i cui Decurioni si aggiravano fra i Martorana, i La Marca, i Debilio e i Pasqualino; dal Clero con a capo l’Arciprete D’Antona che era una potenza e dalla baronia, i cui amministratori erano qualche cosa. Gli altri civili, se non facevano della politica, erano ligi ai su detti signori; il popolino seguiva i grandi, e perciò i liberali erano odiati e chiamati dei pazzi. La lotta era impari; la politica fra travedere e intravedere giunge alla personalità; la sbirruglia borbonica era a disposizione dei Comandanti, quindi i liberali erano continuamente bersagliati, perseguitati; ma quei sognatori che seguivano la politica generale dell’Unità italiana, stavano fermi, la ridevano sotto i baffi e lasciavano dire e lasciavano fare. L’odiato straniero in casa nostra col “bastone tedesco” imparento cui borboni, adoperava tutti i mezzi per reprimere il movimento avversario, ma la Società segreta in tutta Italia lavorava con accanimento; il foglio di Mazzini su la Giovane Italia arrivava ovunque; in questo estremo lembo vi penetrava e si leggeva, sebbene nascostamente. Le lotte politiche così si acuivano: gli sbirri facevano il loro mestiere di spiare e rapportare. Il vecchio Dott. Rosario Vassallo col Sig. Faraci, per quanto se ne stessero in disparte, disapprovavano la condotta dei clerico-giudiziario-baronali. ** Torna su ** Cap. XX il 1848 Scoppiata la Rivoluzione in Palermo ai 12 di Gennaio di quell’anno memorabile 1848 con a capo il Conte Ruggiero Settimo e l’Avv. Giuseppe La Masa per avere lo Statuto dal Governo delle Due Sicilie, i Comuni dell’isola avendo saputo che le truppe borboniche fuggirono, insorsero. Il momento fu grave. La ribellione dappertutto diede luogo ai saccheggi, agli omicidi, alle vendette private; la teppa approfittò del momento par fare man salva. Non tutti cercarono l’idea della liberta politica; i capi rivoluzionari ne furono compromessi: si sparse del sangue. A Riesi però non fu cosi. I partiti contrari presero prima, armando i loro amici che fecero fuggire i liberali, i quali si ridussero nascosti nelle campagne. Costituitosi in Sicilia il Governo provvisorio, i nostri se ne vennero a casa: sicche da noi non successe nulla di nulla. Col Parlamento siciliano di Ruggiero Settimo e La Masa, le cose parvero migliorarsi: i clericali e i partiti affini, stettero zitti; i liberali dal canto loro pacificamente, credettero di aver preso il terno. Ma ohimè, fu un sogno. La stessa rivoluzione successe a Napoli un mese dopo. Ferdinando di Borbone spaventato di ciò, affacciatosi dal balcone del palazzo reale, promise al popolo napoletano di dare lo Statuto. Ma questo. lo sappiamo dalla storia fu un inganno, il re divenne spergiuro: egli dopo alcuni giorni, di notte tempo fece arrestare tutti i capi liberali del suo Regno e fu peggio di prima. Gli arrestati a Riesi furono: 1. Il giovane Giuseppe Quattrocchi, L’arresto avvenne in modo drammatico. Piombata la sbirraglia borbonica dietro la porta, egli fu svegliato dalla madre: ebbe il tempo di vestirsi, immettersi nella pugliarola all’entrata del portone dei Pasqualino, dove c’era un fosso in fondo. Saliti gli sbirri, cercarono dappertutto la casa, non trovandolo se ne scesero; ma tal Giovanni Calamita fabbro ferraio, spia segreta, li condusse dietro al portone facendo aprire: gli stessi parenti dei Pasqualino pér intercessione della madre, glielo consegnarono. Condottolo al Carcere, lo consegnarono e lo chiusero dentro, facendolo guardare da un compagno d’arme. 2. Poi passarono al piano del Crocifisso nel cortile dei Butera, per l’abitazione del Dott. G. Matera da un scala, esterna che ancora esiste diruta e triste ricordo di quel fatto. Bussati alla porta, svegliatosi il Dottore, questi dissi di aspettare un momento, inteso il rumore delle sciabole. Uomo socratico, accesa la candela, si vestì, baciò la moglie, figlie e figli ed aprì. Egli fu condotto al carcere assieme all’altro. 3. Di corsa si recarono al Lago nella casa Accardi l’avv. Don Calogero, più Vivace ed energico, aveva tentato scappare dal tettaccio, ma un colpo di pistola a scanso, sparatogli da un antiliberale, che non nominiamo per amor del prossimo e per carità di patria, fece atterrire la famiglia; fu gioco forza arrendersi. 4. Indi passando dalla via del Parroco, venendo giù salirono da Don Salvatore Di Lorenzo che svegliatolo lo fecero levare e lo arrestarono. La moglie ignara del perché, affacciatasi al balcone si mise a piangere e a gridare: “Hanno arrestato mio marito… hanno arrestato mio marito…”. Fattosi giorno si seppe la notizia dello arresto. Scesi in piazza (quattro Canti) Don Giuseppe Faraci e Don Giuseppe Correnti criticarono l’operato della polizia; il popolo rimase muto, triste, atterrito. Gli arrestati la mattina stessa furono fatti partire per Palermo. Arrivati a Caltanissetta li fecero sostare nel carcere del Centrale fra i delinquenti volgari. Bella la tirata di Don Calogero Accardi con un capo mafioso. Un recoluto della mafia, si presentò ai quattro nuovi arrivati dicendo che dovevano pagare il diritto giusto il Codice della Mafia. Lo Accardi si fece spiegare in che cosa consisteva questo pizzu e questo Codice e di botto domandò: — E se non lo vogliamo pagare? Botta e risposta: — Allora c’è la tirata.... —Come ?.... — Con i coltelli — Con chi? — Col Capo... — Quando? — Domani mattina all’aria. Ebbene accetto i disse Don Calogero risoluto. — A domani e, li lasciò. E difatti l’indomani, all’ora che i carcerati dovevano andare a prendere una boccata d’aria, nell’atrio, vi doveva essere la tirata. Don Calogero, uscendo dalla cella, seguito, dai compagni, nel corridoio, vedendo un grosso ciottolone, lo estirpò e se io mise in mano sotto la giacca. Il capo mafia, si presentò con un lungo coltello di coscia acuminato, pronto alla sfida; ma il riesino fatti due passi indietro, mostrando il ciottolone, in atto di tirarlo contro il mafioso, disse Largo! ..; Ma i carcerati presenti gridarono: No... no... non è cosi che si fa la tirata — L’avy Accardi; “io cosi sono abituato a tirare ai buoi della mia Masseria”. Il mafioso rimase perplesso; i suoi amici gli fecero cadere il coltellaccio dalle mani e lì fecero conciliare; la onde il liberale di Riesi esclamò: “Come! noi siamo di passaggio qui, perché arrestati politici e voi ci volete far pagare il pizzo?” Infatti essi furono deportati alla Quinta casa, carcere di Palermo, insieme agli altri arrestati politici dell’isola. Il processo non fu tanto lunghetto, la Sentenza non si fece tanto aspettare: tutti i capi furono condannati alla pena di morte “rei di avere fomentata la Rivoluzione contro lo Stato e di avere fatto commettere saccheggi e uccisioni “. Giusto in quel momento si trovava in Palermo il Giudice Pasqualino, il quale recatosi alla Quinta casa, fece chiamare i compaesani, ai quali disse loro: “Sapete, mi dispiace il dirvelo, è stata firmata la vostra Sentenza”. Giunta a Riesi la notizia, le povere famiglie si chiusero nel lutto, gli amici esterrefatti, repressero il dolore. Donna Maria Anna Pasqualino, la madre di Peppino, pazza dal dolore, risolvette di andare a Palermo, facendosi accompagnare da un parente. Per fortuna ivi si incontrarono con il prete concittadino P. Ercole Volpe dei Gesuiti di Casa Professa: il quale era amico del Rettore, Cappellano di Corte, confessore della vice regina. D’accordo combinarono di andare dal vice—re, marchese di Satriano per chiedergli la grazia sovrana con una Supplica. Cosi fecero.. Il vice re ascoltò con deferenza la nobile donna e, sfogliate le carte, visto che a Riesi non c’era stato niente; ascoltato il parere del Segretario di Stato, uditi i PP. gesuiti accordò la grazia ai quattro riesini. Il Segretario di Stato volle conoscere il Quattrocchi accompagnando la madre al Carcere. Li, avvenne la scena che riportiamo, informati da una donna liberale del 48 Il carceriere chiama ad alta voce: — Giuseppe Quattrocchi fu Luigi da Riesi? — presente — Siete libero; qui c’è vostra madre che vi aspetta. Peppino si preparava ad uscire. Dottor Giuseppe Matera, idem; avvocato Calogero Accardi; Don Salvatore di Lorenzo, idem potete uscire, siete in libertà. Il primo ad uscire fu Peppino che volò fra le braccia della madre che se lo strinse baciandolo: Libero... libero, figlio io, ti ho salvato dalla morte; si sei libero… A questa scena il Segretario di Stato, mirando il figlio: —. Imberbe giovanotto, abbaia per l’osso; glielo daremo! E Peppino Quattrocchi, svincolatosi dalle braccia della madre guardandolo con disprezzo col dito teso, gli fa: L’osso lo faremo mangiare a te, noi liberali sbirro sfottuto! E la signora messagli la mano in bocca: — No... no, figlio mio, non dir così! E rivotasi al Segretario: — Lo compatisca, signore lo compatisca!.... Quegli scrollando le spalle, se ne uscì. Gli altri tre furono pronti e se ne uscirono dalla prigione tutti e cinque. Ebbero il tempo di andare a ringraziare il P. Ercole, prendere un boccone e venirsene a casa; già la notizia era arrivata a mezzo del Sindaco che in quell’anno 48 era il Sig. Giuseppe Martorana, uomo piuttosto dei fatti suoi. I nostri liberali mostrandosi in piazza, furono adocchiati da tutti e specialmente fatti segno dai contro partito, Già un’altra volta il Quattrocchii fu arrestato ed egli disse allo zio: inutile quel che fate, anche se mi infilate dentro un fiasco quel che sono sono; quel deve avvenire, deve avvenire....! Siccome il Governo borbonico si intitolò poi il Buon ordine, così i siciliani ripresero la vita normale; e il Governo del Bonordine avendo bisogno di moneta ricorse ad un prestito Nazionale per far fronte alle spese, previo il titolo di barone; a Riesi concorsero il Notaro Onofrio Inglesi e Don Giuseppe Faraci, i quali furono nominati baroni; ma il Faraci non volle mai esser tale per modestia nella sua grandezza continuando a lavorare, anzi… una volta sceso di notte nella miniera Galati si levò la giacca e tracciò egli stesso una galleria, insegnando al capo mastro come doveva fare. Questo era l’uomo di quel tempo!… ** Torna su ** Cap. XXI Miseria e filantropia – colera del 54 – Aspettando, i liberali si fortificano Dopo il 1848, seguirono tre anni di carestia a cagione della siccità. Il paesetto faceva circa 7 mila abitanti. La massa dei contadini soffriva la fame; le fave si vendevano a sei un grano la cicoria si mangiava cotta senza olio; la povera gente non aveva lavoro. La miseria era estrema. Allora i proprietari aprirono i magazzini per soccorrere i bisognosi. I primi a dare l’esempio furono Don Giuseppe Faraci, Don Giuseppe Correnti ed il Parroco D?Antona. Il frumento si distribuiva generosamente a seconda la famiglia che ne aveva bisogno; Don Giuseppe Faraci scendeva in magazzino e dava persino del la moneta per il macino. Il Municipio dal canto suo prestava anch’esso l’opera assistenziale contribuendo con una data sommetta, dando ordini precisi in sollievo della popolazione sofferente; i liberali dal canto loro nascostamente facevano il loro dovere senza mostrar la mano alla plebe, la quale in simili casi non sa quale santo votarsi. Questi atti di filantropia stringevano il popolo coi ricchi, i quali erano larghi di cuore, specialmente i Massari che amavano i lavoratori della terra. I filantropi, benefattori, erano segnati a dito dai beneficati, i quali si mostravano riconoscenti ad ogni piè sospinto. La chiesa o meglio le chiese erano affollate per ricevere non il pane materiale, ma la dolce parola del conforto spirituale. Certamente che in mezzo alle rose vi erano le spine pungenti che qualche volta facevano il sangue, ma in generale si possa dire che la miseria veniva alleviata. Per ben tre anni durò questa brutta miseria, cioè fino al 1852; dopo la siccità cessò, la pioggia venne; ì lavori della campagna si riaprirono, i contadini ripresero la vita normale mancando il lavoro manca tutto, il commercio si paralizza col lavoro viene l’abbondanza; la miseria nera non si fa sentire, si sopporta la povertà. Nascer poveri non è un delitto, ma la povertà spinge a mal fare. Ecco perché succedevano dei furti: salvo i ladri di mestieri, i ladruncoli o i pagliarolara erano arrestati, imprigionati, condannati e le famiglie soffrivano di più. Nel 54 scoppiò un’altro colera più fulminante del primo, quello del 37. Stavolta l’infezione la portarono i terranovesi venuti a vendere del frumento comprato da un bastimento indiano, si disse; sicché esso colera fu isolato in pochi paesi attorno. Era l’andazzo della vendemmia, tra gli ultimi di Agosto e Settembre, la gente si trovava in campagna e nessuno volle ritornare in paese: La frutta si gettava. Anche nelle campagne il colera faceva strage; c’era chi seppelliva i cadaveri sul luogo stesso, chi li portava sui muli o su di una scala a pioli avvolti nei materassi o stracci. Nulle fosse delle chiese in paese erano i parenti stessi che venivano a gettare i loro cari, perché i becchini non avevano il tempo di seppellire i morti. Aggiungiamo che le piogge torrenziali di Settembre e di Ottobre rovinarono il raccolto del mosto e per le trazzere, viottoli e sentieri, resi impraticabili, nemmeno si poteva trasportare. Il colera cessò nella prima quindicina di Ottobre. Quando i proprietari rientrarono in paese, trovarono gli abitanti superstiti desolati nelle loro case, decimati dal morbo crudele; ma poi si riprese la via dell’ascesa. I proprietari infatti istituirono il Monte frumento pei venire in auto ai piccoli mezzadri, anticipando loro le sementi. Il magazzino era gestito dal Municipio fino al 1915, ed ora, con decreto luogotenenziale si chiama: Cassa Comunale di CrediLo Agrario. Passata questa jattatura, venne la calma. E’ bene pensare un pò ai liberali che si fortificano, poiché l’alta politica di Vittorio Emanuele II, nuovo Re del Piemonte, col Conte Camillo Benso di Cavour, pensando ai destini d’Italia, dava molto a sperare. Ma, oltre ad essi, altri liberali vennero ad ingrossare le nostre file dei lottatori ; buoni propagandisti oculati, guadagnando terreno nella Società Segreta, aspettavano. Due buoni elementi furono: 1) Don Girolamo Caramanna da Marineo (Prov. di Pa lermo), figlio di un farmacista che apprese il mestiere di sarto nella detta città: il 48 si trovò fra gli insorti, perseguitati dal famoso Generale borbonico Del Carretto, fu ferito alla gamba destra sotto Acireale, e, messosi fuori combattimento, si ricoverò in una casa di campagna dove fu curato. Guaritosi - andò girovagando fìnchè nel ‘55 si ridusse qui a Riesi, dove trovò lavoro nella sartoria di Don Giuseppe Alfano, venuto da Racalmuto (prov. di Agrigento), che sposatosi con una Golisano, fece fortuna. Il Curamanna, che aveva avuto il battesimo di sangue, conobbe i suoi amici politici coi quali entrò in relazione. A poco a poco sì rese pratico del paesetto: frequentando la famiglia Di Benedetto sposò la figlia a nome Grazia. Allora smise di fare il sarto e mise su un negozio di tessuti; oltre a ciò ricettava dei cereali guadagnando bene. Nella Società Segreta contribuiva largamente e nei negozi, tra una parola e l’altra, seminava il germe della libertà. Quel che fece poi lo vediamo fra breve. 2) Giuseppe Bruno o don Pippo fu un’altro membro, affiliato, attivo, entusiasta, ricco: contribuì non solo al partito liberale, ma con l’ingegno della famiglia onorò Riesi.. Don Pippo Bruno era oriundo da Nicosia (prov. di Catania). Egli, di famiglia patrizia, per il suo liberalismo era odiato da un fratello monaco e dai suoi. Un giorno, stufo dei disprezzi, fuggi da casa e prese la via della campagna; incontratosi coi briganti, si uni con loro per vivere e scorazzare di qua e di là, giunsero nel feudo Tallarita, alla miniera. Qui Don Pippo, lasciata la masnada, si impiegò come contabile presso l’amministrazione del Parroco. Ciò fu nel ‘57. Conobbe la ricca famiglia dei Buttiglieri e ne sposò la figlia Lucia, la quale gli portò una vistose dote. Mettendo su casa, se la fabbricò dentro il cortile di Via Verso con la prospettiva dalla traversa Chiantia, al Rosario. Il Bruno, morti i di lui genitori, ebbe la parte spettategli della ricca proprietà. Ricco intellettuale, mantenne i suoi figli .e le sue figlie agli studi a Napoli. Uomo liberale, Don Pippo Bruno fece causa comune con la Società Segreta. i tempi si andavano maturando; le battaglie di San Martino e di Solferino, con esito favorevole all’Italia per aver cacciato lo straniero dalla Lombardia, facevano guadagnar terreno, giorno dopo giorno, ai liberali. ** Torna su ** Cap. XXII il 1860 Dal 1848 al 60, dodici anni passarono in un fiat. L’alba del 12 Maggio 1860 spuntò bella, radiosa per tutta l’isola dì Sicilia. Si disse che il Generale Giuseppe Garibaldi con mille uomini volontari, era sbarcato a Marsala; i clericali, baronalì, realisti si affrettarono a voler smentire la notizia, ma dopo il proclama di Salemi – 15 Maggio - quando Giuseppe Quattrocchi volò da Catania a venirlo a leggere non vi fu piu ritegno. Un movimento insolito ogni giorno si notava; i liberali scesero in piazza; la casa del Quattrocchi era frequentata con un via vai di persone d’ogni ceto; la battaglia di Calatafimi, in cui la spada fiammeggiante dell’Eroe dei due Monti mise in rotta i soldati borbonici, fu appresa con soddisfazione; e il 27 Maggio l’entrata di Palermo convinsero Don Giuseppe Faraci e Don Francesco D’Antona, fratello del Parroco, a stringere la mano al Quattrocchi e comprimendosi a loro. L’entusiasmo ognora crescente, avvinceva l’animo dei riesini: gli indifferenti, i tiepidi si affiancavano ai liberali, mostrandosi in pubblico contenti; il Clero, gli increduli, gli interessati se ne stavano lontani, spettatori. Ma Garibaldi scriveva a Don Calogero Accardi che aveva bisogno di uomini per passar lo Stretto di Messina e giungere a Napoli onde snidare la dinastia dei Borboni. Allora si formò un Comitato di cui risultò presidente Don Giuseppe Faraci. intanto il Generale Nino Bixio era giunto a: Terranova (Gela) per fare l’arruolamento dei volontari. Un Sergente dei garibaldini venne per lo stesso scopo qui. Si iscrissero e partirono: 1. Francesco Matera, figlio del Dottore; 2. Francesco D’Antona di Francesco; 3. Antonino Correnti Di Giuseppe, chierico; 4. Giuseppe Celestri di Giuseppe, studente; 5. Francesco Infantone, pittore; 6. Giuseppe Ferro, musicante; 7. Luigi Matera, fabbro ferraio; 8. Matteo Mercurio calzolaio; 9. Nicolò Scibetta, barbiere; 10. D’Aleo Carmelo, stagnino; 11. Francesco Mulè, figlio del sagrestano della Madrice; 12. Francesco Lo Grasso, zolfataio; 13. Giovanni Giuliana, agricoltore;1 14. Antonio Zagarella, contadino; 15. Giovanni Dilegami, tamburinaio. Ne sarebbero partiti di più se non fossero stati trattenuti dalle madri, dalle mogli, dai figli. L’Avv. Don Calogero Accardi volle accompagnarli fino a Terranova per entusiasmarli. Bello esempio dei due suoi figli, Giuseppe e Calogero, che, venendo dal mulino del Rizzuto con le mule cariche di farina, affidate le bestie a dei contadini, seguirono gli altri. Non tutti però partirono col desiderio di combattere per la libertà: al alcuni vi andarono per secondi fini; laonde arrivati a Leonforte, quando Nino Bixio mise l’ordine: “Chi ruba va fucilato”, i tali di tutti i paesi se ne ritornarono alle loro case. Da Gela ritornarono Don Calogero e i figli; Don Giuseppe Correnti si parti da Riesi e andò a cavallo a rilevare suo figlio a S. Caterina, presentandosi a Garibaldi che si era unito con Bixio per marciare alla volta di Messina. E il Generale fu ossequiente alla volontà del padre. Laonde Antonino Correnti si strappò il collare, non volle più farsi prete - e questo fu un bene perché divenne quel che divenne, e che a suo tempo vedremo. Coloro dei nostri paesani che vestirono la camicia rossa a Messina, furono chiamati d’urgenza di rinforzo nella terribile battaglia di Milazzo del 20 Luglio, descritta da Alessandro Dumas (padre) nel suo romanzo I GARIBALDINI dove Caribaldi perdette il meglio dei suoi Ufficiali e soldati, senza punto scomporsi, dicendo: “La mia palla ancora fusa”. I borbonici, comandati dal Generale Bosco, siracusano, si erano nascosti dentro il vallone, fra i fichi-pali; i garibaldini venivano da Palermo, il Generale mandò le guide per vedere se si poteva passare da Milazzo; esse passarono inosservate facendo segno di venire avanti; ma l’agguato, il tranello fu che al petto del vallone incominciò la fucileria; i garibaldini cadevano numerosi e in breve l’esercito fu decimato. Intanto, mentre ai borbonici andavano esaurendosi le munizioni, ai garibaldini giunsero dei, rinforzi non solo da Messina, ma anche dai paesi vicini, e così la posizione fu salvata. I borbonici furono presi prigionieri: Bosco, il bravo generale, tra fischi e urla, fu accompagnato bordo dl un battello. I garibaldini andarono avanti verso la città del Faro, onde passare la Stretto ed incamminarsi per le vie delle Calabrie. Dopo questo fatto d’armi, Francesco Matera scrisse al padre: Caro papà, abbiamo avuto a Milazzo uno scontro coi borbonici ed abbiamo vinto, presa la fortezza della cittadella, ora dobbiamo marciare verso Napoli, con la speranza di abbattere i borboni; col Generale Garibaldi non si perde mai, I ma si vince sempre. I nostri compaesani stanno tutti bene. Dirai alla nonna che Luigi (zio) è stato fatto trombettiere. Io e Ferro saremo caporali; tutti salutano le famiglie. - (Messina 30 Luglio 1860) . Avuta questa lettera nelle mani, il IDott. Matera la comunicò prima a la signora Antonina Ferro che abitava di fronte alla di lui casa nello stesso cortile, dicendole che i nostri avevano fatto urna scaramuccia coi regi, e poi, tutto contento si recò dalla matrigna dicendole che Luigi era stato fatto trombettiere. Sia l’una che l’altra donna si misero a vociare e a piangere, credendo chi sa che cosa, in modo che le altre famiglie dei garibaldini in breve si allarmarono e il paesetto fu sottosopra. Allora Don Girolamo Caramanna e Don Pippo Bruno girando le famiglie, le rassicuravano, apportando anche degli aiuti materiali alle più bisognose. La notizia della battaglia decisiva sul Volturno non si fece tanto aspettare. La dinastia d borboni era distrutta il Regno delle due Sicilie era crollato. “Garibaldi fu d’un gran popolo Redentore; compiendo il sogno di molle età”. Don Girolamo Caramanna, pazzo li gioia, andava gridando: “Cadi, cadì la mula!”. Con l’incontro di Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano salutato il primo Re d’Italia, Riesi si decise di partecipare al plebiscito. Quindi si allestirono le coccarde tricolori da fregiarsi il petto. Don Girolamo Caramamma le appuntava, proferendo il motto: “Chi non la mette è sorce”. Allo spiazzale della Madrice, battezzato “Piazza Garibaldi”, si ballava, si cantava; fra i dimostranti vi erano anche i due preti: Don Rocco Peritori e Don Gaetano DAntona, per far dispetto al Parroco, perché dissidenti. Sindaco era Don Carmelo Bartoli Capizzi; Giudice, invece, era il Notaro Don Giuseppe Calogero Verso: il primo era uomo di buon senno, remissivo, e lasciava fare; il secondo, borbonico, non volle arrendersi; allora il popolo riunitosi sotto la di lui casa, gli gridò “abbasso”, e fu costretto ad andarsene a Pietraperzia, presso i parenti della moglie. Calmatesi le cose, col nuovo Regno di Vittorio Emanuele II, si istituì subito a Riesi la Guardia Nazionale, detta “La civica”. Buon numero di cittadini dovevano sorvegliare, giorno e notte, l’interno del paesetto, che allora contava piu dì sei mila abitanti. Il loro Capitano era Don Francesco D’Antona e tenente il Caramnanna. Fu in quel periodo che, davanti la casa Faraci, con un colpo di pugnale al cuore, venne assassinata la Guardia Nazionale V. F., mentre si recava ad accompagnare un nipotino dalle sorelle, in Piazza Garibaldi. Caduto vittima il povero F., il nipotino piangendo andò a riferirlo ai genitori. Con essi accorsero molti, e il cadavere fu piantonato dalle guardie fin l’indomani mattina. Movente del delitto? Mistero. Gli autori? Mistero ... E durante il periodo della rivoluzione del ‘6o venne fucilato sopra la montagna, certo Gangitano, vagabondo da Canicatti, perche chiedeva con lettera minatoria denaro al Faraci. Nessuno dei riesini volle sparargli, e fu un forestiere che li tirò. Eccetto questi due fatti di cronaca nera, niente altro di grave avvenne a Riesi; furti, risse, ferimenti ve ne furono, ma poi.... ** Torna su ** Cap. XXIII la liberta’ – come dalla notte al giorno – i primi sindaci dei nuovi tempi Venuta la libertà, parve “come dalla notte al giorno”, e questa è un’espressione d’un vecchio garibaldino che di ritorno con gli altri, ci intratteneva spesso con racconti dei passato e del presente. Per comprendere meglio il valore di questa bella espressione, giova qui narrare qualche fatterello che ce ne da l’idea. Un giudice palermitano a nome Pirrotta, di sangue borbonico, sorvegliava, spiava minutamente gli atti delle persone. Un giorno, incontrato un cittadino, che a caso aveva comprato “Le mie prigioni” di Silvio Pellico, glielo strappò di mano dicendogli: “Non sapete che questi libri non si possono leggere?”