Profilo

lunedì 23 febbraio 2015

Il fascismo si consolida a Racalmuto


PARTE SECONDA

L’AFFERMAZIONE DEL FASCISMO A RACALMUTO

 

 

Il QUINQUENNIO 1926-1931

 

L’antifascismo a Racalmuto.

I paradigmi della società contadina meridionale quali si colgono nella letteratura antifascita di Levi (Cristo si è fermato ad Eboli) o di Ignazio Silone (Fontamara) non trovano riscontri significativi nella vicenda racalmutese che pure si dispiega tutta in un contesto di contadini e di piccoli proprietari terrieri. Quel che emerge maggiormente è il diverso livello di vita ed il più variegato assetto sociale.

Ci pare esplicativa, invece, del modo di pensare dell’intera comunità nazionale questa pagina de IL CONFORMISTA di Alberto Moravia, espunta ovviamente delle particolarità narrative. Era sorta a Racalmuto, come altrove, una sorta di “simmetria” tra il modo di pensare del singolo ed il fascismo divenuto regime: «come qualcuno che, arredando la propria casa, si preoccupi di collocarvi mobili tutti dellom stesso stile.» «Questa simmetria, [ad ognuno] pareva di leggerla nei fatti degli ultimi anni, in progressivo accrescimento di chiarezza e di importanza [..] Questo progresso [..] piaceva, non [si] sapeva perché, forse perché era facile ravvisarvi una logica più che umana e saperla ravvisare dava un senso di sicurezza e di infallibilità. [..] Questa convinzione era venuta dal nulla, come  è da credersi che venga alla gente ignorante e comune; dall’aria, insomma, come si intende quando si dice che un’idea è nell’aria. [..] Per simpatia, insomma, dando a questa parola un senso tutto irriflesso, alogico, irrazionale. Una simpatia  che si poteva dire soltanto per metafora che veniva dall’aria [..] Questa simpatia, dunque, veniva da zone più profonde [..] non era né superficiale, né abborracciata irrazionalmente e volontariaemnte con ragioni e motivi opinabili, ma legata ad una condizione  istintiva e quasi fisiologica, ad una fede, insomma, che [si] condivideva con altri milioni di persone. [Si] faceva tutta una cosa sola con la società e il popolo in cui [ci] si trovava a vivere. [..] [Si] era uno di loro, un fratello, un cittadino, un camerata..»a

Massimo Ganci - un uomo di sinistra e quindi piuttosto prevenuto nei confonti del fascismo - non ha molto da dire sul periodo che a noi interessa e nella sua “Sicilia contemporanea” affidata alla ponderosa inziativa del 1979 della Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, si limita ad annotare:

«Dopo le elezioni e la vittoria fascista del ‘24, il quadro cambierà completamente: l’appoggio della mafia diverrà, infatti, deliqualificante e inutle. A mantenere l’ordine nelle campagne e ad accattivarsi i grandi terrieri, non era più necessaria l”onorata società”; poteva farlo, e molto meglio, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Anzi, per accattivarsi ancora di più il ceto dei latifondisti ed anche quello dei piccoli e medi proprietari, bisognava liberare le campagne dei gabelloti mafiosi che impedivano ai signori addirittura il libero accesso alle loro terre e taglieggiavano i metateri e i braccianti.

«Di qui l’operazione Mori, che con sistemi ‘forti’, dal 1920 al 1930, realizzò, nelle quattroprovince dell’isola, una spetata ‘operazione antimafia’; con paesi interi circondati nottetempo da migliaia di carabinieri, con retate gigantesche, con processoni celebrati in chiese sconsacrate, dato che le normali aule della  Corte d’Assise non riuscivano a contenere le migliaia di imputati di associazione a delinquere; il tutto con criteri procedurali piuttosto sbrigativi, che portavano a pesantissime condanne, cui seguiva il confino. I tempi dell’assoluzione per insufficienza di prove, erano tramontati.

«[..] E’ [però] certo che dal 1930 sino al 1943, la tranquillità regnò nella campagna siciliana: per i ricchi, ma anche per i poveri. Di guisa che, se la parola libertà ha un significato concreto e non formale e significa anche sicurezza della vita e degli averi, paradossalmente si deve giungere alla concertante presa d’atto che questo tipo di libertà venne assicurato alle genti siciliane, proprio da una dittatura!

«[..] L’opposizione siciliana al fascismo, durante gli anni 1925-1943 è in gran parte simile a quella di tutta la nazione. Se qualcosa la distinse fu l’impegno minore di quello che caratterizzò altre regioni. Come non era stata all’avanguardia nel favorire l’avvento del fascismo, la Sicilia non lo fu neppure per contestarlo.

«Comunque qualcosa ci fu. Negli anni sino al 25 il dissenso passò attraverso i canali della stampa. Si distinsero per decisione il ‘Babbio’ di Maggiore Di Chiara, il ‘Paff Paff’ di tendenze radicaleggianti, ‘La libertà’ organo dei popolari sturziani (‘La Primavera Cattolica, organo dell’Azione Cattolica siciliana, era invece su posizioni fasciste), tutti stampati a Palermo.» ()

Restringendo il campo a Racalmuto, l’antifascismo nel periodo che c’interessa (1926-1931) fu ben poca cosa: può dirsi inesistente. La letteratura ci fornisce qualche lume. Il solito grande Sciascia ha nelle sue “Parrocchie di Regalpetra” questi deliziosi aneddoti:

«Mio padre si era iscritto al fascio per lavorare: 3 ma credeva in Mussolini anche se non credeva nel fascismo. Un fratello di mio padre non si preoccupava di queste cose; faceva il sarto e aveva per la caccia una passionecosì totale da trascurare qualsiasi altra cosa. [...] Le poche volte che nelle riunioni della sartoria cadeva su Mussolini mio zio diceva - è un diavolo - per dire che si sapeva fare; oppure per dire che era un delinquente - è un gran cornuta - ma sempre senza passione. Una volta aveva un lavorante milite, voleva andarsene a non so che campeggio, mio zio non voleva perché si era sotto le feste e c’era molto lavoro. Quello andò a dirlo al centurione, il centurione fece chiamare mio zio, gli disse che doveva lasciar  libero il lavorante e poi riprenderlo. se no erano guai. Forse da allora mio zio ebbe sul fascismo più appassionata opinione.

«Qualche volta veniva un altro cugino di mio padre. Era ricco. Aveva una voce che faceva tremare i vetri. Oggi è fascista. Allora gridava - ve lo dico io, questo cornuto ci porterà alla rovina. Pensava alle tasse che pagava e diceva - vedrete che ci lascerà nudi, finirà che ci resteranno solo le mani per coprirci il culo. Raccontava poi una storia che solo più tardi sono riuscito a ricostruire. Aveva dato la lira per il monumento a Matteotti e quando più tardi aveva fatto domanda per essere ammesso al fascio, il segretario politico gli aveva detto che il partito non voleva carogne, che gli elenchi di coloro che avevano dato la lira erano nelle sue mani. La cosa colpì; ci si arrovellava. Finché trovò una soluzione: c’era un suo parente povero che aveva cognome e nome uguale al suo; grazie a qualche centinaio di lire gli fece dichiarare, per iscritto e in presenza del segretario politico, che era stato lui, il povero, a dare la lira per Matteotti. Il povero non aveva niente da perdere, magari ad andare in galera gli pareva forse uno scialo in confronto alla vita che faceva.

