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sabato 25 aprile 2015

GIOVANNI IV DEL CARRETTO


GIOVANNI IV DEL CARRETTO

 

 

 

 

Giovanni IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad occuparsi le cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un personaggio che visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo che a Racalmuto non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni racalmutesi da un genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie e che fu sposo della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte teneva tanto da legittimarla.

Tinebra Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare la figura di questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano destano curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non sono però molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro conte Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua ricostruzione  delle vicende di fra Diego La Matina (vedasi la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)

 

Ad onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per questo, Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea, sistemata in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto Girolamo I, questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli imprenditori, anche usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per quei tempi: il rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento abitanti, e molti di loro hanno patrimoni apprezzabili.

 

In un siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo censimento che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni, infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.

Ecco come ce la racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni  «In questi tempi [tra il 1589 ed il 15 maggio 1591] successe che essendo  riportato a D. Giovanni Carretto, conte di Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro quello parole ingiuriose, il detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un disfido per una lettera, dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.

 

 Gli mandò dietro il conte per farlo castigare della presunzione; ma fro i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte, ed attese a procurar meglio ricapito.

In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a trattare col viceré.

Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato genti per tal effetto.

Lo ingannro due finalmente, che, offerendosi al Cannita di accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’ nemici.

Aveva il conte concertato due con due pistole, e quattro per far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il pover’uomo, gli scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano per salvarli, sbigottiti fuggirono.

Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in fuggire, fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e menato al viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì] assai quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne seppe nova.

Salvatore lo Infossato, che era stato preso per l’omicidio, fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo prendere in Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.

Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al viceré, perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere del sant’Officio; ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.

Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola ‘citra paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì per venire il giorno di festa con un altro seguente.

Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista , quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il conte di Racalmuto con dodici guardie.

Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti si trattava da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà, che il conte per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il conte d’Alba.

Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco. In questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»

 

Il Tinebra Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul testo - invero arduo  - del Di Giovanni (che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione, sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione (v. pag. 105-107).

 

 

L’intrico (veritiero) del conte Giovanni del Carretto.

Il Sant’Offizio.

 

 

Ma dobbiamo al Garufi queste esplicative note.

«S’aspettava ancora il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante]  - scrive l’illustre storico - e chi sa per quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il 19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo, spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un altro rapporto con le copie d’un nuovo processo contro Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi fattacci occorsi al fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle. [...]

[E sono fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo l’Inquisitore “sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice il Franchina, ad esser gravemente vilipesa”.  [...]».

 

Ed  il Garufi così illustra il caso che avrebbe coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto  passa a parlare del fratello del conte di Racalmuto.

«Premetto che non è affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli interessi materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del Carretto, tramutato  per l’occasione in un misero commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del S. Officio.

«Arrestato costui per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario per le consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a favorire il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di famiglia o meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie a dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una regolare sentenza di magistrato.

 

«E giacché la G. Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo il Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo:  che “di pieno diritto spettasse loro di giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.

 

«Affermato codesto principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi reclami a Filippo II

«La moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo molto simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto, condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»

Confessiamo che le vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del 19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che  Gasparo la Cannita - un personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré Albadalista -  faceva  al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale  del S. Officio contro la G. Corte per salvare l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.

 

Al conte Giovanni del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608 cade a sua volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via Maqueda a Palermo.

 

Il figlio Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne fatto fuori da un servo.

 

Morì il 1° ( e non il 6 maggio) del 1622 all’età di appena 24 anni, 7 mesi e 3 giorni.

 

Il nipote Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26 febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano), colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV, re di Spagna.

 

Ma qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel  1593, all’epoca del ‘Rivelo’?

A noi sembra, decisamente compromessa.

Un sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano  che, parlando della nobiltà di Palermo e di Messina, ignora del tutto la famiglia del Carretto.

I documenti lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo XVI. Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.

Nel processo n. 3542 del 1600  , appare che Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le procedure per assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.

Avrebbe dovuto essere trattenuto in carcere, ma, sia pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di barone di Cerami.

 

 

La presa del possesso di Racalmuto.

 

Veniamo innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.

Sappiamo che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di Palermo.

 

Defunto l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente agrigentino don Cesare del Carretto.

 

Eccone, in traduzione, l’atto di possesso:

«Atto di possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -

«Si premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui successe - così come dovette e deve - nella contea predetta, per patto e provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e degli altri atti e scritture.

 

«In relazione a ciò, nel predetto giorno,  lo spettabile don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio, presente, innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don Giovanni, in forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del presente mese, in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti, contratti e scritture,  con ogni miglior modo e forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e pensato, in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don Giovanni come figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato ill.mo signor don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del principe ed in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome e continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo, libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e degli altri diritti ed universe pertinenze sue.