. E glielo stracciò. lui si recò dal libraio e lo rimandò. La legge la faceva con la taglia, come suoi dirsi : al migliore quotato dava la sentenza di favore. Nella Rivoluzione il popolo voleva far giustizia sommaria di quel giudice ma i liberali lo salvarono, accompagnandolo alle porte del paese. Il tracotante disse di ritornarvi col ritorno dei Borboni. I ricchi così ne approfittavano contro la povera gente. Un tale che voleva vendere una mula, chiamava un uomo e gli diceva: “Voi stimatemi quest’animale cent’onze, e, il compratore, doveva per forza acquistarla per tanto”. I ricchi perciò, abusavano fin troppo dei tempi borbonici; i poveri erano soggiogati. I preti erano non solo rispettati, ma temuti. Essi, nelle scuole, bastonavano di santa ragione, talché gli scolari, disertavano la scuola restando ignoranti per tutta la vita. Il Clero, mano forte del potere politico, dominava le coscienze. La Baronia, d’altro canto, non si accontentava di riscuotere i censii ma vessava gli abitanti. Con la libertà tutto questo non vi fu più. Don Francesco D’Antona, nella qualità di Capitano delle guardie, una domenica entrò in chiesa a cavallo per far dispetto al Parroco. Il Quattrocchi, per quanto si fosse appartato dai liberali, perché dalla scuola di Mazzini, pure era l’avvocato dei poveri qui e a Caltanissetta. La libertà che sembrava un sogno, aveva messo tutto e tutti a posto. Però il paesetto era ugualmente pieno di fango e privo d’illuminazione. Per potere d’inverno camminare per le vie bisognava cospargere di paglia, e poi, a suo tempo, venire raccolta e farne fimo. Nelle scuole vi era qualche insegnante laico che si distingueva. Intanto gli abitanti crescevano e si sentiva il bisogno di respirare. La nuova Via Drogo, lunga e larga, dalla vicina casa Accardi, si andava popolando, la Via Schifano verso la Sanguisuga, la Via Larga, erano indice di progresso. Dei proprietari come i Drogo, i Rotella, i Vecchio, si erano fortificati; altri erano caduti in basso. Cosi, la nobile e prima casa di Riesi, era in decadenza, avendo commessa un assassinio: certa Cangiola Maria, mantenuta dal cosi detto baronello (sic), fu trovata assassinata nella di lei abitazione. La moglie e la suocera del detto barone scapparono a Delia dove furono nascoste; lui fuggì; i figli e le fìglie del baronello Don Felicetto rimasero ricchi: essi si fabbricarono i palazzi al centro, nel corso e in piazza; essi palazzi erano imponenti: uno diede il nome alla 2. Via Golisano, un’altro fu quello del farmacista Correnti che sposò Donna Rosaria Amarù. Ma poi tutti, eccetto uno, si ridussero alla malora e furono costretti a vendere. E i Camerata, anch’essi, perché imputati due fratelli di un omicidio in campagna, i ridussero poveri. Era i ricchi primeggiavano i D’Antona, i Pasqualini e gli Inglesi, i Vitello, i Bartoli Capizzi, gli Amarù, i Jannì, il Dott. Riccobene, i Di Benedetto, i Verso e i Federico. Bisognava cercare un Sindaco dei tempi nuovi, dopo iL ‘6o, A dir la verità, nessuno dei liberali brigò di andare a quel posto, di modo che, il Prefetto di Caltanisselta fece cadere la scelta sul Cav. Don Carmelo Inglesi. I fratelli Giuseppe Antonio e Carmelo erano figli del Notaro Onofrio e di Maria Anna Butera. Essi furono mantenuti agli studi a Palermo, comparendo da nobili, tanto che li chiamavano i “I Baroni della Sicilia”. Morti i genitori, ereditarono il feudo del Pantano ed una buona q quantità di moneta; le sei sorelle avevano avuto la loro dote, tutta in denaro. Il Pantano fu dato ad ortaggi ai fratelli Lo Giudice, i quali, coltivandolo, abbondarono la verdura in paese. Dipoi, si fabbricarono i due bei palazzi attigui. Don Giuseppe Antonio, che si fa sempre chiamare “barone”, sposò una ricca Molisano,Teresa ; il fratello ebbe il titolo di cavaliere dal Re Francesco di Borbone nel 1856. La figlia Donna Giulia ci disse prima di morire: che il padre avendo un bel cavallo inglese col quale si pavoneggiava. in occasione della venuta del Re a Canicattì volle andarvi, confondendosi cogli altri nobili dei paesi vicini. E siccome il cavallo era ben sellato ed egli era d’una bella Presenza, tale da sembrare un vero “Sermala” (nobile toscano del Medio Evo), gli occhi del Re si posarono sul bel cavallo e chiamato il cavaliere gli disse — Che bel cavallo, me lo vuoi vendere? — Maestà... regalato, si... venduto. no... — Bene, bene, si tenga il suo diletto! Arrivato a casa, lo Inglesi, fu nominato Cavaliere. Questi, nel 1863, fu dunque il primo Sindaco di Riesi dei tempi nuovi. Egli, da brav’uomo, iniziò a fare un pò di bene al suo paese, chiamandosi a Vice-Sindaco il Dott. Don Giuseppe Riccobene. La prima cosa che fece il nuovo Amministratore Comunale, fu di far collocare un orologio pubblico al campanile della Madrice, dando al paese un aspetto civile; fece ciottolare il Corso, rendendolo transitabile; fece collocare una dozzina di lampioni a petrolio nelle vie principali; badò alla pulizia, e, sopratutto, lui di persona sorvegliava l’Annona. Questo a tutta prova, il Cav. Inglesi non cercò piu il suo interesse Personale, ma bensì il bene dei suoi amministrati. Ricco di casa sua, badò pure alla proprietà. allestendo neI ‘63 il palazzo che riuscì il migliore di tutti, perche aveva un grazioso giardino col pozzo per le aiuole. Se egli qualche volta lasciava fare al Vice-Sindaco, non significava trascuranza verso il Comune, giacché poi, voleva sapere tutto dai pochi impiegati. Dopo due anni e mezzo, stanco di questa vita, si dimise ritirandosi a vita privata; lasciò in carica il Dr. Giuseppe Riccobene. Era costui un’animella, buono a nulla, che per quanto ricco, a quel posto ci teneva. Il Prefetto lo esortava in tutti i modi a dimettersi, ma lui faceva orecchio da mercante. Naturalmente, ciò irritò a tal punto il capo della Provincia che per decreto reale gli ordinò la destituzione. Don Salvatorello Giuliana, Segretario Comunale, nel comunicargli a casa il decreto, siccome era un dilettante di v’ersi, gli canterellò: Tuttu a stu munnu muta e stacca, Lu poviru pacchiana e lu sublimi abbunca; Lu Re ca lu jornu ammazza e spacca, La sira ‘ntra un taguriu si va giucca Questi versi il Giuliana li aveva composti per il Re Fraccischello di Borbone, quando fuggì da Napoli; all’occasione li adottò per il Riccobene destituito. Ora viene la volta del Sindaco liberale, Cav. Dott. Giuseppe Janni, eccellente chimico farmacista al quale gli dedichiamo li seguente capitolo. ** Torna su ** Cap. XXIV il sindaco janni – colera del 67 – morte del quattrocchi Il Sig. Giuseppe Janni nacque nel 1818 da Don Giuseppe e Crocifissa Di Natale. I Janni discendono, da semplici agricoltori e da farinai; con il loro ingegno, lavoro e l’onestà sono arrivati a farsi strada, imponendosi per la loro intelligenza. Giuseppe, rimasto orfano di padre, fu mandato a Catania a compiere gli studi; si specializzò in chimica per essere farmacista. Laureatosi, rientrò a Riesi dove apri la piccola farmacia nella Via del Crocifisso che va a Donna Ciucella. Sposatosi con Filippa Martorana, in breve rimase vedovo senza prole. Non volendo più risposarsi, prese a carico i figli e le figlie del defunto suo fratello, il Dott. Rosario, per istruirli ed educarli. Nel suo laboratorio, l’eccellente chimico farmacista sperimentò il citrato cristallizzato; che, resolo raffinato, divenne di facile presa. Questa sua invenzione gli fruttò onori e diplomi in Italia e all’estero,e, con gli onori, ebbe anche i guadagni della privativa. La sua sua farmacia, quindi, si allargò. Uomo benefattore, di tempia liberale, amico dei poveri, il farmacista Jannni era divenuto non solo l’idolo dei suoi parenti, ma anche del popolo. Fu per questi meriti che il Prefetto di Caltanissetta, nel 1865, gli offrì la carica di Sindaco del Comune di Riesi; carica che lui accettò ben volentieri: null’altra ambizione ebbe il bravo chimico-farmacista che quella di fare del bene. Da buon funzionario si attenne a tutto quanto il suo dovere. chiamò a funzionante il giovane Avvocato Don Francesco Trapani, il quale i dedicò alla legge Provinciale e Comunale. Vediamo quali furono le opere pubbliche che tuttora ci parlano di quell’uomo la di cui memoria è benedetta, avendoci lasciato il ricordo di un grande nome. Possiamo dire con orgoglio che tutto quello che oggi noi vediamo, lo lasciò in embrione il Sindaco Cav. Giuseppe Janni. Tre belle opere furono deliberate ed approvate nel 1866: la Casa Comunale o Municipio, lo stradale Riesi-Sommatino e il Corso Vittorio Emanuele II lastricato. L’Ing. Musimci, che ne esegui i progetti, non volle essere pagato Per riguardo al Sindaco Janni. Per costruire il Municipio si prese la vecchia Chiesa del Rosario e fu dato in appalto ai caltanisettesi; per lo stradale l’appalto parve esorbitante, ed allora si stabili di farlo eseguire in economia sotto la direzione dello stesso Ingegnere, a condizioni che dalle economie dovevasi lastricare il Corso. Si erano iniziati i lavori, quando l’anno dopo, nel ‘67, scoppiò il colera. I lavori furono sospesi per dare aiuto alla popolazione. Quello che fece il Sindaco Janni in quella occasione fu veramente ammirevole, sotto tutti i punti di vista. Anzitutto fece aumentare l’illuminazione di trenta fanali; teneva aperta la sua farmacia di notte e di giorno; ogni mattina correva in Piazza Garibaldi a dare ordini per la disinfezione; correva dalla casa al Municipio, per le vie, visitando e soccorrendo i colerosi. Per la calca dei cadaveri nelle Chiese, fece scavare una fossa comune, fra la roccia, dietro le mura della Chiesa S. Giuseppe. Al solito, i ricchi se ne andarono in campagna; ma il Sindaco e i liberali rimasero in paese a soccorrere i colerosi. L’esempio dei due dottori Matera, padre e figlio, che uscivano di casa la mattina e non rientravano che per il pranzo e al calar del sole, consultandosi sul da fare e dividendo i quartieri, vale per tutti, La gente moriva anche da spavento; i cadaveri venivano gettati alla rinfusa. Avvenne che una donna ammalata, presa da sincope, fu messa in cataletto e portata di sera nella chiesa di S. Giuseppe. La notte, la poveretta, rinvenuta, ebbe la forza di alzarsi, afferrare la corda delle campane c suonare ma nessuno accorse ; e l’indomani fu trovata esanime, distesa a terra, fuori dal cataletto, con le lenzuola il cuscino rovesciati. Nel colera del ‘67 vi trovò la morte in un modo pietoso, il compianto Giuseppe Quattrocchi e la moglie, lasciando i figli in tenera età. Egli era sposato con una cugina mazzarinese che si trovava con la famiglia, dai parenti; là, infettatosi di colerina, voleva recarsi al paese natio della moglie, ma arrivato a Maimone, presso le sue terre, non poté andare più avanti e cadde vittima. Avvisata la sua signora, questa corse ad inginocchiarsi dinanzi il marito, e, nell’atto di baciare il cadavere, cadde fulminata. Ivi furono seppelliti entrambi. Leopoldo Turco, appresa la notizia, corse lì e in un attimo fu di ritorno a portare la triste nuova: purtroppo era vero …! Cosi si distrusse a Riesi la proprietà di quella ricca, rispettabile famiglia, il colera cessò. Quel benemerito Sindaco, nel ‘68, fu insignito dal Governo italiano della Croce di Cavaliere: la prima, almeno per Riesi. - I lavori furono ripresi. Nel ‘69 il Cav. Jannì pensò di far costruire il primo Cimitero del borgo, atto per 8 mila abitanti. Espropriò 600 mq. di terra ai Due Parmente, la fece recintare da muri, vi fece innalzare una chiesetta e scavare una fossa comune, abolendo l’uso di seppellire i morti nelle fosse delle chiese e dando così onorata sepoltura ai defunti. A poco a poco il Cimitero fu adornato di viali, di graziose tombe e di fiori. Anche questo fu un passo del vivere civile, segno della nuova epoca. Ma il Sindaco cav. Jannì diede prova del suo liberalismo in occasione del XX Settembre 1870 La Presa di Roma con la Breccia dì Porta Pia, entusiasmò l’animo degli italiani, inneggiando alla Capitale d’Italia. Riesi, con un simile Sindaco, non poteva restare indifferente. Che fece egli? Chiamata una orchestrina di violinisti, contrabbassi e flauti, iscenò una bella dimostrazione, con bandiere, mettendosi lui a capo. L’avvocato Trapani con la sua fiorita parola, in Piazza Garibaldi fece comprendere il significato del grande avvenimento, il coronamento dell’Italia con Roma Capitale. Così, il popolo abbracciò il liberalismo senza paura, non dando retta ai preti. Ratificata, nel ‘70, la legge del 1866 sulla soppressione d beni ecclesiastici, messi all’asta pubblica, molti comprarono delle terre; lo stesso Arciprete D’Antona acquistò una tenuta dei feudo Brigadieci, il Convento e la terra e diversi fondi, fra cui le Schette col Lago di Papardone. Per il suo censo, il Parroco di Riesi poteva fronteggiare col miglior proprietario della Provincia; la sua casa era diventata veramente signorile; quando usciva fuori col suo seguito, tutti gli cedevano il passo e veniva sommamente rispettato: ed ecco perché era pure temuto, lottando anche in nome della Chiesa; ma il Cav. Jannì, nella qualità di Sindaco, seguiva imperterrito la via intrapresa. Ed a questo punto, tralasciando per un momento la vita del beneamato Sindaco, per descrivere un’altro avvenimento. ** Torna su ** Cap. XXV il protestantesimo a riesi fin dal 1871 Per le questioni politiche tra il Sindaco e il Parroco, nel 1871 ne derivò a Riesi il Protestantesimo. Narriamo ciò per conoscenza di causa, perchè siamo stati informati da coloro i quali parteciparono alle lotte. Dunque: Viveva a Catania, da impiegato Comunale, il concittadino Don Giovanni Giuliana, Fratello del Dottore. Egli frequentava le conferenze evangeliche di quella Città e ne scriveva le i impressioni al fratello al fratello Don Gaetano. Questi faceva leggere le lettere al Sindaco il quale gli fece scrivere di dire al Pastore se poteva recarsi a Riesi, per tenere delle conferenze di propaganda protestantesimo. Il Pastore rispose che occorrevano almeno una dozzina di firme. il Sindaco Janni, Capo lista, raccolse 150 firme e mandò la petizione al Pastore. Quando quegli ebbe nelle mani la carta si mosse per venire a Riesi, accompagnato dal Giuliana. Giunti a Barrafranca telegrafarono. Allora, Sindaco, partito liberale, firmatari e curiosi con bandiera, il pomeriggio del 24 Maggio 1871 andarono incontro a lu pasturi prutistanti. Arrivati alla Spatazza fecero sosta. Siccome le due guardie Campestri Calogero Bruno Giuseppe Calafato vi andarono a incontrarli fino al paesetto, ed avendoli preceduti apparvero dalla collina di Spamupinato dandone l’avviso, così la folla cominciò a muoversi ; mentre gli aspettati, passato al Vallone fondato di Spampanato, scesero da cavallo per agranchirsi le gambe. Fatta la salita vi furono le debite precauzioni. La folla dei dimostranti seguita da altri curiosi, entrò in paese. Nella Piazza Garibaldi, il Pastore evangelico, visto il popolo dinanzi a se disse che occorreva un locale chiuso per la conferenza. Ma dove trovano?... Lì per li l’Avv. Trapani propose la Chiesa di S. Giuseppe. Tutti si riversarono nella Chiesa, ma essa era chiusa, e le chiavi li teneva il Canonico Don Luigi Golisano che trovava si in campagna. La folla sostava lì sull’altura quando il Sindaco, cinta la sciarpa, ordinò ai RR. CC. presenti di fare scassinare le porte. Chiamato il fabbro ferraio mastro Stefano Matera, questi aprì la chiesa e tutto il popolo vi entrò. Il Pastore, Sig. Teofilo Malan, valdese, salito sul pulpito, invitò tutti a scoprirsi alla presenza di Dio; indi tenne un conferenza in occasione del XX Settembre. Alla fine volevano applaudirlo, ma il Pastore glielo impedì invitandoli a riunirsi l’indomani alla stessa ora e nel medesimo locale. Difatti, a! segnale della campana, suonata dall’Avv. Don Calogero Accardi, la Chiesa fu gremita di uditori d’ogni Ceto. Per quattro giorni consecutivi la folla accorse a sentirlo; l’ultimo giorno avvisò che l’indomani sarebbe ripartito per Catania e ritornare la Settimana prossima; ma se non venisse lui avrebbe mandato il fratello da Messina. I clericali si quietarono, credendo che si fosse trattato solamente di un pò di chiasso e nient’altro. Ma qua! fu la loro sorpresa allorché videro arrivare l’altro fratello? Il Sig. Augusto Malan si presentò al Sindaco, e, la Stessa sera l’Avv. Accardi suonò la campana di S. Giuseppe chiamando il popolo a raccolta. I clericali allora si mossero e riferirono l’accaduto al Vescovo di Caltagirone. Questi si rivolse al Prefetto di Caltanissetta, il quale scrisse al Sindaco Janni di eseguire l’immediato rilascio della Chiesa di S. Giuseppe perchè destina al culto cattolico. Il Pastore protestante però non si diede per vinto, affittandosi la camera di lu massaru Paolo Mirisola, sita al principio della scalinata della stessa Chiesa. Ivi si tennero le conferenze ogni sera. I due fratelli Malan si alternavano di modo che ne nacquero delle dispute. Fu chiamato dai clericali il filosofo Don Francesco Debilio per confutarli; quegli vi andò e dopo averli ascoltati se ne uscì dicendo: “Sono magazzini di scienza teologica, non si possono confutare”. Poi venne la volta del giovane Sacerdote P. Placido Altovino che appena uscito dai sacri recinti del Seminario, volle spezzare una lancia contro il Protestantesimo. Il Sig. T. Malan, rispose alla lettera aperta con un opuscolo intitolato: “UN CANONICO PRESO AL VOLO PER T. MALAN”. Sicchè il Protestantesimo fin dal 1871 piantò le sue radici a Riesi; tant’è che in seguito si affittarono i dammusi sotto il palazzo Inglesi, nominarono un pastore a posto fisso e vi impiantarono le scuole evangeliche finché, nel 1897 acquistarono il palazzo Faraci per farne un bel locale proprio, con l’istituto delle scuole elementari d’ambo i sessi che ha sempre furoreggiato. Il Prof. Gravina, nel descrivere la storia dei Comuni siciliani, nota a Riesi: “ Una Chiesa evangelica” e ‘”Il Prof. Francesco Paolo Martillaro nella storia e geografia del loco natìo” dice che in Sicilia, Riesi è chiamata: u paisi di li prutistanti. ** Torna su ** Cap. XXVI seguitando la vita del sindaco janni – la causa con la baronia – il processo – condanna - morte Ed ora, seguitando le fasi della vita del Sindaco Cav, Giuseppe Jannì, il chimico farmaceutico per eccellenza, vediamo la causa con la Baronia per gli usi civici; il processo contro di lui, la condanna, l’assoluzione, la morte. Pria di tutto è bene far conoscere che nel 1872 tutta la proprietà o Stato di Riesi fu divisa a Torino in quattro parti, cioè una parte toccò al Duca di Solferino, una parte agli eredi del Conte Fuentes, e due quote alla Principessa Donna Maria Giron Pignatelli. Questo precedente fece sì che vi introdussero qui l’Amministratore generale Don Gaspare Dado da Mazara dal Vallo (Trapani), mentre prima vi era il barone Tumminelli da Caltanissetta. Don Gaspare Dado, installatosi qui nella qualità di Arnministratore generale, regnava, si può dire, da compaesano. Egli ci viene descritto da un suo intimo conoscente “uomo dotto, di modi signorili, coi costumi di un angelo” dedito alla botanica, compose un volume interessantissimo su ciò. Per questi suoi meriti, e perché Amministratore della Ecc.ma Casa dei Principi Fuentes, sposò la vedova di Don Giovanni Golisano che abitava nel palazzo attiguo alla Baronia. La ricchissima signora, oltre al palazzo, gli portò in dote sei salme di terra tutta bonificata, con ricchi vigneti e casina, sita alla “Contessa”, imparentatosi con i Golisano, il Dado viveva a Riesi una vita molto comoda e signorile, ed era amato e stimato da tutti. Non avendo prole, adottarono come figlio certo Michele Di Nolfo di Girolamo, nato da famiglia di poveri contadini, che abitavano nel cortile all’entrata del palazzo. Ma il sabato sera della Madonna del 1874 la Signora Golisano, mentre stava affacciata al balcone morì d’un colpo. Sicchè il Sig. Dado, rimasto vedovo, fu servito dalla famiglia Di Nolfo. Morto lui nel ‘97 tutta la proprietà passò a Michele, il quale, fuggito con una prima attrice drammatica vendette tutto ed espatriò. Venne ad occupare il posto del Dado da Cerignola (Bari) la famiglia dei signori Malleone, che stabilitasi da noi, nel 1880 le figlie apparentarono con la casa del Notaro Giardina, il maschio Peppino sposò pure una loro parente, considerandosi tutti concittadini. Difatti i loro antenati riposano in questi cimiteri, in tombe di famiglia. Prima di scomparire dalla scena della vita, Don Gaspare, fu in lotta aspra col Sindaco Cav. Jannì, che ebbe la peggio, a causa degli usi civici. Ultimati i lavori della Casa Comunale, nel 1873, nel trasportare le carte dalla Casa Golisano alla nuova sede del Municipio, fu trovata una Carta di memoria per i diritti d’uso civico agli abitanti di Riesi. Sindaco e Giunta, esaminatala intentarono una causa contro la Baronia, autorizzando l’amministratore a stare in giudizio. Il Dado s’impuntò. Nell’autunno di quell’anno, alla raccolta delle olive, il Cav. Jannl, avendo un fondo al bosco vicino il paese, vi mandò un o fattore per fare eseguire la raccolta; ma Don Gaspare aveva già dato ordini ai campieri Angelo Lamonaca e il giovane Giuseppe Di Tavi. di non far raccogliere le olive, perché riservate al Barone; e difatti il fattore fu rimandato indietro e minacciato. Allora il Sindaco, cinta la sciarpa, accompagnato dalle guardie si recò sul luogo e fece arrestare i due campieri, i quali condotti in caserma e interrogati dai Carabinieri furono tosto rilasciati. In questo caso gli avvocati del Principe, presero la palla in balzo e si querelarono contro il Sindaco di Riesi per abuso di potere. Ciò diede del filo da torcere al Cav. Janni. Difatti nel ‘74, istruito il processo dal Tribunale di Caltanissetta, fu condannato a tre anni di reclusione e alle spese. La Corte di Appello di Palermo gli confermò la sentenza, ma la Cassazione di Roma lo prosciolse dall’accusa cancellandogli la Condanna. Durante l’Appello, dopo la condanna, nel 1875, il Sindaco fu destituito, e, ritiratosi a vita privata, continuò a fare del bene. Ma un vespaio, ribelle alla scienza chirurgica, il 9 Gennaio del 1879 Io trasse alla tomba all’età di 62 anni. Riesi è stata trascurata a non avergli innalzato un monumento davanti il Municipio a ricordo dei meriti e delle virtù dell’uomo insigne che onorò e civilizzò il paese. Giacché ci siamo, dobbiamo parlare di un’altro bravo chimico farmacista, contemporaneo al primo, che si fece onore col suo ingegno: egli fu Don Francesco Celestri. Nato ne 1833 da Don Giuseppe e Genoveffa Sanfilippo, prosegui gli studi in Palermo, a furia di sacrifici, facendosi distinguere per l’ingegno e la vivacità. Laureatosi in chimica farmaceutica, venne ad aprire una piccola, modesta farmacia in un dammuso sito nella Piazza Garibaldi. Per i suo saper fare e l’intelligenza, sposo la ricca Sarina Calafato. Allargando i suoi padiglioni, divenne proprietario oculato, amoroso della casa e della famiglia. Nella guerra del 1870, la Francia avendo bisogno d’uno specifico per la polvere, indisse un concorso fra gli scienziati, con un milione di franchi di premio. Il Prof. Blanche vi giunse per il primo e dopo il nostro concittadino farmacista. Egli inventò il solfato Buompensiere servendosi delle materie trovate in quel paesuccio, vicino Caltanissetta. Le accademie di Palermo e di Torino, esaminatolo, lo trovarono eccellente. Inviatolo in Francia, la Città di Parigi conferì al cittadino di Riesi una grossa medaglia d’Oro e il Diploma. Il farmacista Celestri poteva impiantare uno Stabilimento sul luogo, ma occorreva una grossa somma e spostare la famiglia, cosa che egli non volle fare. Nel 1877 fu nominato ispettore delle farmacie provinciali, ma per il troppo lavorio di girare vi rinunziò. Il chimico farmacista Don Francesco Celestri, visse fino all’età di anni 71, morendo il 1904, lasciando il bel palazzo fabbricatosi e la famiglia in prospere condizioni. Riprendiamo la politica, ora. ** Torna su ** Cap. XXVII sindaco l’avv. don pietro d’antona Subito dopo aver caduto da Sindaco il cav. Giuseppe Janni, il Parroco D’Antona mise avanti il nipote Pietro, figlio del fu Don Luigi e Teresa Debilito, nato nel 1836, il cui genitore morendo raccomandò i suoi tigli al fratello P. Arciprete, che assolvette il suo compito educando ed istruendo i nipoti in casa sua. Perciò, Don Pietro D’Antona laureatosi in giurisprudenza, fu proposto a Sindaco. Col Trapani e il Parroco si recarono a Caltanissetta ove l’Avv. Principe Do Giuseppe Correnti li Accompagnò dal Prefetto. Nominato Sindaco D’Antona, tornarono a Riesi col Vice Sindaco Trapani. Da qui ne nacque il partito D’Antona: forte numeroso e ricco. Innalzato al potere il nuovo Sindaco, si formò una buona Giunta Amministrativa, chiamando come Assessori -suoi col laboratori – L’Avv. Don Pietro Di Benedetto Manderà, l’Avv. Francesco Rindone, l’Avv. Di Lorenzo e Don Giuseppe Verso. Il giovane Avv. Don Pietro Di Benedetto Manderà era tiglio di Don Salvatore e Teresa Manderà una sorella del Giudice Pietro, venuto da Nicosia dopo il ‘60. Il Giudice abitava nelle case del Di Benedetto, attigue alla Pretura, d’onde ne venne l’arco di Menderà. Colto, intelligente, il Di Benedetto poteva stare accanto al Trapani e al D’Antona. Gli altri nomi li conosciamo. la Giunta era a posto. L’Amministrazione D’Antona ossequente a quello che fece e che doveva l l’Amministrazione passata, aggiungendo nuove importanti opere. Però fu lasciato in asso il teatrino, annesso al Municipio e si fece la transazione della causa degli usi civici con la Casa Fuentes. Il Corso V. E. fu subito lastricato, come pure in seguito, furono lastricate la Via del Parroco chiamata Corso Principe Umberto, la Via del Rosario col nome di Principe Garignano e le Vie Debilio e Carlo Alberto. A proposito della Via Principe Garignano facciamo rilevare che vicino il Municipio sorse il bel palazzo del massaro Giuseppe Vecchio, il quale servi a dare eleganza e vita a detta Via. E ancora, furono lastricate la Via Cavour e le traverse interne. Ora il paesetto contava circa otto mila abitanti ed aveva bisogno di altre opere. Il Sindaco D’Antona fece sbassare le due creste di pietra: quella della discesa della Sagrestia della Madrice e quella della Via o Corso Umberto, in fondo alla