Profilo

venerdì 29 maggio 2015

contrappunti

Ai primi di maggio al casino possono ancora leggersi trafiletti rassicuranti sulla situazione politica siciliana. Il Giornale di giovedì 3 Maggio riporta il trionfale messaggio ai “Siciliani - La sedizione del mattino del 4 aprile, con l’aiuto di Dio, mancò di asseguire l’impobo intendimento di travolgere nell’anarchia questa bella parte dei Reali dominii”. Dovette piacere molto ai civili racalmutesi quel chiamare le cose come “improbo intendimento”  che avrebbe portato all’aborrita anarchia.  La quasi totalità dei soci del casino era - e poteva essere diversamente? - per l’ordine costituito. Lo speziale Calogero Messana e don Gaetano Savatteri lo erano altrettanto: ma i loro figli no. Biagio Messana, massone ed ora sfaccendato autore di versi in vernacolo, Serafino Messana, chimico per diventare farmacista al posto del padre, Luigi Messana, Giacchino Savatteri, il futuro sindaco, Calogero Savatteri, il notaio massone, erano giovani che tutti sapevano in combuta con i rivoltosi. La conversazione al circolo doveva tenere conto di tutti quegli intrighi; non perdere il gusto del dileggio e del sarcasmo; ma stare attenti a fare passi falsi, compromettenti. Un domani, chissà? E un domani infatti vi fu, tutto contrario al placido pensare dei galantuomini nostrani.

La cronaca di quel maggio diventa all’improvviso tumultuosa. Vero è che il 3 maggio il Maresciallo comandante le armi può sciogliere lo stato d’assedio in Palermo (art. 1), ed il 4 di quel mese - come tutto fosse tranquillo - ci si può soffermare sul fatto che «saranno egualmente costruite per ora tre grandi linee di ferrovie ... la terza per Girgenti e Terranova», ma occorre stare in campana. Don Paolo Ruffo, Principe di Castelcicala, Luogotenente  di S.M. il Re S.N. e comandante generale delle Armi in questi domini fa pubblicare sul Giornale la notizia: «gravi fatti di sangue e di rapina in Ciminna, Petralia Sottana, Caccamo, Piana di Vicari, Porticello. I contravventori (detenzione di armi) saranno giudicati da’ Consigli di guerra subitanei e puniti di morte».

Il Giornale Officiale di Sicilia ci dà allora la statistica dei morti in Palermo nell’aprile del 1860:

“dalla nascita a 7 anni ..................................................................................... n.° 108

“da 8 a 20 anni ................................................................................................ “     10

“ “ 21 a 40 anni ................................................................................................ “     41

“ “ 41 a 60 anni ................................................................................................      41

“da 61 in sopra ................................................................................................       52

                                                                        in totale ...................................n.°  252

                                                                                                                       =======

Dalla tabella è desumibile una vita media non superiore a 28 anni e mezzo. Il grafico che sgue ne esplicita meglio la composizione statistica:


 

L’11 maggio il grande evento: Garibaldi a Marsala. Il Giornale Officiale di Sicilia tace. I nostri consoci saranno stati informati da qualcuno. Forse dai Messana, forse dai Savatteri. V’è sgomento. Ognuno scende a casino per trovare modo di fare una qualche eclatante dichiarazione che lui i Borboni non li ha proprio mai digerito. Il vecchio Gaetano Savatteri - ancora non del tutto svanito - annota e sorride. Il successivo venerdì 18 maggio il Giornale è però ancora sotto il controllo borbonico. Pubblica un provvedimento di Francesco il Re: “ Nominiamo il Tenente Generale Don Ferdinando Lanza Nostro Commissario Straordinario in Sicilia - Francesco. Napoli 15 maggio 1860”. E dopo una settimana, il 25 maggio 1860, si ha voglia di pubblicare questo trafiletto: «La banda dei filibustieri del Mediterraneo guidata da Garibaldi pigliava posizione il giorno 23 andante nel Parco, e vi si fortificava con quattro cannoni.» Passano pochi giorni ed il Giornale cambia finalmente voce: «Palermo 1860 - Giovedì 1° giugno n. 1. «Italia e Vittorio Emanuele - Giuseppe Garibaldi Comandante in Capo le forze Nazionali in Sicilia - Il Segretario di Stato Francesco Crispi.» Flash, fulmini che schiantano e atterriscono  ... i più ‘riproti’ borbonici del Casino di Conversazione o di Compagnia di Racalmuto. I savatteri ora non hanno più ritegno: conclamano la loro antica consorteria con quel fuggiasco di Francesco Crispi che all’improvviso ora appare a Palermo quale “Segretario di Stato”. Cicciu Crispi, sì, quello a cui i facoltosi Savatteri hanno fornito mezzi e viveri di straforo, ora è nientemeno che Segretario di Stato di Sicilia. Tremino i nemici; rimembrino i sarcastici. Vendetta? No per carità di Dio, solo qualche umiliazione, solo qualche punta intimidatrice.