 

«E per me infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione  civile e criminale e nel mero e misto imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi ed altre scritture.

 

«E ciò per acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.

 

«Così come si è proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.

 

«E tanto si è fatto anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone di mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco; e negli uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone di mastro Giacomo Puma e mastro Paolo Cacciaturi.

 

«Per nuova elezione e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi ufficiali e gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina degli ufficiali in altra occasione o circostanza.

 

«Per la solenne celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero, reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo signor don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro di avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi registrato a suo tempo e luogo.

 

«Testi presenti: chierico Francesco Nicastro; m.° Pietro Romano; m.° Marino de Mulé e m.° Pietro Cacciatore.

 

«Nello stesso giorno, ai fini dell’estensione del possesso predetto, fu fatto accesso per me predetto infrascritto notaro e per il detto spettabile don Cesare del Carretto procuratore, con i testi infrascritti, fuori di Racalmuto presso il feudo detto di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale (Donnafala?), Garamoli e Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti d’acqua, i vigneti della detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del detto ill.mo don Giovanni, facendo l’entrata e l’uscita, visionando la concessione degli erbaggi, toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra, ispezionando il defluvio delle acque e compiendo gli altri riti atti a dimostrare la solenne presa di possesso.

 

«Testi: Nicolò di Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.° Pietro Buscemi.

Dagli atti miei notaio Antonino de Gagliano, di Cerami,  regio pubblico notaio del Regno.»

 

Il truce personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).

Ottiene due dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come da questa nota del citato processo:

«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584  - prestitit juramentum [..]»

Giovanni del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di oneri, pesi e debiti.

 

Il “paragio”.

 

 

Tra tutti primeggiavano gli obblighi di “paragio”.

Il “paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.

Simpatico o meno che sia il sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul poveraccio cadde addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due fratelli che non scherzavano in fatto di pretese economiche, una figlia ‘spuria’ da dotare bene per farla sposare dal nobile Russo - forse un parente della prima moglie -, un figlio infelice avuto tardivamente da una discendente della arrogante e burbanzosa famiglia Tagliavia-Aragona della vicina Favara.  

E per di più le disgrazie giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa di mille fiorini’)  e per quelli suoi propri (condanna ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).

 

Sbuca poi un Vincenzo del Carretto che le carte della curia agrigentina danno come arciprete di Racalmuto al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio del ‘600.

Risulta da vari documenti  un  fratello dell’infelice conte di Racalmuto, quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.

Se è così, fu un altro figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo) da dotare se non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal Concilio di Trento per gli ecclesiastici.

 

I ‘paragi’ delle sorelle e dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei del Carretto che avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad acrimonie giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del Carretto e suo figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava Giovanni, e forse per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto per alto tradimento nel 1650).

 

Racalmuto - questo feudo dei del Carretto - ne subì i danni?  Tutto lo fa pensare.

 

Donna Aldonza del Carretto

 

 

Un saggio della pretenziosità delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che dota il convento di S. Chiara a Racalmuto - la quale pure sul letto di morte non resiste nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio verso il fratello primogenito.

 

Lo esclude, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali,  che invece limita alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis  et infrascriptis».

 

Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver  dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:

«..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia  leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano  et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet competenti et competituro et non aliter.

 

«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»

 

Ma non tutte le sorelle erano eguali per la terribile donna Aldonza.

E solo dopo un paio di nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo un legato di 200 once così condizionato:

 

«Item ipsa tetatrix legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori, uncias ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes universales infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis] ipsius testatricis et hoc pro bono amore».

 

Uguale trattamento per il fratello Aleramo:

«Item essa testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di Gagliano, onzi ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori di essa testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem D. Aleramo competenti et competituro.

«Item essa testatrice declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi pagando onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».

 

Nel testamento non troviamo alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse perché già morto?

Ma non basta. Se ci si addentra nei processi per investitura dei del Carretto, sbuca fuori un’altra sorella: Beatrice del Carretto,   morta nel settembre del 1592.

 

 

I del Carretto a fine secolo XVI.

 

 

Tirando le somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di ‘paragio’ di otto sorelle e due fratelli.

 Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legale, il conte di Racalmuto per antonomasia, Girolamo del Carretto.

Su quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’. Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto, all’età di ventitré anni si spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.

Un anno dopo, il primo maggio 1622, Girolamo del Carretto dava l’anima a Dio.

Ma torniamo al 1593, l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di sicuro nel suo castello racalmutese.

Una nota di cronaca lo accosta alla morte del celebre poeta  Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri del Santo Offizio.

«In questo stesso anno [1593]  - precisa un diarista  -  dì 19 di agosto. Fu posto fuoco alla monizione della polvere che era in Castell’a mare di Palermo: perilché quasi tutto il castello brugiò, e morirono più di 200 persone, la maggior parte carcerati; fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta, Argistro Gioffredo, il baron di Sinagra, due maestri di sant’Agostino che andorno a mangiare con l’inquisitori, et altri cavalieri e plebei.