di lui casa. Esse, mentre prima si presentavano assai scoscese e intransitabili, divennero poi accessibili e belle, tanto l’una che va laggiù alla Via Timoleonte, quanto l’altra che conduce allo stradale di Ravanusa. Lo scannatoio pubblico o Macello al Canale, fu opera deI Sindaco D’Antona, eliminando così lo sconcio di vedere scannare gli animali nelle pubbliche vie, davanti la porta degli stessi macellai, specialmente quelle del Corso, ove le sporcizie si ammassavano. Fece collocare laggiù al Canale, all’angolo del Macello, una pompa a mano per attingere l’acqua dalla sorgente ivi esistente, sorgente che ora non esiste più, essendo stata coperta per maggiore igiene e pulizia, affidando la sorveglianza alle guardie. Anco alle campagne pensò il buon Sindaco: aveva fatto costruire al vallone del Figotto un ponticello per il transito dei contadini che si recavano a Figotto e Brigadieci quando le acque erano abbondanti, ingrossando il detto vallone. Inoltre fece costruire gli abbeveratoi nelle fontane di Mariano, Sanguisuga e Figotto, facendone spurgare e incanalare l’acqua; al Canale e a Mariano vi fece costruire due lavatoi pubblici di modo che le lavandaie di mestiere tutti i giorni vi andavano a pulire e sciorinare il bucato. Lo stradale che va a Mazzarino e il nuovo Carcere Mandamentale al Lago, ritenuto necessario, furono costruiti sotto la reggenza del D’Antona. Esso non arrivò a vedere compiuto quest’ultimo, e il perché lo vediamo dopo. ** Torna su ** Cap. XXVIII la filossera Fu sotto la sindacatura del D’Antona che si verificò a Riesi, nel 1881, la Filossera che causò la distruzione dei vigneti. Ecco come si palesò il male: Quel tale Giovanni Calamita, di cui parlammo a proposito del 1848, da fabbro ferraio era diventato un grosso proprietario. Egli acquistò il fondo Cicione vicino al paese, sul margine di sinistra dello stradale di Ravanusa. Vi impiantò un bel vigneto; vi fabbricò una casina, in modo da formare all’intorno una magnifica passeggiata, tanto da conquistarne la denominazione: “allo Stradale di Calamita”. Dall’altro margine comincia il bosco degli oliveti che va fino a Tallarita. Quest’uomo, delizioso della sua vigna ove vi trascorreva tutto il tempo, recandosi spesso a Palermo e a Catania, ebbe occasione di comprare alcune magliole d’una qualità speciale che trapiantò fra le sue viti. Le magliole, per caso, erano infette da filossera perché provenienti dalla Francia ed in breve tutto il vigneto fu assalito dal morbo. Si palesò il caso in primavera osservando alcuni ceppi nella fioritura che mostravano le figlie bianche e senza uva. A tale fenomeno il proprietario in parola, ignorando la causa del male, andò a chiedere consiglio al Circolo dei civili ove si trovava anche il Sindaco. il Circolo dei civili fu fondato dal partito D’Antona ed era posto nel dammuso della vecchia Caserma, restaurato tale uso a cura del Comune, mettendovi una grata di ferro al principio del marciapiede sull’angolo della piazza e il Corso. Ivi dunque, il Sindaco, Trapani ed altri decisero di farsi una passeggiata e constatare il fatto. Ritornati in paese il Sindaco compilò il rapporto per il Ministero dell’Agricoltura, industria e Commercio. li Governo mandò subito sul luogo un Professore di filossera, certo Macagno, il quale constatò che purtroppo c’era il male. Bisognava estirpare le viti e gli alberi dalle radici e bruciarli, circoscrivendo le viti infilosserate. il Calamita non era d’accordo, di modo che, quando arrivarono i filosseristi appositamente mandati, si oppose; ma accorrendo i Carabinieri, lo allontanarono dal fondo minacciandolo di arresto. L’uva delle piante non filosserate era matura ed anche essa fu estirpata. Si bruciavano le radici con l’acido solforico; si estirpavano gli alberi senza pietà. Don Giovanni si recò a Roma a protestare, ma inutilinente; il Governo pagava solamente L.5 al ceppo e L.25 l’albero. La filossera è un insetto microscopico, invisibile ad occhio nudo; attaccandosi alla radice della pianta la corrode facendola diventare colore di tabacco; conseguentemente la vite secca e muore. L’insetto vola e produce migliaia di uova ogni ora, quindi si propaga presto e dappertutto. L’unico rimedio per ucciderlo è di bruciare le piante assieme alle radici. Esso insetto ha avuto origine in Francia ed occorrono 50 anni per distruggersi; il terreno infetto da filossera non produce più viti. Distrutto il fondo Calamita, si passò ad altri fondi vicini e indi alle altre contrade, lo Stato di Riesi divenne tutto infilosserato. Uffici filosseristi; depositi di solfuro; squadre di operai e guardie con casotti si formarono a causa della filossera. I proprietari facevano l’ira di Dio. Un reggimento di truppe venne a stabilirsi qui per il mantenimento dell’ordine. Però, circolava il denaro, che si guadagnava bene: un contadino aveva L.3, il caporale L.4,50, gli impiegati una buona mesata; oltre una dozzina di professori specializzati comandavano delle squadre che andavano in cerca della filossera, girando per le campagne. Stavano in continuo movimento, passando di campo in campo, e dove trovavano l’insetto vi piantavano bandierine tutt’intorno e il proprietario non poteva più disporre del la terra. Il malumore e il malcontento dei proprietari intanto aumentava di giorno in giorno. Finalmente scoppiò la sommossa. . Sulla montagna S. Veronica, certo Francesco Di Termine, vi possedeva una ubertosa vigna ; avvisato che l’indomani dovevano esplorare quel campo, lui e i due suoi figli, si armarono di fucile decisi di non fare entrare i filosseristi. E difatti arrivati ivi il Prof. Zerpellone con gli altri, furono puntati; invano cercarono di convincerli, fu inutile Allora mandarono a chiamare la P. S, una compagnia di soldati accasermati a S. Giuseppe e i Carabinieri i quali, incastrata la baionetta partirono in tutta fretta; dietro vi corse il popolo. Lo stretto e ripido viottolo, capace appena. di far salire ad uno ad uno, dava l’aspetto che sì andasse a conquistare una fortezza. Arrivati sulla vetta, i Di Termini, con i fucili spianati, non si mossero dal loro posto; il popolo corse in loro aiuto vociando: “Abbasso la filossera!”. Qualche Pietra volò dalla folla ; la cosa man mano diventava più terribile. Ond’ è che per evitare un eccidio, i filosseristi e soldati se ne ritornarono, seguiti dalla folla che continuava a gridare abbasso tirando colpi di pietra all’indirizzo della squadra filosserica che camminava in mezzo ai soldati. La folla si fece più grossa e minacciosa. All’imbocco della strada, la sassaiola si fece più fitta e una pietra colpì alla testa lo Zerpellone, producendogli del sangue; qualche soldato fu pure ferito. Le donne si aggiunsero alla sommossa e le grida abbasso la filossera si moltiplicarono. Indi la folla si dileguò nel Corso, Quella stradetta poi prese il nome di; “Lo Stretti di Zerbellone”. Lui, rientrato a casa, fu medicato e si curò; i lavori della filossera furono per il momento sospesi sicchè si credette che la cosa dovesse passare liscia. Ma dopo dieci giorni e precisamente la notte del 20 Dicembre di quell’anno, 1882, venuti altri rinforzi di Carabinieri, assediato il paese, circondate le vie e le case, furono arrestati: 1) I Di Termini, padre e figli; 2) Don Giuseppe Accardi dell’Avv. Calogero; 3) Calogero Riccobene; 4) Calogero Giuliana; 5) Giuseppe Lo Jacona; 6) Rosario Maurici, quali promotori della sommossa. La notte stessa, legati e messi sui carri, furono deportati nel Carcere di Caltanissetta. Tra il pianto delle famiglie, l’indomani si aprirono di nuovo i lavori; le viti impregnate di filossera si bruciavano assieme all’uva; la ricerca continuò senza tregua. Fra i campi meravigliosi si distrusse il vigneto dell’ex Sotto Prefetto Francesco Debilio al Lago, il quale, da uomo sennato, non disse nulla. Il Sindaco P. D’Antona, per la sua energia dimostrata nel fare eseguire i lavori ordinati, fu nominato Cavaliere della Corona d’Italia. Concentrati i pagamenti nelle sue mani, egli fu imparziale con tutti, dimostrandosi vero uomo politico, specialmente con gli operai. La morte dello zio Parroco, nel 1882, fece sì che il Cav. Don Pietro D’Antona, ereditandone la maggiore proprietà, divenne un ricco proprietario di prim’ordine. Il Parroco aveva acquistato il Lago di Patria presso Napoli che gli fruttava una somma considerevole. li Cav. Pietro aveva per sposa la cugina Francesca e quindi.... nel palazzo ereditato c’era la nobile famiglia D’Antona. La prima carrozza a Riesi fu fatta venire da essa famiglia; ma il maggior lusso proveniva dal fratello del Sindaco, Senatore Antonino. Conviene a questo Punto lasciare da parte la Chiesa, in balia di se stessa, col suo numeroso e ricco Clero, dato che dopo la morte del Parroco Don Gaetano D’Antona essa perdette il suo prestigio e occupiamoci degli altri avvenimenti. Il Cav. P. D’Antona era dunque ben quotato, ben stimato come funzionante. Riguardo ai carcerati della sommossa, dopo circa un anno di processura, comparsi dinanzi il Tribunale di Caltanissetta furono egregiamente difesi dal papà degli Avvocati del Foro nisseno, Giuseppe Correnti, nostro concittadino, essi imputati furono tutti assolti “per insufficienza di prove”. Siamo agli ultimi sgoccioli della filossera, i vigneti dello Stato di Riesi furono tutti distrutti ; la terra venne restituita ai proprietari i quali pensarono di sostituire alla vigna il mandorlo; si impiantarono boschi di mandorleti persino sulle serre rocciose. Così lo Stato si arricchì di mandorle per la industria della intrita che ogni anno faceva incassare dei milioni. Il vino veniva importato da Vittoria, facendosi di necessità virtù giaccliè non era più il mosto. ** Torna su ** Cap. XXIX la disgrazia della miniera grande di sommatino Sotto la Sindacatura D’Antona, nel 1883, avvenne la disgrazia della Miniera Grande di Sommatino. Questa terribile sciagura colpì Riesi, tanto che per la sua importanza fu d’uopo narrarla. Gli zolfatai riesini che lavoravano nella Miniera Grande di Sommatine, il 26 Luglio si recarono al lavoro con lo scopo di fare una doppia giornata. Era giusto l’antivigilia della festa di S. Giuseppe, per cui dovevano riposarsi il sabato. Fatta la prima cacciata la notte, continuarono il giorno a lavorare assieme ai sommatinari. Avendo scavata una profonda mina, accesa la miccia, gridarono di allontanarsi tutti. Caduto lo zolfo gli operai si apprestarono a volere uscire dalla miniera, ma la fiamma della polvere aveva acceso il pulviscolo dello zolfo ivi esistente incendiando tutto il locale di lavorazione mentre il fumo, impedito dal vento a potere uscire, aveva otturato le porte di entrata. I minatori, nel salire le scale, cadevano terra asfissiati, carbonizzati, senza potersi dare aiuto. Fuori, che nulla sapevano dell’accaduto, ne attendevano l’uscita. Dopo lunga e vana attesa impiegato fatto discendere in miniera dentro un vagone l macchina vide il lugubre spettacolo. Subito diede l’allarme, vi fu uno spavento generale fra tutti i presenti, compresi quelli della Miniera Tallarita. Fu telegrafato al Prefetto che rispose subito inviando in aiuto soldati e Carabinieri dai paesi vicini. Appena giunta la notizia a Riesi fu un accorrere sul luogo non solo delle famiglie degli zolfatai, ma amiche di cittadini di ogni età e classe. Lo spettacolo si presentò atroce, enorme e commovente… La notizia subito si propagò richiamando sul posto del sinistro gli abitanti di Sommatino e Ravanusa. Chi piangeva il marito, chi il tiglio, chi il padre, chi il fratello, chi il parente o l’amico.... Ad ogni cadavere che si estraeva si rinnovavano le grida di terrore e di dolore! Insomma, le scene di quella memorabile giornata, sono indescrivibili. Tutti gli impiegati, operai e militari si distinsero molto nel porgere aiuti e confortare le famiglie dei sinistrati. I morti furono 37 di cui 24 riesini. Il buono e generoso Re Umberto I, fu talmente commosso che mandò la somma di L.14.000 da elargire a favore delle famiglie colpite dalla disgrazia. Il Sindaco Cav. Don Pietro D’Antona, aggiunse del suo per venire incontro ai bisogni degli orfani, delle vedove e dei genitori dei defunti; inoltre, fece sospendere la festa, rimandando la musica di Delia, che era arrivata la sera precedente, per riguardo al lutto della cittadinanza. Il paese, in preda al dolore, si associava a quello di Casamicciola (1883), non sapendosi dar ragione della terribile sciagura toccata a Riesi e i paesi limitrofi. Il poeta zolfataio Liborio Ministeri della Miniera Tallarita, che accorse ad incoraggiare ed aiutare i compagni, compose un poemetto in vernacolo, in cui fra l’altro dice: A li vintisetti di Luglio, Precisi, precisati, senza sbagliu Subitu la morti fici trugliu E dissi:ala, amara a ccu ‘ncaglia. Poeta estemporaneo, Liborio Ministeri, nacque nel 1856 da Vincenzo e Crocifissa Russo. Da bambino all’età di sette anni fu messo al lavoro nelle miniere come caruso presso il di lui padre. Con l’andar degli anni, intelligente com’era, comprese che il saper leggere e scrivere per lui era una necessità, giacchè ideava versi che faceva piacere a sentirti. Da giovanetto, Liborio Ministeri, frequentando la scuola serale valdese, allora in voga, ebbe modo di compiere la III classe elementare. Così incominciò a scrivere i suoi versi e pubblicarli, giacchè a quei tempi la stampa costava poco. Affermatosi come poeta, il Ministeri compose e pubblicò diversi poemetti, fra i quali bello: “LU DIALUGU TRA N’A VANGELICU E UN PARRINU” che comincia proprio così: Divertitivi genti un mimintinu, Ccu sti versi ca fici stu babbunu Ca ficiru un terribili baccanu; L’avangelicu avia un librittinu E spiegava a lu populu l’arcanu. Si parti lu preti di superbu chinu E cci strappa lu libru di li manu In questa guisa continua la zuffa. Il poeta popolare, la domenica vendeva i suoi libretti in piazza. Una volta alcun contadini gli dissero che non compravano i suoi libretti perchè non sapevano leggere, il Ministeri di colpo rispose loro: Lamintativi di li vostri patri e matri Ca ‘nveci di la scola vi mannavanu a metiri. Di simili versi ne compose molti, chec se fossero stati tutti raccolti, se ne avrebbe fatto un bel volunte ; ma bastano i pochi che abbiamo letto per caratterizzare il nostro concittadino. Essendo egli un picconiere alle dipendenze di una ditta francese e dovendo reclamare per la sua partita, scrisse il relativo reclamo per del suo contenuto in versi, tanto che veniva amato e stimato dall’Amministrazione. Il suo nome divenuto noto in tutta la Provincia, il Prefetto volle conoscerlo di persona. Il Ministeri, profittando di quella occasione chiese al Prefetto che gli accordasse un posto di cantoniere stradale al fine di togliersi dal faticoso lavoro di minatore. Il Prefetto accolse benevolmente la domanda orale e dopo breve tempo lo fece nominare cantoniere allo stradale di S. Cataldo. Disgrazie ne succedono sempre nelle miniere, ma oh... ironia della sorte, essa toccò anche al povero Ministeri: la vigilia della sua partenza, era andato a licenziarsi dall’Amministrazione francese e con i compagni, sceso in miniera, prese gli arnesi per portarseli definitivamente a casa, mentre passava dal cantiere di lavoro, staccatosi un masso improvvisamente dall’alto, gli fracassò il cranio. I suoi funerali furono imponenti; L’Amministrazione francese agevolò di molto la famiglia, nonostante ancora non esistesse la legge sugli infortuni. Liborio Ministeri fu poeta riesino, bello di gioviale, buono, intelligente e amabile con tutti. Egli lasciò una buona memoria di se. Questa ricca Amministrazione di Parigi, di cui abbiamo parlato, fu quella che impiantò le prime macchine per l’estrazione dello zolfo coi vagoni, dall’interno all’esterno, della miniera Tallarita. Venuta essa nel 1887, rinnovando periodicamente l’affitto, vi siede quasi 60 anni, tanto che si consideravano come resini. Uno di essi, certo Emile Bacillon, sposò una ricca riesina della famiglia dei Janni. Per ultimate questo capitolo, come coda aggiungiamo il fatto come venne modificata la parola “riesino” da “riisanu” ad opera della chiesa. Sdoppiatasi la grande Diocesi di Caltagirone, nel 1885, fu fondata quella di Piazza Armerina. La Chiesa ed il Clero di Riesi conseguentemente furono annesse a questa nuova Diocesi. Il dotto Vescovo Monsignor Gerbino, proveniente da Lipari, corresse la stonatura del nostro aggettivo. Così si ebbe il nome di riesino, riesini. ** Torna su ** Cap. XXX il partito liberale dei pasqualino, del poeta Dr. don carmelo lostimolo Ritorniamo ancora di alcuni passi indietro, per vedere come si svolse la politica locale dell’Amministrazione D’Antona-Trapani col partito liberale dei Pasqualino-Pasqualino. Alternatesi al potete i D‘Antona e Trapani, si trovarono di fronte al nuovo partito liberale dei Pasqualino, dal 1875. Sotto il partito liberale dei fratelli Giuseppe e Gaetano Pasqualino-Pasqualino, questi non si perdettero d’animo e cominciarono a lottare da leoni. Essi erano figli dell’Avv. Onofrio, il Giudice che non conosciamo, il quale aveva sposato la figlia del fratello Giuseppe da vedova, dalla quale ebbe quattro maschi e due femmine. I due fratelli Giuseppe e Gaetano si diedero a studiare, mentre Luigi e Pietro si dedicarono al fondo di Passerello. Intelligenti e studiosi, Giuseppe e Gaetano si diedero alla politica locale, affiancati dai parenti; Giuseppe arrivò a laurearsi, ma Gaetano, ottenuta la licenza liceale, non volle frequentare l’Università accontentandosi di studiare i libri del padre, mettendosi al corrente di tutto lo scibile umano. Questi furono i due fratelli Pasqualino-Pasqualino che si imposero all’attenzione dei riesini. Fondato il partito liberale davano del filo da torcere all’Amministrazione D’Antona-Trapani e compagni. L’Avv. Don Giuseppe, sposatosi a Sommatino, lasciò le redini al fratello, il quale da capo partito col suo saper fare, col suo sangue freddo, stava di fronte a quell’Amministrazione Comunale. Formatesi le due liste: politica e amministrativa del Comune di Riesi, gli elettori non arrivavano mai a superare il numero di trecento. Erano elettori tutti coloro che pagavano lire cento di tasse e gli ex militari; sicchè il partito popolare Pasqualino doveva presentarsi in lotta con circa cento elettori. Al Consiglio Comunale e al Consiglio Provinciale riportava sempre la disfatta. L’Avv. Don Giuseppe Correnti era diventato Il Presidente del Consiglio Provinciale di Caltanissetta e quindi, come capo della Provincia, teneva tutti i paesi in un pugno. Nella Prefettura, il Correnti, coadiuvato dalla P.S. dominava tutti. Figuratevi perciò con chi aveva da fare il Pasqualino. Eppure egli non temeva; nel Consiglio Comunale, alla minoranza, le invettive partivano da sinistra a destra, da una parte all’altra, giungendo alle personalità; e nel rinnovare ogni tre anni il 6 percento dei consiglieri, il Pasqualino non arrivava a tirare un ragno dal buco, rimanendo quale era. Alle elezioni generali, poi, la disfatta era completa per cinque anni; ma i suoi cento elettori gli erano fedeli. Le elezioni politiche per i Deputati si svolgevano così: Siccome il partito Pasqualino militava con l’estrema sinistra, e appoggiava i Deputati avversi al Governo, così in questo caso la lotta si faceva sempre piu aspra, piu terribile, affrontando la fora e anco il denaro. Col trasformismo di Agostino Depretis i voti si compravano, di modo che quando il partito liberale credeva di guadagnar terreno otre i cento elettori, la corruzione in ambo i casi lo avvinceva. Bisogna quindi far rilevare che, il ponte sul “Salso”, tanto necessario per i zolfatai che con la piena non potevano attraversarlo e quindi impediti di scendere al lavoro o, al contrario, costretti a rimanere in miniera per diversi giorni, era la piattaforma di candidati politici che promettevano e ripromettevano, ma poi, passate le elezioni, il Ponte restava..., nel campo delle promesse da rinnovarsi. Se era necessario il ponte sul Salso o fiume Imera, lo dimostra il fatto avvenuto nel 1886, quando, alcuni zolfatai riesini, tornando dal lavoro della miniera Gallitano, si trovarono broccati nel fiume, senza poter passare. Siccome ivi, al passo detto della Caldaia il fiume si bifolca in due rami, così, passato il primo tratto e sopraggiunta all’improvviso la piena restarono sullo scoglio senza potere andare nè avanti nè indietro. Alle grida di aiuto i carusi c he avevano passato prima corsero a dare la notizia a Riesi. Molti accorsero sul luogo, e non solo dal paese ma anche dalle due miniere. Nella notte, la moglie di un zolfataio diede alla luce una bambina. Era il 2 Febbraio, faceva molto freddo, con lo scioglimento delle nevi era venuta la piena. L’indomani ai quattro malcapitati gli porsero i cibi con la corda. Nel pomeriggio l’acqua cominciò a scemare e così poterono passare. Questo pietoso fatto ci è stato raccontato da uno dei quattro malcapitati di quella terribile, memoranda notte; così possiamo formarcene un’idea della vita fino a quasi tutto il 1800. Come era difficile andare a Caltanissetta. La posta non si aveva che ogni due e magari ogni tre giorni; essa veniva a basto di un mulo che proveniva parte da Mazzarino parte da Ravanusa e si che si era abolito il procaccia che a portava a piedi, partendosi da Caltanissetta, Pietraperzia, Barrafranca, Riesi, Butera, Terranova e viceversa; più tardi poi, si attuò uno sfasciume di carrozza per il servizio postale e sembrò una grande novità; ma anche questo servizio lasciava molto a desiderare, perché, o si sfasciava la carrozza o i cavalli non potevano andare avanti per la via Sommatine-Delia, onde raggiungere Canicatti. Altro se non era necessario il ponte sul “Salso”. Certamente che il Cav. D’Antona, il cui prestigio aveva aumentato presso il Governo mediante l’appoggio del fratello, Senatore del Regno, lavorò molto per il su menzionato ponte ed arrivò a farlo mettere in deliberazione; ma essendo interprovinciale, bisognava mettere di accordo le due Provincie di Caltanissetta ed Agrigento. Ad ogni modo, tanto il partito liberale che il dominante nelle elezioni sia politiche che amministrative facevano assegnamento sul ponte. Il partito Pasqualino che si aveva creato , sperava con ciò di dare un colpo al D’Antona, e, tira e ritira, alla fine si trovava sempre lì.... Laonde il Dottor Don Carmelo Lostimolo, da poeta, riferendosi alle elezioni Pasqualiniane, compose una ottava, tutta di avverbi, dal titolo “Per le elezioni tomaie a vuoto”. La riportiamo perché è una bellezza, una meraviglia, un gioiello: Dunque, perciò, sicchè, così, talora, Perché, quantunque, nondimeno, intanto, Imperocché, giacchè, come talora, Qualora, fintantoché, fuori che, frattanto, Ciò, conciosiachè, benché, pertanto, Di guisa che, anche, per ora, Onde, di modo che:dov’è cotanto? Il Dott. Lostimolo nacque nel 18i6 da Giuseppe e Agata Janni, agiati, che lo mantennero studiare a Palermo. Lì; oltre la medicina curò il canto e la poesia; dotato d’una bella voce tenorile, calcò le scene assieme alla Carolina Lungher nel Teatro Bellini, riportandosi onore. Venuto a Riesi laureato, sposò la ricca Maria Catena Correnti Calafato, per c ui divenne un proprietario; cognato del Cumm. G. Correnti, di conseguenza doveva essere avverso, al partito liberale di Pasqualino. Poeta estemporaneo, pubblicò alcune sue poesie in un libretto stampato a Catania nel 1886. Nei suoi versi il Dott. Lo stimolo si rivela umoristico e faceto. Infatti, leggiamolo in quest’altra bella poesia su: Oh! Come fugge il tempo e vola e passa! Come si spegne sfavillando il lampo! Così la vita mia corre e trapassa L’ore, i minuti, percorrendo il campo. Miete la morte ogni etade e lassa Senz’appello, o timore, indugio o scampo. Distruggendo il Creato in parte e in massa, Mondo malfatto: Ah! Che di rabbia avvampo!! Nel sonetto su Riesi che chiama Altariva, la definisce: “vile e indegna, che Gesù Cristo maledisse, madre di odio e di rancori: senza Religione, ma infamia in usura ”, Terminando: “E non son queste d’Altariva le mura?”