«Tranne che per qualche piccola invettiva, del fascismo e di Mussolini non sentivo parlare che bene [..] Sapevo che c’erano dei sovversivi, gente che non lovoleva: sentivo parlare di un muratore e di un sellaio, erano socialisti, li mettevano dentro per due o tre giorni e poi li rilasciavano. Passò Farinacci, e il muratore e il sellaio se ne stettero un paio di giorni in camera di sicurezza. Re Boris venne per sposare Giovanna, avevo una cartolina con i due ritratti uniti da un nodo, e i due furono rinchiusi di nuovo. Una volta sentii che avevano messo una bomba al passaggio del re. Poi avevano preso un tale che aveva intenzione di ammazzare Mussolini. Erano cose che mi scuotevano. Odiavo la gente che metteva bombe per il passaggio del re, l’uomo che si portava dietro le bombe per ammazzare Mussolini. E mi pareva strano che non cacciassero per sempre in galera un tipo che sapevo diceva male di Mussolini. Si chiamava Celestino. Dicevano che era stato un debosciato, che non aveva mai lavorato. Era poverissimo, dormiva in uno di quei casottiche un tempo servivano da posti di dazio; sulla paglia, e con la porta sempre aperta. Non aveva camicia, portava solo un vecchio fazzoletto di seta sotto la giacca. Magrissimo, d’inverno vedevi le sue gambe fragili tremare di freddo dentro i leggeri calzoni a tubo. Sempre strozzato dalla voglia di fumare, andava in cerca di cicche più che di pane. Nella banda municipale, un tempo suonava il clarino: e sempre aveva dentro musica, andava fischiettando e agitava a ritmo una bacchetta che non lasciava mai. Lo vedevo scendere ogni mattina, sapevo quale sarebbe stata la sua prima sosta. Era come un rito. C’era nella strada dove io abitavo, un negoziante di stoffe che teneva appesi sugli scaffali ritratti del re, della regina e del duce. C’era anche un Cuore di Gesù col lumino sempre acceso. Il negoziante non amava il fascismo, diceva che Mussolini faceva danno come un porco in una vigna; perciò tollerava la quotidiana visita di Celestino. Il quale si fermava sulla soglia, salutava - bacio le mani, don Cosimo - e poi, guardando il ritratto di Mussolini, diceva - sì, corri pure; ma verrà il giorno che ti vedrò attavvato alla coda di un cavallo. Guardava il re - e tu, cornuto...; e sputava. Dopo una irripetibile attenzione al Cuore di Gesù riprendeva la sua strada fischiettando.

«Non lo mandavano in galera perché sapevano gli avrebbero fatto piacere. Ma una volta un fascista tentò di convincerlo. Parlava e gli dava da fumare. Celestino succhiava avido la sigaretta, e aveva una faccia così intensa e seria che quello credette di aver fatto colpo. Finì il discorso e - sei convinto? Celestino consumò la sigaretta fino a bruciarsi le labbra; e poi - convinto sono, ma il fatto è che se non lo ammazzano non riusciremo a vedere un po’ di luce.

«Si fece il referendum per vedere, dicevano, chi voleva il fascismo e chi no. Si votava nelle scuole. Nel paese non ci fu un solo no. Del resto, l’ultima amministrazione comunale democratica aveva deliberato di dare a Mussolini la cittadinanza onoraria: non sarebbe stato bello dire no a un concittadino tanto grande. Così tutti trovarono il veterinario comunale che dal seggio graziosamente porgeva la scheda con un sì in calligrafia. Non restava che da leccare la colla, chiudere la scheda e ridarla al veterinario. Uno solo, un ex maresciallo delle guardie regie, guastò la giornata al veterinario: sbirciando la scheda con quel sì gliela lasciò in mano, disse - prego, ci sputi lei. E se ne andò tranquillamente. Volevano poi farlo mandare al confino. La frase restò proverbiale in paese, si dice - ci sputi lei - per dire di una cosa che, dichiarata facoltativa, è di fatto obbligatoria.»(4)

«L’ex podestà di Regalpetra [..] godeva di una effettiva popolarità, era stato generoso ed onesto, amministrando il Comune ci aveva rimesso del suo; in tempi di proverbiale rapacità, quest’uomo metteva mano ai suoi soldi per le pubbliche spese, forse nemmeno Mussolini lo avrebbe creduto.» (5)

Oltre a Sciascia, Racalmuto vanta un altro romanziere. E’ per la verità un italo-americano. In un romanzo del 1973 (pubblicato in Italia nel 1976 da Mursia) fa la parodia ad un libro autobiografico (invero illeggibile) di un prete racalmutese, morto a Palermo il 17 gennaio del 1974 (P. Arrigo Giovanni: Svolta pericolosa, Messina 1969) e vi ingurgita una sua dileggiante  raffigurazione dello scrittore Sciascia. Il libro s’intitola “Uomini d’onore - li curnuti”. In un certo senso, si scorre la lettura deformante della vita racalmutese dal fascismo alla democrazia cristiana degli anni ‘60. La vicenda fascista racalmutese viene abbozzata, sia pure con la lente deformante dell’albagia siculo-americano, in termini che vanno qui richiamati, magari per provare quello che sicuramente il fascismo non fu.

«Giufà provò un senso di sollievo e di orgoglio durante il regime del Duce, che diede una nuova realtà alla legge e all’ordine. Le case di campagna erano sicure, ora, e le liti venivano composte in tribunale. Si poteva rimanere in campagna durante la notte e se gli agricoltori tornavano ancora ogni sera nella cittadina, ciò accadeva perché erano soliti fare così, diceva Giufà. Se furti, rapimenti assassinii avvenivano come in passato, essi erano posti a carico, ora, di un misterioso bandito che si celava nelle numerose basse gallerie delle miniere già fallite e inattive. Ciò nonostante, si riteneva che il regime del Duce avesse estirpato dal suolo siciliano le radici di quel cancro ‘che definiva se stesso onorata società’; se ne era così certi come si era certi che esso avrebbe recato onore, potenza e gloria a tutta l’Italia, e fose anche alla Sicilia. [...]

«Ma non ci volle molto perché gran parte di quei giovani fossero levati dalle strade e arruolati nell’esercito, a causa dell’andamento della guerra. Anche Giufà fu arruolato nella milizia, inizialmente come cappellano, per diventare poi centurione dei cappellani; ed ebbe una bella uniforme, con tre galloni dorati, e un berretto ricamato d’oro e d’argento, alto dieci centimetri, con un’aquila romana che stringeva tra gli artigli - se la siguardava attentamente - una croce. Era stato lui a chiede di esservi arruolato . Aveva previsto, come avrebbe poi scritto, ‘la grande trasformazione che si sarebbe verificata nella nostra piccola dimenticata città e che il sangue dell’antica stirpe di Roma si sarebbe fatto sentire ancora una volta’. Gli scolaretti, in camicia nera e berretto con nappina, erano arruolati in eserciti da burla, e armati di un fucile di legno facevano, ogni Giovedì, sotto la guida di un insegnante di nuova nomina venuto dagli Abruzzi, delle marce in campagna. Qui tagliavano foglie di cacto in lunghe strisce che legavano insieme con piccole cinghie di cuoio, poi vi mettevano sopra, alta in mezzo, la testa di un’ascia per indicare l’unità, la legge e l’ordine: la severa umanità di coloro che indossavano la camicia nera. Tornavano poi  nel tardo pomeriggio, cantando lodi alla giovinezza e al Duce, il cui viso era dipinto ora sui muri delle case del paese con il detto: ‘Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora’.

«In quegli anni egli [il sacerdote cui Ben Morreale dà l’improbabile nome di Giufà, n.d.r.] si rallegrò dell’aria festosa assunta dal paese. Tutti indossavano splendide uniformi e il capostazione aveva ricevuto l’ordine d’indossare sempre la sua, che aveva quattro o cinque galloni sul braccio. Il postino, il personale delle ferrovie, il caposquadra delle miniere, gli impiegati, gli amministratori, tutti possedevano l’uniforme ed erano istruiti dal capo centurione, un uomo grande e grosso che diceva loro con voce severa, mentre stringeva le mascelle e li guardava con occhio truce: - Dobbiamo salutarci reciprocamente, ovunque l’uno veda l’altro. Capito?

«Il capostazione sogghignava ogni volta che salutava Giufà e quando era al circolo dei nobili alzava il braccio per salutare e poi lo ripiegava di colpo sull’altro emettendo con la bocca un suono osceno: era un residuo del principio a cui si ispiravano gli uomi d’onore: qualsiasi autorità, che non fosse la propria, doveva essere messa in ridicolo.» (6)

Senza veli e con pretese di resoconto storico, si dilunga sul periodo fascista l’altro autore racalmutese: Eugenio Napoleone Messana. Stralciamo vari pasi passi dal suo lavoro: «Racalmuto nella storia della Sicilia».