«Scamporno l’inquisitori, il conte di Racalmuto, il barone di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina grande delle case del castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi d’ivi, andorno a stare alla casa di Monetta.»

 

Che cosa vi stesse a fare Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente de oficial» del Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan Francesco Rao ed il viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II che i nobili non potessero far parte dell’Inquisizione.

Non era quindi per ragioni di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che potesse stare in quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può dunque spiegare il perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di riguardo . Se è così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.

Che i guai di Giovanni del Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano stati seri si desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello rampante, Aleramo del Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.

I Diari  parlano del «pretore l’ill.mo sig. D. Aleramo del Carretto conte di Gagliano» sotto la data del 26 ottobre 1595, e narrano che l’11 aprile del 1596 costui, come pretore, ebbe a carcerare «tutti li mastri di piazza». Gli ascrivono poi a merito che in quel tempo «fece fare la scala nova della Corte del pretore e l’arcivo del capitano».

Giovanni del Carretto dovrà aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16 dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore sopra la lettiga. E lo portarono in spalla quattro titolati, che furono D. Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è vero, ma ci sta.

 

Giovanni del Carretto resta vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di Cerami. Ha una relazione non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è documentato - ha una figlia di nome Elisabetta.

Nella seconda metà dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo Russo. A sua volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita Tagliavia di Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio cognome quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio sia stato celebrato nel 1596.

Il primogenito Girolamo del Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre 1597.

Dopo tante traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il 13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi (difettava di liquidità?)  e presta giuramento il 18 settembre 1600.

 

I del Carretto, dopo il trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto, almeno sino all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del padre, nel 1606, venne  ricondotto, insieme alla sorella, dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del Carmelo vi trovò anche la morte nel 1622).

Il figlio, Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel 1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro paese, praticamente sino alla sua estinzione (1710).

 

Finché i del Carretto si accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero proficuamente abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel “castro” racalmutese e viene seppellito a S. Francesco.

Ecco la testimonianza resa da un maggiorente locale:

«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti, repertus hic presens testes,  juratus et interrogatus supra capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire qualiter:

«in lo misi di gennaro prossimo passato in la ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in ditta baronia ipso spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito legitimo et naturali,  et accussì tempore eius vitae lo vidio teneri,  trattari et reputari  per patri et figlio,  et cussì da tutti quelli ca lu havino canuxuto et canuxino  ... quia instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».

 

Dal 1564 comincia la documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto di matrimonio.  Piuttosto rada all’inizio, verso la fine del secolo s’infittisce. Le presenze importanti in paese, o per un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono dirsi tutte documentate.

 

Quanto ai del Carretto, un Baldassare viene a Racalmuto, con la moglie, per fare da compare e comare al figlio di un grosso personaggio: i Vuo. La solennità dell’evento viene così segnata:

«Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593  - Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria del Carretto.»

 

Quattordici anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’analoga circostanza don Giuseppe del Carretto: la cerimonia riguarda il battesimo della figlia Porzia del magnifico “Arthali magn. Thodisco”. Infatti, il documento recita: “I padrini: ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de Carretto”.

Troppo poco, come si vede.

 

Ebbe ad attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte Giovanni, il marito della figlia illegittima Elisabetta.

Recenti ricerche d’archivio in Vaticano ci hanno permesso di appurare il ruolo di questo personaggio.

I del Carretto ed il vorace vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva.

 

 

Nel 1599 il vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva si vedeva costretto a difendersi presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari,   avendo avuto sentore di un libello accusatorio contro di lui che non si è lungi dal vero ritenerlo ispirato, se non addirittura scritto, dalla potente famiglia locale dei Montaperto.

Il Presule agrigentino passa al contrattacco e descrive con toni acri le sopraffazioni dell’intera nobiltà dell’agrigentino, i del Carretto compresi.

La fosca storia del chierico Vella

 

Sulle vicende del chierico Vella fornisce notizie Mons. De Gregorio:

«Le controversie poi per la giurisdizione o esenzione ecclesiastica non erano infrequenti.

«A Racalmuto il chierico in  minoribus Jacopu Vella fu “infamato” della morte di un vassallo del Conte il quale lo fece arrestare e volle procedere contro di lui, nonostante monitori e censure, e per sottrarlo al vescovo lo fece prima portare nelle carceri di Palermo e poi in quelle di Agrigento.

«“In detta terra li preti e clerici non godono franchezza nixuna et per ordine del conte non si da la franchezza della gabella et mali imposti et comprano come li seculari denegandoli la franchezza.

«”In detta terra, essendo mandati Vincenzo Carusio, sollicitaturi fiscali, e Giuseppi Gatta commissario per prendere a notaro Oruntio Gualtieri, foro detenuti dalli uffiziali temporali, carzerati per molti giorni tenendoli  a lassari exequiri l’ordini contra detto prosecuto”.