. Gli altri versi su svariati soggetti, sono tutti in vernacolo cioè in siciliano nostrale. Eccone un saggio di essi: così finisce “lagno” della sua vita: Mi putia truvari senza sciatu Quannu lassavu lu cantu d’allura. Il Dott. Lostimolo mori nel 1893, all’età di 77 anni. Dei suoi figli si distinsero l’Avv. Rosario, valoroso penalista, fecondo parlatore; lo zio voleva farne un avvocato del foro nisseno ma egli preferì star qui con la sua famiglia. Nominato Pretore a Calatafimi (Trapani), vi rinunziò per le stesse ragioni. L’Avv. Lostitnolo, nato nel 1848, occupò da noi il posto di Vice Pretore. Pubblicò le sue idee politiche dimostrandosi un liberale. In una requisitoria contro il Consiglio Comunale di Riesi (D’Antona-Trapani) fece il ritratto del Segretario Don Vincenzo Zagarella, figlio del Dott.. Don Giuseppe che, sedente. da P. M. lo chiamò sconclusionato, scollacciato, ecc,ecc. Se la morte non l’avesse baciato in fronte in eta prematura, l’Avv. Don Rosario Lostimolo, sarebbe stato uno dei tanti. Il fratello Luigi, Notaio, che la spagnuola portò via come una freccia, visse modesto, cultore di scienze notarìli. Apprendiamo queste notizie dai superstiti. ** Torna su ** Cap. XXXI l’800 – la nuova vittoria del partito liberale dei pasqualino Finalmente, dopo 14 anni di lotte continue, degenerate anche con la stampa di lettere aperte contenenti invettive personali, nel 1889 vi fu la completa vittoria del partito dei Pasqualino. A nostro parere due ragioni principali concorsero per la disfatta dell’altro partito dominante. Esse sono state: 1) La morte del Sindaco titolare Cav Don Pietro D’Antona, avvenuta a Napoli nello stesso anno 1889, per cui ne assunse il potere il ff. Trapani che sperava molto essere nominato titolare, essendo il partito ben compatto; 2)La riforma della nuova legge comunale e provinciale dell’On. Crispi, salito al potere del Governo dopo la morte del Presidente Depretis.Con questa riforma, in base all’art.100, potevano essere elettori tutti gli operai che avevano compiuto il 21esimo anno di età e che si trovavano in possesso del certificato della 4 classe elementare. Qui il Pasqualino, cogliendo, come suol dirsi, la palla n balzo, si mosse a far scrivere elettori quanti più ne poté, fra il popolo, che ora contava 11 mila abitanti; la gioventù operaia gli teneva dietro, il modo che lui guadagnava sempre terreno mentre i Cappedda erano scossi. Le liste elettorali, ingrossatesi, arrivarono a 500 iscritti. Aspettavano tutti il tempo del liberalismo, perciò, era naturale che i Pasqualino acquistavano prestigio, nonostante il Correnti mettesse dei bastoni fra le ruote nella politica riesina. Ma ciò, i Cappedda alla loro volta si agitavano cercando a destra e a sinistra nuovi elettori. La lotta politica quindi si era ingaggiata seria. Approssimandosi le elezioni amministrative, nelle domeniche i comizi succedevano a comizi, al fine di fare intendere agli elettori lo scopo della lotta. Come abbiamo detto, il Pasqualino con la sua popolarità, da buon parlatore, lottatore calmo, riscuoteva applausi. Egli era coadiuvato dal giovane avvocato, suo nipote Rosario Pasqualino Vassallo che, intelligente parlatore, iniziava la sua carriera politica, con l’essere candidato al Consiglio Provinciale. Anche il Trapani con la sua facondia sapeva ben parlare al pubblico, ma per quanto facesse e dicesse, alcuni dei suoi, vista la cosa mala presa, lo abbandonarono. Perciò, con i cento elettori pasqualiniani fermi, uniti ai nuovi di giorno in giorno crescenti, non c’era da dubitare che la vittoria doveva arridere al partito liberale. La lista dei 30 consiglieri comunali era composta in maggior parte di buoni operai; i due consiglieri provinciali erano i Pasqualino Gaetano e Rosario e dei partito contrario Correnti e l’Avv. Civilista Gaetano Giardina. Gli elettori d’ambo le parti erano preparati dunque alla battaglia elettorale:l’arma era la scheda. La settimana del 28 Ottobre era molto movimentata. I galoppini dei due partiti, che aspettavano il giorno delle elezioni come l’acqua nel mese di Maggio, si affaticavano di qua e di la in cerca di voti. Bisogna spiegare un pò cos’era il galoppinismo dell’epoca passata, per conoscere come si svolgevano le elezioni politiche ed amministrative. Fra gli elettori e non elettori vi stavano i mezzani di voti che, a seconda del caso, li compravano a caro prezzo; gli elettori deboli si intimorivano; si formavano delle squadre per pattugliare e sorvegliare la sera; i capi se ne stavano a casa dando ordini e denaro, col quale i messeri gozzovigliavano. Incontrandosi i galoppini prò e contro, si baruffavano. Un distaccamento di soldati e rinforzi di Carabinieri venivano per il mantenimento dell’ordine pubblico. Faceva parte del partito liberale il giovane a 21 anni Don Carmelo Inglesi di Giuseppe Antonio che, sposata la figlia unica dello zio, era diventato il più ricco proprietario di Riesi ereditando tutta la proprietà del defunto zio e la porzione dei suoi genitori; perciò la di lui casa era il refrigerio dei galoppini. La vigilia delle elezioni, essendo di sabato, il lavoro si intensificò, si raddoppiò; la notte specialmente, l’attività di questa specie di bravi — direbbe il Manzoni - fu sorprendente; nei diversi quartieri si sparava, si scambiavano schede, si impauriva: un capoccia del partito dominante, battagliero, ebbe assediata la casa e per tutta la notte non fu fatto uscire. Tutto ciò si commetteva in barba alla Forza Pubblica, la quale accorrendo, sbandava la mischia per il momento, ma poi.... le lotte civili ricominciavano. Il giorno di quelle elezioni, domenica, dalla mattina si vede il bel tempo, l’animazione era insolita. Nessuno mancava degli elettori. Formatosi il Seggio provvisorio, nelle due Sezioni del Municipio e della Chiesetta del Crocifisso, sotto magistrati della legge, gli elettori affluivano a depositare le schede dentro le urne, il popolo gridava viva e abbasso: viva, per i Pasqualino; abbasso, per gli altri. Nelle sale delle elezioni, voci e proteste echeggiavano a più non posso. S prevedeva la completa disfatta dell’altro partito. Lo scrutinio risultò a favore dei liberali; allora questi, incoraggiati dalla prima vittoria riportata, organizzarono una grande dimostrazione con bandiere alla testa, percorrendo le vie del paese. La notte, saputosi il risultato definitivo, le donne, affacciatesi, gridavano pure evviva. L’indomani, con la musica. alla testa e bandiere più numerose, si rinnovò ancor più solenne la dimostrazione. Per più giorni il giubilo non cessò. Appena saputasi la notizia a Caltanissetta, anche lì il partito liberale inscenò una calorosa dimostrazione col grido di Viva Riesi! Possiamo affermare, senza tema di esagerazione, che tutti gli occhi dei paesi della Provincia si rivolsero con simpatia al partito liberale dei Pasqualino in Riesi. La caduta del Correnti provocò del malumore, delle critiche; ma il giovane Avv. Nino Verso Mendola, in proposito, scrisse un articolo di cui fra l’altro diceva: “ Riesi, Signori Sagrestani, è stato in Provincia l’antesignano di ogni nobile fatto che se fosse stato meglio amministrato, oggi sarebbe all’altezza di uno dei Comuni del Settentrione d’Italia Insediatosi al Municipio il nuovo Consiglio Comunale, con a capo il Sindaco Avv. Don Gaetano Pasqualino Pasqualino, Consigliere provinciale in Caltanissetta, assieme al nipote, sollecitarono la costruzione del sospirato ponte Imera sul “Salso”. Verificatasi un poco di miseria a cagione della crisi zolfifera nel 1890, si diede lavoro a tutti nella detta costruzione. Quest’opera d’arte fu completata dopo due anni, nel 1892. Il primo atto energico del Sindaco liberale fu quello di aver fatto togliere la grata di ferro dal Casino dei civili, rendendo liberi la Piazza Garibaldi e il Corso V. E. Il paese però rimase come prima. Il Pasqualino, con le sue idee politiche, incominciò ad essere avversato per le seguenti ragioni: 1) Perché nel 1890 patrocinò al Parlamento Nazionale la candidatura dell’On. Colajanni, contrariamente alle disposizioni Prefettizie; 2) Perché neI 1892, nella candidatura di Tommaso Palamenghi al Collegio di Gela, lui si dichiarò personalmente contrario, lasciando liberi il Consiglio e gli elettori. Il partito caduto, profittando di questo, si insinuò presso il Governo a mezzo dell’On. Palamenghi Crispi. E difatti, il Marchese Zuliani venne ad ispezionar il Municipio di Riesi. Si disse che trovò tutto in ordine; ma la verità fu che le sorti del Consiglio Comunale si decisero dopo, in casa del Sotto Prefetto Debilio. Intanto il Pasqualino, credendosi forte, continuava impavido la sua via. Nel frattempo le liste elettorali gli si erano accresciute di 1200 elettori, quasi tutti da parte del popolo; e quindi fidava su se stesso e sugli altri. Don Gaetano commetteva degli errori per non ascoltare i consigli dei suoi amici. Durante il suo potere si ultimò il nuovo Carcere; si accomodò la lunga saia, pericolosa, che partendo davanti la casa Accardi e passando per il detto Carcere, va a sboccare al Vallone della Sanguisuga. A proposito di detta Saia rammentiamo che una sera di Ottobre d 1901, mentre pioveva forte ed era piena, una povera donna del quartiere, volendo passare all’altra sponda, vi cadde e fu trascinata dalla corrente. Alle grida accorsero il marito, i figli, i parenti, i vicini coi lumi; si sparò chiamando soccorso, ma fu inutile. L’indomani fu trovata morta al vallone della Sanguisuga, vicino al Cimitero. Sotto la Sindacatura del Pasqualino, il paese cresceva, s allargava di nuove case, formandosi delle nuove vie verso lo stradale di Mariano, al nuovo Carcere, lo stradale di Ravanusa, Calamita ; verso la via Scifano, alla via Larga, dov’è la lunga via che dal punticino della Saia va fino al Canale e che ora è divisa in due nomi: Vittorio Veneto e via del Littorio; l’altra lunga, diritta via Cairoli che dallo stradale scende fino a Schifano. Ivi sono sorte delle belle case con camerette fra le traverse le nuove case dei contadini, zolfatai, operai e commercianti continuano a sorgere camode, pulite. In conseguenza di tutto ciò, il paese coi suoi diversi quartieri, e i rioni, al tempo di Pasqualino contava 12 mila abitanti. il popolo quindi si muoveva, si istruiva, migliorava aspettando nuove opere pubbliche, ma... è meglio non parlarne. Narriamo piuttosto il fatto doloroso di un uomo idrofobo, avvenuto nel 1889. ln una pagina triste della storia di Riesi. Tal Giuseppe Vinci, zolfataio, fatta la sua giornata di lavoro, se ne veniva con i suoi compagni dalla miniera Tallarita. Tranquillamente discorrendo si mangiava un tozzo di pane ed aveva in mano un coltello. Tutto ad un tratto vedono scendere dal punto denominato dalla Portella, un cane idrofobo. Siccome il Vinci era avanti ed aveva smesso di mangiare, chiuso il coltello, il cane quando gli fu vicino gli si avventò e lo morse alla mano; gli altri si guardarono, si allontanarono, lo cacciarono a colpi di pietra. I contadini dei dintorni si allarmarono e prima che l’animale giungesse alla miniera l’uccisero. L’operaio morsicato vistosi un poco di sangue, se lo sugò asciugandosi la ferita col fazzoletto; seguitando a camminare andavano scherzando credendo che fosse una cosa da nulla. Giunto a casa disse ridendo alla moglie e ai figli che era stato morsicato da un cane arrabbiato e che dovevano guardarsi. Non ci si badò e non se ne preoccuparono, tanto piu che la ferita era rimarginata. Ebbene, ai 40 giorni precisi, quell’uomo a mezzanotte, svegliatosi, ebbe i primi sintomi dell’idrofobia. La moglie vistolo guaire, saltando giù dal letto in camicia, trascinandosi i bimbi, va a svegliare i suoi genitori, i quali accorsi gli chiusero la porta a chiave. Al rumore, svegliatisi i vicini di via Parroco, accorsero constatando il caso orribile, pietoso: dietro la porta ascoltavano i guaiti come un cane. Fattosi giorno. informate le Autorità, una folla di curiosi si riversò la. Il Sindaco Pasqualino ordinò immediatamente di fare una grata di l’erro e murarla davanti la casa, atterrando la porta. Il povero uomo idrofobo in tutta la sua deformità, pieno di bava alla bocca, non riconosceva i fratelli, gli amici; non voleva nulla, Per diversi giorni, il paese rimase in preda al terrore, sotto l’incubo della trepidazione, tanto che una sera un burlone lasciandosi dire che l’uomo idrofobo era scappato, in un momento tutte le porte si chiusero, temendo un malanno. Finalmente la Prefettura ordinò di fucilarlo; laonde per evitare questo triste spettacolo al popolo, decisero di farlo avvelenare dai parenti. In una fetta di mela, a debita distanza, lo indussero . mangiarla: appena messesela alle labbra, Giuseppe Vinci cadde come “corpo morto cadavere”. L’Amministrazione Comunale del Pasqualetto allora mise in Bilancio la somma per un accalappiatore. Questa Amministrazione Comunale ebbe vita quattro anni. ** Torna su ** Cap. XXXII scioglimento del consiglio comunale – R.commissario l’ex prefetto debilio Con Regio Decreto del 5 Aprile 1893 venne sciolto il Consiglio Comunale di Riesi. L’accusa fu trovata nell’aver firmato il Sindaco alcuni espropri all’Esattore, ingiustamente. Gli imbastirono un processo che a dir dell’On. Colajanni (Avvenimenti di Sicilia) fu per esito politico; difatti proseguendosi l’istruzione, l’ex Sindaco Gaetano Pasqualino fu prosciolto poi dall’accusa. A R. Commissario fu nominato l’ex Sotto Prefetto Avv. Dott. Francesco Debilio, nostro concittadino. Il Cav. F. Debilio, era figlio di Don Rosario e Anna Inglesi. Laureatosi in giurisprudenza nel 1860, andò da giovane a fare gli esami di Pretore Mandamentale a Gela e vi restò. Con un altro esame fu nominato Sotto Prefetto col nuovo Governo italiano, Da Catania fu mandato ad Aci Reale, trasferito a Nicosia, ivi distrusse il brigantaggio; poscia a Caltagirone, e per breve tempo Prefetto a Cosenza. Dopo trent’anni di lodevole servizio si ritirò in questa sua patria, curando la sua estesa proprietà e la sua famiglia. Durante la sua breve gestione di sei mesi, il Cav. Debilio, diede prova di saper fare; oculato Amministratore, oltre a lasciare l’intero stipendio a beneficio del Comune, con le sue economie, l’onestà, la rettitudine, si dedicò a delle opere pubbliche. La prima cosa ch’egli fece fu di far recintare di muri il nuovo Cimitero, facendo togliere le tavole, perché il sacro luogo sembrava una mandra e i cani vi saltavano dentro, asportando i resti dei cadaveri. Fece in economia riattare le strade del Carcere vecchio, Pietrapiatta e Nocilla. Il bravo funzionario fece fare, in tubi di ghisa, le condutture delle acque al Canale e alla Sanguisuga, per l’igiene. Il tempo gli mancò al R. Commissario Debilio, perchè le Elezioni Amministrative furono puntate per la terza Domenica di Ottobre. In questo mentre i Cappedda si riorganizzarono per dare addosso al partito liberale; d’altra parte il Pasqualino, forte del suo partito, contava sui suoi elettori. Ma si ingannò! Il Cav. Don Carmelo Inglesi lo abbandonò, passando alle file dei signori; egli denaroso prodigo che aveva fatto il banchetto all’On. Palameghi Crispi, ci teneva ad abbattere il Pasqualino. Quindi si mise in campo la corruzione elettorale su larga scala. Gli elettori del Pasqualino, poveri operai, si vedevano per le vie e si vendevano il voto per una mangiata di pasta; vi furono di quelli ben pagati. Sembra una esagerazione il dire che un Consigliere della Lista pasqualiniana, si vendette e andò a votare contro se stesso. Eppure vero. Il galoppinismo in questo caso, vedendo che c’era da rodere dalla parte dei signori, raddoppiò di zelo. Pochi, pochissimi furono coloro i quali si mostrarono fedeli al partito liberale. Il giorno delle Elezioni i due partiti scesero in lotta. Don Gaetano si accorse del mal tempo, ma pure bisognava lottare, non per vincere, ma per perdere. Nelle sale delle Elezioni le sue proteste erano accolte con urli e fischi. Il risultato fu la completa disfatta. Il ‘93 cancellò l’89. La politica fece restare al suo posto di Consigliere Provinciale il giovane avvocato R. Pasqualino Vassallo, mentre io zio rimase fermo nelle sue idee, continuando a lottare. Egli sapeva star bene all’opposizione. Riguardo all’ex Sotto Prefetto, rimase estraneo alla politica locale. Visse fino ai 1894 morendo alla bella età di 74 anni. ** Torna su ** Cap. XXXIII la nuova amministrazione comunale sindaco in cav. carmelo inglesi L’Avv. Don Francesco Trapani che reggeva il timone del partito, propose a Sindaco il Cav. Don Carmelo Inglesi, resosi stavolta benemerito al partito dei Cappedda, e Vice Sin lui, nelle cui mani era concentrata l’amministrazione. In seguito alla nomina a Sindaco titolare e al prestato giuramento, si formò la Giunta Comunale con l’Avv. Di Benedetto, certo Mario Auci e Don Francesco Rindone. Indi incominciarono le lotte. Con i nuovi ordini si doveva fare un po di chiasso. Eccoli pensare alla manutenzione delle strade, allo spurgamento delle sorgenti, ed altro. Passato questo primo impeto, si ritornò allo stato Primiero: opere nuove non ne sorsero più; miglioramenti, niente. Il Cav. Inglesi, da Sindaco, era accerchiato da tanti satelliti, i quali lo sfruttavano maledettamente. Egli, di carattere debole sebbene onesto, dava retta ai suoi amici che lo traviavano come volevano. Ma, e il paese?... Restava lo stesso, senza fare un passo avanti nella via del progresso civile. Al Municipio, ritornarono a governare i Cappedda, come una volta, Il Pasqualino vedendo ciò, al Consiglio Comunale faceva l’ira di Dio; ma veniva spesso soffocato dalle voci. La opposizione che aveva sempre ragione.... non aveva ragione. Il popolo cominciò di nuovo ad affiancare il Pasqualino. Questa lottava in nome dei principi estremi. Si erano istituiti in Sicilia i fasci dei lavoratori, con programma spiccatamente socialista, contro il Governo e contro i Signori. Don Gaetano fondò il fascio di Riesi, a scopo locale, per avere i voti degli elettori. I Signori, spaventati, si accanirono maggiormente contro di lui; la P.S. guardava di mal occhio non solo il Capo, ma anche i gregari. Eppure il fascio dei lavoratori di Riesi contava 700 uomini. La bandiera rossa, le coccarde, le conferenze; tenevano desta l’attenzione della popolazione. Quindi la lotta era diventata aspra quanto mai. I capi del partito socialista andavano predicando per tutta l’isola il finimondo. Lo stesso Governo dell’On. Di Rudini era incapace di frenare, di reprimere il movimento rivoluzionario. E qui a Riesi, il Sindaco Inglesi era furibondo contro i socialisti. Però, ad onor del verità da noi si predicava la calma; ma con tutto ciò si temeva chi sa che cosa!... L’Amministrazione Comunale stava all’erta; Sindaco, consiglieri e proprietari non dormivano tranquilli; il Pasqualino, nella qualità di presidente del Fascio, tutte le sere, nel dammuso sotto la casa di Donna Maria La Rutella adunava operai, contadini, e zolfatai, tenendo loro conferenze. Carabinieri e guardie pattugliavano, sorvegliavano continuamente i locali senza che si verificasse il benché minimo incidente; il fracasso prodotto di battimani si sentiva di fuori, ciò che adontava maggiormente il Cav. Inglesi, che ad ogni costo voleva la testa del Pasqualino. ** Torna su ** Cap. XXXIV lo “stato di assedio” - 1894 La propaganda socialista si degenerò in tumulti, rivolte, saccheggi, incidenti; l’On. De Felice e Compagni andavano predicando che: siamo al principio della fine; i contadini, ai quali si era dato ad intendere la divisione delle terre, si armarono qua e là successero dei disastri e danni. A Monreale atterrarono i casotti daziari e li incendiarono; a Gibellina vi furono delle uccisioni; a Valguarnera appiccarono il fuoco al Municipio, fecero scappare Sindaco e proprietari; a Pietraperzia i contadini si attaccarono con i soldati e vi furono morti e feriti. Il male era contagioso. La Sicilia era in fiamme. Bisognava reprimere, arrestare la rivoluzione. Come? Ogni giorno se ne sentiva una. Tutti i paesi della Sicilia e della Lunigiana (Toscana) erano in subbuglio. Richiamato al potere l’On. Crispi, con mano di ferro strinse i freni, mettendo lo Stato di assedio. Mandò subito il conte generale Morra di Lavriano a Palermo. L’indomani stesso il Comandante del 12” Corpo di Armata, fece arrestare in Palermo l’On. De Felice e Comp. Nelle città i ci furono arrestati; indi proclamò il disarmo. Vi fu il fuggi fuggi. A Riesi che non c’era stato niente, che anzi il Fascio fu dichiarato apocrifo, sconfessato dagli stessi socialisti, perché di mire locali; che anzi si predicava la calma, si era tranquilli; lo stesso Pasqualino diceva di non aver paura; ma venuti i soldati per il disarmo, non fu così. La notte del 14 Gennaio .1894 furono arrestati: il giovane Avv. Gaetano Debilito; Don Salvatore Di Benedetto, sarto; Gaetano Fasula, armaiolo; Francesco Giaquinta, proprietario; Cataldo Girgenti, contadino: Francesco Golino, falegname. L’Avv. Gaetano Pasqualino, il Notaro Giuseppe, Giovanni La Leggia, zolfataio e certi altri, avvisati, scapparono. Figuriamoci quindi la costernazione delle famiglie. La nota degli arrestati formata in casa del Sindaco cav. Inglesi, era di 120, anche i sospetti, gli amici del Pasqualino, dovevano essere arrestati. La sera essi prendevano il largo fra le campagne, al lume di giornali accesi: soldati e carabinieri, di giorno e di notte erano in moto: le grette nella notte erano piene di fuggiaschi. A poco a poco, fatto il disarmo, le cose si andavano quietando. Il generale Murra informato esattamente delle cose di Riesi, dopo 22 giorni fece uscire i carcerati, dando ordine di lasciar liberi i cittadini. Don Gaetano Pasqualino che era stato a Palermo, nascosto, a cercar documenti sulla rivendica degli usi civici, ricomparve a Riesi come se nulla fosse stato per lui; gli amici gli si strinsero di nuovo intorno. Ben presto ricominciarono le lotte dei due partiti. Egli con la solita sua calma, con la sua facile, bella parola, metteva scompiglio all’Amministrazione Comunale dello lnglesi ma non per questo il partito dominante cessava di amministrare il Comune a modo suo. Esso coi cappedda era unito e si credeva forte. Allora il Pasqualino, per attirarsi di più la popolarità, iniziò la causa degli usi civici, fon la Società di Resistenza contro gli ex baroni di Riesj. Con essa si andò prima dinanzi al Prefetto ripartitore e dopo davanti il Tribunale Civile. Gli Amministratori dei principi andavano e venivano da Caltanissetta per le comparse dei loro Avvocati. Siccome nel 1886 tutta la proprietà fu divisa in tre rami di Amministrazione così gli Amministratori erano tre: il duca di Solferino che si fece fabbricare il palazzo in piazza Garibaldi; la principessa Giron e i Principi Piguatelli Fuentes. Lo Stato di assedio, come conseguenza, portò la causa degli usi civici. ** Torna su ** Cap. XXXV l’arresto del cav. inlgesi - sindaco l’avv. p. di benedetto – l’acqua potabile – causa degli usi civici – sentenza favorevole Il secolo XVIII si chiude con l’arresto del Sindaco Cav. Don Carmelo Inglesi e si apre con altri avvenimenti importanti. Vale la pena narrarli alla generazione presente, acciocché sappia valutare uomini e cose. Coinvolto in un processo per Associazione a delinquere il Cav.Inglesi fu arrestato un pomeriggio del mese di Maggio del 1900, mentre veniva .dal Pantano in carrozza assieme alla famiglia. Giunti al bivio di Mariano, il Maresciallo e due Carabinieri, intimato il fermo, lo fecero scendere, conducendolo in Caserma, da dove fu fatto partire per il Carcere di Caltanissetta. Per quanto si vociferava in paese egli cercava scansarsela, l’arresto dello Inglesi fu sensazionale. La famiglia i numerosi parenti, gli amici, fecero di tutto per liberarlo, per ottenergli la libertà provvisoria, ma fu inutile, Imputato per favoreggiamento ad una banda i falsi monetari catanesi, patì la processura di circa un anno e alla causa fu assolto “per non provata reità”. Uscito di carcere, ritornò a Riesi, dove gli si fece una dimostrazione. Il posto di Sindaco intanto lo aveva occupato il Sig. Pietro Di Benedetto Manderà di cui conosciamo i meriti. Per non sconquassare il partito, il Trapani pensò bene di far nominare il detto signore che oltre all’essere intelligente e colto, era ben censito. Uomo energico, accorto, si fece amico dell’ex Sindaco che gli era favorevole. All’opera il Sindaco Di Benedetto si dimostrò perito nel sapere fare e agire. Vide che il paese aveva bisogno dell’acqua, perché quella del Canale non bastava più ed inoltre non era potabile. Allora scelse quella del Pantano, il cui bacino era sufficiente e potabile per i bisogni dei cittadini; d’accordo con Inglesi, si cominciò a lavorare per l’impresa di quella bella e grande opera. Qui il Sindaco si trovò in disaccordo col Trapani, e il Pasqualino capo dell’opposizione, i quali mettevano dei bastoni nelle ruote i non far succedere la venuta a Riesi dell’acqua Pantano perché ci volevano pure le fognature, altrimenti il paese era nel fango e perché ci voleva una grande spesa. Ma il Di Benedetto insistendo sosteneva che bisognava dissetare un popolo di 13 mila abitanti per la penuria che c’era d’acqua: difatti al Canale succedevano continue baruffe per questo; l’acqua di Mariano della Sanguisuga si vendeva a caro prezzo, beato chi la poteva avere; gli acquaioli o saccari, erano presi di assalto. Ad ogni modo l’acqua nel 1904 venne, bella, limpida, scorrevole per le. vie con le fontanelle e in tutte le case, i rubinetti. Parve un sollievo pei il popolo; il Sindaco si rese benemerito. Visto così il Trapani, al fatto compiuto si arrese, scrivendo la magnifica dicitura alla vasca ed il Pasqualino per non perdere la popolarità si diede anima e corpo alla rivendicazione degli usi civici, insistendo nella causa. E il bravo Sindaco, fece un passo avanti, mostrandosi liberale con l’unirsi col Pasqualino contro la Baronia. Così la causa fu avocata anche dal Consiglio Comunale. L’unione dei due Capi fu accolta con giubila dal popolo. Essi si recarono a Napoli per consultare i due grandi avvocati Gianturco e Salandra in merito ai diritti, mettendo in campo la Carta di memoria. Ritornati qui, si disse che la vittoria era sicura. E difatti il Tribunale Civile di Caltanissetta, dando ragione ai cittadini del Comune di Riesi nella causa degli usi civici, ne ordinava l’immissione in possesso dei feudi Palladio e Spampinato, salvo a provare, i principi, la falsità della Carta di memoria. La Sentenza fu accolta con giubilo. Una grande dimostrazione d’affetto si fece ai due patrocinatori dei diritti del popolo l’entusiasmo giunse al colmo. Il Sindaco Di Benedetto in questo caso aveva rivendicato l’onta dello zio Cav. Janni, poiché aveva la nipote Donna Giovannina. Bisognava ora prendere possesso delle terre, ma si mise pane e tempo. I principi mandarono ad offrire al Comune, à mezzo dell’Avv. Gaetano Baglio che allora trovavasi a Caltanissetta quale Segretario dell’Assicurazione zolfifera, la somma di 450 mila lire a patto però di fondare un Ospedale per la popolazione riesina, ma i due uomini rifiutarono, aspettando miglior tempo per il possesso. In questo mentre i principi, a mezzo dei loro avvocati sporsero appello per falso incidente, impugnando la CarIa di memoria presso