«Nel 1925 si fece la mascherata delle elezioni politiche italiane (6 bis) messa in scena dal duce. Malgrado il clima terroristco in cui si svolse la campagna elettorale e la precisa sensazione che le cose potevano solo mutare in meglio per il fascismo, Eduardo Romano ed i compagni comunisti di Racalmuto ebbero l’abilità di raccogliere circa quattrocento voti. Questo fatto impressionò i dirigenti del fascio locale e contribuì ad evitare persecuzioni feroci, per tema di generare vittime, che poi avrebbero potuto essere causa di disordini gravi. Non osarono nemmeno, infatti, provvedere con mezzi palesi contro Edoardo Romano, per quanto avvenuto in teatro giorni dopo, durante la serata inaugurale del Mortorio, eseguito quell’anno da una filodrammatica locale, nella quale primeggiava Giovanni Agrò. (7 ) In quella serata era andato a teatro pure Edoardo Romano, perché la sorella signorina, con la quale conviveva, era stata invitata dalle sorelle di Leonardo Abramo ad andarci ed aveva accettato. Edoardo Romano non aveva trovato posto nel palco ov’era la sorella con le Abramo e si era seduto in platea. Prima di cominciare lo spettacolo l’orchestra suonò ‘Giovinezza’, l’inno fascista. Tutti i presenti scattarono in piedi e si tolsero il cappello. Edoardo Romano rimase seduto col capo coperto ed il sigaro in bocca. L’insegnante Emanuele Cavallaro, don Niniddu, gli si avvicinò e con tono categorico gli ordinò - Alzatevi, toglietevi il berretto e smettete di fumare!  Il Romano a voce altissima rispose - Non mi alzo, non mi tolgo il cappello e non smetto di fumare! A questa risposta don Cesare Macaluso gridò da un palco - Arrestatelo, arrestatelo! I carabinieri in servizio si erano mossi, ma il popolo scattò a gridare - No, No! L’avv. Carmelo Burruano intervenne e frenò i carabinieri, dicendo di lasciare perdere se non non si sarebbe potuta più fare la recita. Non passò molto tempo però e Romano ebbe perquisita la casa. Non trovarono niente, solo dei proiettili da caccia ed un fucile. Lo denunziarono per detenzione non autorizzata di armi e munizioni, subì un processo, lo difesero Cesare Sessa, Vincenzo Campo e Cigna, in pretura fu condannato a due mesi e quindici giorni, in appello assolto per insufficienza di prove. (8 )

«Le elezioni ebbero il risultato che dovevano avere. L’onorevole Angelo Abisso conseguì dei grandi meriti in quest’occasione. Il 31 gennaio 1926 Curatola infatti deliberò la spesa di L. 50 di contributo ad una medaglia d’oro, che la Sicilia aveva deciso di offrire a questo deputato in segno di gratitudine per aver fatto le ossa al fascismo nella regione. Più avanti lo stesso commissario deliberò ancora L. 200 di contributo alla federazione dei fasci di Girgenti. Inoltre diede l’incarico all’ingegnere Giammusso di Girgenti per redigere il progetto particolareggiato di una rete fognante generale da costruire a Racalmuto e arrivò a deliberare L. 300 di acconto per tali lavori.

«La mascherata elettorale del 1925 si organizzò pure a Racalmuto in occasione delle ultime elezioni amministrative, prima della costituzione della dittatura, o meglio durante le more per la sua solidificazione. L’assassinio dell’onorevole Giacomo Matteotti, capo dell’opposizione, aveva scosso la nazione. Il fascismo era lì per cadere e sarebbe caduto se fosse intervenuto il re in difesa dei diritti statutari del regno e contro la violenza, la criminalità e l’assassinio e se l’opposizione non comunista avesse fatto appello alle masse, invece di ritirarsi sull’Aventino in inutili discussioni. Mussolini allora diede la parvenza di rientrare nella legalità convocando alle urne il popolo, prima per le votazioni politiche, poi per le amministrative. Si trattò di sola parvenza, sia per la legge Acerbo che truffò la maggioranza in pro del partito di governo, sia perché le elezioni avvennero sotto il controllo bieco delle squadracce e dei manutengoli assoldati dal fascio. Le persecuzioni, gli arresti, le violenze, le intimidazioni avevano, fin dalla conquista del potere operata da Mussolini, in combutta con Vittorio Emanuele III di Savoia, costretto al ritiro dall’agone politico le forze più genuine del pensiero italiano e siciliano. La repressione della delinquenza era servita come pretesto per reprimere gli esponenti dei vari partiti, coinvolgendoli nelle inchieste e nei processi o a diritto o a torto. (9)

«Ad Agrigento il prefetto Mori aveva di già fatto sentire di che erba si fa la scopa a tutti i liberi pensatori della provincia. Fingendo di lottare la mafia, che invece eludeva, com’è suo costume i processi e passava dalla presenza palese alla presenza nascosta nella vita pubblica, Mori era finito con l’abbattere il prestigio di vari uomini politici e disperdere i seguiti elettorali. In questo clima nel 1926 si votò a Racalmuto, ma per chi?

«Per i fascisti che, dopo essersi fusi coi nazionalisti locali, come avvenne in parecchie parti del regno, fecero un’unica lista. Si presentò una sola lista, la fascista. Gli altri si ritirarono e si misero in posizione di attesa. Non ci fu da preoccuparsi o affaticarsi. Essendo una lista la vittoria era sicura, di campagna elettorale democratica non ce n’era di bisogno. Bastava che si votasse, tanto il voto, andava sempre a loro. I democratici del paese risero di sdegno allorchè si accorsero che si doveva votare solo per una concentrazione di candidati, quella ad ispirazione e composizione fascista. Il listone aggiusta tutto, fu definito.

«Il 18 luglio 1926, alle ore 12 si insediò il consiglio eletto da questa pseudo votazione. Risultarono consiglieri il dottor Enrico Macaluso, il dottor Achille Vinci, Oreste Cavallaro, Carmelo Rosina, l’avv. Baldassare Cavallaro, Luca Giuseppe Brucculeri, l’ins. Giuseppe Mattina, Giuseppe Tulumello, l’avv. Camillo Vinci, Antonino Restivo Ardilla, Salvatore Sbalanca, Carmelo Romano, Calogero Scimè Giancani, Giovanni Salvo, Giovanni Farrauto, Cav, Alfredo Falletti, Giuseppe Cinquemani, Giuseppe Sardo, Calogero Burruano, Luigi Casuccio, Pietro Buscarino, Luigi Nalbone, Andrea Petrone, l’avv. Salvatore Picone, l’ins. Antonio Muratori, Alfonso Puma, il dottor Calogero Burruano. Sindaco fu eletto, con 18 voti su 29 presenti, il dottor Enrico Macaluso. La giunta fu così composta: Baldassare Cavallaro, Giuseppe Mattina, Salvatore Picone, il dottor Achille Vinci, Giovanni Farrauto ed Antonino Restivo Ardilla. Il dottor Enrico Macaluso in tale data iniziò la sua epoca nella vita pubblica ed amministrativa di Racalmuto. Dico epoca perché tutto il periodo fascista, da allora in poi e fino al’arrivo degli alleati, porta la sua impronta.

«Chi era Enrico Macaluso lo sappiamo da quando al seguito di Marchesano abbiamo visto muovere la politica in questa famiglia ed eleggero suo fratello Vincenzo, il farmacista vecchio, consigliere comunale. [...]

«Gli antifascisti o i discendenti dei vecchi esponenti della politica paesana che, o per dignità propria, o per semplice disavvedutezza non prestarono l’omaggio deferente a lui, mentre imperò, la pagarono cara. I Greco, cordai, dovettero trasferirsi altrove, non poterono facilmente ambientarsi commercialmente, fallirono e si ridussero all’elemosina. Salvatore Greco inteso Cinniredda dovette fuggire. Riparò in America, precisamente nella Virginia. Là organizzò il partito comunista e gli operai nel sindacato rosso. Si fece un nome dirigendo lotte terribili contro il padronato. Subì un attentato e rimase ferito alla testa. Si salvò la vita per miracolo. I Figliola si sparsero per la provincia perché per loro non ci fu più pace a Racalmuto.

«Luigi Scimè, figlio del dottor Nicolò, per aver dato la famosa lira per la corona a Matteotti, mentre sosteneva un concorso, al secondo scritto, venne invitato a lasciare la sede di esami e tornarsene a casa. Coloro chelo privarono di un diritto, non più tale sotto il tallone fascista, risposero al giovane che chiedeva perché lo mandavano via, di andarlo a domandare al suo paese. Eloquentissima allocuzione. Un Cavallaro vinse il concorso di Commissario di pubblica sicurezza ma non potè essere nominato per cattive informazioni date dal paese. Don Michele Di Naro, il vecchio socialista, accerchiato dalle persecuzioni, in un momento di scoraggiamento si suicidò, buttandosi sotto il treno. Era costui una persona intelligentissima, poeta felice in vernacolo, lasciò la moglie e l’unico figlio nella miseria. Vincenzo Vella fece una colletta e  comprò alla vedova una macchina per fare calze.