«Nella stessa terra lungamente il conte contrastò con il vescovo e il capitolo per il diritto di spoglio alla morte dell’arciprete Michele Romano.»

*   *   *

Nei registri della Matrice si hanno, tra l’altro, notizie sulla morte del detto arciprete. Nel libro dei matrimoni del tempo si annota, ad esempio: «die 28 Julii X Ind. 1597. Incomensa lo conto delli inguaggiati dopo la morte del arciprete don Michele Romano.»

 

Il benefizio di Sant’Agata

 

 

Al Vescovo di Agrigento facevano dunque gola i beni dell’arciprete racalmutese.

Rimane ancora l’eco di un suo maneggio sui beni di S. Agata.

Non si  sa se nel 1596 sorgesse nel Beneficio di S. Agata una qualche omonima chiesa.  In uno studio del 1908 , F. M. Mirabella illustrava la figura di «Sebastiano Bagolino, Poeta latino ed erudito del Sec. XVI». Vi si parla anche dei difficili rapporti del poeta ed il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarrusias e Leyva di Toledo.

«Certo è che - si legge a pag. 188 - della sua traduzione [fatta dallo spagnolo in latino di alcune opere del vescovo] il Bagolino non si tenne adeguatamente compensato. Aveagli il vescovo fatto l'onore di ammetterlo alla sua mensa; aveva anche conferito a don Pietro Bagolino, fratello di lui, prima i beneficj di Santa Lucia e di S. Margherita in Castronovo, di S. Agata in Racalmuto, di S. Maria Maddalena in Naro, di S. Leonardo fuori le mura di Girgenti, e poi quello di S. Pietro nella stessa Girgenti col reddito annuo di 250 ducati. Ma questo al poeta non pareva un guiderdone condegno.»

 

IL MERO E MISTO IMPERIO

 

Nel 1582, nel testamento di don Girolamo del Carretto primo conte di Racalmuto, il lascito a Don Giovanni quarto comprende, senza ombra di equivoco, la contea di Racalmuto con il «..mero et misto imperio dicti comitatus ac titulo dicti comitatus aquisito  per dictum dom. testatorem ...».

Ma viste le successive contese, giocò forse il fatto che nel più importante privilegio di casa del Carretto - quello della sua erezione a contea con firma autografa di Filippo II di Spagna - latita un esplicito richiamo al mero e misto imperio, anche se non mancano le locuzioni equipollenti. 

Tra le varie clausole scegliamo questa (che traduciamo dal latino):

«Concesse e concede a Don Giovanni del Carretto, suo figlio primogenito, successore indubitato in detto stato, terra, titolo, feudi .. con le modalità specificate .. il predetto stato e contea di Racalmuto .. con tutti i suoi singoli feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi, terraggioli, censi, servitù,  giurisdizioni civile e criminale, mero e misto imperio, con il titolo e la dignità di conte.»

Concetto che ritorna subito dopo: « Del pari, doniamo tutti ed integralmente i beni stabili e mobili, allodiali e burgensatici, redditi, diritti, censi e tutti gli altri diritti, .. nonché il detto stato di Racalmuto con tutti i singoli relativi feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi feudali, giurisdizioni civile e criminale, nonché il “mero e misto imperio” con la dignità ed il titolo di conte...».

 

Nel Privilegium concessionis Comitatus Racalmuti in personam Don Hieronimi  de Carretto, dopo la buriana dell’esecuzione per alto tradimento dell’ultimo Giovanni del Carretto, il “mero e misto imperio” non si dubita neppure essere prerogativa della Contea di Racalmuto.

Il diploma regio è chiaro: «...il feudo, lo stato ed il titolo confiscati, doniamo, rimettiamo, con la nostra indulgenza, ed a te don Girolamo del Carretto e Branciforti doniamo di nuovo e concediamo, investendotene, il feudo e la contea di Racalmuto, con la sua terra, i suoi dominî, il vassallaggio e con tutti i suoi singoli feudi e territori, nonché la baronia come si dice di Gibillini e Fico, entro i loro confini, con le case, i mulini, i corsi  d’acqua, i boschi, e con tutte le altre singole cose della detta Contea e Baronia e relative pertinenze, comunque e dovunque inerenti, unitamente all’integrità dello stato con ogni sua causa e modo, nonché alla giurisdizione, il mero e misto imperio, la ’baglîa’, le gabelle, i censi e tutti gli universi singoli diritti a detta Contea e Baronia spettanti, con tutte le prerogative, dignità, preminenze e clausole come tuo padre e tuo nonno ed i tuoi antecessori legittimamente avevano avuto, tenuto e posseduto ... »

  

Resta ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto, se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.

