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domenica 22 marzo 2015

GIOVANNI I DEL CARRETTO


GIOVANNI I DEL CARRETTO


 

 

Nato nella seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420: eredita dal padre la baronia di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi inceppi giuridici che la corte frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi sono più dubbi che Racalmuto fosse divenuto feudo dei del Carretto: manca però un tassello; non è certo se spetti a questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e misto imperio. La questione si riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a favore dei del Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola e l’arciprete Campanella che la revocheranno in dubbio nella seconda metà del Settecento e l’avranno vinta, forse perché allora spirava l’aria illuminista del viceré Caracciolo.

Nel processo d’investitura del successore di Giovanni, Federico del Carretto, abbiamo vaghi dati biografici su questo secondo barone di Racalmuto. Vi si legge tra l’altro:

magnificus dominus Mattheus di lu Garrettu fuit et erat verus dominus et baro dictorum casalis et castri Rayalmuti percipiendo fructus reditus et proventus pacifice et quiete et de hoc  fuit et est vox notoria et fama publica et ..

 

dictus quondam magnificus dominus  Mattheus de Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus iugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica et ..

 

ex dicto magnifico domino Johanne et magnifica domina Elsa jugalibus natus et procreatus fuit dominus magnificus dominus Federicus de Garrecto ad presens baro dictae baronie Rayalmuti et qui tamquam filius legitimus et naturalis subcessit in baronia predicta percipiendo fructus reditus et proventus et de hoc fuit et est vox notoria et fama publica  etc. ..

 

Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del Carretto; da una certa Elsa procrea quello che sarà il suo erede nella baronia, Federico del Carretto.

Fu un legittimo matrimonio? La formula del processo non lascia adito a dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo troppo lungo (dalla presunta morte di Giovanni I, attorno al 1420, sino alla data del processo d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32 anni) induce a dubitare, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la nostra baronia passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile dissipazione dei beni da un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto sperperatore - secondo lo stesso Bresc - delle proprie fortune.

Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni I del Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto 1401 giungeva una lettera  da Catania per la sistemazione delle pendenze fiscali.

Martino segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria relativa ai riveli ed alle decime per il tramite di Mariano de Benedictis. Questa la situazione del giovane barone di Racalmuto:  v’era la successione della baronia da Matteo al medesimo Giovanni I; al contempo si erano accumulate due annualità scadute, quella relativa alla settima indizione (1399) e l’altra riguardante l’ottava (1400), nonché quella in corso (1401); ne conseguiva un carico di 40 once d’oro. Il diploma che ha il sapore di una quietanza attesta che la posizione era stata sistemata come segue:  30 once in contanti e dieci a compensazione  di un mutuo a suo tempo approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.

Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543 Henri Bresc scrive (sia pure in una traduzione dal francese rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue sulla curva dei prezzi medi dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un indebitamento sempre più pesante ed ad una gestione molto rigorosa del patrimonio residuo. E ci si avvia all’intervento della monarchia e della classe feudale nell’amministrazione dei domini fondiari e delle signorie: Giovanni del Carretto è così privato nel 1422 della sua baronia di Racalmuto, affidata in curatela a suo genero Gispert Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene però citata la fonte, per cui la notizia va presa con le molle.

Nella nuova opera, invece, “Un monde etc” altrove citata, vi è qualcosa in più: viene precisata la fonte. Racalmuto viene menzionato, in quell’opera in francese del Bresc,  a pag: 64; 798; 803; 880; 893. La sua baronia a pag: 417 e 872. L’argomento che qui interessa è trattato a pag. 880. La parte narrativa non mi pare fraintesa dal traduttore del 1980. In francese, recita: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse - oblige à un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.» E qui la nota che non trovasi nel testo del 1980: «ACA Canc. 2808, f. 54: le bon baron vivait joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui passe, aux yeux de l’avide catalan, pour “simplicitat ... fora de enteniment rahonable”». ([1])

Sarebbe da rintracciare il foglio 54 (in calce citato) al fine di ben ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di Racalmuto  affidata a Gispert d’Isfar.

Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è molto sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di vivere lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar, l’intraprendente genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per sottrarre l’eredità e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti tassazioni spagnole (donde gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc). Resta anche saliente il fatto che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio dei del Carretto, passa di mano e finisce in preda degli Isfar (una dote della figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione avallata da Barcellona?).

 


 


FEDERICO  DEL CARRETTO


 

 

Singolare quel nome che come quello di Ercole figura una sola volta nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di personaggi chiamati Federico del Carretto, abbondano le cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari rami cadetti.

Non possiamo dubitare che quello che ci riguarda sia il figlio legittimo e naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si iniziano i processi palermitani dell’investitura del titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso degli eventi - la sequenza genealogica è inequivocabile (come abbiamo visto dai passi in latino sopra riferiti).

“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del Carretto è, invero, dichiarato codesto Federico ma non si accenna neppure larvatamente al requisito (indispensabile nel diritto feudale dell’epoca) della primogenitura. Giovan Luca Barberi - quanto pignolo, Dio solo sa - non ha però dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:

«E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri predecessori regali, edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell’anno 1453 nelle carte 565. » ([2])

Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere determinatosi per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i traumi dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenza della regina Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben 42 anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del Carretto s’induce a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della baronia di Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a queste condizioni:

n presti il cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;

n renda l’omaggio nelle forme solenni del tempo;

n restino salvi i diritti di legnatico dei cittadini racalmutesi;

n e del pari restino riservate  alla Corona le miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;

n resti salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti regi.

Per il resto possesso assoluto sino al mare.

Una cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451 con Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio. Il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In termini moderni si parlerebbe di outright in grano. La domiciliazione sarebbe stata pattuita presso il "caricatore" di Siculiana. ([3])

Sempre il Bresc fornisce un'altra interessante notizia: secondo quello che appare nella tavola n.° 200 di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata è un libro: «Luigi Genuardi,  Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo, 1921».

 

GIOVANNI II  DEL CARRETTO


 

 

 

La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi dovette essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi d’investitura tacciono.

Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è motivo di dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del Carretto. Non sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del 1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus dissimilem suis. In unoquoque semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole di circostanza per colmare evidenti carenze di notizie. Quali fossero quelle gesta che affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e noi non ne abbiamo nessuna ... memoria.

Accontentiamoci del fatto che fosse il figlio maggiore  [natus maior] e che avesse partorito il successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del Monte, e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche dato sulla sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto ([4]).

Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli ([5]) che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio

Quando sia avvenuta quella vendita non ci è noto; il rendiconto è del 1486 e come si è visto, non è neppure detto a quali precedenti anni si riferisse la vicenda di cui alla posta contabile. Da quel che si legge nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno all’11 ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il contratto col quale il procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro del Campo la baronia di Mussomeli, col suo castello ...”). Le nostre successive indagini presso gli Archivi di Palermo (in particolare “Archivio Campofranco, Fatto delle cose notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia, confiscationes bonorum et investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in Sorge) non ci hanno sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del Carretto e specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra dunque appurato che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto si sia bene ripresa dalla crisi del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il costoso feudo Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso. Del resto, in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti: nello stesso “conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui in Sorge pag. 386) si accenna al possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet quinte Ind. 6 Ind. E 7 Ind. Et pri unzi quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno cantaro di formaggio, et una quartara di burru quolibet anno da pagarsi la mitati a menzu Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi quindici anni primi poi di Pasqua.» ([6])

Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del Carretto  - la fa a ridosso degli anni della baronia di Giovanni II, ha questi appunti critici:

«E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo figlio, il quale, come appare dall’ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l’investitura della detta terra.»

 

LIUNI DI RACARMUTO GIUSTIZIA L’EBREO SADIA DI PALERMO

 

Attorno alla metà del secolo, un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto. Era l’anno 1474: si perpetra una efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo. In un documento del 7 luglio 1474 VII Ind., vengono narrate le circostanze raccapriccianti del crimine. Leggiamo: Il Vicere' Lop Ximen Durrea da' commissione ad Oliverio RAFFA  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei.