la Corte di Appello di Palermo, la quale diede ragione ai principi, perché i periti calligrafi trovarono falsa la sopradetta Carta; Municipio e società ricorsero alla Cassazione di Roma. Lasciando correre le cose della causa nelle mani della Giustizia, occupiamoci di politica paesana. Continuando l’unione del partito liberale col Sindaco,, in seno al Consiglio Comunale erano scoppiati dei dissidi; alcuni consiglieri si erano distaccati dal partito Di Benedetto—Pasqualino, di modo che la barca municipale tentava di naufragare. Il consigliere provinciale Avv, Pasqualino Vassallo, clic teneva il timone a Caltanissetta, consigliò al Di Benedetto, nominato cavaliere, di formarsi la maggioranza del consiglio e dimet tersi, facendo nominare un’altro al suo posto; anche Don Gaetano approvò tale proposta, occupandosi per la ricerca di un nuovo Sindaco per governare liberalmente il paese. Il Cav. Di Benedetto e il Pasqualino Gaetano, di comune accordo, scelsero fra i consiglieri chi poteva essere il miglior quotato, per metterlo al posto di Sindaco. ** Torna su ** Cap. XXXVI l’avv. G. carlo golisano sindaco – il primo centenario di garibaldi solennemente festeggiato A succedere al posto di Sindaco, in sostituzione del Cav. Di Benedetto, fu designato l’Avv. Giuseppe Carlo Golisano. Tale nomina fu accolta con soddisfazione dal paese. L’Avv. G. C. Golisano, figlio di Don Rosario e di Donna Teresa Pasqualino, si laureò in giurisprudenza, assieme al cugino R. Pasqualino Vassallo. Fu per breve tempo Vice Pretore. Apparentato con l’ex Sotto Prefetto Debilio, ebbe due doti, poiché gli morì la prima moglie. Datosi alla frutticoltura, migliorò il suo fondo di Birrigiuolo dove vi fece nascere una graziosa villa, dedicata alla figlia Rosina. La preziosa acqua, una vasca ed una grotta artificiale, nonchè una bella casina, ne fecero un eccellente ritrovo. Fu per queste migliorie che meritò la Croce di Cavaliere. Appassionato del suo fondo, amante della famiglia, di rado si vedeva in paese. Amava la musica, le arti belle, la poesia e la letteratura. Nominato ed accettata la Sindacatura, si propose di voler fare grandi cose per il suo paese; ma il tempo gli mancò. Però fece costruire dei bastioni lungo la Via Vittorio Veneto, già Timoleonte; badò alla pulizia, alla illuminazione, all’Annona. Nello stesso anno (1907) il 7 Luglio ricorreva il primo centenario della nascita del leggendario Eroe dei due Monti, del fatidico Condottiero delle camicie rosse. Questa data si doveva festeggiare dal partito liberale di Roma, ma si ostacolava seriamente da parte del Governo, di modo che nei paesi si era costretti a tacere. Ma qui però, un gruppo di giovani operai liberali, arditi, lanciarono l’idea di far qualche cosa a qualunque costo. Essi furono presi per pazzi, ostacolati, minacciati; ma non si scoraggiarono. Formatosi un comitato, andavano raccogliendo fondi per le spese. Presentatisi al Sindaco, questi diede il suo obolo personale, dicendo: “Fate, fate…! Io sarò con voi nello” spirito ». Scesi nelle due miniere, ingegneri e impiegati contribuirono largamente, entusiasticamente. Eppure occorreva ancora della moneta per potere arrivare a far suonare la musica, almeno in quel giorno. Ci si rideva in faccia, ci si minacciava, ma pure si lavorava ogni giorno senza tema. Avvicinandosi la data, dopo tanto chiasso dei Deputati estremisti alla Camera, finalmente il Governo italiano decise di festeggiarsi il primo centenario di Garibaldi. Una lettera del Prefetto invitava il Sindaco a festeggiare il centenario, largheggiando nelle spèse. E allora il caro funzionario fece chiamare quel comitato, al quale partecipando la notizia, mise a disposizione le somme necessarie e la sala del Consiglio per riunirsi e deliberare sul da farsi. Vi erano ancora otto giorni per la ricorrenza e in questo tempo si concertò tutto. Qui sorse una questione, se il Presidente della festa doveva essere il Sindaco, che rimase estraneo al movimento, o il Pasqualino che si prestava in tutto. Chi partecipava, per l’uno o chi per l’altro,ma infine si tagliò la testa al toro, eleggendo il presidente della festa il preposto più vecchio garibaldino Sig. Giuseppe Ferro negoziante, Consigliere Comunale, dandosi incarico all’Avv. Gaetano Pasqualino di fare il discorso d’occasione. Tanto l’uno che l’altro accettarono commossi. il Sindaco fu ossequiente alla decisione, accogliendola entusiasticamente purché si riesca alla solennità disse, inneggiando all’Eroe, lodando il Comitato. Il giovane pittore pieno d’ingegno, Luigino Patrì di Francesco, di sua iniziativa, aveva modellato in gesso un mezzo busto naturale di Garibaldi, da erigersi nella piazza omonima scoprendolo il giorno della festa. Si pensò adornare la piazza di festini e fiori, ed illuminarla. Per tutto il giorno e la sera si incaparrò la musica cittadina. Di più, si allestirono una dozzina di camicie russe per i garibaldini superstiti e si decise di offrire un pranzo ai più poveri. Il 7 Luglio cadde di Domenica: tutti erano a casa. La mattina all’alba furono sparati 21 colpi di bombe a mano, svegliando gli abitanti dei diversi quartieri; alle ore 8 la musica incominciò a suonare; le bandiere sventolando annunziarono la festa; il movimento era insolito. Un lungo corteo si formò al Municipio, con a capo il Sindaco e la Giunta, seguiti da cittadini e popolo; davanti sfilarono i garibaldini in camicia. Alle ore io, sotto la sferza del sole, si percorsero le Vie Principe Carignano, Umberto I° e il Corso V. E. per trovarsi in piazza ove si svolse la cerimonia. Nel pomeriggio vi fu il pellegrinaggio delle scolaresche comunali ed evangeliche, recandosi davanti la statua, cantando il fatidico inno: Si scopron le tombe, si levano i morti. Una lapide di marmo fu posta al cantone della piazza, accanto al casino dei civili. L’epigrafe, dettata dal Sindaco G. C. Golisano, dice: PERCHÈ SIA AFFERMATO A PERENNE RICORDO IL PRIMO CENTENARIO DELLA NASCITA DI GIUSEPPE GARIBALDI CUI LA PATRIA NOSTRA DEVE LA SUA PRECIPUA REDENZIONE OGGI 7 LUGLIO 1907 CITTADINANZA E MUNICIPIO IN SOLENNE ENTUSIASTICO ACCORDO QUESTO MARMO POSERO La sera si chiuse la bella festa civile, riuscitissima, con concerti musicali, fantastica illuminazione e le passeggiate sotto gli archi trionfali. Possiamo dire con orgoglio che in quella occasione Riesi dimostrò di essere un paese liberale e patriottico, superando se stessa. Il più soddisfatto di tutti fu il Sindaco, il quale: mostrò il suo liberalismo in fatto di idee politiche; ma egli di poi non fu assecondato dal Consiglio; la compagine Di Benedetto-Pasqualino non poteva andare d’accordo: laonde fu sciolto il Consiglio e un R. Commissario venne a reggere, per .un pò di tempo, le sorti del paese. ** Torna su ** Cap. XXXVII dal Cav. Inglesi, di nuovo sindaco a don luigi d’antona Ed ecco un’altra volta coalizzarsi i signori Cappedda per dure addosso al partito Pasqualiniano. In questo caso scese in lizza il nobile Don Luigino D’Antona, tiglio del fu Pietro e Francesca D’Antona, la imponente e rispettabile famiglia che noi conosciamo di già. Don Luigino D’Autona da giovane, venuto dagli studi da Napoli, dove c’era lo zio, sposata una Di Lorenzo, cugina, ereditò la casa del nonno, al piano, dove fondò la Banca Agraria. Ben quotato quindi e, per la sua tradizione, era un nome a Riesi. Le Elezioni Amministrative del 1910 si presentavano triste assai laonde il Pasqualino credette opportuno di non lottare. Egli consigliando i suoi elettori ad essere prudenti, se ne stette a casa. La vittoria perciò fu tutta del partito avverso. L’Amministrazione Comunale potò di nuovo a Sindaco il Cav. Don Carmelo Inglesi; ma la morte del Trapani avvenuta nel 1904, che era il perno di tutte le Amministrazioni, scombussolò i Capi, Sindaco fu nominato il D’Antona; affiancato col Pasqualino Vassallo, Consigliere principale, visto che gli affari della banca gli andavano bene e che per il paese era un sollievo, specialmente agli agricoltori, fu nominato Commendatore. Da Sindaco il Comm. D‘Antona era imponente: bene accettò al partito; il rispetto che aveva per lo zio Senatore, le Autorità lo avevano in grande stima. Con la Banca Agraria, la casa del Comm.. Don Luigino D’Antona era ben frequentata di persone amiche personali e clienti. L’Amministrazione Comunale del Sindaco D’Antona era tenuta in buon conto, Il suo partito era compatto; i Consiglieri Comunali gli erano tutti favorevoli. La casa e il Comune per Don Luigino erano la sua vita; agli affari di campagna, ci badava pure, ma per lo più c’erano i Campieri; censito com’era con le terre di Brigadieci, Schette, Figotto e Calamuscini aveva molta servitù. Buon padre di famiglia, con le sue aderenze, col suo prestigio, il Sindaco di Riesi, aveva fama di saper stare a quel posto; i suoi amici personali gli erano ammiratori: i suoi parenti ne erano lieti. Dotato di intelligenza, con la sua cultura, era anche un consigliere in materia di diritto penale ed Amministrativo. Non era avaro di consigli; generoso con gli operai che lavoravano sotto di lui, ne parlavano di bene. Di carattere serio, piuttosto chiuso, chi lo avvicinava, riportava l’impressione che un favore, se lo poteva fare lo faceva, ma se non lo poteva fare era irremovibile. Nell’Amministrazione Comunale era anche così. Se aveva degli amici, si era creato anche nemici. Succede sempre così nella vita pubblica di un uomo: c’è chi lo porta ai cieli e c’è chi lo sotterra. Noi che vediamo il lato buono delle cose, non sappiamo spiegarci il fatto che col poeta: Ciascun non piace saper da chi sia amato. Quando felice in su la ruota siede. Credeva il Comm. D’Antona di restare al suo posto di Sindaco come suo padre, ma... non fu così! Un caso speciale diede la scalata al suo partito, e fu proprio il partito liberale. ** Torna su ** Cap. XXXVIII il suffraggio universale – caduta del potere d’antona – vittoria strepitosa degli operai con a capo pasqualino Si discuteva alla Camera italiana la legge sul suffraggio universale; i Deputati di Estrema sinistra facevano il diavolo a quattro per ottenerla; ma il Governo dell’On Calandra concesse, o meglio fece approvare il voto allargato a tutti i cittadini italiani che ne avevano il diritto. Secondo ed in virtù di questa legge erano ammessi a votare anche gli analfabeti che compiuti 21 anni non erano macchiati dalla Giustizia. Così per dirla con una frase tipica dell’Ing. G. Accardi anche li cardurara erano elettori. Il Pasqualino Gaetano allora riapparve sulla scena politica dicendo: “Ci rivedremo alle urne sul suffraggio universale!” E in questa maniera incitava tutti a farsi iscrivere. Un movimento insolito si notava a misura che si avvicinavano le Elezioni Amministrative del 1914. Le Liste ammontavano a circa 4.000 elettori. I signori cercavano di far argine a questa marea popolare, ma non poterono. Gli elettori imbevuti di sufiraggio universale fanatici del loro, voto, aspettavano il momento per andare alle Urne e votare; stavolta non si poteva parlare di corruzione ,elettorale, perché il numero era stragrande e poi le follie rosse avevano invaso le menti di tutti gli operai. Dato il momento, il Sig. Pasqualino formò una Lista di Consiglieri popolari tra cittadini, zulfatai ed operai; i soli che vi entrarono a far parte furono l’Ing. Giuseppe Accardi e l’Avv. Gaetano Debilio, liberali: il Pasqualino Vassallo da On. Deputato al Parlamento Nazionale se ne stava a Roma disinteressandosi dei fatti nostri o meglio da lontano faceva l’occhio di triglia. Concorse a dare maggior furia al Pasqualino il nuovo partito popolare, bolscevico del propagandista Giuseppe Butera, il quale predicando contro tutto e tutti voleva la divisione delle terre. Costui era un giovane contadino che essendo stato a Roma come bidello d’una Sezione Socialista, intelligente com’era, apprese le solite frasi del Repertorio del tempo che fu. Venuto a Riesi formò il suo partito, conquistando la massa dei contadini, nonché una buona fazione del popolo. Dapprima era molto spinto, intransigente anche contro il Pasqualino chiamandolo “falso, traditore del popolo ecc…”; nelle vie, sotto la case, fra le famiglie, ovunque la sua parola era bene accetta; ma poi finì con l’unirsi con lui, sicché il partito popolare era forte ed esasperato. C’era al potere centrale l’On. Giolitti, il quale non potendo frenare i partiti estremi, lasciava correre tutto alla deriva. La P. S. era impotente in questo caso a reagire: nessun appoggio poteva dare quindi ai signori Cappedda per misura di prudenza. Il Butera continuava ad inveire maledettamente contro la proprietà ed i proprietari: la ciurma del popolo lo seguiva schiamazzando per le vie: egli era diventato un idolo, la sua parola tagliente incuteva spavento. Gli animi erano preparati alla rivolta. Nelle Elezioni del 4 Agosto i signori si videro perduti. Non solo ebbero il Voto contrario, ma fischi, insulti, e tirandogli delle pietre li accompagnarono a casa, specialmente il Sindaco che dovette ripararsi in una casa onde schermirsi le pietrate. Quelle Elezioni, se da una parte diedero la strepitosa vittoria agli operai, d’altra parte fu una vergogna che la cronaca del nostro paese registra. Insediatisi al potere i popolari, si formò una baraonda. Non usi alla vita pubblica, amministrativa, dei Consiglieri comunali, non andavano più a lavorare. Se bisogna essere giusti, niente per il paese facevano; essi si cullavano nella politica ed alcuni vi trovarono al Municipio la greppia. Il Pasqualino che aveva conquistato il popolo, alla sua volta fu conquistato da esso, cioè dai Consiglieri e non sapeva cosa fare. La Barca Municipale del popolari navigava senza remi. Visto ciò, il Butera si distaccò dal Pasqualino e seguitò la sua via, trascinandosi di nuovo il popolo. In questo caso i signori ritirandosi a vita privata, lasciarono lottare il popolo diviso in due. Le cose andavano così di male in peggio. ** Torna su ** Cap. XXXIX uomini insigni e uomini grandi del secolo XVIII alcuni dei quali vissero nel nostro secolo XIX Giacchè ci siamo inoltrati nel 1900 è bene ora segnalare, prima dì riprendere la politica, gli uomini insigni e gli uomini gradì che ebbero i natali nel 1800 e che onorarono ed onorano il nostro paese. Oltre quelli che abbiamo mentovati attraverso le pagine di questa storia fin qui, si distinsero come uomini insigni del paese, in medicina Matera e Giuliana: il primo, oltre ad essere un valente medico fu un matematico ed un eccellente linguista; fu il maestro dei suoi figli e di altri professionisti. Il dott. Don Gaetano Giuliana figlio del massaro Giuseppe e di Maria Filippa Giuliana, nacque nel 1811 e morì il 24 Gennaio 1880. Medico valoroso omeopatico, si fece una grande fama, tanto che dai paesi vicini e lontani lo venivano a prendere in lettiga. Nella letteratura classica abbiamo avuto il Notaro Don Luigi Pasqualino, figlio di Don Francesco e Caterina Inglesi, nato nel 1816 i suoi studi furono profondi. Divenuto cieco, il suo diletto era di recitare a memoria i classici in latino ed in greco. Gli amici andavano spesso a trovano per sentirsene ammaestrati e nello stesso tempo tenergli compagnia e confortarlo. Il filosofo Francesco Debilio Palacino, nato nel 1820 da Don Pietro (allora Sindaco) e Teresa Palacino, di distinta famiglia mazzarinese, si impose all’attenzione nella Provincia e fuori, merce i suoi scritti, col suo ingegno e il suo sapere, tanto che lo chiamarono il filosofo. Da bambino fu mandato a studiare a Palermo, dove si distinse fra i suoi compagni. Dotato d’una ferrea volontà, di fertilissima memoria, fu detto il secondo Pico della Mirandola. Giovane, giunto alle porte dell’Università, ramo legge, nei muri scrisse: “Nostro é l’ingegno E l’avvenir siamo noi”. Era amato dai professori, stimato dagli studenti. Scrisse un Saggio critico ad una predica del P. Tommaso d’Acquisto. Rettore dei gesuiti di Morreale, chiamandolo un panteista. Lo stesso D’Acquisto, sapendo chi era, venne a baciarlo alla presenza di tutti dicendogli: “Tu solo, figlio mio, potevi affrontarmi la critica. Laureatosi in diritto, se ne venne fra i suoi a studiare, a meditare, circondato d’alletto e di libri di tutto lo scibile umano. Qui. pubblicò un Saggio sulla storia del l’incivilimento umano, libro che gli valse l’ammirazione di quanti lo lessero. Sono pagine meravigliose, d’una bellezza e stile che conservano la freschezza senza appassire. Nel 1848 scrisse un proclama al popolo degno della sua penna; per questo proclama doveva poi essere arrestato, ma i suoi parenti lo fecero passare per pazzo. Quando andava a Caltanissetta, il filosofo Debilio di Riesi veniva accolto nel Circolo dei civili, con simpatia e rispetto, pendendo dal suo libro. Siccome era trasandato nel vestire, così qualcuno volle criticarlo ma egli saputolo disse questa frase: ‘L’uomo si conosce quando esce da una Società, non mai quando vi entra. In un Congresso di dotti della provincia, non mancò l’invito al nostro concittadino che vi andò! Fra i congressisti un signore lesse un componimento poetico, per la libertà il Debilio alzatosi disse che lo aveva ratto lui, recitando a me moria i versi. Tutti rimasero stupiti, l’autore protestò Don Francesco baciandolo aveva fatto uno scherzo. Il filosofo il pazzo passava la sua vita a Riesi a casa dando lezioni gratuite ai giovani; fra gli amici, nel Circolo dei civili, apprezzato consultato. Coprì la carica di delegato scolastico fino al 1883. Amò i suoi figli ai quali lasciò il suo ricco patrimonio. Mori all’età di anni 61 nel 1883. L’insigne Dott.Rosario Vassallo, figlio del vecchio Dottore e di Giuseppa Faraci,nacque nel 1838. Tale padre tale figlio. Studiò medicina a Catania e divenne celebre. Era l’idolo dello zio Don Giuseppe Faraci il quale avendo in casa la sorella della moglie Filomena La Marca, volle sposarlo con lei. La Casa Faraci-Vassallo divenne un via vai di gente venuta da fuori in cerca del giovane Dottore. Fattosi un nome, Concorse alla Cattedra Universitaria di Palermo; ma le ingerenze lo fecero risultare il secondo. Allora ricorse al Ministero che gli fece giustizia; ma andato là si dimise favore del suo competitore dicendo che lo aveva fatto per onore. Quest’uomo ricco d’ingegno, di virtù, di meriti, ricco di casato, sul più bello della sua vita,dopo di aver messo al mondo tre figli, due maschi e una femmina, fu preso dal male che non perdona, la tisi. Egli cercò di curarsi con tutti i mezzi della scienza, ma… Negli ultimi tempi, vedendo che perdeva passi, per contentare la famiglia fu trasportato in lettiga padronale (Faraci) a Catania . Lo specialista saputo che erano da Riesi Disse: Come !.... A Riesi avete il gran Vassallo e, venite da me?...Scusi Dottore, rispose l’ammalato con un fil di voce: io sono il Vassallo...! la famiglia!.., e incrociò le mani. Dicesi che al Medico gli calò una lagrima e fece segno di ricondurlo a casa presto. Il bravo, impareggiabile Vassallo si contò le ore e i minuti della sua fine. Difatti giunto a casa, messo sul letto, chiuse gli occhi nel 1886. La mattina annunziatasi la morte, vi fu un lutto generale a Riesi. L’oculista Prof. Antonino Correnti, era nato nel 1839 da Don Giuseppe e Vincenza Calafato. Quel giovane che straccò il collare di prete, perché voleva vestire la camicia rossa, se ne andò a Palermo a studiare medicina; specializzandosi nella malattia degli occhi, divenne celebre oculista. Mise una clinica per conto suo nella stessa città, ove i professori lo incoraggiarono. In breve si acquistò la celebrità: gli ammalati d’occhi accorrevano dai paesi ed erano guariti; di rado veniva a Riesi per rivedere la famiglia, i parenti, gli amici. Chiamato in caso di professione, veniva quando non poteva dir di no a qualche persona influente o amica della sua famiglia. La sua fama, la sua dimora era nella Capitale dell’isola. Concorse per la cattedra di Firenze, vuota, e vi riuscì. Allora si allontanò totalmente e non si rivide mai più. Nella città dei fiori contrasse molte buone amicizie, fra cui quella del Principe Miele di cui era compare per averle guarita una bambina con una operazione difficile. I coniugi lo amavano e stimavano come un fratello. Avuto il prof. Correnti un accesso alla coscia sinistra, suo compare Io condusse a Parigi per l’operazione. Viaggiò in Olanda, nei paesi bassi, conoscendo le lingue. Guaritosi, ritornato a Firenze, scrisse ai suoi: Vengo da Parigi con mio compare l’operazione è riuscita; il male è sparito, ma temo che si ripercuoterà altrove, ,, ecc. Pare che così fu il germe, si riprodusse agli intestini e questa malattia lo condusse alla tomba nel 1874. Le sue numerose opere e trattati parlano di lui. Del fratello comm. Giuseppe, poco ci resta a dire. La sua brillante carriera forense e politica ne fecero un pezzo grosso a Caltanissetta, lo sappiamo già. Nato nel 1832 visse nella città 40 anni, morendo nel 1900; lasciò una vistosa proprietà ai tigli, abitanti nel gran palazzo Correnti al Corso. In occasione della di lui morte l’Avv. Cascino nel discorso funebre, pronunciò queste precise parole: è morto il Comm. Giuseppe Correnti da Riesi, terra di fervidi ingegni. Viveva pure in città a quei tempi l’Avv.Gaetano Giardina del Notar Gaetano e Teresa Gueli , civilista esperto. Il fratello dott. Rocco Giardina, fu un insigne medico chirurgo che si fece onore qui ; Rosario Pasqualino Vassallo e Nino Verso Mendola. in tempi più vicini a noi, abbiamo avuto gli avvocati Rosario Pasqualino Vassallo e Nino Verso Mendola. Entusiasti ne facciamo la biografia, poiché ci siamo stati a contatto ne siamo stati ammiratori del loro ingegno fecondo, della facile, eloquente paroia, della vita. Rosario Pasqualino Vassallo o Sarino col suo vezzeggiativo,nacque nel 1861, frutto del medico-chirurgo Don Gaetano e Crocifissa Vassallo, la figlia del compianto dottore. Fin da bambino messo nel collegio-confitto di Gela,vi fece il ginnasio; passato a Caltanissetta si prese la licenza Liceale; apertesi le porte dell’Univerità catanesi, frequentò i corsi legali. Laureatosi venne a Riesi;fu per breve tempo vice pretore, ma poi passò il suo studio a Caltanissetta. Nel foro Nisseno si fece largo come penalista.Ivi lo conosciamo come Consigliere provinciale per la sua carriera Politica. Di vasta cultura in questa materia, collaborando nella Commedia Umana di Milano accanto a Bovio Impriani, Cavallotti ed altri, lo resero famoso come liberale. Il nostro Pasqualino Vassallo aspirava andare alla Camera dei Deputati; ma il nostro Collegio elettorale fu tanto tempo infeudato prima ai Riolo di Naro poi al duca di Monteleone, principe Pignatelli di Terranova. Contro di lui lottò tante volte, il Pasqualino Vassallo, tanto che i giornali avversi della provincia, lo chiamavano.: L’eterno Candidato ; ma stanco il duca della vita pubblica, ritiratosi, rese i lettori liberi. Allora nel 1905 tutti gli occhi si rivolsero verso il riesino. E difatti fu eletto a Deputato al Parlamento Nazionale. Andato a Roma d’allora in poi, gli venne riconfermato il mandato, giacché Gela e Riesi erano unanimi per lui. E accedo un altro passo avanti, nel 1916 fu nominato Sottosegretario di Stato col Ministero Boselli, sotto dcll’On. Sacchi alla Giustizia. Nel 1920 con Giolitti, occupò il posto di Ministro delle Poste e Telegrafi. Sciolta la Camera, lui venne in Sicilia assumendo la direzione delle Elezioni politiche; malgrado l’aspra lotta fattagli dal Giornale L’Ora , il Pasqualino riportò dappertutto la vittoria. Venuto il Fascismo nella nuova Camera dei Deputati (1924) con Mussolini, fu compreso nel Listone; ma non ci stiede molto, ritirandosi dalla politica. Siccome si era stabilito nella Capitale, ivi esercita la sua professione di grande civilista e penalista. Un suo collega lo definisce: mente quadrata; che ha tutto: generoso, di cuore, per donatore. benefico. Parlandosi del fratello, il Notaro comm. Giuseppe, morto nel 1928 all’età di anni 77. egli fu un grande letterato ed un psicologo, oltre ad essere un cultore di discipline giuridiche. La sua parola facile, bella, talvolta tagliente, piaceva anche agli avversari. Si può dissentire dalle idee politiche, ma la verità vera non si può negare. Coloro che leggeranno questa nostra storia dovranno per forza convenire con noi che i Pasqualino a Riesi sono stati dei lottatori intelligenti. Viye pure a Roma il poeta Giuseppe Veneziano fu Calogero, impiegato in una Banca. Studioso, intelligente; i suoi versi sono stati salutati, apprezzati da tutta la stampa italiana. Rivolgiamo ora uno sguardo, un pensiero alla memoria di Nìno Verso Mendola, l’altro famoso avvocato, collega dei Pasqualino Vassallo. Nacque neI 1862 dal Notaro Giuseppe Calogero e Margherita Mendola da Pietraperzia. Vispo e intelligente, i genitori che erano molto agiati, lo mandarono a Studiare a Caltagirone. Da Caltagirone andò a proseguire gli studi in Caltanissetta. Giovanetto irrequieto, liberale, fece succedere ivi una sommossa, per la penuria dell ‘acqua aizzando i cittadini in una festa di Carnevale con la sua facile fiorita parola; e l’acqua venne. Scappato a Catania si mise a frequentare l’Università, studiando legge. Il suo primo componimento poetico, giovanile, fu appunto la rivolta nissena in cui dice che: …..del fatto politico, ne parla il giornale democratico ed ognuno se ne forma un cenno critico. Mentre era a Catania pubblicò “La scuola in Italia,,; libro che gli valse l’ammirazione del Ministro della P. I. Francesco Paolo Perez. Nel 1888 a Caltanissetta, da Avvocato, pubblicò: Gente gentarum , (La gente delle genti, gli italiani) e anche in questo libro si rivela un conoscitore della storia e della vita. Ma il Verso, ne