 

Non vi erano solo i diritti feudali veri e propri, ma anche i beni allodiali della famiglia del Carretto, per la gran parte in mano ai rami cadetti (che erano soliti dimorare ad Agrigento) a motivo forse del dispersivo gioco del ‘paraggio’.



 
GIOVANNI IV DEL CARRETTO
 
 
 
 
Giovanni IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad occuparsi le cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un personaggio che visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo che a Racalmuto non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni racalmutesi da un genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie e che fu sposo della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte teneva tanto da legittimarla.
Tinebra Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare la figura di questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano destano curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non sono però molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro conte Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua ricostruzione  delle vicende di fra Diego La Matina (vedasi la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)
 
Ad onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per questo, Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea, sistemata in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto Girolamo I, questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli imprenditori, anche usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per quei tempi: il rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento abitanti, e molti di loro hanno patrimoni apprezzabili.
 
In un siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo censimento che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni, infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come ce la racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni  «In questi tempi [tra il 1589 ed il 15 maggio 1591] successe che essendo  riportato a D. Giovanni Carretto, conte di Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro quello parole ingiuriose, il detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un disfido per una lettera, dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.
 
 Gli mandò dietro il conte per farlo castigare della presunzione; ma fro i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte, ed attese a procurar meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a trattare col viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato genti per tal effetto.
Lo ingannro due finalmente, che, offerendosi al Cannita di accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’ nemici.
Aveva il conte concertato due con due pistole, e quattro per far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il pover’uomo, gli scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano per salvarli, sbigottiti fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in fuggire, fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e menato al viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì] assai quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era stato preso per l’omicidio, fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo prendere in Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al viceré, perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere del sant’Officio; ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola ‘citra paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì per venire il giorno di festa con un altro seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista , quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il conte di Racalmuto con dodici guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti si trattava da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà, che il conte per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco. In questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»
 
Il Tinebra Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul testo - invero arduo  - del Di Giovanni (che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione, sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione (v. pag. 105-107).
 
 
L’intrico (veritiero) del conte Giovanni del Carretto.
Il Sant’Offizio.
 
 
Ma dobbiamo al Garufi queste esplicative note.
«S’aspettava ancora il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante]  - scrive l’illustre storico - e chi sa per quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il 19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo, spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un altro rapporto con le copie d’un nuovo processo contro Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi fattacci occorsi al fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle. [...]
[E sono fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo l’Inquisitore “sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice il Franchina, ad esser gravemente vilipesa”.  [...]».
 
Ed  il Garufi così illustra il caso che avrebbe coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto  passa a parlare del fratello del conte di Racalmuto.
«Premetto che non è affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli interessi materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del Carretto, tramutato  per l’occasione in un misero commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del S. Officio.
«Arrestato costui per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario per le consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a favorire il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di famiglia o meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie a dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una regolare sentenza di magistrato.
 
«E giacché la G. Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo il Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo:  che “di pieno diritto spettasse loro di giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.
 
«Affermato codesto principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi reclami a Filippo II
«La moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo molto simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto, condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»
Confessiamo che le vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del 19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che  Gasparo la Cannita - un personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré Albadalista -  faceva  al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale  del S. Officio contro la G. Corte per salvare l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
 
Al conte Giovanni del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608 cade a sua volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via Maqueda a Palermo.
 
Il figlio Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne fatto fuori da un servo.
 
Morì il 1° ( e non il 6 maggio) del 1622 all’età di appena 24 anni, 7 mesi e 3 giorni.
 
Il nipote Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26 febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano), colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV, re di Spagna.
 
Ma qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel  1593, all’epoca del ‘Rivelo’?
A noi sembra, decisamente compromessa.
Un sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano  che, parlando della nobiltà di Palermo e di Messina, ignora del tutto la famiglia del Carretto.
I documenti lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo XVI. Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.
Nel processo n. 3542 del 1600  , appare che Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le procedure per assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.
Avrebbe dovuto essere trattenuto in carcere, ma, sia pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di barone di Cerami.
 
 
La presa del possesso di Racalmuto.
 
Veniamo innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.
Sappiamo che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di Palermo.
 
Defunto l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente agrigentino don Cesare del Carretto.
 
Eccone, in traduzione, l’atto di possesso:
«Atto di possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui successe - così come dovette e deve - nella contea predetta, per patto e provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e degli altri atti e scritture.
 
«In relazione a ciò, nel predetto giorno,  lo spettabile don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio, presente, innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don Giovanni, in forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del presente mese, in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti, contratti e scritture,  con ogni miglior modo e forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e pensato, in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don Giovanni come figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato ill.mo signor don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del principe ed in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome e continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo, libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e degli altri diritti ed universe pertinenze sue.
 
«E per me infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione  civile e criminale e nel mero e misto imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi ed altre scritture.
 
«E ciò per acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.
 
«Così come si è proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.
 
