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martedì 24 febbraio 2015

Elio Lo Bello, io ed Eugenio Napoleone Messana: IL CALVARIO DI RACALMUTO

Lo ammetto, stanotte ebbi a provar gusto satanico ad aggredire MALGRADO TUTTO che spande spazio ed inchiostro per consentire ad un baldo narratore agrigentino di rifarci a modo suo il raccontino romanzato di una emblematica, ipostatica nostra pagina di storia ottocentesca.
Non è molto che il validissimo Nino Vassallo riscrisse l’altro ribellamento popolare, quello dell’abbruciamento dei nostri civici archivi  comunali nel 1861 - invero tutti pensiamo - per non mandare sotto la leva i propri figli “iurnatara”.
Titolo ammiccante: la guerra delle tre Croci. Soggetto inquietante: Militari venuti da Roma  per sparare su una pia folla in rivolta contro Savatteri sindaco che era come dire contro i Matrona, che quindi grandi benefattori della cittadinanza,  la cittadinanza, giustamente , non riteneva.
 
Più addentro alle segrete cose paesane, il nostro E.N. Messana chiosa invece: “L’abbattimento del calvario scosse il sentimento religioso della popolazione. Il clero che mal tollerava il sindaco massone, vi speculò sopra appofittando dell’ignoranza della gente.”
Massone  il sindaco Gioacchino Savatteri? In gioventù senza dubbio. Era un antenato dello stesso storico Messana e quindi nulla ci vieta di pensare che Eugenio cerchi di nobilitare questo suo ascendente per il so noto vezzo del culto della propria famiglia.
 Eugenio ci assicura che “Gioacchino Savatteri nacque nel 1830 da Gaetano  [antenato del nostro grandissimo TANO] e Maria Antonia Grillo. Studiò a Girgenti prima ed a Palermo legge, ove si laureò brillantemente. Fu massone e repubblicano, contribuì all’avvento garibaldino, convertito alla necessità monarchica, aderì al partito progressista, dedicò la vita alla politica amministrativa, collaborando Gaspare Matrona”.
 
Ci corre vaghezza qui di sottolineare espressioni  come “convertito alla necessità monarchica” (trasformista, insomma) e  ”collaborando Gaspare Matrona” come dire divenendone un sodale subalterno. E il povero Gioacchino – secondo nostre percezioni – trafugò fondi comunali per sovvenzionare anche il decaduto Matrona  pagandone lo scotto con un processo per malversazione che ancora si deve concludere.  Ma così andavano e vanno le cose a Racalmuto. Spero solo che l’attuale sindaco credendo essere suo obbligo tappare i buchi di altri non finisca pure lui come quel suo ottocentesco parente.
Il Messana E.N. questo periodo ce lo traccia alquanto puntualmente. Sogiunge.”Durante la quaresima del primo anno in cui il Calvario non c’era più, cioè il 1885, il contadino era preoccupato per una crescente siccità”. L’eloquio del Messana è sempre singolare: estroso questo considerare una siccità “crescente”.  Aggiunge il nostro conterraneo storico: “L’arciprete Tirone in una predica ebbe il coraggio di dire che era inutile sperare la pioggia perché Cristo, offeso per l’abbattimento del Calvario, non ne avrebbe mandato più e quindi né fave, né grano, si sarebbero raccolte [sic] quell’anno. Gli anni ’80, come vedremo, erano stati anni difficili. Il commercio zolfifero in crisi e gli zolfatai  immiseriti. Il lino che era stato una cultura molto redditizia per il paese, tanto che nel 1878 con nota N. 670 del  27 agosto mandata al prefetto, l’assessore Paolo Matrona aveva informato d’aver dato mediocre raccolto con tono allarmante per l’economia civica [Ar, St, Ag. 31 -1], era diventato antieconomico a conseguenza dell’invasione del mercato delle stoffe del nord. Non rimanevano perciò che fave e grano a far sperare il povero agricoltore. La predica dell’arciprete scosse il popolo e lo chiamò alla rivolta. Un pauroso tumulto si levò allorché per la pioggia che continuava a mancare le piantagioni cominciarono ad ingiallire. Il popolo scese in piazza a gridare:
                 «Vuliemmi la Santa Cruci,
                 ma si nno  nun chiovi
                lu Munt cravariu s’avi a rifari
               sanno semmu muorti di la fami. » 
…………”
 
Il grande Giovanni Salvo che è cultore delle rime vernacolari d’altri tempi credo che non disdegnerà questo richiamo. Certo qui siamo a un verseggiare popolano, ma una dignità espressiva mi pare che ce l’abbia.
 