come scrittore, ne come professionista, ne politico fu fortunato. Egli abbracciando i principi del socialismo, con la sua calda, smagliante parola, da oratore travolgente, teneva delle conferenze persino a Palermo. Per queste sue opinioni ebbe delle noie, fu perseguitato. Trasferitosi a Bologna, anche lì non ebbe requie, subì due volte il carcere e una terza volta fu sfrattato da Bologna e di carcere in carcere giunse a Riesi, al tempo del Ministro Pelloux. A Bologna sposò la letterata Giulia Rossi, figlia dell’ex Questore della Città. Sfrattato che fu, ottenne di andarsene a Caltanissetta, ove pubblicò il suo volume di poesie su svariati soggetti letterari, poco parlando della sua vita; detto volume lo dedico al suo compagno di scuola cav. Gaetano Bartoli Inglesi di Riesi. Fra sonetti e poesie, riveduti dalle sue vecchie carte , scegliamo la prima strofe de I CORIBANDI per gustare i lettori il verso, lo stile e il tema: Salgono dalle fosse i Coribandi Nella pia settimana del dolore; Essi sono gli asceti, sono i santi, I prediletti figli del Signore. Cessata la reazione, ritornò a Bologna dalla sua diletta compagna, la quale sopportava con rassegnazione religiosa una terribile malattia. Marito affettuoso, il Verso Mendola le dedicò un suo volume su: “Il Serafico in ardore “ parlando di S. Francesco di Assisi con vera competenza, lo dice in questo libro - che per decenni mi ero fermato alle idee contrarie del santo, ora sono convinto del bene che ha fatto: Durante la grande guerra, l’Avv. Nino Verso Mendola fu un’interventista. I compaesani che passavano e ripassavano da Bologna, esperimentarono la bontà dell’uomo scomparso anzi tempo dalla scena della vita. Anch’egli era ammalato, anch’egli soffriva d’una malattia di stomaco. Venuto l’ultima volta in Sicilia il 26 a posare la sua candidatura, se ne ritornò sconfitto, ma non abbattuto moralmente. Intanto la sua malattia lo trasse alla tomba a 58 anni il 1927. ** Torna su ** Cap. XL il senatore antonono d’antona Grandeggia su tutti la grande figura dell’illustre Senatore Antonino D’Antona, chirurgo di fama mondiale, al quale gli dedichiamo il presente capitoletto a parte. È con orgoglio che lo facciamo, quantunque crediamo che la nostra povera penna sia insufficiente a trattare la vita di questo grande figlio di Riesi che onorò tutta la Sicilia e l’Italia. L’anno 1842 ebbe i natali Antonino figlio di Don Luigi D’Antona e Concetta Debilio. Morto il padre, prima di chiudere gli occhi1 raccomandò la sua prole al fratello Parroco dicendogli: A voi, P. Arciprete, raccomando i miei figli e le mie figlie pensateci voi. E Io zio-prete assolvette il suo compito. Ragazzo irrequieto, Antonino fu chiuso nel Collego di Bronte. Terminati gli studi secondari andò a Palermo a frequentare l’Universjtà in medicina, specializzatosi nella chirurgia. I suoi contemporanei ce lo descrivono da giovane molto amante del la caccia; quando andava coi compagni al lago di Papardone, uccidendo una beccaccia o qualche altro animale, li scorticava con le dita, facilmente, esaminando minutamente le singole parti. Era nato, ci dice un suo discepolo, per adoperare il coltello. Laureatosi, brillò nella patologia. Ma qui a Riesi, nel suo paesetto natale, non sapeva cosa fare; non poteva dimostrare la sua abilità: laonde decise di espatriare. Il Dott. D’Antona si recò a Napoli, nella metropoli partenopea c’era posto anche per lui, ma comprese che ci voleva del tempo per farsi il nome ed avere una estesa clientela. Coi mezzi che aveva disponibili, decise di viaggiare. Girando negli ospedali di Parigi, Londra, Berlino, Milano apprese a maneggiar bene il bisturi. Ritornato a Napoli, vi aprì la sua clinica. Ben presto la sua fama s’impose all’attenzione di tutti. Egli in questo caso si acquistò la stima dei professori universitari il rispetto dei cittadini. Nominato libero docente, ancor giovane, all’Università, con la sua clinica di Gesù e Maria, gli studenti da tutte le parti d’Italia accorrevano a Napoli per le operazioni del Dott. Prof. Antonino D’Antona, il cui braccio fermo, sicuro, dava la vita, facendo veri mirali. La sua fama si sparse in Europa ed egli accorreva ovunque era chiamato. Inventò il francipietra, strumento col quale si liberarono i sofferenti di arenella o mal pietra; mentre prima ne morivano il 50 per cento, col francipietra si salvano il 90 per cento. Nominato Senatore verso il 1881 venne a dar lustro alla casa D’Antona; lo zio Parroco visitandolo spesso, acquistò ivi il lago di Patria presso la Città, lago che costituisce una bella rendita. Gli invidiosi del Prof. D’Antona gli intentarono nel 900 un processo a cagione della morte del conte Buon Martino, pugliese, il quale trovarono un pezzetto di gazza nel fegato. I giornali ne fecero tanto chiasso, ma l’alta Corte di Giustizia, assolse il Senatore D’Antona perchè innocente, estraneo al fatto. La fama non gli fu per nulla oscurata, anzi gli si accrebbe, rifulgendo i meriti del nostro grande concittadino. Nel congresso chirurgico di Berlino fra gli scienziati (1893), egli fu ammirato congratulato, parlando del processo infiammatorio delle ferite. Amante della famiglia, Don Antonino veniva di tanto in tanto a Riesì, dopo la morte del Parroco, per visitare i suoi parenti; il Giornale di Sicilia, sapendolo, lo chiamava l’illustre scienziato siciliano. Sapendolo qui, molti dei paesi vicini, venivano ad ossequiarlo, invitarlo. La festa. della Madonna, mentre era affacciato di giorno al balcone del fratello Rosario in piazza, un terribile omicida rese un povero calzolaio Riesino, con le viscere di fuori. L’esperto chirurgo sceso, fattosi largo tra la folla, levatasi la giacca, prese il grave ferito, gli ritirò gli intestini, in un attimo gli cucì la larga ferita di trincetto e lo consegnò ai medici del paese. Quell’uomo riebbe la vita per il pronto intervento della mano chirurgica del Senatore D’Antona. Guarito che fu il calzolaio, vistolo di passaggio Caltanissetta, gli si buttò ai piedi, baciandogli le mani, offrendogli quel che poteva; ma il carissimo professore non solo non volle nulla, ma andato a casa, vista la disagiata posizione, lo beneficò. Chi passando per Napoli, dei suoi concittadini che lo andavano a trovare, non ebbe accoglienze, onori e soccorsi in caso di bisogno?Chi non protesse egli? Beati coloro che muoiono seguiti dalle loro buone opere; ma gli uomini non durano eterni. Il Senatore D’Antona, a 74 unni, scese nella fossa a Napoli nel 1916. Ad eternare la di lui memoria, per ricordare ai posteri il nome del Prof. Antonino D’Antona, un Comitato nel 1826 si formò Sotto la presidenza del Dott. Mumuli, Direttore dell’Ospedale civico di Mazzarinuo per innalzargli un monumento. Detto rnonumento, in mezzo busto in bronzo con un piedistallo di granito8 venne scoperto in mezzo ai fiori nella piazzetta omonima dinanzi la casa paterna il 29 Giugno del 1929, alla presenza di S. E. il Prefetto, di altre Autorità della provincia e di tutto il popolo riesino. L’epigrafe, dettata dal Cav. Ugo Rossi Commissario Prefettizio del tempo, dice: NEL BRONZO SUBLIME RIESI NOME E GLORIA PURISSIMA CONSACRA DEL SUO GRANDE FIGLIO ANTONINO D’ANTONA SENATORE DEL REGNO FARO LUMINOSO DELLA CHIRURGIA ITALIANA Piazzetta e monumento adornano il centro dell’abitato ed è l’ammirazione dei forestieri, i quali, fermandosi a guardare la statua, ne apprendono chi fu colui che lasciò un nome grande. ** Torna su ** Cap. XLI mafia e delinquenza Riferendoci a quell’epoca, della quale abbiamo parlato dei nostri uomini, cioè del secolo scorso, dobbiamo dire che fiorirono anche la mafia e la delinquenza fino al primo quarto di questo secolo nuovo. Non possiamo esimerci quindi di non parlarne. Questa è la cronaca nera. Dunque: La mafia, figlia della camorra napoletana, ci venne importata dalla Spagna. I “mafiosi” somigliavano ai bravi descritti da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Ebbe facile presa in Sicilia, specialmente nei paesi interni; nei paesi solfiferi fu peggio ancora. Molti scrittori si sono occupati del fenomeno della mafia, spiegandola, definendola il terrore della gente dabbene. Chi ha assistito alla rappresentazione della commedia del Rizzotto su: I MAFIOSI DELLA VICARIA DI PALERMO, sa gia cosa vogliono dire i nomi di “pampina, mezza pampina, rinculutu, spacchiusu, ecc”. L’alta mafia era formata dai signorotti, cioè i proprietari, i quali per non essere danneggiati negli averi, proteggevano la bassa mafia. La classe solfifera, a cagione del lavoro brutto, pesante, spesso volte maltrattato, dava il piu contingente alla mafia. Lo zolfataio fin da bambino cresceva mafioso La massima della mamma era: “Fatti mancare il pane, ma il coltello mai”. Vi erano delle donne mafiose, le quali si imponevano con le armi nelle questioni, nelle risse; ad ogni pie sospinto succedevano dei ferimenti; anche per una parola mala detta, le baruffe erano all’ordine del giorno. La mafia perciò era rotta ad ogni specie di delitto. Le bettole la Domenica rigurgitavano di mafiosi pronti ad attaccare brighe per un nonnulla, per mezzo bicchier di vino. Il tocco, il famoso tocco, faceva nascere delle questioni; dalle parole si veniva ai fatti; indi c’era la tirata al largo, fuori le porte: ferimenti, omicidi era il resoconto della giornata, armi da fuoco e da taglio non ne mancavano ed erano facilmente adoperate: famiglie rovinate, i morti al Cimitero, i vivi alla prigione, ecco tutto. Il principio dell’omertà era, se non rispettato, imposto. I testimoni dei fatti, fattacci e fatterelli, non dovevano dinanzi alla giustizia deporre contro il mafioso, pena la vita: ecco perché i delitti spesse volte erano impuniti. Uscito dalla prigione il mafioso ritornava ad essere tale, anzi maggiormente temuto. Chi soffriva era l’uomo dei fatti suoi “nato senza artigli e senza zanne”,. Non solo nella vita era minacciato, ma nella famiglia, negli averi, appena si arrischiava a fare qualche minima offesa alla mafia. Fatto questo quadro abbozzato alla meglio, alla buona, esso ci fa vedere cume la delinquenza da noi era una mala pianta difficile da estirparsi. una sera d’estate del 1887, sabato della festa della Madonna, vicino al Carcere nuovo, due vicino si questionarono a parole per un ferro da stirare. La comare non volle prestare all’altra il detto ferro per stirare la camicia al marito mafioso, venuto il quale fu riferito il caso. Costui si arma e chiama i suoi. Soddisfazione, conio al marito, ai parenti della comare. Il fatto sta che le fucilate, revolverate, coltellate destarono l’allarme in quel quartiere. Accorsa la benemerita Arma dei RR. CC. e la folla, trovarono tre morti e dei feriti, uno dei quali è morto in carcere. Le due famiglie Rizzo e Gueli si rovinarono, si distrussero. E’ rimasto come motto a Riesi; “per un ferro, sette casate distrutte”. Ora questo, grazie a Dio, non c’è più, mercé la ferrea volontà dell’UOMO che ci governa, l’On. Benito Mussolini. La delinquenza ebbe una seria stoccata, la mafia non esiste pia, un ricordo dei tempi passati che speriamo non ritorneranno mai più. ** Torna su ** Cap. XLII gravi delitti Fra i numerosi, gravi delitti che succedevano, ne scegliamo alcuni avvenuti sulla fine del secolo scorso, ai nostri giorni; non già per impressionare, ma per narrare dei fatti di sangue. La penna si rifiuta a descriverli, ma nostro dovere di notarli, giacché sono stati di dominio pubblico; essi appartengono alla storia, alla nostra storia: purtroppo, non possiamo negarli ne tacerli, è così! Il primo e quello del 1891, delitto avvenuto nella miniera Tallarita la sera d 22 Agosto. Tal Giovanni Piantone, borgomastro, dalla Lombardia, era venuto qui con la famiglia come sorvegliante dei lavori interni ed esterni della miniera presso l’Amministrazione francese. Uomo buono, lavoratore, era alla mano di tutti e i superiori lo stimavano. La domenica in Riesi, amava farsi il bicchiere con gli amici zolfatai. Col frutto del suo lavoro si aveva fabbricato la casetta di fronte al Carcere vecchio; manteneva la famiglia discretamente, si era affezionato al nostro paese. Pero durante la settimana il più delle volte si restava in miniera, dormendo in una misera casuccia sopra un pagliericcio. Sincero, generoso offriva da bere a questo e a quello degli amici. Tutti lo salutavano e lo rispettavano. Or una sera, terminato il suo lavoro, Don Giovanni Piantone sali alla botteguccia ordinando la Cena. Egli si sedette al fresco sulla panca, aspettando di prendere il boccone. Apparecchiata la tavoluccia, messa su la bottiglia, il Piantone cominciò a mangiare. Quando meno se l’aspettava, un colpo di pistola lo prese in pieno petto, facendolo stramazzare a terra senza poter dire: Cristo aiutatemi. Alla detonazione, nessuno vi fece caso, usi come si è a sparare dentro e fuori la miniera: solo il trattore scese abbasso gridando: “Hanno ammazzato a Piantone!...”. Erano verso le undici, svegliatisi impiegati, Direttore e Ingegneri, videro il cadavere disteso a terra, immerso in una pozza di sangue; in questo mentre salirono gli operai dall’interno, e visitando il freddo cadavere, se ne vennero a casa spaventati, addolorati. La triste notizia giunse a Riesi dopo la mezzanotte. Moglie e figli di piangenti, corsero sul luogo. Fattosi giorno, dopo le constatazioni di legge, il cadavere venne trasportato a Riesi, dove fu seppellito nel nostro nuovo Cimitero che trovasi alla passata della miniera. Una croce e il nome ricordano il delitto del povero Giuvanni Piantone che non fu rivendicato dal la giustizia umana. Quale il movente del delitto chi sono stati gli autori? Non si seppe nulla!. Si fecero degli arresti ed indizi, ma non si venne a capo di nulla. L’altro delitto ancor più efferato avvenne la sera dell’8 Ottobre 1901 in persona del cav. Gaetano Bartoli Inglesi, suo figlio e il campiere. Il Bartoli, che aveva sposato la figlia del Sindaco D’Antona, ereditando il palazzo e la estesa proprietà dei genitori e una vistosa dote, era il più ricco del paese. Messa su casa, accudiva alla famiglia e ai suoi averi. Ma dei masnadieri – chiamiamoli cosi, con questo nome - i delinquenti nati, ne insidiarono l’esistenza. Essi con lettere minatorie, gli chiedevano del denaro, pena la vita. Il cav. Bartoli a queste minacce fece l’orecchio da mercante, non mandando la moneta al punto segnato, ne dando passo alle Autorità della Giustizia. E i masnadieri giurarono di vendicarsi. Già una volta fu assalito per la via di Spampinato, ma la scampò, lasciando la giumenta e perché sull’imbrunire vi erano delle persone ; gli amici si dileguarono, fingendo di non cercarlo più; ed egli si era un po’ rassicurato, sebbene stava sempre guardingo. Quando andava in campagna, bene armato e col suo Fattore, la mattina partiva tardi e prima della sera ritornava a casa. Ma i masnadieri lo appostavano come il coniglio. Dopo circa un anno, lo assaltarono. Era l’epoca della collocazione delle mandorle, il cav. Bartoli aveva un bel fondo alla Contessa, contrada di Mazzarino; con la sua ciurma si restava alla Casina, venendo ogni due o tre giorni per la spesa. La sera di. quel giorno fatale 8 Ottobre, ritornava a casa assieme il figlio, al Campiere e le donne coglitrici, un pò più tardi del solito, cacciavano perché c’era lo scuro allo stretto sentiero delle due colline di Santo Isidoro, nelle vicinanze del paese, furono fatti segno al tradizionale “faccia a terra!” da persone “infacciulate”, dalla collina. Il figlio tredicenne che era avanti sull’asina disse al Campiere: “Via cacciamo, non avete paura” ma un colpo di fucile alla nuca lo stramazzò a terra cadavere; spaventati sì fermarono; indi i masnadieri scesero ed uccisero il Campiere: preso il cav. Bartoli per mano, gli levarono il Weter e glielo scaricarono al fianco. Impaurendo le donne colla faccia a terra, ebbero il tempo di legare le bestie agli alberi, accompagnare le donne atta Casina, farle chiudere in silenzio, minacciandole, trasportando alcuni oggetti, fra cui il Weter in una grotta al vallone di Castellazzo sopra il giardino di Faraci. Vi fu in quella notte una fucileria allo scopo di spaventare la gente dei dintorni. Intanto la Stessa sera del misfatto, una scena drammatica, dolorosa, si svolgeva in casa della signor Bartoli D’Autona. Ella, visto venire il cane avanti, mise la pasta, apprestandosi ad apparecchiar la tavola. Affacciatasi al balcone, il marito non veniva; un’altro momento e... nemmeno! Agitata, fece mangiare i figli che lasciò in balia della serva e corse dalla madre. Questa la confortò dicendole che a quest’ora sarebbe ritornato, ma che!... Ebbe il triste presentimento, fece coricare i bambini e via di nuovo dalla madre. La signora D’Antona, credendo che si fosse il genero restato in campagna, svegliò il servo e lo mandò alla Casina. Si erano fatte le undici e il massaro Luigi, a malincuore, ma di corsa, prese la via della Contessa; giunto sul sentiero, immerse i piedi su un cadavere, imbrattandoli di sangue, ma con la furia e lo scuro, non ci badò non se ne accorse; affrettando ìl passo, giunse alla Casina. Bussando, sulle prime non risposero, credendo che fossero i briganti, impaurite mute dal dolore, dallo schianto; ma alle grida, alla voce; Aprite!... sono io! la prima ad affacciarsi fu la moglie del Campiere che vociando rotta dal pianto annunzia “ Hanno ammazzato mio marito, il padrone, il figlio!...” Senza por tempo, il massaro Luigi, rivoltati i tacchi, se ne ritornò più morto che vivo! Ripassando dal sentiero vide la strage: sudato, trafelato, la prima notizia la diede ai Carabinieri, passando dalla Caserma. Sparsasi la brutta nuova in paese, fu un movimento continuo di andare e venire sul luogo dell’infame orribile delitto; incontratesi le donne, sembravano delle Marìe, delle Maddalene. Era Sindaco il cugino dell’ucciso, cav. Don Carmelo Inglesi, il quale con le lagrime agli occhi, interessava la Giustizia. Alla vista dei cadaveri distesi sul ciglione, si commossero anche le pietre; le bestie ancora legate, furono i testimoni dell’orrenda carneficina ma le bestie non parlano. Per tutto il giorno, la folla non cessò il via vai. Verso la sera i morti furono portati al Cimitero. La stampa di tutti i paesi, occupandosi giornalmente del delitto, faceva l’ira d Dio per scoprire i rei. C’era di mezzo il Senatore D’Antona, stretto parente della famiglia in lutto, per la Giustizia occuparsene minutamente. Una taglia di 500 lire fu messa per chi scopriva i delinquenti, gli autori dell’assassinio. Più di quindici giorni passarono, senza che degli assassini si mostrasse nessuna traccia; ma un caso volle che fossero scoperti, assicurati alla Giustizia, sebbene il capo sia stato ucciso. Sentite come, o lettori: La guardia Campestre Pietro Debilio Sferrazza, trovandosi in perlustrazione nelle campagne di Castellazzo, per via incontrò un certo Rosario Cammarata, sarto straccione, ubriacone, che aveva un pezzetto di terra di fronte alla grotta, dove si riunivano i masnadieri, e dove costui portava loro i sigari, il formaggio e il vino per banchettare. Nel salutarlo, il Debilio si fece dire dove andasse e quegli sbigottito gli disse che era innocente, ma... che... Allora la guardia, scesa da cavallo, lo costrinse a fagli rivelare il resto e quello abboccò all’amo. Esperto il Debilio lo rimandò indietro imponendogli di non dir nulla e lui, rimontato a cavallo, andò ad appostarsi dietro un albero davanti la grotta col fucile spianato. Essendo giorno di Domenica, non vi era nessuno; a mezzogiorno passato i masnadieri aspettavano ancora il Cammarata che non venne. La guardia Debilito per più di un’ora stiede lì fermo. Il Capo della masnada, Filippo Terranova, un reduce delle patrie galere che aveva scontato 20 anni di prigione per due omicidi, affacciatosi col Weter in mano, scorta la guardia, si mosse in atto di... ma un colpo di palla lo prese in un occhio, ferendolo mortalmente; gli altri fuggirono dall’altra parte della grotta.Il Debilio, spronando il cavallo, venne a portar la nuova ai Carabinieri che assieme a tutta la F. P. corsero alla grotta di Castellazzo, dove vi fu un accorrere di curiosi. Messo il brigante, ferito grave, su una scala a barella, fu portato al Carcere, ove, dopo alcuni istanti, mori. Il primo ad essere arrestato fu Don Rosario Cammarata, il quale confessò chi furono gli autori del delitto, sebbene lui non prese parte al fattaccio. Fra gli arrestati come compagni vi erano il figlio del Fattore di casa Bartoli e un certo Pesce, mazzarinese. L’impressione fu enorme!. Il signor Debilio venne Premiato con lire 500 e la nomina a Capo delle guardie Campestri a vita: il Prefetto volle conoscerlo di presenza per il brillante servizio. Chiudendo la parentesi della cronaca nera del nostro paese, non dobbiamo tanto stupirci, perché Riesi non è stato il solo unico paese, in cui la mafia e la delinquenza abbiano fatto simili gesta. Lo abbiamo detto, lo ripetiamo: oggi questo non succede più; quei tempi di triste memoria sono passati. Col Governo di Benito Mussolini, siamo entrati in un’era di pace, di tranquillità, di benessere. Egli stesso lo disse e lo fece; venendo in Sicilia comprese che ci voleva da noi l’assetto per le popolazioni. ** Torna su ** Cap. XLIII gli scioperi Accanto alla mafia alla delinquenza c’erano anche gli scioperi che venivano a funestare il paese. Il conflitto tra capitale e lavoro veniva ad aggiustarsi con lo sciopero che fu detto “ un’arma a doppio taglio”; tante le volte erano gli operai che si ferivano; tante le volte che essi scioperi portavano turbamenti e conseguenze gravi: ed è perciò che il Fascismo fece cessare del tutto gli scioperi, talché S. E. Riccardo Ciano nel 1924 tuonò a Livorno con queste parole: “Gli italiani non vedranno più la via degli scioperi!...”. (1) Nei paesi zolfiferi era facile ogni momento fare degli scioperi. Gli zolfatai alla minima occasione scioperavano per l’aumento del prezzo giornaliero o per un abuso: allora occorrevano soldati e Carabinieri per il maimteiìinlento dell’ordine pubblico, giacché si temevano disordini, saccheggi, delitti. Due colossali ne ricordiamo noi a Riesi che meritano di essere riferiti per la portata grave che ebbero. Lo facciamo, consapevoli dei fatti avvenuti, per dire cosa erano gli scioperi, perché si facevano e come terminavano. Il primo fu quello del 1884 a causa del ribasso dello zolfo. L’Amministrazione francese voleva scemare il prezzo ai picconieri che lavoravano a cottimo; essi non accettarono il ribasso, quindi si misero in sciopero. Da una parte e dall’altra non possibile comporlo, di modo che si prolungava. Subito una Compagnia di soldati e rinforzi di Carabinieri vennero qui. Gli operai delle due miniere resistettero il più che poterono senza punto sottomettersi; ma poi si diedero a schiamazzare per le vie, gridando: Pane e lavoro!... La fame spinge il lupo ad uscir dalla tana e darsi a scavar la terra per mangiarsela; a frotte gli zolfatai uscivano in piazza e nelle vie, rubacchiando nelle botteghe, bussando dai proprietari: le Autorità civili e militari invano si misero di mezzo per far cessare lo sciopero, di guisa che gli animi degli zolfatai si inasprirono ancor peggio. Un pomeriggio, usciti fuori a dimostrazione, si ridussero in massa a chiassare nella piazza Garibaldi; ad essi si uni buona parte del popolo: Accerchiati dai soldati, tumultuando, presero anche delle pietre, ingrossando le grida. Per farli sciogliere, visto che la dimostrazione era seria, il Delegato di F.S., ricevendo una pietrata, ordinò i primi due squilli di tromba; ma in luogo di calmarsi i dimostranti si accanirono di più: al terzo squillo ordinò il, fuoco, ma il Capitano si oppose all’ordine, intimando i soldati a star fermi, a non sparare, evitando così l’eccidio. Allora il Delegato tolta la sciarpa declinò la responsabilità, lasciandola al Capitano e partendo per Caltanissetta. E il bravo Ufficiale dell’esercito italiano, salito al balcone del Casino dei Civili, arringando la folla disse che non era venuto per uccidere dei fratelli; che la responsabilità ora cadeva su di lui, pregando gli scioperanti a sciogliersi e andarsene alle loro case. In un momento la dimostrazione si sciolse; ognuno rincasò in santa pace. L’indomani mattina egli si recò al Municipio e si indisse una riunione del Consiglio Comunale, dove propose di mettere delle somme per aprirsi dei lavori, dando egli l’esempio per il primo col dare lire cento. Gli altri lo seguirono generosamente, i proprietari fecero lo Stesso e si raccolsero 20 mila lire. Con questa somma, fecero acconciare delle vie di campagna agli zolfatai, i quali, per quindici giorni, si sfamarono. Era Sindaco il Sig. Di Benedetto Mandera che oculatamente aperti i brevi lavori, finiti i quali si diede a tutt’uomo a far discendere gli operai in miniera, dopo più di un mese. Da una parte e dall’altra, le perdite furono enormi. E il Delegato di P. S.? e il Capitano? Si potrà domandare, Rispondiamo: Il primo non si vide più a Riesi ; il secondo fu e encomiato dalla Prefettura. L’altro sciopero più terribile, colossale, avvenne nel 1903, il giorno 8 di Giugno. Siccome era il tempo della mietitura, così gli zolfatai, col pane in terra, se ne andarono a cogliere spighe per far fronte allo sciopero ; ma cessata la messe, si videro nello stretto bisogno di reclamare ; l’Amministratore Nuvolari non voleva cedere. La mattina del 10 Luglio, in massa con la bandiera della loro Società scesero in miniera, trascinandosi l’Ing. Accardi, loro Direttore e seguiti da una Compagnia di soldati. Per la via altri uomini e ragazzi l’accompagnarono alla miniera, unendo le loro voci. Giunti ivi, il Direttore diede ordine