«E tanto si è fatto anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone di mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco; e negli uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone di mastro Giacomo Puma e mastro Paolo Cacciaturi.
 
«Per nuova elezione e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi ufficiali e gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina degli ufficiali in altra occasione o circostanza.
 
«Per la solenne celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero, reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo signor don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro di avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi registrato a suo tempo e luogo.
 
«Testi presenti: chierico Francesco Nicastro; m.° Pietro Romano; m.° Marino de Mulé e m.° Pietro Cacciatore.
 
«Nello stesso giorno, ai fini dell’estensione del possesso predetto, fu fatto accesso per me predetto infrascritto notaro e per il detto spettabile don Cesare del Carretto procuratore, con i testi infrascritti, fuori di Racalmuto presso il feudo detto di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale (Donnafala?), Garamoli e Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti d’acqua, i vigneti della detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del detto ill.mo don Giovanni, facendo l’entrata e l’uscita, visionando la concessione degli erbaggi, toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra, ispezionando il defluvio delle acque e compiendo gli altri riti atti a dimostrare la solenne presa di possesso.
 
«Testi: Nicolò di Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.° Pietro Buscemi.
Dagli atti miei notaio Antonino de Gagliano, di Cerami,  regio pubblico notaio del Regno.»
 
Il truce personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).
Ottiene due dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584  - prestitit juramentum [..]»
Giovanni del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di oneri, pesi e debiti.
 
Il “paragio”.
 
 
Tra tutti primeggiavano gli obblighi di “paragio”.
Il “paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.
Simpatico o meno che sia il sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul poveraccio cadde addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due fratelli che non scherzavano in fatto di pretese economiche, una figlia ‘spuria’ da dotare bene per farla sposare dal nobile Russo - forse un parente della prima moglie -, un figlio infelice avuto tardivamente da una discendente della arrogante e burbanzosa famiglia Tagliavia-Aragona della vicina Favara.  
E per di più le disgrazie giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa di mille fiorini’)  e per quelli suoi propri (condanna ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).
 
Sbuca poi un Vincenzo del Carretto che le carte della curia agrigentina danno come arciprete di Racalmuto al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio del ‘600.
Risulta da vari documenti  un  fratello dell’infelice conte di Racalmuto, quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.
Se è così, fu un altro figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo) da dotare se non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal Concilio di Trento per gli ecclesiastici.
 
I ‘paragi’ delle sorelle e dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei del Carretto che avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad acrimonie giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del Carretto e suo figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava Giovanni, e forse per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto per alto tradimento nel 1650).
 
Racalmuto - questo feudo dei del Carretto - ne subì i danni?  Tutto lo fa pensare.
 
Donna Aldonza del Carretto
 
 
Un saggio della pretenziosità delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che dota il convento di S. Chiara a Racalmuto - la quale pure sul letto di morte non resiste nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio verso il fratello primogenito.
 
Lo esclude, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali,  che invece limita alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis  et infrascriptis».
 
Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver  dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:
«..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia  leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano  et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet competenti et competituro et non aliter.
 
«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
 
Ma non tutte le sorelle erano eguali per la terribile donna Aldonza.
E solo dopo un paio di nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo un legato di 200 once così condizionato:
 
«Item ipsa tetatrix legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori, uncias ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes universales infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis] ipsius testatricis et hoc pro bono amore».
 
Uguale trattamento per il fratello Aleramo:
«Item essa testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di Gagliano, onzi ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori di essa testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem D. Aleramo competenti et competituro.
«Item essa testatrice declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi pagando onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».
 
Nel testamento non troviamo alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse perché già morto?
Ma non basta. Se ci si addentra nei processi per investitura dei del Carretto, sbuca fuori un’altra sorella: Beatrice del Carretto,   morta nel settembre del 1592.
 
 
I del Carretto a fine secolo XVI.
 
 
Tirando le somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di ‘paragio’ di otto sorelle e due fratelli.
 Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legale, il conte di Racalmuto per antonomasia, Girolamo del Carretto.
Su quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’. Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto, all’età di ventitré anni si spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.
Un anno dopo, il primo maggio 1622, Girolamo del Carretto dava l’anima a Dio.
Ma torniamo al 1593, l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di sicuro nel suo castello racalmutese.
Una nota di cronaca lo accosta alla morte del celebre poeta  Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri del Santo Offizio.
«In questo stesso anno [1593]  - precisa un diarista  -  dì 19 di agosto. Fu posto fuoco alla monizione della polvere che era in Castell’a mare di Palermo: perilché quasi tutto il castello brugiò, e morirono più di 200 persone, la maggior parte carcerati; fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta, Argistro Gioffredo, il baron di Sinagra, due maestri di sant’Agostino che andorno a mangiare con l’inquisitori, et altri cavalieri e plebei.
«Scamporno l’inquisitori, il conte di Racalmuto, il barone di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina grande delle case del castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi d’ivi, andorno a stare alla casa di Monetta.»
 