Sempre il Messana continua: Intervenne il delegato in fascia per sedare il disordine, ma invano. La massa dei rivoltosi si diresse alla chiesa del Monte e di là si mosse per fare la via della processione del venerdì santo, giungere al posto del Calvario, mincciando di divellere il selciato della strada già costruita per riedificarvi la base della Croce. L’accortezza del delegato, che promise di interessare le autorità  superiori perché imponessero la ricostruzione del sacro luogo, non ebbe l’effetto voluto.  La dimostrazione si sciolse  quando il delegato fece squillare tre volte la tromba e minacciò la carica contro la popolazione tramite le truppe  che fece accorrere subito da Agrigento. Questo avvenimento è stato fissato al ricordo dei posteri con un canto popolare e vivace nel buon dialetto indigeno, che i vecchi ancora ripetono alle attuali generazioni ( Appendice XXII – La canzuna di la Santa Cruci .
«L’ariu s’anniurì tuttu d’azzaru
P’ognannu si dicia mancu chiovi,
s’avia affirratu a vidiri la fami
e comu è veru sta iurnata d’oi
frummientu un si nasciava p’accattari
ognunu avia mala pinioni
‘N prubicu l’arcipreti  pridicani
Si n si minti la Cruci mancu chiovi
A sti paroli si misuru ‘n pinsieri
Tuttu lu populu ‘incominzià a gridari
Curriva ognunu pi ‘n esseri darreri
Uni è la cruci jammula a pigliari
Lu Diligatu cu liu bigaridieri
Vidinu passari tanti cristiani,
iddu ci dissi jammuci videni
ca s’è murata la jammu a llavancari
A l’arrivata nni ddu bellu chianu
Si ferma lu diligatu ed arridiu,
la fascia si stringi di S. Innaru
ca ddu fracassu ci paria un sbriu.
Allavancammu stu munti cravariu
 
Ca pi sta sira  lu Diu sugnu iu
Di quanti rocchi ci ni scarricaru
Ca iu mancu assicurallu vi lu pozzu
Na vanedda ci n’era china china
E di la genti nun si putia passari
Na fimmina vinia cu la lancedda
Nissunu  …… (continua nella foto) »
**********
A noi vien qui di fare un richiamo scolastico, liceale. Pensiamo alla Agrigento di oltre un paio di millenni fa. A Cicerone, a Verre, ad un analogo episodio ma di stampo stavolta pagano, seppure religioso. Se volgiamo lo sguardo al bel tempio di Ercole, ripassiamoci questa pagina delle verrine e poi magari diremo che questo splendido lembo di paradiso - allargando il concetto del Bufalino - che dalla Valle dei Templi si spande sino alle negletta landa della presicana Grotta di Racalmuto e sia pure in tradizione volgare sussurriamo:
"Vi è in Agrigento, non lontano dalla piazza, un tempio di Ercole, di grande santità ed assai venerato. In esso è custodita una statua bronzea appunto di Ercole, di cui difficilmente potrei dire di aver visto cosa più bella - per quanto io non m'intenda gran che di queste cose, rispetto al gran numero di opere che ho visto -, al punto che, o giudici, la bocca e il mento sono un pт consunti, poiché nelle loro preghiere e rendimenti di grazie i fedeli sogliono non solo venerarla ma altresì baciarla. In direzione di questo tempio, mentre Verre si trovava ad Agrigento, all'improvviso, nel cuore della notte, si dirigono per attaccano dei servi armati sotto la guida di Timarchide. Sentinelle e custodi danno l'allarme; tentano dapprima di resistere in difesa, ma sono ridotti a mal partito e respinti a colpi di mazza e bastone. Quelli allora, divelti i chiavistelli e sfondate le porte, cercano di tirar giù la statua, servendosi di leve per smuoverla. Frattanto in seguito a quelle grida si divulgò la notizia che si dava l'assalto agli dèi della patria, e non per l'arrivo inaspettato di nemici né per l'improvviso attacco di predoni, ma che dalla città e dal seguito del pretore era mossa una schiera di malviventi armata di tutto punto. Non ci fu in Agrigento nessuno, né tanto vecchio nй tanto debole, che quella notte non balzasse in piedi svegliato a tale notizia, e non afferrasse la prima arma che il caso offriva. In breve tempo, quindi, si accorre in massa al santuario da tutta la città. Già da più di un'ora un gran numero di persone si affannava a tirar giù la statua; ma questa intanto non vacillava da nessuna parte, sebbene alcuni cercassero di smuoverla facendo forza da sotto con leve, ed altri, legatala per tutte le membra, si sforzassero di tirarla a sé con le funi. Ed ecco che arrivano di corsa quelli di Agrigento; ne nasce una gran sassaiola; i soldati di codesto eccellente generale notturno si danno alla fuga. Nondimeno portano via due piccole statuine, per non ripresentarsi del tutto a mani vuote a codesto predone di oggetti sacri. Per i Siciliani non va mai tanto male che non trovino da dire qualche battuta di spirito ben appropriata: in questa circostanza dicevano che tra le fatiche di Ercole si doveva annoverare non meno questo crudelissimo verro che il famoso cinghiale d'Enimanto». 
 *********
 