«Gli arresti e le condanne per gli indizi fondati più sui rapporti personali con lui che sulla probalilità o capacità di reato riempirebbero pagine e pagine se si dovessero riportare e ridesterebbero rancori ormai sopiti dal tempo. Basti pensare che era pericoloso andare a comprare medicine in altre farmacie, significava ripercussioni nel lavoro o nella vita privata; non salutarlo incontrandolo valeva dar conto di sè alla milizia o ai carabinieri, sotto forma di sovversivismo o altro aggeggio del genere. Quando decise, per esempio, di ordinare ai contadini di non rientrare più con l’aratro legato alla mula e l’asta che strisciava per terra, perché il rumore lo disturbava, Nicolò Schillaci, ogni sera, cominciò a rientrare in paese con l’asta dell’aratro alzata e la portava a mano fino a quando arrivava a casa., tanto erano grandi il rigorismo e la paura che incombeva don Enrico sulla popolazione. Trovò qualcuno però che gli diede filo da torcere, anche se pagò bene le sue bravate. Una mattina, il lucchetto del negozio Macaluso si trovò unto di sterco umano e con una scritta attaccata, ove si leggeva:

«Qua la faccio/ qua la lascio/ merda al duce/ merda al fascio.

«Il grave oltraggio impose la mobilitazione di tutte le forze per esperire le indagini. Risultò colpevole Giuseppe Collura, lu casinieri, e fu arrestato. Quando lo stavano portando ad Agrigento a San Vito, don Enrico, volle far mostra di un generoso perdono e gli porse una moneta da L. 10, per comprarsi il tabacco in carcere. Il Collura di rimando gliela buttò in faccia. Fu condannato, espiò la pena e tornò in paese. Venne ad essere sospettato di un omicidio, che poi si venne a sapere che non commise per avvenuta spontanea confessione del colpevole a letto di morte, e fu condannato all’ergastolo. Durante il processo andò a testimoniare contro l’imputato don Enrico. L’imputato vedendolo, dalla gabbia gli mollò uno sputo e lo colpì sulla guancia. Allorchè, risultato innocente, il Collura fu scarcerato e tornò in paese, Don Enrico ebbe paura perché il fascio era già caduto e si lasciò assoggettare maledettamente. Collura diceva ‘ma parrinu’ e gli scroccava soldi per vivere, fino a quando trovò una sistemazione decente e cambiò vita. Aveva degli amici don Enrico che gli facevano corona la sera nel negozio all’angolo del corso Garibaldi, e standogli da presso godevano di una illuminata sicurtà, si rischiaravano della sua luce e brillavano di prestigio ed autorità nel paese. Abbiamo presente quel negozio e quelle persone che la sera stavano con un certo occhio a guardare i passanti della piazza con superiorità regale e con l’altra a spiare glu umori del comandante per assuefarsi al discorso ed all’espressione della sua faccia.

«I passanti vedevano quel gruppo con distacco, il distacco della paura per le mezze figure, il distacco dello sdegno per coloro che avevano saputo conservare gelosamente personalità e dignità anche sotto il fascismo. Erano amici di Macaluso gli impiegati del municipio dei tempi, l’ufficiale postale, un falegname, un muratore, Oreste Cavallaro, Luigi Marchese, Giuseppe Mattina, Giuseppe Sicurella, Calogero Rizzo e qualche altro il cui nome ci sfugge. Don Enrico atterrì la popolazione con la sua azione intransigente tanto da fare di Racalmuto un paese senza volto e senza prospettiva, addormentato nella crisi economica, morale e di valori spirituali, rassegnato ad un amaro destino, separato dalla classe dirigente, incline alla soggezione ed all’ipocrita acquiescenza esteriore alla volontà dei tenutari del potere del paese.

«I difetti che produsse il Macaluso nella società racalmutese furono i difetti necessari per potere subire con serenità l’oppressione di una dittatura, quale la fascista, che tendeva a spegnere le volontà agli uomini ai fini di una sola volontà, quella del capo a Roma, come ad Agrigento ed in ogni recondito angolo d’Italia. L’opposizione al regime a poco a poco si affievolì fino a ridursi ai frequentatori di una bottega di merceria, gestita dal sig. Salvatore Giudice in via Matrona, case Tulumello, e gli amici di un barbiere, Calogero Bellavia, inteso Nasone, che aveva il salone in corso Garibaldi, accanto l’odierno negozio di generi alimentari di Carmelo Brucculeri. La merceraia non vendette più perché nessuno vi andava a comprare per paura di essere visto dal podestà. Il salone ridusse i clienti, ma resistette perché divenne il salone dei soli nemici del fascismo. La merceria era chiamata dai fascisti ‘La cucina del demonio’. Don Liddu Nasone fu e rimase indicato come il sovversivo. Il Circolo degli Amici si chiuse in quel periodo perché i suoi soci in maggioranza non si tesserarono al fascio. Nuovi soci non ne entrarono più per paura del libro nero e si esaurì lentamente. Macaluso fu infatti l’uomo del libro nero, lo diceva sempre di annotarsi il nome di chi gli faceva sgarbo, per saperlo colpire al momento opportuno. E siccome faceva sul serio seccava ai più di finire scritto là e si preferiva ingoiare e stare alla larga, quando non si riusciva o non si sentiva di fare il codino come gli altri. Non mancarono i ricorsi contro don Enrico, spesso anonimi, avevano paura di farsi conoscere gli autori, anche se, a dire della gente, si lasciavano individuare e risultavano buoni professionisti con un decoroso passato politico alle spalle. Si attribuì all’avv. Carmelo Burruano un ricorso, l’altro al farmacista Argento.

«Sindaco Don Enrico lo fu poco, perché nel marzo del 1927 si sciolsero tutti i consigli comunali d’Italia ed i comuni furono affidati ai podestà di nomina governativa, che si riduceva a nomina del capo del fascio della provincia. Il podestà  doveva rinnovarsi ogni quattro anni e doveva essere collaborato dalla consulta podestarile nei centri grossi, nominata da lui stesso, a cui venivano conferite le funzioni della giunta comunale. Nei piccoli comuni il podestà aveva facoltà di delegare alla firma un cittadino di sua fiducia per la continuità della vita amministrativa in caso di sua assenza. La prima deliberazione podestarile di Racalmuto, come si rileva dagli atti d’archivio del municipio, porta la data del 9 aprile 1927. Enrico Macaluso fu sindaco per meno di nove mesi, poi diventò podestà per intrigo e raccomandazione di Abisso. Alla firma delegò l’ins. Giuseppe Mattina fu Gaetano il 5 novembre dello stesso anno. Da podestà diede meglio sfogo al suo carattere  singolare, incline al ripicco ed alla vendetta, pronto al pettegolezzo ed implacabile nell’odio e nell’amore, pretenziodo di continue umiliazioni e di sciocche e melliflue deferenze, fanatico e puerilmente capriccioso.

«Se ebbe dei difetti gravi ed incancellabili, ebbe anche dei pregi encomiabilissimi. Fu onesto fino allo scrupolo. Non rubò nè permise che si rubasse. Ebbe sacro rispetto per l’erario e per tutto ciò che fosse patrimonio del pubblico. Non trasse profitto alcuno dalla carica di podestà e di altre che ne ebbe. Fu infatti presidente del Consorzio delle ‘tre sorgenti’ per molti anni, consigliere del Banco di Sicilia, sciarpa littorio del partito nazionale fascista e console del Touring Club italiano. Ebbe amicizia con tutte le autorità del suo tempo, sia civili, sia militari, sia religiose, relazioni che seppe cattivarsi con la sua straordinaria generosità nel donare. Non calcolò interesse pur di emergere e di acquistare rispetti. In questo campo fu tale la sua prodigalità che può dirsi di aver diviso il suo patrimonio, ed era considerevole, alla gente. Nessun racalmutese può vantarsi di non essere stato un suo debitore. A chi andava a comprare medicinali o radio, o, più tardi elettrodomestici, prima cucine, sedie ed altro, quando chiedeva il conto lui rispondeva ‘Po si nni parla’. Il cliente in altra occasione si dichiarava pronto a pagare e lui ancora rifiutava. Guai ad insistere. Cambiava espressione e grave diveca: ‘I conti a casa mia li debbo fare io’. Era la premessa di una rottura. La gente così facendo, volente o nolente, gli restava vincolata, anche se non mancavano persone che si urtavano di questo vincolo a cui venivano costrette senza la loro volontà. Lui però era felice di poter dire che tutti gli dovevano o, nominando qualche persona che gli mancava di rispetto, dire in farmacia davanti al pubblico, ‘perché nun mmi veni a pagari primu’, quando non la mandava a chiamare e gli intimava l’immediata soluzione del credito. Questa prodigalità sui generis finì col ridurlo in cattive condizioni economiche e sarebbe morto all’elemosina se non avesse posto riparo una ragazza, che a tarda età rese sua figlia adottiva e salvò il salvabile. Il grosso però fu tutto venduto e i soldi divisi ai clienti del suo esercizio e della sua farmacia.