Continuiamo la nostra narrazione riportando testualmente il linguaggio dei funzionari di polizia dell’epoca, che ci torna particolarmente gradito svolgendosi il racconto in vernacolo siciliano: 

diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati Sadia di Palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu  dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno Liuni figlastro di mastro  Raneri; et dapoy alcuni altri di lu dictu casali  quasi  a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non  havendu  timuri alcuno di iusticia. Immo,  diabolico  spiritu ducti,  tagliaro  la lingua et altri menbri et  ruppiro  li  denti usando in la persuna di lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu  gettaru  in una fossa et copersilu di pagla et  gictaru  foco petri  et  terra.  La qual cosa essendo di  malo  exemplo  merita grande  punicioni et nui tali commoturi di popolo et  delinquenti volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di  la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo  provisto per  sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi  et culpabili. et per la presenti vi dichimo commictimo et  comandamo che  vi digiati personaliter conferiri in lu dictu casali et  cum quilla  discrepcioni  lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. Et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti  et partechipi a la dicta morti et delicto. Et de  tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. Comandanduvi chi cum  diligencia  et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati  prindiri de  personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo  dicto acto et quilli digiati minari in la chitati di Girgenti et carcerarili  in  lu castellu di la dicta chitati in modo  chi  non  si pocza  di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che  a  lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra li altri uno gippuni  in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro, farriti di  lo  dicto gippuni e di tucta laltra roba libri  et  scripturi diligenti  investigacioni  et perquisicioni cui li  prisi  et  in putiri  di chi persuna sono.

Quel tesoro non fu più ritrovato. Non valsero neppure gli anatemi del sacerdote ad indurre alla restituzione  dei 150 pezzi d’oro trafugati dallo “jppuni” del povero ebreo Sadia di Palermo, racalmutese di vecchia data. Lo spaccato della società locale non appare molto edificante. Non possono comunque da un singolo episodio trarsi valenze generali che sarebbero solo generiche e fuorvianti. Ma l’indignazione rimane e la tentazione alla condanna di tutta la comunità ecclesiale dell’epoca è piuttosto irrefrenabile. Alcuni tratti, un marchio, un DNA, riconducibili alle famiglie citate nel quattrocentesco dispaccio, qualcuno potrebbe ravvisarli ancora in taluni personaggi locali.

Dopo abbiamo la cacciata degli ebrei e, al di là di un toponimo (lu iudì) e di un equivoco nome dato ad una specie di lumache (lu iudiscu) di giudeo a Racalmuto nulla resta, fatta eccezione di un tal Sacerdote che alla fine dell’Ottocento finisce nelle carceri di S. Francesco, mentre la moglie partorice un figlio in un malsano casalorare, assistita solo da una svogliata mammana.

La famiglia giudea quattrocentesca, resa saggia forse da quel nefando delitto, si premurò a prendere il battesimo; poté quindi mimetizzarsi e passare indenne al tempo del francescano furore antisemita di fine XV secolo.

 

Vagamente riferibile a Racalmuto è quanto il settecentesco canonico Giovanni di Giovanni narra sulla cacciata degli ebrei da Agrigento. [7] Ne riportiamo uno stralcio che ben ci illumina dell’ingordigia della curia vescovile che si appropria dei beni di una scuola ebrea, dissolvendo ogni centro culturale alternativo con riflessi oscurantistici sul circondario, Racalmuto compreso. stralcio per il facile rinvio alle cose di Racalmuto.