Il 29 maggio 1860 il Dittatore Giuseppe Garibaldi aveva nominato il signor Domenoco Bartoli Governatore del distretto di Girgenti . Il provvedimento risulta controfirmato dal segretario di Stato Crispi.  Placido Montalbano diventava giudice di Grotte con decreto a firma Garibaldi del 7 luglio. Garibaldi diventa a un eroe agli occhi degli americani. Lo scrive il Giornale dell’11 luglio. Lo zolfo di prima qualità ha un balzo a Licata nelle quotazioni del 19 luglio 1860 salendo a ducati 3,70 a quintale. Il nobilato racalmutese è ora fanaticamente garibaldino. Gli affari vanno dunque bene; alla fin fine non è successo nulla Già, gattopardescamente, “bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’è”. Ed allora che aspettare? Si legge con soddisfazione la corrispondenza da Racalmuto del Giornale Officiale di Sicilia del 25 luglio 1860. La notizia di una raccolta di firma pro Garibaldi del 24 giugno era rimasta a lungo negletta e ciò metteva in ambasce i nostri bravi compaesani. Ma ora eccola - sia pure con varie sbavature nella trascrizione dei cognomi - nelle untuose colonne del quotidiano palermitano. Si aera costituita una commissione con Luigi Messana, presidente. Seguivano le firme di Gioacchino Paratteri (ahimè, al posto di Savatteri), Gaspare Matrona, Giuseppe Grillo Matrona, Camillo Pirataggio (al posto di Picataggi), Calogero Sferlazzo, Salvatore Borsellini, Gaspare Restivo, Giuseppe Grillo Cavallaro, sac. Matina Mendola, Giuseppe Vincenzo Salvo, Francesco Borsellini, Illuminato Grillo, sac. Giancani, Antonio Grillo Borghese, Carmelo Rosina, Girolamo Grillo Poma, sac. Nicola de Caro, Diego Scibetto Proisi (invece di Troisi), sac. Beneficiale Antonio Picataggi, Napoleone Matrona, Salvatore Salvo, Paolino Matrona, Nicolò Mantia, Michele Alaimo, segretario.

V’è quasi tutto il Gotha degli ottimati racalmutesi; ma vi sono assenze rilevanti.  Nessun Tulumello, nessun Cavallaro, nessun Farrauto. Discriminati all’ultimo momento? Ancora titubanti il 24 giugno? Rampogne, subdole accuse, insinuazioni, cattiverie, ire, sedie e porte sbattute, di sicuro nel casino quando si potè provare l’infame canagliata dei Messana e del Savatteri. Inopinatamente i Matrona (i giovani fratelli Gaspare e Napoleone - ma non il borbonico fratello prete, don Calogero -) vi si erano intrufolati. I sacerdoti che in massa avevano aderito ai moti (cartacei) di Biagio Messana del 1848 ora sono ridotti ai soli Giancani, de Caro e Piacataggi - solo tre rispetto ai 16 di allora. C’era da temere di più per il noto anticlericalismo di Garibaldi che per il pacioso riformismo dei re Borboni.