«Nell’attività amministrativa don Enrico pensò prima di portare a conclusione le opere avviate dai suoi predecessori, ma con scarso risultato, perché, non ammettendo interferenze nell sua volontà, finiva col provocare passiva reazione negli uffici o fra coloro che dovevano necessariamente portare avanti le cose, quando non incontrava opposizione dura, da cui scaturivano lunghi processi civili. Il progetto per le fognature, per l’ammontare di L. 900.000 lo approvò il 19 marzo del 1927, ma le fognature si fecero nel 1956, quando il fascismo era morto e sepolto e lui relegato alla sola attività professionale. Collaudò l’esecuzione del contratto con l’impresa elettrica Siculo Lombarda, redatto l’11 febbraio 1925, secondo il quale si costruì in paese la centrale elettrica, nei pressi della stazione, con motore generatore di corrente. Tale motore sfruttava l’acqua della Fontana a mezzo di una pompa aspirante, che in fase eduttiva provocava una cascata sufficiente alla generazione dell’elettricità necessaria a fornire luce agli abitanti ed alimentare 384 lampade ad incandescenza sparse nelle vie dell’abitato, di cui 14 nel corso Garibaldi. Tentò di realizzare il vecchio progetto dell’edificio scolastico, redatto nel 1913 dall’ingegnere Stefano Bianco per una spesa di L. 335.000, aggiornata nel 1919 e portata a L. 735.000, nel 1922 ad 1.300.000, ma non vi riuscì perché provocò un giudizio civile col proprietario del fondo ove doveva essere ubicato, nello spiazzale Palma. L’edificio infatti potè sorgere solo nel 1936, dopo la sua caduta.

«Subito dopo la prima guerra mondiale in Racalmuto si era costituito il comitato pro monumento ai Caduti, stabilendo a presidente il sindaco pro tempore. Si erano raccolte selle somme sufficienti alla costruzione mediante sottoscrizioni civiche ed offerte degli emigrati di America. L’opera era in corso di realizzazione quando subentrò Macaluso a presidente del Comitato. Egli cominciò a rivoluzionare il programma precedente e si venne ad una clamorosa divisione fra i componenti in merito alla forma ed all’ubicazione dell’opera. Questa divisione durò per sempre. Don Enrico non mollava e quelli intralciavano il suo operato. Gli anni passavano ed il paese era rimasto uno dei pochissimi d’Italia a non avere un ricordo degli infelici giovani morti sul campo di battaglia.

«Intanto il 10 settembre del 1929 il podestà deliberava l’offerta di L. 100 del comune per contributo alla lampada votiva per i caduti in guerra di Agrigento, non potendolo fare per i racalmutesi sprovvisti di monumento.

«Quando si fece la nuova strada di circonvallazione, oggi Filippo Villa, Macaluso comprò con i solde del comitato e per conto del comitato un po’ di suolo edificabile di proprietà dei Baiamonte a San Gregorio, prima adibito a mulino per l’epurazione della feccia di mosto. Nel punto d’incontro fra la strada di circonvallazione ed il cosro Garibaldi fece fare un recinto in filo spinato, che sarebbe dovuto diventare, ma non lo fu mai, un’aiuola spartitraffico. Nel mezzo di questo recento vi fece piantare un albero di pino, dedicato ad Arnaldo Mussolini, ma non crebbe e fu estirpato secco nel 1950. Contava di costruire, ove oggi è l’Esso, sul suolo edificabile dell’ex mulino, la casa del fascio ed il monumento ai Caduti. Gli anni passarono e non sorse mai niente. Negli ultimi tempi della dittatura soltanto le basi di un edificio. [...]

«Durante il podesterato del Macaluso, i lavori pubblici furono curati dal di lui fratello Cesare, dottore in agraria, addetto ai sindacati fascisti. Don Cesare era stato in Tripolitania ed aveva visto le strade di là com’erano fatte, le famose strade a mac adam con sottofondo in breccia aggregata con polvere di cava. Pensò d’introdurre questo sistema a Racalmuto, furono divelti quasi tutti i selciati a ciottolato delle strade e cambiate in mac-adam. La riforma ben presto risultò inidonea. La friabilità delle pietre sabbiose ed il clima dell’Africa agevola la durata delle vie fatte con questo sistema. Le rocce di Racalmuto non essendo nè sabbiose nè friabili, non resistettero all’uso, si frantumarono e si cambiarono in polvere di estate ed in fanfo d’inverno. In via R. Margherita e in Via Asaro d’inverno era un problema passarvi. Se si andava su si dava un passo in avanti e tre all’indietro con i piedi affondati nella mota. Se si andava giù si rischiava di finire a terra con qualche scivolone. Meno male che macchine non ce n’erano tante, se no gli sbandamenti sarebbero stati frequenti e disastrosi. Le macchine allora erano rarissime, le prime Balilla e le Ardita le ebbero Giuseppe Mattina, l’avv. Carmelo Burruano e l’avvocato Luigi Cavallaro, che era funzionario del Banco di Sicilia. Poi si fornirono di macchina i Nalbone e si fecero i primi autisti di piazza, Di Marco e Don Pietro Sedita.

«Macalus ebbe il culto degli alberi e si devono a lui gli alberi che costeggiano la strada che va al padre Eterno e la via Filippo Villa. Altri alberi costeggiano la via Macaluso e Ferdinando Martini, fino al ponte Carmelo e fino alla Stazione ferroviaria. Ne restano pochi perché sono stati, purtroppo, distrutti dai frontisti della strada, dimostrando scarso senso civico. Lo spiazzale Canalotto, oggi occupato dalle case degli zolfatai, sotto Macaluso fu attivato a Palco della Rimembranza e vi sorsero tanti alberi dedicati ai Caduti. Durante l’estate vi si eseguiva ogni Domenica sera un concerto bandistico e spesso proiezione cinematografica muta delle pellicole in voga. La musica non suonò più al Canalotto, che cessò di essere meta e ritrovo delle passeggiate estive, verso il 1935, in seguito ad un fatto di sangue avvenuto proprio ai piedi dell’icona attaccata al muro di fronte, lato Ovest. Vi fu assassinato il procuratore del registro Sciascia ed il delitto rimase impunito, perché non si individuarono i colpevoli.

«Don Enrico fece restaurare il teatro riportandolo alla primiera sontuosità, ma non riuscì ad evitare che fosse adibito a sala di proiezione cinematografica. Dapprima era il comune a gestirlo direttamente, poi si diede in appalto, sotto Mattina, a Parisi, indi a Collura e a Bordonaro. Con gli appalti cominciò a rovinarsi il locale. I gestori non avevano interesse a custodire l’iimobile, il quotidiano uso e la vetustà a poco a poco lo resero inagibile.

«Curò il riattamento del municipio, disimpegnando tutti gli ambienti a mezzo del corridoio che collega al salone del lato sud, rimettendoci soldi di tasca propria ed impegnando architetti ed artisti di vaglia. Dopo i patti lateranensi, nella consegna della congrua parte alla chiesa, riuscì a tacitare l’arciprete di allora, Giovanni Casuccio, con la restituzione dell’intero locale di S. Giovanni di Dio a soluzione dei diritti su altri edifici del comune. Tale atto fu abbastanza lodevole perché servì a conservare integra la proprietà al comune del municipio, del cimitero e della chiesa di S. Maria e dell’ex orto delle clarisse, area oggi occupata dal teatro. [...]

« Fra le opere meritorie della sua amministrazione va ricordato l’acquisto dei locali dell’ex Castello del Conte, Lu Cannuni, o palazzo Chiaramontano. Questo edificio era finito in mano ai privati. Alla famiglia Presti la parte di sud est e di sud ovest; l’ingresso, la porta centrale, il salone delle adunanze della Signoria, tutto il versante di nord e le due torri in mano di Padre Cipolla. Ciò dopo che non fu più adibito a carcere. Padre Cipolla ne voleva fare un educandato femminile affidato alle suore domenicane, ma quando nel 1930 fallì, l’immobile, venduto all’asta per L. 2000 (duemila), l’acquistò il Comune.