Che cosa vi stesse a fare Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente de oficial» del Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan Francesco Rao ed il viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II che i nobili non potessero far parte dell’Inquisizione.
Non era quindi per ragioni di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che potesse stare in quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può dunque spiegare il perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di riguardo . Se è così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.
Che i guai di Giovanni del Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano stati seri si desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello rampante, Aleramo del Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.
I Diari  parlano del «pretore l’ill.mo sig. D. Aleramo del Carretto conte di Gagliano» sotto la data del 26 ottobre 1595, e narrano che l’11 aprile del 1596 costui, come pretore, ebbe a carcerare «tutti li mastri di piazza». Gli ascrivono poi a merito che in quel tempo «fece fare la scala nova della Corte del pretore e l’arcivo del capitano».
Giovanni del Carretto dovrà aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16 dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore sopra la lettiga. E lo portarono in spalla quattro titolati, che furono D. Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è vero, ma ci sta.
 
Giovanni del Carretto resta vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di Cerami. Ha una relazione non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è documentato - ha una figlia di nome Elisabetta.
Nella seconda metà dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo Russo. A sua volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita Tagliavia di Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio cognome quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio sia stato celebrato nel 1596.
Il primogenito Girolamo del Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre 1597.
Dopo tante traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il 13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi (difettava di liquidità?)  e presta giuramento il 18 settembre 1600.
 
I del Carretto, dopo il trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto, almeno sino all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del padre, nel 1606, venne  ricondotto, insieme alla sorella, dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del Carmelo vi trovò anche la morte nel 1622).
Il figlio, Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel 1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro paese, praticamente sino alla sua estinzione (1710).
 
Finché i del Carretto si accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero proficuamente abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel “castro” racalmutese e viene seppellito a S. Francesco.
Ecco la testimonianza resa da un maggiorente locale:
«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti, repertus hic presens testes,  juratus et interrogatus supra capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire qualiter:
«in lo misi di gennaro prossimo passato in la ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in ditta baronia ipso spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito legitimo et naturali,  et accussì tempore eius vitae lo vidio teneri,  trattari et reputari  per patri et figlio,  et cussì da tutti quelli ca lu havino canuxuto et canuxino  ... quia instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».
 
Dal 1564 comincia la documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto di matrimonio.  Piuttosto rada all’inizio, verso la fine del secolo s’infittisce. Le presenze importanti in paese, o per un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono dirsi tutte documentate.
 
Quanto ai del Carretto, un Baldassare viene a Racalmuto, con la moglie, per fare da compare e comare al figlio di un grosso personaggio: i Vuo. La solennità dell’evento viene così segnata:
«Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593  - Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria del Carretto.»
 
Quattordici anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’analoga circostanza don Giuseppe del Carretto: la cerimonia riguarda il battesimo della figlia Porzia del magnifico “Arthali magn. Thodisco”. Infatti, il documento recita: “I padrini: ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de Carretto”.
Troppo poco, come si vede.
 
Ebbe ad attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte Giovanni, il marito della figlia illegittima Elisabetta.
Recenti ricerche d’archivio in Vaticano ci hanno permesso di appurare il ruolo di questo personaggio.
I del Carretto ed il vorace vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva.
 
 
Nel 1599 il vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva si vedeva costretto a difendersi presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari,   avendo avuto sentore di un libello accusatorio contro di lui che non si è lungi dal vero ritenerlo ispirato, se non addirittura scritto, dalla potente famiglia locale dei Montaperto.
Il Presule agrigentino passa al contrattacco e descrive con toni acri le sopraffazioni dell’intera nobiltà dell’agrigentino, i del Carretto compresi.
La fosca storia del chierico Vella
 
Sulle vicende del chierico Vella fornisce notizie Mons. De Gregorio:
«Le controversie poi per la giurisdizione o esenzione ecclesiastica non erano infrequenti.
«A Racalmuto il chierico in  minoribus Jacopu Vella fu “infamato” della morte di un vassallo del Conte il quale lo fece arrestare e volle procedere contro di lui, nonostante monitori e censure, e per sottrarlo al vescovo lo fece prima portare nelle carceri di Palermo e poi in quelle di Agrigento.
«“In detta terra li preti e clerici non godono franchezza nixuna et per ordine del conte non si da la franchezza della gabella et mali imposti et comprano come li seculari denegandoli la franchezza.
«”In detta terra, essendo mandati Vincenzo Carusio, sollicitaturi fiscali, e Giuseppi Gatta commissario per prendere a notaro Oruntio Gualtieri, foro detenuti dalli uffiziali temporali, carzerati per molti giorni tenendoli  a lassari exequiri l’ordini contra detto prosecuto”.
«Nella stessa terra lungamente il conte contrastò con il vescovo e il capitolo per il diritto di spoglio alla morte dell’arciprete Michele Romano.»
*   *   *
Nei registri della Matrice si hanno, tra l’altro, notizie sulla morte del detto arciprete. Nel libro dei matrimoni del tempo si annota, ad esempio: «die 28 Julii X Ind. 1597. Incomensa lo conto delli inguaggiati dopo la morte del arciprete don Michele Romano.»
 