Sorprende come anche i pavidi Grillo Borghese, l’umbratile Illuminato Grillo e l’emergente Michele Alaimo sono ora tutti della partita. Quanto a Nicolò Mantia - una prefigurazione in dodicesimo del celebre don Calogero Sedara - nessuna meraviglia: il fiuto del borghese è infallibile. Carmelo Rosina si associa. Salvatore Borsellini pure, pure i Salvo e così Sferrazza, Gaspare Restivo - quello di “con tutto il cuore del 1848” - e con lui Girolamo Grillo Puma. Gli assenti: Nicolò Alfano, Michelangelo Argento, Angelo Baeri, Carmelo Buscarino, Giovanni Chiarelli, Luigi Cavallaro, Felice Caratozzolo, Nicolò Di Vita, Luigi Falletta, il farmacista Lorenzo Farrauto, Alfonso Farrauto, Gaspare Franco, Calogero Fucà, Aurelio Giudice, Luigi Grisafi, La Tona Nicolò, Salvatore Macaluso, il farmacista Raffaele Mattina, il sac. Angelo Morreale, Carmelo Morreale, Nicolò Mumisteri  Pinò, Leopoldo Muratori - l’odiato cognato di don Gaetano Savatteri -, Luigi Nalbone, G. Battista Picone, Ignazio Picone, Michelangelo Pomo, Calogero Presti, Orazio Restivo Pantalone, Giosafatto Restivo Pantalone, Paolo Rizzo, Calogero Romano, Carmelo Schillaci Ventura, Giuseppe Sciascia, Pasquale Sciascia - l’antenato di Leonardo -, il farmacista Luigi Scibetta (ma è firmatario il fratello Diego), Serafino e Vincenzo Tinebra, Giuseppe Tulumello, Luigi Tulumello, Vincenzo Tulumello, Giuseppe Tulumello, Saverio Vinci, Mario Vinci, Calogero Vinci e Mario Vinci.

Sono 45 notabili - la vera creme dell’imprenditoria locale - che viene esclusa o che improvvidamente ritenne di non aderire. Ma forse una costante anti- Messana  non fu assente. Biagio Messana - auoproclamatosi presidente della sedicente Giunta comunale - non ebbe fortuna a Racalmuto. “Dopo l’unità - scrive il suo omonimo biografo [12] - segnalato da Michele Amari, ebbe l’incarico di costituire il corpo di polizia in Emilia. ... Nel 1863 venne nominato ispettore di pubblica sicurezza”. Quella della polizia, sarà una costante, poi, dei Messana. “Buontempone, irascibile e spregiudicato - lo reputa Eugenio - spirito bizzarro”, insomma. Approda verso lidi tranquilli, però, quelli liberali lasciando da parte Mazzini e i giovanili vezzi socialisti. “Materialista convinto accettava il dio dei massoni, architetto dell’universo, ponendolo immanente e non trascendente” se crediamo al suo disecendente E.N. Messana. Si credeva tetragono “nei principi inalterabili, avversi alla Tirannia ed allo Stato Politico della Corte di Roma”. Fu anche propenso a scrivere poesiole  in dialetto decisamente pornografiche: una s’intitolava, lasciando intravedere subito il lascivo contenuto: «Padre Filippo e Soru Catarina»; miscela di anticlericalismo becero e di stucchevole trivialità. Ritorno a Racalmuto per morirmi il 13 gennaio 1882, in tempo per dilapidare i beni di famiglia e lasciare in miseria i molti figli, costretti a realizzare il poco rimasto per disperdersi in varie parti del mondo.

Frattanto, le sorti del mercato solfifero cominciarono a declinare, lasciando tra i don del circolo motivi di apprensione. Ecco la curva dei prezzi all’ingrosso:

Curva dei prezzi all'ingrosso dello Zolfo nel 1860
Luglio, 31
6,60
  al quintale
Agosto, 13
3,25
  al quintale
Agosto, 31
3,05
  al quintale

 

In un mese vi era stata dunque una diminuzione del 15,3%: oscillazione da mandare in frantumi tutti i calcoli di convenienza. Certo, si stava in villeggiature; a fare la “campagnata”. Le sale del casino erano vuote per commenti salaci o per recriminazioni. Ed il 13 settembre scenderà ancora: ducati 3 al quintale. Una ripresa a fine anno: ducati 3,20 ed un’impennata il 15 gennaio 1861: 3,50 ducati al quintale. Poi una discesa catastrofica: 2,60 l’8 marzo 1861; 2,55 il 5 aprile 1861. Una falcidia del 29,17% in meno di un anno.