«Con gli impiegati non fu mai in confidenza. Mantenne il distacco, ma ebbe garbo nei rapporti personali. Tutte le mattine arrivava il primo al Municipio, entrava nel suo abinetto, lasciava la porta aperta e così impegnava i dipendenti ad essere scrupolosi nell’osservanza dell’orario. Col pubblico non fu mai tenero. Usò il confine e l’isola, le vili armi della dittatura fascista, a discrezione [...]

«Un bel giorno .. dovette ingoiare un rospo:  venne privato della segreteria politica e fu nominato in sua vece Tito Tinebra. Mobilitò le sue forze ed ingaggiò battaglia. Cadde Tinebra e fu nominato il suo amico Giuseppe Mattina. Si sentì appagato e riprese fiato ad esercitare le sue funzioni di tirannello paesano.

«Il fascismo intanto si realizzava con la sua pesante struttura anche nel paese. Nata l’opera Nazionale Balilla, don Enrico si affrettò ad iscrivere socio perpetuo il comune l’8 gennaio 1928. Nel 1930 l’iscrizione all’opera Nazionale Balilla diventò obbligatoria per tutti i fanciulli e le fanciulle che dovevano frequentare le pubbliche scuole elementari e per gli studenti di ogni ordine e grado. Cominciarono le fastodiose adunate del Sabato e della Domenica, le sfilate estenuanti e le parate stupide fra le vie imbandierate fitte e le bestemmie degli anziani. Le donne scesero pure a sfilare, le maestre e le giovani. A Racalmuto la dirigenza dei fasci femminili la ebbe sempre, nella qualità di fiduciaria, collaborata dalle figlie del farmacista Argento, la maestra Piera Taibi. Le divise omogeneizzarono apertamente i cittadini. L’opposizione però continuava nel segreto a vivere, pur se divenne presto innocua all’arbitrio fascista. Il giornale ‘L’Unità’ arrivava da parigi in un pacchetto con la scritta profumi. Il fattorino postale Salvatore Morreale lo sapeva e portava il pacco a Giovanni Facciponti, in un salone sopra l’attuale negozio di Falco. L’Unità si vendeva una lira la copia, prezzo iperbolico per i tempi e la comprava Vincenzo Vella, Eduardo Romano, Vincenzo Macaluso, Giuseppe Cutaia e qualche altro di nascosto, sapendo che se fossero stati scoperti il confine non glielo avrebbe tolto nessuno.

«Durante tutto il periodo fascista continuarono ad essere comunisti, subire discriminazioni violente e non piegarsi, affrontando fame e disagi, ma rimanendo a Racalmuto Vincenzo Macaluso fu Stefano falegname, Salvatore Jacono calzolaio, Salvatore Dell’Aira muratore, Eduardo Romano, muratore, Giovanni Lo Forte, Di Liberto Carlo, Luigi Leone, Leonardo Abramo Vizzini, Alfonso Tirone Tiberio e qualche altro. Mantenersi iscritto clandestinamente al partito comunista durante il fascismo era una impresa non facile, si trattava rischiare la galera ad ogni istante e la rovina della propria famiglia. Loro furono in continuo contatto con Cesare Sessa a Raffadali. Per lo più vi si recava Eduardo Romano, col pretesto che andava a badare alla campagna dell’avv. Vincenzo Campo, cognato del Sessa. Solo Sessa rimase nell’Agrigentino a reggere le fila del partito comunista. Il dirigente Scarfidi, in seguito ad un’aggressione subita a casa dalle squadre fasciste, dalla quale scampò mediante l’intervento di un alto magistrato, al quale era amico, che, quel giornoper caso, era andato a fargli visita e fu presente, era fuggito e si era rifugiato in un convento. I comunisti di Racalmuto, spesso Romano ed una volta anche Abramo, durante la dittatura andavano anche a presenziare riunioni segrete a Palermo. Avvenivano in una casa in via Albergheria ed erano presiedute dall’onorevole Pilato.

«Ad Eduardo Romano infine è da attribuirsi il merito di avere salvato il grosso del partito, che poi furono quelli che in maggioranza fecero l’abiura a don Enrico, dalle persecuzioni. Infatti, allorchè alla caserma gli chiesero l’elenco dei tesserati, egli fornì un elenco in cui comparvero i notabili e tutti i morti e gli emigrati. Un plauso solenne vada pertanto a costoro vivi e defunti, che ebbero il coraggio di professare le proprie idee affrontando ogni rischio. E ben ha fatto il partito comunista nel 1961 ad offrire una medaglia di bronzo ed il diploma degli otto lustri di fedeltà ai superstit, perché le nuove generazioni potessero conoscere ed ammirare gli uomini tenaci e fermi nel loro credo anche in clima di difficoltà e divieto. Da Racalmuto poterono avere quest’attestato di riconoscenza, Salvatore Dell’Aira, Di Liberto Carlo e Vincenzo Macaluso. Quest’ultimo alla memoria, per essere deceduto giorni prima. Don Enrico non seppe mai queste cose e dire che aveva sempre fra i piedi Carmelo Romano, il fratello di Eduardo che gli faceva l’amico e badava a tener lungi i sospetti dalla sua casa.

«Lui seppe solo il borbottio della bottega Giudice e del salone Bellavia, ma non potè mai eccpire alcunchè per colpire con carcere e confine il titolare ed i frequentatori. [..]

«Il giovane che sin qua ci ha seguiti ci darà, credo, dell’esagerato, ma prima di giudicare si informi e saprà che il fascismo aveva un decalogo, i cui primi articoli o comandamenti così dicevano - 1) Mussolini ha sempre ragione; 2) le punizioni sono sempre meritate; 3) la Patria si serve anche facendo da guardia ad un bidone di benzina, ecc. ecc.

«Quando vedrà che il governo fascista imponeva il domma dell’infallibilità del suo capo, costringeva la supina accettazione di ogni pena e poneva tutte le attività lavorative al servizio della Patria, per attribuire il delitto di attentato alla sicurezza dello Stato contro ogni inadempienza, si accorgerà che non siamo esagerati e si meravigliera che un popolo di circa 45 milioni di componenti ha sopportato per venti anni tanto obbrobrioso sistema. Coloro che avevano assaporato la libertà democratica mal sopportavano tanta opprimente vuotaggine, ma guai a manifestare la loro avversione, si rischiava il confine o la galera, il domicilio coatto o una serie di legnate e sevizie nelle caserme. Ebbe considerevoli guai Edoardo Romano, per esempio, perché a Giovanni Agrò che gli ingiunse un giorno al campo sportivo di credere, obbedire e combattere, rispose: - Combattere sì, perché se mi chiamano alle armi non mi posso rifiutare, obbedire altrettanto perché se non ubbidisco mi costringono a farlo, ma credere no, perché nessuno può impormi una fede. [...]

«Si nasceva figli della lupa e si aveva una divisa da portare ed un moschetto. Si diventava balilla e la stessa cosa, poi avanguardista, giovane fascista, camicia nera ecc. L’opera nazionale Balilla era stata sostituita dalla Gil, gioventù italiana del littorio, che inquadrava tutta la gioventù della nazione in un casermone rigurgitante odio ed abuso, soverchieria e sbronzerie dei tanti megalomani dell’epoca. Per andare a scuola si doveva presentare la tessera Gil, sia per le elementari che per le medie o superiori, comprese le università, dove oltre al diploma di maturità si doveva esibire il certificato di iscrizione al G.U.F., gioventù universitaria fascista, e l’attestato di avere superato il brevetto sportivo. Senza la tessera Gil non si poteva nemmeno lavorare. A Racalmuto potè rifiutarla un solo giovane, Calogero Macaluso, figlio di un cugino di don Enrico, il quale da solo, o per contatti con Eduardo Romano, diventò comunista. Costui fu raggiunto dai tentacoli della piovra nera del fascismo e fu chiamato in caserma dai carabinieri. Il maresciallo gli disse, fra l’altro, che lo avrebbe arrestato se non prendeva la tessera. Lui ebbe il coraggio di ripondere: - mi arresti pure, è necessario che i nostri compagni in galera ricevino il conforto delle nuove generazioni. - Non fu arrestato perché don Enrico non volle subire l’affronto di far sapere ovunque che un suo omonimo parente non era fascista.