alle guardie minerari di non far scendere nessuno a basso; la folla, guardata dai soldati, rimase sul comigliolo della miniera: qualcuno voleva fare resistenza alle guardie, ma avendo una di queste sparato un colpo in aria, fu il segnale della rivolta; il popolo irruppe, scendendo abbasso e Fece man bassa di tutto e di tutti, Vi erano dei pecorai nei dintorni con bastoni, dei contadini con fucili, gli altri con delle pietre e coltelli. Direttore, Ingegneri e impiegati si chiusero dentro le loro belle casine; ma scassate le porte, ferirono gli ingegneri; altri maltrattati fuggirono, le donne spaventate, scapparono oltre il fiume. Ira di popolo, libera me Domine! Resisi padroni, cominciarono a saccheggiare le case. I soldati non spararono, perché chiesero dei rinforzi a Sommatino, rinforzi che vennero tardi, quando tutto era distrutto. Non contenti di avere saccheggiato le case, entrarono nelle macchine devastandole e rompendo tutto ciò che capitava loro; i dimostranti gridavano, minacciavano senza pietà, successe il finimondo! Soddisfatti dell’opera compiuta, ritornarono in paese tranquillamente. Però alcuni presero il largo per più giorni. Chiamato l’ing. civile Luigi Lamantia per periziare i danni, furono calcolati 100 mila lire. Un processo cominciò a istruirsi contro i presunti rei. Il 15 Luglio furono arrestati l’Avv.Gaetano Pasqualino e l’ing. Giuseppe Accardi, quali istigatori dello sciopero assieme ad una trentina di persone tra zolfatai e contadini. Era Sindaco il cav. Inglesi il quale, se da una parte fu contento dell’arresto dei due suoi nemici politici, d’altra parte si adoperò a far scarcerare quei che erano innocenti, le cui famiglie gli andarono a piangere in casa; ad onor del vero, bisogna dire che l’Avv. Pasqualino, trovandosi a casa, sconsiglio gli zolfatai ad andare in miniera, e l’ing. Accardi vi andò per frenare gli impeti: ma i! Delegato di P. S., certo Nicolaci, terranovese, fece come il pesce delfino col suo amico, scrivendo un nero rapporto per tutti e due. Ad ogni modo dopo sei mesi di processo, gli imputati furono assolti. (1) Lo scrivente era presente ** Torna su ** Cap. XLIV la grande guerra Occupiamoci ora della guerra in relazione al nostro paese della Grande guerra, la guerra Europea che cominciò il 1914 e finì il 1918, trascinando il mondo nel la rovina. Scoppiata nel 1914 tra gli Imperi Centrali e la Francia a cagione del delitto di Serajevo, l’Italia stiede un’anno neutrale, lasciando in lizza la Germania e l’Austria-Ungheria contro la Francia. Il fatto da noi fu giustificato per rivendicare i confini naturali di Trento e Trieste, di cui l’imperatore Francesco-Giuseppe non ci voleva dare “nemmeno una pietra” . Coloro che ci leggeranno appresso nei secoli futuri sapranno più dettagliatamente come in un primo tempo la Germania, violata la neutralità del Belgio, l’Inghilterra scese in campo in difesa del piccolo regno devastato ed ancora la Russia, mentre la Turchia si schierò a favore degli Imperi; poi scese l’Italia ed infine l’America. Le generazioni che sorgono e sorgeranno appresso devono sapere che la detta Grande guerra durò cinque lunghi anni senza cessare facendosi per terra, per mare, nell’aria. La vita umana non ebbe più valore; nei paesi, nelle città la sera si stava allo scuro per paura delle bombe gettate da aeroplani, uccidendo vecchi, donne, fanciulli: gli uomini in vigore delle loro forze erano alla guerra. Da ciò ne venne la penuria dei viveri e di tutte le cose necessarie alla vita. Riesi diede il suo contingente con morti, feriti e mutilati. Riguardo al caro viveri, si fece di necessità virtù. Istituitosi un Comitato di soccorso, si fece a gara per le famiglie dei soldati in guerra; la casa della signora Donna Francesca D’Antona, che ci aveva un figlio soldato, era frequentata dalle madri e signore per allestire gli “scalda panni”. Sui campi di battaglia, nelle trincee, accorrevano giornalmente i nostri soldati a difendere la patria. In giorni tristi, si piangeva, si soffriva anche la fame, ma ci si rassegnava. Che si voleva fare? Di chi la colpa ? Finalmente la guerra cessò il 4 Novembre 1918. Cessato il fuoco, fatto l’armistizio, ritornarono fra le famiglie i prigionieri, i reduci, i mutilati ; solo i morii che non ritornano mai, non si videro, ma le famiglie si rassegnavano, sapendoli morti da eroi. E’ scritto alle Termopoli, In sugli achei stendardi, Meglio morir da liberi Che vivere da codardi. Fra 500 mila morti italiani, si distinsero da valorosi, seguenti nostri Compaesani che noi vogliamo qui ricordare, venerare, rimandando i loro nomi ai posteri. Il Capitano Salvatore Faraci, già Tenente di Complemento del 22 Regg. di Fanteria. Ebbe i natali il 24 Aprile 1882 da Vincenzo e Gaetano Imbergamo. Operai agiati lo mandarono a Caltanissetta a proseguire gli studi all’istituto Tecnico, compiuto il quale, Salvatore passò a Catania a frequentare l’istituto nautico, dal quale ne usci col grado di macchinista navale in prima; ma il giovane Faraci non pago di ciò, volle elevarsi ancora, recandosi a Torino per frequentare studi Superiori industriali, mentre era impiegato in Officine meccaniche. Nel 1909, chiamato alle armi, si affezionò subito alla vita militare. Congedatosi col grado di Sottotenente di Complemento, ebbe l’idea di salpare per l’America. Nella guerra fu richiamato e venne in Italia. Da Messina fu mandato in Carnia e nel Novembre del 1915 vi tornò di nuovo per istruire le reclute del suo reggimento; ma dietro sua domanda fu rimandato alla Frontiera, passando col grado di Tenente sul Trentino e in Valsugana. Il 19 Maggio 1916, durante un assalto eroico, cadde sul campo della lotta. Medaglia di argento con motivazione: * Mentre con animo saldo e fermo braccio, alla testa dei suoi * prodi soldati, faceva argine all’orda nemica, irrompente, fu * colpito a morte da pallottola nemica. ”Mirabile esempio di amore per la patria fino al sacrificio della sua giovane vita”. (Da: La Rivista eroica). Capitano Giuseppe Ferro di Giuseppe e di Rosina Cultrera, maestra elementare nato il 7 Ottobre 1904. il padre, R. Ispettore scolastico a Catania, vide il figlio iscritto al secondo anno d’Università in legge; appena scoppiata la guerra, lo studente universitario, si arruolò nei plotone Allievi Ufficiali del 68 Fanteria di stanza a Milano. Nel Maggio 1915 era già Sergente. Nominato Sottotenente, prese parte con la Brigata Sassari ai fatti d’armi; sul Carso, nel 18, versò il suo primo sangue: una palla lo colpì alla mano destra che gli rimase anchilosata. Il Tenente Ferro, guaritosi, fu i mandato in Eritrea. Cola, appreso il rovescio di Caporetto volle essere rimandato in Patria. Mandato in Francia, fu a Digione; il valoroso Tenente che da un anno era stato nominato Capitano, cadde da eroe il 29 Settembre 1918. Ecco la motivazione che accompagnabva la Medaglia d’Argento: * Mirabile e costante esempio di fermezza e di coraggio, * nel passaggio di un ponte fortemente battuto dal’Artiglieria * nemica, non d’altro si preoccupò che del proprio reparto. * Colpito egli stesso da una scheggia di granata ad un braccio, * rimase fermo al proprio posto per regolare il m movimento dei * suoi uomini, finchè colpito una seconda volta a morte, * lasciò la vita sul campo. (da una monografia del padre) Rocco Jannì di Pasquale e di Antonina Giardina, Tenente, nacque nel 1895. Maestro elementare, compiuti gli anni di servizio, al momento della guerra fu aggregato alla Sezione Mitraglieri Fiat, Brigata Sassari.. Ito al fronte da graduato, si trovò dinanzi al nemico; giovane ardimentoso, pieno di entusiasmo, volle slanciarsi all’assalto, malgrado i reiterati richiami del suo Capitano. Ferito mortalmente all’addome, fu trasportato all’ambulanza militare, dove dopo poche ore moriva. Il Governò gli decretò la Croce di bronzo al merito di guerra. (Manca la motivazione). Tenente Enrico D’Antona del fu cav. Pietro e Donna Francesca, nato nel 1884. Studiando a Napoli e a Torino da avvocato, parti per la guerra; fu prigioniero a Val Sugana. Cessata la guerra, durante il viaggio di ritorno lo cole una polmonite e mori a Trieste il 6 Dicembre 1918. Il Sergente Ciulla Gieseppe di Gaetano e di Santina D’Antona proprietario borgese, nato nel 1890, aveva prestato regolare servizio. Richiamato al fronte col grado di Sergente fu nelle trincee. Indi ottenne la licenza per i lavori campestri ma poi, ritornato al suo posto di combattimento, fu nel rovescio di Caporetto. Nella confusione si seppe che era morto di polmonite all’ospedale di Verona. I suoi fratelli che si trovavano al fronte, ne appresero la notizia senza poter conoscere il Luogo dove fu seppellito. Mancano perciò i particolari. Tra i soldati figli del popolo, morti sui campi di battaglia. e decorati al valore, vi furono, fra i 96: Marino Rosario di Francesco e Giuseppa Bellomo, bersagliere, nato nel 1895. Fu uno dei primi; durante il combattimento, ferito gravemente, cessò di vivere a Pacchiasella il 2 Novembre 1816. il Governo gli decretò. la medaglia di bronzo. La stessa sorte del Marino subirono: Albo Antonio, Angilella Salvatore, Amarù Antonio, Catarinolo Francesco, Di Martino Antonio, Di Letizia Calogero, Di Ventra Salvatore, La marca Gaetano, Lauria Gaetano, Lo Giudice Angelo, Licata Vincenzo, Marotta Cristoforo, Maurici Giuseppe, Marazzotta Salvatore, Sciamone Liborio, Sciacchitano Giuseppe, Rizzo Angelo, Toscano Giuseppe, Vella Salvatore e Vella Michele. Questi nomi formano un quadro, sebbene incompleto, in una sala del Municipio, con le loro fotografie, in mezzo alle quali spiccano i ritratti dei Capitani Ferro e Faraci. Le altre famiglie non diedero le fotografie dei loro cari. Per tutti, fu eretto il Parco della Rimembranza, in ricordo dei gloriosi caduti, secondo le disposizioni del Ministero dell’Educazione Nazionale. Così, il detto Parco sorse alla Spatazza, nello stradale Mariano e propriamente di fronte alla Centrale Elettrica. ** Torna su ** Cap. XLV la “spagnuola” Non era ancora cessata la guerra, quando un’altro flagello venne a funestare l’umanità: la “spagnuola”. Come nella favola classica di Giovanni La Fontaine, degli animali colpiti dalla peste che “fuggivano spaventati cercando un riparo”, così gli uomini e la scienza non sapevano cosa fare per trovare un rimedio al male. La “spagnuola” : questa febbre mediterranea venuta dalla Spagna, fu un’epidemia molto fulminante che mieteva tante vite umane in un momento, senza pietà. Se tutti non morivano, “tutti erano spaventati”, al dir dello scrittore francese citato. La morte non guardava in faccia a nessuno: grandi e piccoli; uomini e donne; ricchi e poveri. Chi era preso da quella malattia difficilmente se la scansava e, quando non moriva, restava con qualche difetto. Le famiglie povere, orbate dai loro cari e immerse nella miseria, non sapevano darsi pace, pensando alla morte spaventevole; vi furono parecchie famiglie i quali ne mori vano due e tre, il lutto era quindi generale, Infuriando il morbo crudele, il seppellimento dei cadaveri veniva operato alla confusa, trasportandoli al cimitero senza nessun conforto. Anche per quelli che morivano in campagna non venivano fatte onorevoli sepolture e si partivano senza nessun accompagnamento. Coloro che erano poverissimi bastavano le poche masserizie ad addobbare una bara; talune famiglie facevano uso delle tavole del letto per la cassa mortuaria. Ingordi falegnami,speculatori, approfittando del momento, sfruttavano chiunque a loro si presentava. Col Municipio del Sindaco, nella requisizione che si faceva, si commettevano abusi e soprusi inauditi. Tutto era requisito per dare aiuto agli ammalati, ma il popolo soffriva, mancando del necessario. Beato chi poteva avere un pò di zucchero, d carne o di pane e pasta. Al solito, gli arruffoni ne profittavano. Un quidam, comprata una gallina L.20 per conto del Comune, le tirò il collo e la diede al figlio per portarla a casa. La “spagnuola” durò quattro mesi, dal Settembre al Dicembre 1918. Parrà cosa incredibile, eppure è vero. La malattia della “spagnuola”, a Riesi, fece più strage della guerra. Mentre la guerra fece un centinaio di vittime; essa “spagnuola” ne fece morire seicento. Passata questa marea, che ci lasciò il triste ricordo d’una morte che non venne dagli uomini ; rimasto il caro viveri della guerra che si rimediava con il lavoro ben pagato, si predette di potere andare avanti, superando gli ostacoli della vita. Ma non fu cosi! Il paese contava circa i6 mila abitanti. ** Torna su ** Cap. XLVI il bolscevismo Quel tale Giuseppe Butera, che aveva infiammato la mente degli operai, specialmente dei contadini, si mise a predicare il bolscevismo venuto dalla Russia. Egli, staccatosi dal partito popolare trascinandosi dietro la massa, offendeva tutto e tutti; da socialista spinto. di facile parola, nelle vie, nelle case, dappertutto, predicava coraggiosamente la Rivoluzione. Il Governo dell’On. Nitti lasciava il campo libero ai socialisti, di modo che nei paesi d’Italia i bambini e le bambine cantavano: Avanti popolo Alla riscossa Bandiera rossa Trionferà!... Era l’andazzo delle follie rosse. E il Butera si prefisse di volere per forza la divisione delle terre a Riesi, dicendo di espropriare i feudi ai principi. Naturalmente il popolino, imbevuto di tali principi, gli teneva bordone, battendogli le mani, accarezzandolo. Cosicché lui, forte del suo partito, teneva in soggezione gli altri. Era diventato l’idolo della massa incosciente! Ebbe la tracotanza di presentarsi da candidato come deputato socialista al Collegio. Perciò, nei paesi vicini andava propagando le sue idee, appoggiato dal partito centrale del giornale “l’Avanti”. Insomma, diede molto fìl da torcere alla P. Sicurezza. Coi partiti sovversivi, il dopo guerra fu peggio di prima. Qui.da noi, teneva il paese in continuo movimento, in continua animazione di giorno e di sera. I contadini volevano la divisione delle terre, erano diventati bolscevichi; il loro capo assecondando le loro aspirazioni, tempo permettendo, si armavano e andavano nei feudi a prendere possesso. I padroni delle terre avevano dato ordine ai Campieri di lasciarli fare onde evitare eccidi. Si partiva la mattina per molto tempo con gridi e chiasso e bandiere, arrivando alla meta designata della campagna. Seguiti da una Compagnia di soldati e CarabinIeri tra il chiasso e l’allegria, si facevano la divisione del feudo, cui limiti, piantando le bandiere, cantando: “Bandiera rossa trionferà”. La giornata trascorreva gozzovigliando, schiamazzando, facendo come le galline che schiamazzano prima di far l’uovo. Al ritorno rientravano la sera nel paese in fila, soddisfatti delle loro operazioni; rincasati, appena preso un boccone, tutti alla Sede socialista per la conferenza del Butera. L’indomani punto e da capo, le solite agitazioni; il conferenziere (sic) faceva sentire le sue minacce, tuonando contro il Governo di allora. E i Carabinieri lì presenti non dicevano nulla. Impavido, imperterrito, Giuseppe Butera sì credeva padrone. Oltre il battimani e gli applausi che riscuoteva dalla folla, egli era portato a spalla, alimentando la sua bocca di ciambelle e dolci. Chiusi i proprietari nelle loro case ben serrate, non uscivano, non potevano dir nulla; scorgendone uno nelle vie, gli davano la baia ed era costretto a ritirarsi per tema di qualche brutto tiro. Minacce su minacce, chiassi su chiassi, i giorni volavano, sperando che migliorassero con quello stato di caos davvero increscioso. Tutto era lecito dal Governo deplorevole del l’On. Nitti che aveva dato la mano larga ai socialisti, i quali se erano forti, non erano neppure d’accordo fra loro. ** Torna su ** Cap. XLVII la mitragliatrice (famosa repubblica riesina) Come conseguenza di tutto questo mal Governo, di tutto questo malessere di questo disordine, abbiamo avuto a Riesi la Mitragliatrice. Anche questa brutta pagina di storia dobbiamo registrare in pieno secolo XIX. Scriviamo sotto l’impressione del triste epilogo della nefasta giornata della Mitragliatrice. Ecco il fatto, come avvenne:La Domenica dell’8 Novembre 1919, i soliti bolscevichi, decisero di andare a prendere possesso del feudo Palladio, di proprietà dei principi Fuentes, dato in gabella. Da qui partirono non solo essi, ma chiesero l’aiuto dei loro compagni mazzerinesi, i quali, armati ed a cavallo, vennero a Riesi. Essendo il feudo vicino per lo stradale di Calamita, uomini, donne e ragazzi si misero in moto. Il Butera era in prigione. Chi organizzò la gita fu un certo Angilella, uno spietato socialista, Piovutoci non si sa da dove. Costui, predicando a squarciagola, diceva di farla finita coi signori proprietari incitando i cittadini ad armarsi, gli operai di tenersi pronti per la rivoluzione. Lungo la via, soldati, o Carabinieri non poterono arginare, calmare il Popolo. Giunti, al feudo, fecero le dovute operazioni, senza essere molestati. Intanto la P. S. si provvide duna Mitragliatrice che fu piazzata accanto alla chiesa della Madrice tra la piazza Garibaldi e il, Corso Vittorio Emanuele. Gli scalmanati ritornando sull’imbrunire entrarono in paese cantando battendo le mani. Trovandosi nella piazza, l’Angilella ordinò al popolo dì andarsi ad armare e ritornare. E difatti così fecero. La piazza ed il Corso formicolavano di gente. Ad un certo punto il Tenente e il Delegato di P. S. premerono la mano del soldato, facendo funzionare lo strumento micidiale. Al crepitio fulminea della Mitragliatrice seguirono altri colpi di fucile e revolvers. Il terrore invase tutti gli animi. Un momento dopo si vide un campo di morti sia in piazza che nel Corso: anche i feriti fecero spavento. Nella confusione gli sparatori fuggirono; inseguiti, fu raggiunto il Tenente al piano del Pozzillo per la via di Ravanusa e fu freddato. In quella occasione l’ing. Accardi, che si trovava lungo il Corso, trascinato nel Cortile Golisano, venne pugnalato da mano ignota e ferito. Il pallore, lo sgomento si leggeva in faccia di tutti, vedendo la carneficina il sangue che scorreva, raccolti i cadaveri, le famiglie ne piansero amaramente i figli, i mariti, i parenti, I morti furono 8 e dei feriti non si seppe il numero. La prima versione data dei giornali fu che:la Rivoluzione era scoppiata a Riesi: laonde un Reggimento di fanteria col generale, la notte seguente entrò a Riesi in assetto di guerra, con baionetta in canna e i lanternini accesi. Entrati allo scuro, nel silenzio, in punta di piedi, mentre gli abitanti dormivano, non sapendo dove andare, ne cosa fare; non conoscendo nessuno, ne presentandosi anima viva, il generale adagio adagio fece aprire le chiese per far riposare i soldati che avevano fatto 48 ore di marcia forzata. Giunti alla Sanguisuga temevano ad entrare, credendo il finimondo, che la rivoluzione continuasse. informatosi i soldati che il paese era sotto l’incubo del terrore; che i cittadini spaventati, piangenti. temevano di riaprire le porte sapendo che c’erano i soldati, più tardi, generale e soldati rimasero sorpresi. Fattosi giorno, apertesi le prime botteghe, i soldati, usciti fuori per le vie per comprare da mangiare, nel volto dei cittadini leggevano i segni dello spavento, per timore di essere di nuovo massacrati; ma i soldati li rassicuravano, li confortavano allora furono fatti segno a delle gentilezze offrendo loro il caffè. Rifocillati che furono, la stessa mattina il Reggimento ripartì per la Sede di Palermo. Da quel giorno fatale della Mitragliatrice ovvero da quell’epoca, il popolo riesino rimase scosso: sembra un brutto sogno, eppure è stata una triste realtà che ci fa ripetere col proverbio Chi è stato scottato dall’acqua calda, teme dell’acqua fredda. ** Torna su ** Cap. XLVIII il fascismo Gli anni 1919, 20, 21, e quasi tutto il 1922 fino al 28 Ottobre del dopo-guerra, furono anni di disordini sociali, di terrore, di timori a causa del bolscevismo imperante. Si temeva da un momento all’altro la Rivoluzione; il bolscevismo diceva un dotto, si sentiva nell’aria; gli animi di tutti, in conseguenza di ciò, erano sospesi. Le campagne furono abbandonate a sè stesse; i proprietari non potevano dare un passo; furti ed omicidi, ruberie d’ogni genere erano all’ordine del giorno; ladri e ladruncoli nelle campagne razziavano dappertutto. (qui manca un piccola parte, del testo originale) aveva preso il suo corso; ne paesi, approfittando dello scuro, si commettevano brutti atti: basta dire che ad un barbiere gli levarono 25 soldi e lo scialle, alla discesa del Carcere vecchio; ad una coppia di giovani sposi, dopo l’Avemaria, mentre tenevano il marito, alla sposa rubarono lo scialle e l’oro; in pieno giorno, per la via detta miniera Tallarita, furono assaltati gli zolfatai che avevano ricevuto la paga. Ma ciò che maggiormente faceva impressione erano gli omicidi, i delitti terrificanti che succedevano nelle campagne e nei paesi; la vita umana non era appunto calcolata. La cronaca di Riesi di quei tempi registra Purtroppo fra i tanti delitti di sangue i seguenti: 1) Una notte all’Ammiata, feudo nel territorio di Butera, all’epoca della raccolta del grano, mentre i mezzadri, trovandosi nell’aia dormendo, intesero che i ladri rubavano il frumento, portandolo nelle bisaccie sulle bestie come se fosse di loro proprietà. Svegliatisi i coloni, poiché gridavano, ne furono freddati due. I Carabinieri di pattuglia, messesi in colluttazione coi briganti, ne ferirono uno mortalmente; 2) Ad un Campiere gli levarono tutto quello che aveva e l’uccisero per la via di Gallitano ; 3) Un povero contadino che si recava al vicino Canale ad abbeverare il suo unico somaro, con il quale si guadagnava il pane per la famiglia, suonata l’Avemaria, gli levarono l’animale e lui fu disteso a terra; 4) Alla Scalazza, in pieno giorno, un piccolo proprietario, mentre spietrava il suo campicello, lo legarono, gli spararono, trasportandosi la mula. Tutta l’Italia era così!... A porre fine ai tanti malanni, a tanto sfacelo, venne un uomo fatto apposta per salvare la nostra bella Italia. La marcia su Roma del 8 Ottobre 1922, fatta da Benito Mussolini, fece terminare tutto ad un colpo il malessere, rimettendo l’ordine dappertutto. Duce del Fascismo, l’ex caporale dei Bersaglieri, con un pugno di giovani ardimentosi, vestendo la camicia nera, si:oppose al parlamento italiano che era in vera anarchia coi numerosi partiti sovversivi. Afferrato il potere in nome di S. M. il Re Vittorio Emanuele III. col quale avevano fatto la guerra, l’On. Mussolini, mise prima di tutto i punti sugli i ai Deputati che trattò da “pecore rognose” ; e poi parlando da Roma a tutta l’Italia, disse: “Ora basta coi cattivi italiani”. Questo genio ignorato, figlio d’un fabbro ferraio e di una Maestra elementare, amico del popolo, nato a Predappio, nell’Emilia, col suo colpo di Stato, col suo pugno di ferro, istituì, fece sorgere il Fascismo in tutti i paesi del Regno, coi Fasci di Combattimento formati dai reduci della guerra, dai buoni italiani. Dapprima sì impose con la forza, costringendo i riottosi a stare al loro posto; cosi a mano, a mano l’ordine cominciò .a ristabilirsi a misura che si affermava il Fascismo. Un’era nuova si apri nei paesi, cessando lo scompiglio e la delinquenza. La Giustizia punendo i ladri rigorosamente, i furti cessarono; la P. S., dando la caccia spietatamente agli omicidi, ai malfattori, liberò le campagne e i paesi. La mafia ebbe un serio colpo alla testa. Venuto in Sicilia .S. E. Mussolini, disse queste precise parole a Messina: “Voi, le vostre popolazioni, avete bisogno di essere purgate dalla mala vita” . Egli giungendo fino a noi alle miniere Trabia Tallarita, come dovunque fu acclamato. Esponente del Fascio di Riesi da noi fu il Dott. cav. Gabriele Lamonica, reduce da Capitano Medico dalla guerra. Con zelo, coraggio e fede fascista fondò il Fascio di Combattimento; coadiuvato dalla Forza Pubblica; ogni giorno per le vie si andava gridando: “abbasso la delinquenza!, Viva il Fascismo!”