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lunedì 2 febbraio 2015

Sciascia e il Teatro comunale di Racalmuto.

Io – Calogero Taverna, microstorico misconosciuto dell’antica terra di Racalmuto – maledico chi e chiunque si è permesso di “nefandare” il sacro, storico cimelio della civilissima Racalmuto, né Regalpetra, né terra di mafia, né ospizio di commissari palermitani a mille euro l’ora.
A ricordo del nostro sacrario laicissimo e blasfemo, queste pagine, queste inobliabili foto.
Grazie Giugiu Di Falco e grazie abile Pietro Tulumello, impareggiabile fotografo della mia amatissima Racalmuto, grazie ad entrambi per averci eternato l’atavico Teatro Regina Margherita.

Calogero Taverna da Roma Gennaio 2012

STORIA DEL TEATRO MARGHERITA di RACALMUTO


Prima del restauro, ecco come si presentava il cielo del teatro.
Allora si presentavano, platea e palchi, come Giovanni di Falco riuscì a tramandarci con il servizio fotografico che qui riproduciamo.


Lo splendore di quest’arco con lo stemma racalmutese che fece adirare Tinebra Martorana non potrà più essere ammirato: pannelli persi e restauro frettoloso ne hanno determinato l’irrecuperabile scomparsa.


Ma neppure nei tempi andati si era stati teneri con il Teatro; questa foto ne attesta qualche inverecondo deterioramento.



Eppure, anche nella sua ultima stagione, il teatro manteneva il suo fascino.



Lo stemma di Racalmuto, quello ottocentesco, quello criticato dal Tinebra Martorana, resta cimelio delle più genuine memorie storiche racalmutesi.



Segni zodiacali ed allegorie varie prima dell’attuale restauro.


Sulla raffigurazione dello stemma di Racalmuto sul ciglio del teatro:

riportiamo un paio di pagine del Tinebra Marturana:


Dal 1970 risulta canonizzato un ben diverso (e non migliore) stemma. Leggiamo nel vigente statuto comunale (all’art. 4):

Anche noi, a suo tempo, ci siamo industriati di scoprire quale potesse essere «il veridico stemma di Racalmuto».
 Partiamo da questa fotografia che fa trasparire appena una lisa raffigurazione:


Questo stemma sta ai piedi della pala d’altare dell’Itria: per noi è lo stemma vero e reale che ebbe Racalmuto in quanto contea. Comitale è infatti la corona. Abbiamo poi cinque bande d’oro quante erano le migliaia di “anime” dell’epoca. Il campo è quello rosso che si addiceva alla cavalleresca famiglia dei del Carretto.

I nostri colori sono infatti giallo e rosso.

La polemica sullo stemma non è nuova. Abbiamo sopra riportato, ad esempio, quello che ebbe a scrivere Tinebra Martorana. Ribadiamo che non vi dovrebbero essere dubbi sullo stemma cui allude lo storico racalmutese, che dovrebbe essere quello al centro in alto dell’arco del proscenio del nostro teatro Margherita:



A suo tempo, noi scrivevamo:

abbiamo uno sconcio, improbabile stemma comunale. Tinebra, invero,  lo voleva pudico “con un uomo non nudo, bensì con una gonnellina dentellata ai margini, come l’antico guerriero romano”. Altri volle o rispolverò lo stemma con l’uomo nudo.  In ogni caso l’uomo invita  al silenzio: obmutui et silui; come dire: star muto, subire e starsene zitti. Lo stemma di Racalmuto scandisce manie, prevenzioni e visionarietà della borghesia postunitaria racalmutese. Il prof. Nalbone ha fotografato interessanti documenti dei primi anni del ‘Settecento ove figura il timbro a secco del Comune di Racalmuto. Ebbene, lì non vi è nulla di tutto questo. Trattasi di uno stemma a bande e chiomato, totalmente austero, dignitoso, nobile. Non vorrò di certo io, con il mio laico scetticismo, riaccendere una guerra di religione su una bazzecola come è uno stemma. Ma francamente, a me racalmutese da almeno dieci generazioni - sia pure per tre quarti, visto che l’altro quarto è narese - dà fastidio lo sguaiato stemma comunale che sembra ammiccare al silenzio omertoso ed a qualche vezzo omosessuale.






La nudità racalmutese, anche se giovanile, e comprensibilmente stigmatizzata dal Tinebra Martorana, ha ora canonica accoglienza nel novellato statuto comunale. Sul portone della Casa Comunale di Racalmuto attualmente si staglia lo stemma del giovane nudo, con attributi vistosi ed osceni. L’idea blasfema e satura di maschilistica ironia di Totò Marchese e Geniu Messana – cullata in una serata presso la ‘zza Narduzza tra il bacchico e la corrosiva allusione al ‘nefando’ peccato di taluno – oggi svetta sul frondone comunale secondo i tratti pittorici del custureri Troisi .




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