«Nelle scuole si studiava dottrina fascista e cultura militare fino alla università dove pure era la materia obbligatoria di mistica fascista. Prima di andare soldati c’era il premilitare obbligatorio, e qui a suon di nerbo i giovani diciottonni, ogni Sabato pomeriggio, per ore ed ore dovevano stare a fare marce ed istruzioni. A Racalmuto il premilitare si faceva al campo sportivo, lo faceva fare il geometra Luigi Falletti, coadiuvato dal cadetto della milizia Luigi Di Marco e qualche altro. Non so altrove, ma a Racalmuto la borghesia aveva un privilegio, non faceva le istruzioni. Noi studenti facevamo gli elenchi al geometra Falletti e stavamo ogni sabato a guardare. Ricordiamo la nausea e la ribellione che provavamo quando vedevamo schiaffeggiare sonoramente i poveri giovani contadini ed a volte anche bastonare, perché si muovevano sull’attenti o per altro. La nausea ci veniva perché già ai nostri diciotto anni eravamo organizzati da circa due anni nelle file clandestine antifasciste. Alla formazione del nostro pensiero politico, impreciso partiticamente, ma decisamente ugualitario, di sinistra e di pronta opposizione al fascismo, contribuì, oltre la famiglia sempre antifascista alla quale apparteniamo, il nostro insegnante di filosofia Ettore Centineo, che ci schiuse la mente alla democrazia ed alla critica. Siamo entrati nelle organizzazioni allora operanti in Italia per mezzo di Leonardo Sciascia [..] A lui si deve la formazione di un gruppo di studenti antifascisti in Racalmuto e la coscienza della brutalità di quel partito, nonchè della sua carenza ideologica fra gli studenti di ieri e professionisti di oggi in questo paese. Leonardo Sciascia, convinto comunista nel 1938 e 39, quando aveva 17 e 18 anni, riuscì a fare preziose cellule nel paese, si ricordano Angelo Picone, Diego Paradiso e Salvatore Cavallaro, oltre noi e qualche altro fra coloro che collaborarono nei limiti delle loro capacità, compromettendosi magari, a prepare la resistenza contro il fascismo ed a sabotare le organizzazioni della dittatura. [...]

«Feste nazionali sotto il fascismo erano: il 23 marzo, anniversario della fondazione del fascio, il 21 aprile, natale di Roma, l’11 febbraio anniversario del Concordato con la Chiesa, il 24 maggio, entrata in guerra, il 28 ottobre anniversario della marcia su Roma ed il 4 novembre festa della vittoria. [..] Una mattina di festa nazionale il dottor Giuseppe Cavallaro ebbe inferto dai fascisti racalmutesi un colpo terribile, tale che tarò per sempre la sua salute. Il dottor Cavallaro era un vecchietto senza figli, che ogni giorno con la moglie andava a trovare il suocere e i cognati. Un giorno fu fermato in Via R. Margherita, davanti di Pavia dai militi. Gli chiesero perché non portava la camicia nera quantunque festa nazionale. Il povero dottore rispose di averlo dimenticato, essendo uscito di premura per fare una visita di urgenza. I militi fecero l’addebito e riferirono al segretario politico. Il dottor Cavallaro ebbe ritirata la tessera d’iscrizione al partito nazionale fascista. Tale provvedimento significava la rovina, infatti senza tessera non si poteva esercitare la professione sanitaria, perché l’ordine dei medici lo vietava. Il dottor Cavallaro, sospeso dall’esercizio professionale, si dispiacque tanto, anche se stava economicamente bene, che si ammalò. Non si guarì più e morì alcuni anni dopo. [...]

«La delinquenza però è bene che si dica non finì proprio sotto il fascismo, e la stessa mafia non fu eliminata, infatti ad essa, strumento di repressione contadina, si sostituì lo stato autoriatario fascista, cioè non ve ne fu più bisogno e sembrò essere stata debellata, ma debellata non fu tanto che rinacque così rigogliosa alla caduta del regime, cessarono soltanto le efferatezze del dopo prima guerra mondiale non la criminalità vera e propria. Al fascismo si diede a torto quel merito. Si dimenticò che Sciascia, il ricevitore del registro fu assassinato nel 1935 e c’era il fascismo, Federico Giancani ammazzato barbaramente nel maggio del 1937 e c’era il fascismo, il latitante Ciciruneddu, Rizzo, non potè mai essere preso dalle forze dell’ordine e fu ucciso da uno per la regola del tagione che gravava sulla sua morte ed erano gli anni dal 1936 al 1939 e c’era il fascismo, l’orificeria di don Carmelo Rosina fu scassinata, una prostituta fu trovata con la gola recisa da un rasoio nella sua casa in Via Madonna della Rocca, l’altra fatta a pezzi alla Acqua Amara presso la Torre di Baeri in pieno fascismo. Abbiamo voluto citare i misfatti più eclatanti del periodo fascista, sorvolando i minori, per dimostrare l’infondatezza di quest’affermazione, che, purtroppo, si sente ancora ripetere nelle discussioni di piazza. Il fascismo usò metodi repressivi atroci e questo è vero, mise la pena di morte e la esercitò e questo è pure vero, ma l’una e l’altra non gli fanno onore. Non si scherza con la vita degli uomini, ed essa è sacra e nessuno può toglierla per nessuna ragione. La società può relegare fuori del proprio consorzio il tarato, il reo, ma non sopprimerlo, non ne ha nessun diritto. La repressione poliziesca del fascismo poi era peggio della fucilazione, si trattava delle torture di medievale memoria, praticate nelle caserme dei carabinieri: nerbate fino al sangue, scosse elettriche, fare ingerire acqua satura di sale, legare alla cassetta e tante e tante altre barbarie. Basta dire che l’omicidio di Federico Giancani se lo accollarono parecchie persone incapaci ed innocenti pur di non patire più le torture e poi si vennero a trovare i colpevoli fuori dell’Italia, in Africa dove erano riusciti ad imboscarsi.» (10)

 

La traballante prosa del Messana traccia un quadro della situazione politica a Racalmuto duntante il fascismo che va preso - lo ripetiamo - con le molle. Ma qualche elemento di prima mano ce lo fornisce. Sappiamo solo così di antifascisti operanti a Racalmuto. Le loro vicende sono palesemente enfiate. Un riscontro possiamo coglierlo dale schedature della polizia, oggi consultabili presso l’Archivio Centrale dello Stato in Roma.

Secondo il Messana, il maggiore esponente comunista dell’epoca fu Edoardo Roma. Abbiamo visto che la locale caserma dei carabinieri già nel 1925 lo definisce un “pericoloso comunista”, portando acqua al mulino dellenfasi antifascista del nostro storico racalmutese. Pericoloso lo fu, però, non a lungo, se lo schedario puntuale e puntiglioso del capo della polizia Arturo Bocchini (11) lo ignora del tutto. Forse a motivo delle influenti protezioni fasciste che al Romano venivano dalle sue parentele bene inserite nel regime. Vi sarà pure un motivo se la famosa medaglia di fedelta quarantennale al PCI non fu conferita nel 1961 ad Edoardo Romano (vedansi le precedenti annotazioni del Messana).

Nelle nostre ricerche a Roma, di racalmutesi finiti negli schedari di polizia durante il fascismo troviamo:

1) Vella Vincenzo;

2)  Vella Diego;

3) Picone Chiodo Calogero;

4) Sacerdoti Edmondo;

5) Messana Everardo.

Ma dei cinque sudetti nominativi i veri racalmutesti sono tre (Vella Vincenzo, Picone Chiodo Calogero e Messana Everardo), nessuno viene schedato in quanto comunista, e i due schedati (Picone Chiodo Calogero e Messana Everardo) hanno poco di politico.

Vella Vincenzo, è personaggio di risalto durante i Fasci siciliani, è attivo nell’era prefascista e rientra nei ranghi durante il fascismo. Schedato già dalla questura di Girgenti sin dal primo settembre del 1896, ne è “radiato” l’8 aprile 1936 «tenuto conto della buona condotta e delle prove di ravvedimento» ed essendosi «espresso in senso favorevole al Governo nazionale.»

Nel 1893 si era lanciato nell’agone politico a capo del movimento contadino e zolfataio del luogo, con cipiglio e furore. Agì anche fuori di Racalmuto: lo troviamo impigliato nella repressione dei moti rivoluzionari dei Fasci in quel di Milena. Ecco quel che ci racconta Arturo Petix: «Nel pomeriggio del 27 luglio del 1893, a Milocca, in casa del contadino Luigi Schillaci, posta nella robba Valenti (oggi via Gioberti) si riuniva un gruppo di contadini con lo scopo di costituirsi in fascio dei lavoratori. [...] A quella riunione furono presenti l’Avvocato Vincenzo Vella, presidente del fascio dei lavoratori di Racalmuto e l’insegnante Rinaldo Di Napoli, presidente di quello di Grotte (ASCL, Carp. n. 9, Pubbl. Sicur., lettera del 2 agosto 1893).»( 12). Abbiamo sopra fornito alcuni dati del fascicolo sul Vella dell’Archivio Centrale dello Stato. Li integriamo qui trascrivendo quant’altro vi è annotato.