. In principio i fascisti furono pochi, ma dipoi visto i risultati benefici che diede la tranquillità al popolo, molti si unirono al Fascio, Creato dal Dott. Laconica che fu il Segretario Politico Anche i proprietari vestirono la camicia nera, di guisa che la massa passò al Fascismo. Le dimostrazioni erano ostili ai potere. Ogni giorno la stampa annunziava tutto quello che faceva il nuovo Governo dell’Ori. Mussolini, il quale sciolta la Camera dei Deputati volle rivestirla di nuovi elementi del suo colore, cioè fascisti. Dato l’assesto al la Camera e ai paesi, S. E. il Capo del nuovo Governo pensò di sciogliere i Consigli Comunali d’Italia per fare entrate i Consiglieri fascisti poco alla volta. Riflettendosi, qui a Rìesi, incominciò la lotta politica contro la democrazia al potere. I democratici d’altra parte si credevano forti e cercavano di resistere all’urto, ma il Dott. Lamonica s’imponeva col suo partito del Fascismo che guadagnava terreno giorno per giorno, i delinquenti arrestati spazzarono il terreno per le nuove idee le quali seppero di ostrica a coloro che non le compresero. ** Torna su ** Cap. XLIX sindaco il com. G. c. golisano – il ritiro – giuseppe martorana – la luce elettrica – vittoria del fascismo – il com. d’antona sindaco Era Sindaco dell’epoca il comm. Giuseppe Carlo Molisano. Cincinnato di Riesi, l’Avv. Golisano fu chiamato a quel posto di nuovo, per salvare la posizione d Consiglio Comunale in sfacelo nel 1920 e per far argine al bolscevismo. Poiché anche nel detto Consiglio era penetrato il disordine e si era in piena anarchia fra gli operai, ci voleva un uomo ben visto alla Prefettura e al paese, i reggere la barca fessa del Municipio. E difatti il Pasqualino si era dimesso lasciando il campo libero all’ ing. Accardi col quale non andava d’accordo. Questi, non potendo essere d’accordo con gli operai, sì dimise pure ed afferrò brevemente la Sindacatura, l’avvocato Don Gaetano Debilio, un pasqualiniano. Il Consiglio in balia di se stesso, per forza doveva essere sciolto, ma ad evitare maggiori spese, si lasciò stare così com’era. La nomina a Sindaco del comm. Golisano fu accolta una unanime benevolmente, con simpatia. L’egregio uomo accettò la carica volentieri, sperando di fare del bene al paese. Egli si mise all’opera, con la Giunta degli operai, scegliendosi a vice Sindaco l’operaio Giuseppe Martorana e con lui il Segretario del Comune, Francesco Mule Vella, che da maestro della musica, maestro elementare, in resosi pratico dell’Ufficio, sbrigava le pratiche passabilmente. Il Sindaco si pose innanzi i gravi problemi del paese. Cominciò egli a lavorare alacremente prima di tutto per la luce elettrica, onde levare io scuro, mettendo Riesi alla pari degli altri paesi vicini; in secondo luogo si diede attorno all’impellente problema dell’acqua potabile e le fognature per dissetare gli abitanti, levando le porcherie, le immondizie delle vie ed avere un paese pulito. Tali problemi affrontò il comm. Golisano; per quanto difficili a risolversi, pure il Sindaco vi lavorò assieme al suo Segretario, pensandovi seriamente giorno e notte. Il nostro concittadino, che conoscemmo, di già voleva rendersi benemerito alla cittadinanza riesina: egli trascurava gli affari suoi, dandosi anima e corpo al Municipio. Ma dopo il 1922, con l’avvento al potere del Fascismo, ne insidiarono il Consiglio. Sebbene egli comprese i tempi nuovi fin da principio, tanto vero che pubblicò una scritta a favore del Duce, chiamandolo un grande uomo di stato “simile a Cromwell” ed altri pure i fascisti, con a capo il Dott. Lamonica, gridavano: “Abbasso il Consiglio”. E il Sindaco Golisano, non potendo sopportare i tumulti e le grida, si dimise, ritornando ai suoi campi, agli affari suoi, ai suoi studi, lasciandoci come ricordo, oltre il bastione e la piazza Garibaldi ammattonata, la luce elettrica che illumina sfarzosamente il paese. Col censimento, sotto di lui, il paese contava 17.248 abitanti. Lasciato in carica l’operaio Martorana, questi da Sindaco titolare fece di meglio per non cadere. Fu Sotto di lui che si portò a compimento la luce elettrica. Il paese cominciò a respirare, a gioire; appoggiato questo Sindaco dall’ex partito democratico, si credeva forte, ma il Consiglio di Riesi doveva essere sciolto. Il Segretario politico col Fascio, secondo l’idea dei Duce, erano sicuri del fatto loro. E difatti il Consiglio venne sciolto nel 1925. Un R. Commissario ne venne a reggere le sorti protempore. Essendo un fascista, era ben naturale che doveva mettersi in relazione col Segretario del Fascio, dott. Lamonica e la P. S. Giusto vi erano qui due bravi funzionari, il Maresciallo Giuseppe Scurria e il Commissario di P. S. Belofiori, i quali erano lo spauracchio degli uomini di malavita e dovevano fare il loro dovere a favore del Governo, Fattesi le elezioni a tamburo battente, dopo i tre mesi, fascisticamente, la maggioranza fu del Fascio capitanato dal dott. Lamonica e i civili di Riesi. Snidata la vecchia democrazia, salirono al potere i fascisti. A Sindaco fu eletto il comm. Don Luigi D’Antona. Lo stimato banchiere, vestendo la camicia nera, si trovò di fronte alle nuove esigenze del Fascismo e del paese. Egli però non ebbe il tempo di potere esplicare nemmeno una parte del programma fascista, perché vi fu un’altra, riforma mussoliniana. ** Torna su ** Cap. XLIXbis dai sindaci al podesta’ La riforma fatta dall’On. Mussolini fu di togliere dai Municipi i Sindaci e mettervi dei Podestà nominati dal Governo del Re. E questa riforma la fece attuar prima nelle città e poscia nei paesi. L’anno dopo la rese comune a tutti i paesi. Scopo delle legge è di concentrare tutta l’Amministrazione Comunale nelle mani di un uomo, levando le camarille locali. Il Podestà deve durare in carica cinque anni e può essere riconfermato. Secondo questa legge il comm. D’Antona decadde da Sindaco. Bisognava fare il primo Podestà di Riesi. Chi più indicato del cav. dott. Lamonica? Chi più fascista di lui? Chi meglio di lui poteva assumere tale carica? L’uomo indicato, designato, fu appunto il cav. dott. Gabriele Lamonica. Egli si dimise quindi da Segretario politico del Fascio di Riesi, accettando la carica di Podestà del nostro Comune. Ito a prestare giuramento nelle mani del Prefetto a Caltanissetta, venuto il decreto reale, al ritorno gli sì fece una calda ovazione, una calorosa dimostrazione di simpatia e di affetto. Al posto di Segretario politico, i gerarca di Caltanissetta nominarono il cav. Notar Giuseppe Sanfilippo, già vice Pretore negli anni 1915-1926, il di cui figlio Avv. Matteo, reduce della guerra, in città era un pezzo grosso. Le gerarchie fasciste sono formate dalle Federazioni provinciali e dai Sindacati a cui fanno capo il Prefetto; nei paesi il Segretario politico è il capo del Fascismo e di tutte le organizzazioni che sono: Associazione dei Combattenti; Federazione dei Commercianti; Società delle madri dei caduti in guerra; del Dopolavoro; dell’O. N. B., della Milizia fascista e della Federazione degli Agricoltori. Tra Podestà e Segretario politico, deve esservi un reciproco accordo. Il dott. Lamonica Podestà e il Segretario Notar Sanfilippo per un pò di tempo si diedero la mano, ma poi non si sa perché, non furono più d’accordo. Il Podestà i credeva insormontabile dietro quello che aveva fatto e detto, ma egli aveva dei nemici sott’acqua. Sotto di lui si acconciarono le vie del Canale è quella che va al Calvario col nome di Marconi; la prima impraticabile, fu fatta a ciottoloni e prese la via de Littorio; la seconda fu fatta sbassare nella parte rocciosa rendendola più. praticabile. Per le dette vie spese una bella sommetta. Di più, il nostro Podestà si occupava dell’acqua potabile, conoscendo i bisogni del paese in quegli anni di. siccità.. Se dobbiamo essere spassionati il dott. Lamonica, se aveva degli ammiratori, aveva anche dei satelliti, e lo rendevano inviso ai suoi nemici, come anco a certi suoi amici. Fra gli impiegati municipali vi erano quelli che lo subivano. Per una cosa da. nulla, per aver detto che un tale era analfabeta, per potere ottenere il permesso d’armi, mentre quello non sapeva firmare, il primo Podestà cadde nella trappola. Il fatto sta che in Questura gli si fece un processo; processo che dinanzi il Tribunale sfumò. Ed è perciò. che il dott. Lamonica non fu più Podestà. Bravo, intelligente professionista, ricco di casa sua, si occupa degli ammalati, passando la sua vita anche in campagna con la sua famiglia, nella bella casina del Crocifisso. Ebbe la jattura di perdere un figlio promettente in una disgrazia, i cui funerali riuscirono solenni. Se sono cose queste che abbiamo visto e ai nostri giorni, crediamo che nessuno potrà accusarci di partigianeria;. la nostra storia contemporanea l’abbiamo fatta e la facciamo imparzialmente, narrando ciò che abbiamo visto e veduto coi nostri occhi. ** Torna su ** Cap. L un commissario prefettizio modello Il Governo Centrale dell’On. Benito Mussolini, allargando i poteri discrezionali dei Prefetti, dando loro il titolo di Eccellenza, diede la facoltà di nominare i Commissari nei Comuni, ed è perciò che si chiamano Commissari Prefettizi; come pure furono abolite le Sottoprefetture, avendo i Comuni relazione diretta con le Prefetture nel Capoluogo della Provincia. S. E. il Prefetto di Caltanissetta, tolto il Podestà processato, vi mandò a sostituirlo, nel 1928, nella qualità di Commissario Prefettizio, il cav. Ugo Rossi consigliere presso la stessa Prefettura. Il cav. Ugo. Rossi, calabrese, era stato 13 anni Sottoprefetto a Noto ed era molto esperto e pratico di amministrazioni comunali. Buono, intelligente e giusto, appena giunto fra noi disse: “Questo paese non ha avuto buoni amministratori”; e indi rivoltosi agli astanti: “Se voi mi aiuterete; vi lascerò Riesi una cittadina”. Immedesimandosi della nostra sorte, girando di qua e di la, vide che la via del Parroco, ove comincia la via Marconi; era orribile; con poca spesa la fece bene accomodare. Trasformò la Casa Municipale internamente ed esternamente, rendendola un vero Palazzo di Città; la sua bella prospettiva, rivestita a nuovo, ne fa un magnifico aspetto. Nell’interno trasformò la sala del consiglio in un salone di ricevimento stile Luigi XIV; sistemò gli uffici municipali razionalmente. Tutto faceva eseguire sotto la di lui direzione. Gli impiegati, ben trattati, gli volevano un gran bene; il popolo, specialmente i poveri, trattati come si deve, lo amavano. Ma queste, non sono le sole opere ed azioni che parlano del cav. Ugo Rossi: egli fece ancora di più. Con un manifesto al pubblico annunziò che aumentava di cent. 10 al Kg. la carne e cent. 10 a litro il vino, per abbellire il Parco della Rimembranza, perché “non faceva onore nè ai morti nè ai vivi”, e ciò per non aggravare il Bilancio. Difatti, raccolta la prima somma, la impiegò subito a fare acconciare i due tratti delle vie Cavour e Mazzini che portano a Parco. Con ammirevole cura fece recintare la Rimembranza di mura, con un’entrata a grata di ferro, vi collocò vasi e vasetti attorno agli alberi, un monumento ai caduti al centro, una colonna d granito con una piccola aquila in cima, una croce fuori il Parco danno un aspetto bellissimo al sacro recinto. Così ne rese una bella, attraente passeggiata. Il cav. Rossi, visto che a Riesi mancava una pescheria e che il pesce si vendeva all’aperto nella piazza del Crocifisso fra le mosche e il fango, volle levare quella sconcezza facendo sorgere la pescheria nel cortile Riccobene, più in là della piazza. E’ poca cosa, ma è meglio di niente. Dando un’occhiata al cimitero, vi fece fabbricare una piccola cappella di cui era sfornito, fece sistemare i viali e mettere la breccia alla stradetta. Attorno alla piazza Garibaldi, fece piantare degli alberi come all’altra piazza del Crocifisso e allo stradale della Rimembranza. Mise un’ordinanza, con la quale imponeva i proprietari nei Corsi principali a fare il prospetto delle loro case. Alcuni furono solleciti a farle, altri, a causa della Assicurazione agli operai, furono riottosi. Tutto l’egregio Commissario aveva in animo di fare e rifare. Ma dove maggiormente il cav. Rossi lavorò fu per la soluzione del grave problema dell’acqua potabile e le fognature. Questo era il suo sogno e ci era quasi riuscito. Aveva contratto con una Società romana, ma sul più bello, venne trasferito a Catania e ci lasciò. il popolo commosso all’atto della partenza, nel salutarlo, gli fece una dimostrazione di affetto. Anche lui, il cav. Ugo Rossi, fu commosso, spiacente di averci lasciato senza aver terminato ciò che aveva nell’animo di fare. Fra tutti i Commissari forestieri che sono passati nel Comune di Riesi, nessuno ha lasciato un ricordo conte lui. Dacché esiste questa legge, in quest’epoca di Fascismo, vi sono stati finora tre Podestà e quattro Segretari politici. ** Torna su ** Cap. LI la ferrovia - mentre scriviamo, terminando Mentre scriviamo terminando la nostra storia, frutto della nostra immane fatica, lavoro della nostra povera intelligenza, noi che, oltrepassato mezzo secolo di esistenza, abbiamo visto passare uomini e cose, ci fermiamo qui. Mentre scriviamo i lavori della ferrovia sono a buon punto; già la bella Stazione è terminata e la linea è quasi ultimata. Questa sospirata linea ferroviaria interna della Sicilia, partendo dalla Stazione Centrale di Canicattì, dovrà passare per le stazioni e paesi di Delia, Sommatino, Trabia-miniere, Riesi, Mazzarino, San Michele di Ganzeria, San Cono e Caltagirone, proseguendo poi per Catania, Il tronco che dalla Stazione Trabia-miniere viene a Riesi è meraviglioso. Scendendo il treno dalla montagna della miniera Grande di Sommatino, che costeggia fra le gallerie, arriva al vallone detto della Cottonara; passato il ponte fa una curva e dopo 550 metri giunge all’altro colossale ponte Imera sul Salso , accanto a quello interprovinciale. E’ un’opera d’arte moderna. Esso ponte ha 10 luci di 15 metri ciascuna, è lungo m. 190,80, largo m. 5,10, alto m. 25, tutto in pietra da taglio. Passato il quale la macchina si ferma alla stazione delle due importanti miniere che sembrano, con le magnifiche casine che vi sono, un ameno villaggio. La locomotiva, messasi in moto nella valle del “Salso” va verso due viadotti: il primo, lungo m. 184,50, è ha 10 luci di cui 8 centrali di m.15 e le due estreme di m. 10; il secondo lungo m. 86,50, è ha 4 luci di m. 15 ciascuna. Ed eccoci ora. alla grande, maestosa galleria o traforo della Cammarera lunga m. 1091, con l’altezza di m. 29,50 dal fondo del vallone. Uscendo la macchina col suo fischio, nel guardare il monte Stornello, il treno traversa la contrada detta Ficuzza finche, tra ponti e ponticelli, arriva all’ultimo viadotto del Bannuto, lungo m. 87, ha 5 luci di m. 10 ognuna. Con una breve discesa nella contrada Giarratana, la strada ferrata ci porta al simpatico ponte del cavalcavia di San Giuseppuzzo e, passato, il bel Casello, entra nella stazione del Lago, vedendo il grazioso villino Antonietta del comm. Golisano e la casina del signor R. Jannì. Riesi!!... Finalmente! Sono lavori esatti, opere d’arte, che hanno onore alla Ditta dei signori Ing. e Colonnello De Vecchi di Favara, alla squisita cortesia dei quali dobbiamo le informazioni di cui sopra, assunte nei loro uffici. In atto, il Colonnello cav. Giuseppe, è Commissario Prefettizio. La Stazione di Riesi, che sarà di grande utilità per il commercio delle merci, è al centro della costruente linea ferroviaria. Quando si sentirà il fischio della locomotiva, annunziando “Riesi!!...” il paese godrà dei benefici della civiltà. Colui che per la prima volta verrà in treno a Riesi, se di primavera, affacciandosi allo sportello tra l’olezzo dei fiori e le bellezze naturali, resterà meravigliato, incantato a tanto sorriso di Dio e della natura. Il viaggiatore, dopo avere ammirato la lavorazione della zolfo nelle miniere presso il fiume Imera, ne sentirà il puzzo, e spingendo lo sguardo fino al ponte interprovinciale ne riporterà una bella impressione e siamo certi che racconterà di’ avere visto cose meravigliose. Chi l’avrebbe detto che un giorno queste terre sarebbero state allietate dalla ferrovia? Ah se i governi passati fossero stati più benefici verso di noi, quanti guai ci avrebbero risparmiato! Ma, grazie a Dio, le future generazioni saranno fortunate, sentendo il fischio e vedendo arrivare la locomotiva. Il traffico della ferrovia farà allargare di molto il paese verso quella parte, facendo sperare che sorgeranno bei palazzi, belle case, botteghe e alberghi. La. via, che del resto e larga e lunga, si presta ad un nuovo quartiere di stile moderno. Riesi, messo alla pari degli altri paesi civili del mondo, sarà una cittadina. Manca, ancor oggi, l’acqua potabile abbondante e le fognature. Chi saprà risolvere questo importante, vitale problema, avrà legato il suo nome alla storia e sarà immortalato. I popoli, oltre il pane, le vesti e la casa, hanno bisogno d’igiene per vivere bene: la pulizia dei paesi è indice di vera civiltà. Non è per dare. una lezione a chi ne sa più di noi, ma è per spronare gli altri a far meglio. Lo abbiamo detto sin dal principio e lo ripetiamo ora terminando: il nostro paese ha sempre progredito. Se venissero i nostri primi padri - non diciamo quelli dell’epoca primitiva, nè quelli del secolo XVII, nemmeno i vissuti fino al 1850, ma quei dal Risorgimento in poi - crederebbero di sognare vedendo il piano della Madrice, la Piazza Garibaldi mattonata, il palazzo della baronia comprato dall’ing. F. Turco, ricostruito di nuovo, con la bella, imponente e maestosa prospettiva; la sagrestia e la casa d’abitazione del sagrestano Mulè, trasformata in casa canonica; l’asciugatoio eretto nel palazzo del duca; più in là, la casa della Principessa, e sul carcere vecchio sorta la bella casa dell’ing. F. Drogo. E i bei prospetti attorno la Piazza Garibaldi circondata di alberi? I corsi e le vie principali lastricati? Che direbbero al sentire che in due ore si giunge a Caltanissetta, e che in una giornata si può andare e.tornare? Che non ci sono più quelle carrozze, ma bensì automobili? E che il fiume non è più di spavento? La vita quindi, da un secolo a questa parte, ha di molto migliorato. Lo zolfataio, gli operai, non frequentano tanto le bettole, ma i tre caffè-bars, fra i quali primeggia il gran caffè Giannone, e tutti vanno vestiti bene. Anche le donne vestono all’ultima moda di Parigi, e vanno in giro, per le vie, sole. Le scuole, sia comunali che evangeliche, sono frequentati da scolari d’ambo i sessi, vispi, intelligenti, studiosi, buoni. L’istruzione e il lavoro, hanno fatto crescere la gioventù della nostra generazione di un’altro tipo. Col fascismo poi, in quest’ultima epoca, i delitti sono ,diminuiti: i furti del 41 per cento e i delitti di sangue del 67 per cento. L’Opera Nazionale Balilla, istituzione scolastica del piccoli educa questi agli esercizi ginnici, al canto e al lavoro. L’Associazione delle madri e vedove di guerra; l’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia per i bimbi poveri; l’Istituto Nazionale di Previdenza per la pensione in vecchiaia; la Milizia Volontaria fascista, ed infine il campo sportivo per il giuoco del calcio che attira i tifosi a veder giocare; tutte queste belle istituzioni sono sorte ai nostri giorni. Per i nostri avi tutto ciò sarebbe come un sogno, ma per noi è una realtà vissuta e provata. Concludendo ci auguriamo che in avvenire sarà ancora meglio. Coloro che verranno appresso di noi, godranno maggiori benefici di questi, perché si dice: “L’uno semina e l’altro raccoglie”. Riesi, risorta a vita novella, come la favola della Fenice la quale, bruciandosi dalle sue ceneri, ottiene vita più rigogliosa, piena di vitalità, è un paese di 22 mila abitanti che accenna a diventare città. Come per il passato. in tre secoli di vita attiva, il lavoro e l’ingegno ci hanno portato a questo punto, così nell’avvenire il lavoro, sorgente di pace, di prosperità e di felicità, farà il resto. Il progresso in tutte le cose non si arresta mai; ma bisogna ammettere che si deve progredire anche nella morale, base della vita. In questi ultimi anni di nostra esistenza, abbiamo avuto due fattacci specifici che ci hanno degradato molto di fronte agli altri paesi della Sicilia; ma essi fatti singolari, che sano passati alla storia, speriamo che non si ripeteranno mai più, per la giusta Nemesi, cioè il castigo che hanno avuto, per servire di lezione agli altri. Del resto ogni regola ha la suaa eccezione: non si può condannare un popolo per pochi degenerati. Il fatto del brigante Francesco Carlino che da giovane, gettatosi alla macchia, dal 1920 al 1922 diede filo da torcere alla Pubblica Sicurezza dell’Isola, da additarsi come autore di tanti delitti; egli perseguitato ricercato dalla giustizia umana, venne arrestato in una casa sul poggio della Croce. Inserragliatosi dietro una bestia, fece fronti ad una compagnia di soldati e carabinieri, guidati dal Questore Mori da Trapani, il quale, prima di ordinare il fuoco contro la casa mandò a chiamare la madre dinanzi la quale il brigante generosamente si arrese. Fu condannato ad anni 30 di prigione, ma evadendo, si recò in Francia, per potere salpare per l’America. In Francia commise un’altro delitto Per il quale fu condannato a 15 anni. Mentre scriviamo, lui sconta la pena alla Gajenna. “Godo buona salute, apprendendo il mestiere di calzolaio” scrive in francese alla madre. L’altro fattaccio orribile, che fa orrore al solo pensando, è il delitto avvenuto nella miniera Tallarita il 21 Giugno 1931. E’questo delitto passibile della pena di morte, di cui Riesi ebbe il primato con la nuova legge, fa spavento. Ricostruendo l’orrendo delitto dei nostri giorni ci trema i penna a narrarlo succintamente: il ragazzo tredicenne Zuffanti Salvatore, lavorava da manovale col muratore Gaspare Calafato, giovane promesso sposo 24 anni da qui. Fatta la mezza giornata antipomeridiana nell’andare a prendere un boccone con un certo Giuseppe Mignemi da Canicatti, vecchio arnese da galera, si trascinarono l’innocente fanciullo in fondo ad un corridoio esterno della miniera. Dopo aver mangiato lo legarono con una corda e lo violentarono; non contenti di ciò, temendo che il ragazzo parlasse, gli stroncarono la nuca e lo lasciarono cadavere. Terminato il lavoro nel pomeriggio, il Calafato ritornò in paese, facendosi vedere. La famiglia del ragazzo si mise a cercare il figlio senza poterlo ritrovare. La notte i due delinquenti, al lume di una candela, andarono a gettare il cadavere nel fiume, credendo che la corrente se lo dovesse trascinare. Ma l’indomani mattina si vide il morto galleggiare nel gorgo. Denunziato il caso alla giudiziaria, vi accorse la P. S. e il dott. Giuseppe Celestri. Tolto il cadavere, dall’autopsia risultò tutto lo sfregio fatto al povero corpo. Subito furono arrestate le due belve umane, che sulle prime negarono, ma poi il Mignemi confessò, mentre il Calafato si mantenne sulle negative. La popolazione messa in movimento, imprecava contro i malfattori; la stampa italiana giustamente ne fece chiasso portando ai quattro venti il delitto di Riesi. La famiglia, i parenti erano inconsolabili. Chi non ha cuore non si commuove a tanto sfregio; ma il cuore la abbiamo tutti; crediamo che anche gli animali e le pietre si commuovono. Alle Assisi di Caltanisetta, i giudici furono inesorabili, condannandoli alla pena di morte. Però nel l’eseguirla solo il Mignemi all’alba del Gennaio 1932 fu giustiziato; mediante fucilazione alla schiena, da un plotone di Metropolitani romani appositamente inviato, mentre il Calafato, all’ultimo momento la pena di morte gli fu commutata in ergastolo, essendosi egli mantenuto sempre sulla negativa, e perché era il primo caso. Al Cimitero del nostro paese l’effigie del giovanotto Zuffanti Salvatore mostra ai posteri il misfatto orribile di Mignemi e Calafato. Abbiamo detto e insistiamo che c’è bisogno della morale nella vita degli individui per agire bene, onestamente, coscienziosamente ma questa morale dev’essere religiosa. Il sentimento religioso tiene alto il morale e la dignità della vita; mancando questo, manca la base di un popolo. Giuseppe Mazzini, l’apostolo della libertà italiana, scrisse, ed à con queste parole che vogliamo provare il nostro assetto: “Il pensiero religioso dorme nel nostro popolo: chi saprà suscitarlo, avrà fatto più che non con tante scelte politiche”. Infine. dandovi o lettori la nostra storia di Riesi nelle vostre mani, immedesimatevi con noi, leggetela, commentatela divulgatela. Chi fummo, chi siamo la storia ce lo insegna: le generazioni avvenire sapranno almeno un riassunto del passato del nostro paese. FINE ** Torna su **Chi indugerà sul capitolo della MITRAGLIA avrà un sussulto: ecco la dimostrazione che Messana c'era - avrà voglia di gridare. Calma! Questa microstoria è del 1934. 15 anni dopo gli eventi. L'autore è un pastore valdese alquanto condizionato dalla sua fede e dalla necessità di non contrapporsi troppo all'ormai consolidato regime fascista. Non credo che atti processuali relativi a faccende tanto scabrose potessero venire consultati agevolmente. Già il fatto che si sbaglia la data dei fatti narrati la dice lunga. Quel parlare di un Delegato di Polizia e non farne il nome mette in sospetto. Era proprio un delegato. E chi era codesto delegato? Come si fa a dire che era Ettore Messana; nelle cronache coeve del Giornale di Sicilia e dell' Ora si pala di delegati di polizia, ma vengono tutti citati e Messana non figura. Aggiungasi che la versione di ben tre persone che in contemporanea mettono il dito sul grilletto della mitraglia non è per nulla credibile. Guarda caso di tutti e tre codesti operatori non si fa il nome. Ma almeno il graduato dell'esercito che peraltro dopo ci ha rimesso la vita, era ben noto. Leggendo quindi controluce noi perveniamo alla convinzione che lì a Riesi in quel frangente Messana non c'era. Dopo cercarono di scaricare su di lui responsabilità non sue. Tentativo subito fallito. Messana Non ne ebbe nessuno strascico men che meno giudiziario, nonostante un generale dei carabinieri per sollevare da responsabilità la sua benemerita arma avrebbe fatto le carte false pur di sviare i sospetti dai carabinieri implicati. CERTO I FATTI DI RIESI FURONO GRAVI GRAVISSIMI. VI FU PURE IL TENTATIVO RIUSCITO PER ALCUNI GIORNI DI ISTITUIRE UNA SORTA DI REPUBBLICA COMUNALE INDI PENDENTE. Eppure anche in un testo ponderoso e ponderato quale - LE REGIONI-LA SICILIA di Einaudi, uno storico del valore di Salvatore Lupo non vi si sofferma. Vago, elusivo. se un accenno fa ai fatti di Riesi, non va oltre questo asettico passo: "simile fisionomia aveva pure lo schieramento che nel Nisseno sosteneva Ernesto Vassallo nel riuscito tentativo di contrastare il 'prominente' giolittino della zona, Rosario Pasqualino Vassallo" personaggio questo che invero troviamo nelle cronache di quei terribili giorni successivi al famigerato 10 ottobre 1919. Certo invece di volere criminalizzare a tutti i osti un giovane vice commissario ci si fosse in questi anni 'avalutativamente' industriati a svelare i segreti storici di quei tempi ne avremmo guadagnoto tutti, soprattutto quelli come me che amiamo la schietta verità storica.
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