Ma forse – fatte le dovute proporzioni -  può adattarsi anche a me, alla mia mania di fare lo storico pur provenendo dalle aride letture di bilanci in partita doppia di bancaria fattura, l’esordio ciceroniamo delle VERRINE:
 
Contro Verre – Cicerone
Testo

"Se qualcuno di voi, o giudici, o del pubblico qui presente, per caso si meraviglia che io, mentre da tanti anni mi sono occupato di questioni civili e penali difendendo molti e non attaccando nessuno, ora, all'improvviso, cambiato sistema, mi metta ad accusare, se considererò le profonde ragioni della mia decisione, approverà il mio agire e penserà che, senza dubbio, in questo processo, nessuno dev'essere a me anteposto in qualità di pubblico accusatore. Io fui in Sicilia come questore e ripartii da quella provincia lasciando in tutti i Siciliani un caro, indelebile ricordo della mia questura e del mio nome. Essi pensavano che il più valido appoggio per i loro interessi lo avevano, si, in molti protettori di vecchia data, ma, un po', anche nella mia persona. Ora essi, spogliati e rovinati, più di una volta sono venuti ufficialmente da me a pregarmi di voler accettare il patrocinio dei loro interessi. Mi ricordavano che più di una volta io avevo promesso, piщ di una volta io avevo assicurato che, se, all'occorrenza, avessero voluto qualcosa da me, non sarei venuto meno ai loro interessi. Dicevano ch'era venuto il momento di difendere non i loro interessi, ma la vita e la salvezza di tutta la provincia; ormai essi, nelle loro città, neppure gli dei avevano cui ricorrere, dato che le loro sante immagini Gaio Verre le aveva portate via dai santuari più venerati. Ciò che aveva potuto compiere la sua sfrenatezza nella cattiva condotta, la crudeltà nell'eseguire condanne, l'avidità nelle ruberie, la tracotanza nell'offendere, tutto essi, sotto la sua sola pretura, l'avevano subito per tre anni. Vivamente dunque mi pregavano di non respingere le preghiere di quelli che, finchè c'ero io, non dovevano a nessuno rivolgere le loro preghiere.
Vivamente mi dispiaceva, o giudici, di essere condotto in quella situazione: o dovevano restare delusi quegli uomini, che si erano rivolti a me per aiuto, oppure, mentre io fin da giovane m'ero dato a difendere, dovevo, per le circostanze e per dovere d'ufficio, mettermi ad accusare.…………………..
Quindi mi assolva il bravo, brillante ed informato ELIO DI BELLA ospite geniale di Malgrado Tutto, se mi sono aggrappato alla sua rievocazione per i miei svolazzi a girotondo.
 
Calogero TAVERNA

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