«N.° 16434 - Prefettura di Girgenti, comune di Racalmuto - Vella Vincenzo fu Giuseppe e della Vincenza Tinebra nato in Racalmuto il 17 ottobre 1868, residente a Racalmuto mandamento della Provincia di Girgenti.- Laureato in giurisprudenza - celibe - Socialista rivoluzionario - statura 1,58 - corporatura robusta, capelli castano scuri, viso oblungo, fronte alta, occhi castani, naso giusto, barba alla mefistofele e di colore castana scura, mento tondo, bocca regolare, espressione fisionomica satirica, abigliamento (sic) abituale, veste decente in nero.

«Riscuote nell’opinione pubblica fama di fanatico stravagante. Di carattere volubile. Di educazione limitata, in quanto che si appartiene a famiglia di esercenti miniere. Di corta intelligenza. Di coltura scarsissima. Ha compiuto gli studi nel liceo ed il corso di università in legge. Non possiede titoli accademici. E’ lavoratore fiacco. Ritrae i mezzi di sostentamento dalla poca proprietà lasciata alla famiglia dall’Avv. Tinebra Vincenzo. Frequenta la compagnia dei pochi affiliati al partito socialista di questo  Comune e dei Comuni di Grotte ed Aragona. Mal si comporta nei suoi doveri con la famiglia, di cui dovrebbe essere il sostegno, causa la morte del padre, trascurandola completamente. Non gli sono state affidate cariche amministrative e politiche. E’ iscritto al partito socialista rivoluzionario. Non ha precedentemente appartenuto ad altro partito.

«Ha molta influenza nel partito socialista locale, di cui è il capo e di cui fa il promotore. La sua influenza è circoscritta al luogo dove risiede. E’ stato in corrispondenza epistolare con i componenti il comitato centrale socialista di Palermo, con l’avv. Maniscalco direttore della Giustizia Sociale, coi nominativi Rao Gaetano, Presidente del disciolto fascio dei lavoratori di Canicattì, Di Napoli Rinaldo Presidente del disciolto fascio di Grotte, coll’onorevole Colajanni e col presidente della Federazione Regionale Socialista Lombarda. Non è stato, nè è in relazione epistolare con individui del partito all’Estero. Presentemente è in relazione epistolare col Direttore del periodico ‘La Riscossa’ di Palermo, il presidente del Comitato Regionale della Federazione Socialista Ligure, coi sudetti Di Napoli e Rao, col Direttore del periodico ‘La Lotta di classe’, e dicesi in relazione epistolare con Bosco Garibaldi e l’on. De Felice.

«Non ha dimorato all’estero, nè vi riportò condanne, e non ne fu esplulso. - Ha appertunuto al disciolto fascio dei lavoratori di Racalmuto, con la carica di Presidente. Presentemente non appartiene ad alcuna associazione sovversiva di mutuo soccorso o di altro genere. Durante il 1893 ha collaborato ai periodici sovversivi ‘La Lotta di Classe’ e ‘La Giustizia Sociale’. Di tanto in tanto spedisce corrispondenze alla ‘Riscossa’, ed alla ‘Lotta di Classe’.

-------------

«Riceve i periodici ‘La lotta di classe’ e ‘la Riscossa’ ed opuscoli editi a cura del Comitato Regionale della Federazione socialista Ligure. Fa propaganda fra gli esercenti arti e mestieri, con poco profitto. E’ capace tenere conferenze. Ne ha tenute nel 1893, nel locale di questo disciolto fascio dei lavoratori, e nel domicilio di qualche socialista di qui. - Verso le autorità tiene un contegno sprezzante. Non ha preso parte a manifestazioni del partito cui è ascritto a mezzo della stampa firmando cioè manifesti, programmetti. Ma ha preso parte in occasione della dimostrazione organizzata in questa Stazione ferroviaria il 2 Novembre 1893, al passaggio dell’on. Colajanni, nella quale circostanza il fanatismo dei dimostranti raggiunse il colmo, intervenne la forza pubblica, fu percosso il Deputato di P.S. del tempo, malmenati il Maresciallo ed i militi.

«Nelle elezioni ammimistrative di Racalmuto del 1905 è stato eletto consigliere comunale. »

[Aggiunta in calce la posteriore data: Girgenti 14 gennaio 1908 - il prefetto Mario Rebucci].

«Prefettura di Girgenti - Cenno biografico del 20 ottobre 1913 - Andatura attempata. - Gode nell’opinione pubblica fama di uomo di poco carattere e di nessuna serietà. D’intelligenza ed educazione medie, è mordace ed aggressivo, quando scrive per i giornali, tanto che ha un frasario tutto suo speciale, fatto di volgare turpiloquio, appunto perché nelle lotte sia politiche che amministrative non sa fare a meno di attaccare in modo triviale le persone degli avversari, invece di combattere le idee. E’ laureato in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate. Di natura fiacca, lavora lo stretto necessario, approfittando di quello che ricava dalla poca proprietà immobiliare a lui lasciata da un suo avo. Tenace nelle lotte, ma non nel carattere, egli varia di continuo e con molta leggerezza di relazioni politiche e di amicizie personali, a seconda della convenienza e dell’opportunità del momento, non si può dire quindi egli abbia in ciò una direttiva sicura, per quanto inclini nella scelta verso gli elementi sovversivi o politicamente esaltati. Si deve a tale sua malleabilità di carattere ed azione se egli sia stato consigliere comunale ed anche assessore supplente. Nella presente lotta politica, egli, transigendo con la sua condotta passata, ha stretto relazione con persone, altra volta attaccate fino all’insulto, per appoggiare la candidatura socialista dell’Avv. Marchesano. Nel biennio 1893-1894 - egli dette pensiero ed azione ai moti convulsionarii dei ‘fasci’ ed ebbe perciò il suo quarto d’ora di influenza e di popolarità, fra gli elementi sovversivi di allora; ma sopravvenuta la repressione egli ritornò quello di prima, anzi fu lì lì per essere inviato a domicilio coatto, a termini dell’art. 3 della legge 19 luglio 1894.  [..] Successivamente egli si occupò dei suoi affari privati per cui fece dimora a Delia ed a Casteltermini. Nel presente fa qualche pubblicazione sui giornali della provincia a carattere sovversivo; fa come può, ma con scarso profitto, propaganda fra gli operai ed è presidente della lega di miglioramento tra gli zolfatai di Racalmuto.

«E’ capace di parlare al pubblico, ma non di tenere conferenze vere e proprie, ciò quindi ha fatto sempre che se ne sia presentata l’occasione; in lui però più che la facilità di parola è comune il turpiloquio, che, in fondo, tradisce la sua origine volgare. Però nel passato tenne verso l’autorità un contegno altero e sprezzante; ora però si mostra remissivo e rispettoso. Ma ha preso parte a vere e proprie pubbliche manifestazioni di carattere del partito. Nel 1893 intervenne in manifestazioni più o meno violente e, successivamente, in un pubblico spettacolo si lasciò andare a qualche atto inconsulto. Mai fu sottoposto alla pregiudiziale ammonizione e fu solo proposto, ma non assegnato, a domicilio coatto. Non ha subito condanne, ma ha i seguenti precedenti penali. Il 1° settembre 1893 fu arrestato in Milocca per istigazione a delinquere; a 7 maggio 1894 fu assolto dal Tribunale di Girgenti dall’imputazione di violenza e resistenza ad agenti della forza pubblica; a 19 maggio 1894 la camera di consiglio di Girgenti disse non luogo per l’imputazione di tentativo di fare insorgere gli abitanti del regno contro i poteri dello stato. Nello assieme il Vella, per quanto sempre relativamente temibile, non è più il sovversivo di una volta e non è più da ritenersi un socialista veramente combattivo, perché, in fondo, non riesce a farsi pigliare sul serio da alcuno. L’età, il male cronico di cui è affetto e qualche debito hanno fiaccato e piegato il suo carattere, naturalmente a ciò disposto, ed oggi si aggioga al carro di taluni conservatori, liberali d’occasione, con la stessa facilità con la quale si metterebbe loro contro, se gli tornasse opportuno, data anche la sua venalità.»

Nessun commento:

Posta un commento