«Resta che diciamo una qualche cosa del benefizio Ecclesiastico della Scuola de’ Giudei di Girgenti: fu prima questo benefizio uno de’ Canonicati della Cattedrale della medesima città, e l’ebbe in primo luogo Guglielmo Raimondo Moncada. Tale benefizio si chiamò così perché fu fondato appunto in quel luogo medesimo ove gli Ebrei di questa comunità prima della loro espulsione avevano la loro scuola.» (v. pp.296-297)

E proseguiamo con la sintesi degli eventi che ci fornisce il nostro avv. Giuseppe Picone: [8]

«Alle istigazioni dei preti e degli ufficiali di governo, il popolo si era sguinzagliato contro i miseri ebrei, sì che nel 1487 avvennero tumulti in varie città, e moltissimi ne furono uccisi. Lo ammutinamento e le congiure non cessarono, e nel 1491 spinsero il governo ad accelerare la espulsione.  […] Invano dagli Ebrei tutti di Sicilia furono offerte al re trentamila monete d’oro. Il re tentennò sulle prime, ma vigliacco e superstizioso cedette alle minacciose insinuazioni del domenicano Torrecremata, fu inesorabile, e a trentuno gennaio 1492 soscriveva lo editto.

«Il viceré … a dodici agosto del 1492 scriveva a Giovanni Delpalazzo, segreto di Girgenti, che non se ne permettesse la partenza[degli Ebrei], se pria non avessero soddisfatto a tutte le gravezze perpetue in capitale!!! .. a ragione del quattro per cento!!

«Prolungavasi il termine della partenza fino a dodici gennaio 1493, ma stanchi gli ebrei del modo onde i regi ufficiali incrudelivano sovr’essi, partirono a trentuno dicembre del 1492, lasciando ai nostri avi il rimorso della violata ospitalità, lo scadimento sensibile della popolazione, lo invilimento del commercio, a far rifiorire il quale furono vani i proclami di Carlo II e Carlo V, onde gli Ebrei venivano richiamati in Sicilia.

«La nostra terra inospitale fu esacrata non solo dagli Ebrei,  … ma bensì da qualunque nazione commerciante.. Essi partivano, e il nostro popolo ne fece baldoria, e vittima dei falsati principi, propagati da un governo ignorante ed ingordo, e da preti non meno ingordi e fanatici, ne tripudiò! … ma ne pianse in seguito del pianto della miseria che gli sopravvenne!…»

Non siamo propensi a credere, sulla scia del Tinebra Martorana, che a Racalmuto vi fosse una fiorente comunità ebrea, diversamente da quello che scrive il Valenti. [9] Quanto sappiamo di storicamente certo è quel truce delitto che abbiamo sopra narrato, avvalendoci dei documenti pubblicati dai fratelli Lagumina. Solo qualche isolato ebreo, emigrato da Agrigento, poté approdare a Racalmuto e forse ebbe ad abitare nella contrada dello Judì. Il Sadia, ebreo di Racalmuto, ebbe presumibilmente famiglia, che con tutta probabilità sfuggì alla persecuzione del 1492. Sotto un diverso cognome, quel ceppo può continuare a sopravvivere nella patria di Sciascia. Il vivere decentrati poté alla fine risultare un vantaggio.



[1] ) Per ACA  Canc. s’intende: “Archivio de la Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria.  Il fondo 2808 riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à 2880 (1416-1458) op. cit. pag. 29.
[2]) vedi anche ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - SERIE INVESTITURE : N.    1482 - PROC. 21 - ANNO 1452.
[3] ) Fonte citata: ASP ND G.Comito; 18.1.1451, cioè Archivio di Stato di Palermo - Notai Defunti - Giacomo Comito (1427-1460) - n.° 843 a 850
[4] ) Archivio Vescovile di Agrigento - Libro dei Vescovi 1512-20  - f. 284v 285r
[5] ) Giuseppe Sorge - Mussomeli, dall’origine all’abolizione della feudalità, edizioni ristampe siciliane Palermo 1982 - vol. I - pag. 386 e segg.
[6] ) Il conto enne presentato in Palermo il 18 maggio 1502. “Presentate Pa. 18: Maij 1502 in M: R: C: de m.to D. Salv.ris Aberta p.te per Vincenzu Pitacco Post.m.”
[7] ) Giovanni Di Giovanni, L’ebraismo della Sicilia, Palermo 1748, p. 289 e ss.
[8] ) Giuseppe Picone, Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, p. 515 e ss.
[9] ) Calogero Valenti, Grotte – Origine e vicende storiche, Grotte 1996, p. 59.

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