Il benefizio di Sant’Agata
 
 
Al Vescovo di Agrigento facevano dunque gola i beni dell’arciprete racalmutese.
Rimane ancora l’eco di un suo maneggio sui beni di S. Agata.
Non si  sa se nel 1596 sorgesse nel Beneficio di S. Agata una qualche omonima chiesa.  In uno studio del 1908 , F. M. Mirabella illustrava la figura di «Sebastiano Bagolino, Poeta latino ed erudito del Sec. XVI». Vi si parla anche dei difficili rapporti del poeta ed il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarrusias e Leyva di Toledo.
«Certo è che - si legge a pag. 188 - della sua traduzione [fatta dallo spagnolo in latino di alcune opere del vescovo] il Bagolino non si tenne adeguatamente compensato. Aveagli il vescovo fatto l'onore di ammetterlo alla sua mensa; aveva anche conferito a don Pietro Bagolino, fratello di lui, prima i beneficj di Santa Lucia e di S. Margherita in Castronovo, di S. Agata in Racalmuto, di S. Maria Maddalena in Naro, di S. Leonardo fuori le mura di Girgenti, e poi quello di S. Pietro nella stessa Girgenti col reddito annuo di 250 ducati. Ma questo al poeta non pareva un guiderdone condegno.»
 
IL MERO E MISTO IMPERIO
 
Nel 1582, nel testamento di don Girolamo del Carretto primo conte di Racalmuto, il lascito a Don Giovanni quarto comprende, senza ombra di equivoco, la contea di Racalmuto con il «..mero et misto imperio dicti comitatus ac titulo dicti comitatus aquisito  per dictum dom. testatorem ...».
Ma viste le successive contese, giocò forse il fatto che nel più importante privilegio di casa del Carretto - quello della sua erezione a contea con firma autografa di Filippo II di Spagna - latita un esplicito richiamo al mero e misto imperio, anche se non mancano le locuzioni equipollenti. 
Tra le varie clausole scegliamo questa (che traduciamo dal latino):
«Concesse e concede a Don Giovanni del Carretto, suo figlio primogenito, successore indubitato in detto stato, terra, titolo, feudi .. con le modalità specificate .. il predetto stato e contea di Racalmuto .. con tutti i suoi singoli feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi, terraggioli, censi, servitù,  giurisdizioni civile e criminale, mero e misto imperio, con il titolo e la dignità di conte.»
Concetto che ritorna subito dopo: « Del pari, doniamo tutti ed integralmente i beni stabili e mobili, allodiali e burgensatici, redditi, diritti, censi e tutti gli altri diritti, .. nonché il detto stato di Racalmuto con tutti i singoli relativi feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi feudali, giurisdizioni civile e criminale, nonché il “mero e misto imperio” con la dignità ed il titolo di conte...».
 
Nel Privilegium concessionis Comitatus Racalmuti in personam Don Hieronimi  de Carretto, dopo la buriana dell’esecuzione per alto tradimento dell’ultimo Giovanni del Carretto, il “mero e misto imperio” non si dubita neppure essere prerogativa della Contea di Racalmuto.
Il diploma regio è chiaro: «...il feudo, lo stato ed il titolo confiscati, doniamo, rimettiamo, con la nostra indulgenza, ed a te don Girolamo del Carretto e Branciforti doniamo di nuovo e concediamo, investendotene, il feudo e la contea di Racalmuto, con la sua terra, i suoi dominî, il vassallaggio e con tutti i suoi singoli feudi e territori, nonché la baronia come si dice di Gibillini e Fico, entro i loro confini, con le case, i mulini, i corsi  d’acqua, i boschi, e con tutte le altre singole cose della detta Contea e Baronia e relative pertinenze, comunque e dovunque inerenti, unitamente all’integrità dello stato con ogni sua causa e modo, nonché alla giurisdizione, il mero e misto imperio, la ’baglîa’, le gabelle, i censi e tutti gli universi singoli diritti a detta Contea e Baronia spettanti, con tutte le prerogative, dignità, preminenze e clausole come tuo padre e tuo nonno ed i tuoi antecessori legittimamente avevano avuto, tenuto e posseduto ... »
  
Resta ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto, se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
 
Non vi erano solo i diritti feudali veri e propri, ma anche i beni allodiali della famiglia del Carretto, per la gran parte in mano ai rami cadetti (che erano soliti dimorare ad Agrigento) a motivo forse del dispersivo gioco del ‘paraggio’.
 
 
 
 



 

 

 

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