Eccone la terribile curva:


C’era di che maledire Garibaldi, Crispi, Vittorio Emanuele II, i Savoia ed in loco i Messana ed i Savatteri: bel regalo aveno confezionati per i ‘poveri’ galantuomini racalmutesi. Chissà le ire al casino; intuibili le diatribe delle serali ‘conversazioni’. Ci hanno rovinato! Io l’avevo detto! Come poi nel 1948 o 1949 il Ferdinando Trupia dell’epoca avrà incendiata la sala di conversazione; solo che al posto dei contributi unificati cera il crollo del prezzo dello zolfo o le tante tasse che il nuovo regime spandeva a piene mani. «Verso le diciannove - parafrasiamo Sciascia [13] - c’è sempre qualcuno che dà fuoco alla miccia dei contributi unificati, don Ferdinando si accende come  una di quelle macchine che in bellezza concludono i fuochi d’artificio, tutto razzi, girandole cascatelle e spaccate di bestemmie imprecazioni e apprezzamenti di natura sessuale ai funzionari e ai governanti diretti; tiene però a dichiarare, tra tanta furia, che lui paga quanto deve pagare, personalmente non ha subìto soperchierie, con lui tutti camminano su una lama.»

Già le tasse! Il nuovo governo ora era inflessibile e ficcante nell’esigere l’imposta fondiaria: Cresceva anche il dazio sui consumi: ma quello i civili lo consideravano un male altrui, incombente sulla ‘plebaglia’. La sola sovrimposta sui terreni passò nell’agrigentino da 0,79 lire per ettaro cui era arrivata nel 1866 a ben L. 1,87 nel 1879, un aumento di ben 136,70%. Davvero la pressione fiscale diventava soffocante. Ci penso poi il comune a fare spese pazze (i Matrona avevano una maniacale voglia di sperperare in faraoniche opere pubbliche)  e queste ripiobavano sotto forma di imposte comunali dominicali sui nostri galantuomini. Erano letteralmente diventanti furibondi. Serafino Messana - fratello  dell’irrequieto Biagio - è incontenibile! Diventato farmacista, resta solo formalmente il rivoluzionario (cartaceo) del ’48. Si diletta di lettere: scrive inventando neologismi improbabili, vocabolario greco alla mano. La povera storia si lega alla natura nientemeno che in “apocastasi”; [14]  “emanatismo” e “mistogogi” , sono termini per Messana di comune accezione; e “gli antichi credenti usavano la Xerofagia a nona”;  e “metaformasondone il il pensiero dal vero all’immaginario, dall’idea all’ideale, andonne in sivibilio la severa logica per la confusion dei sistemi, degenerando in goffa stravaganza che ne diè pure la spinta la caduta dell’Impero d’Occidente” [15]: accipicchia! Peccato che Rascel non era ancora nato. E così via con lemmi quali: Camauro; imberciare [pag. 9];  antinomia di cinici tartuffi [pag. 10]; essere da sezzo; sanguinaria apoftegma [pag. 11]; Diffalte [pag. 20]; taglia mummica ad ogni menoma lor pia azione [pag. 22]. Le 24 paginette dello sproloquio di Serafino Messana un raccontino tutto paesano ce l’hanno e noi lo riportiamo, pari pari:

«Il signor M..... ascrittosi all’Opera Pia del Suffragio previo lo sborso di ducati sei (scotto stabilito per cadauno; mentre adesso è aumentata la cifra come pure quella delle messe a norma del caro delle derrate) ne volea in Racalmuto la celebrazione, che gli si negò pria con ambagi, poscia con dirgli che per godere di tanto profitto in vita bisognasse erogar di nuovo altrettanta somma. Virtù evangelica!!!; e per l’ipocrisia involava un guardiano i votivi ciondoli della signora M... dal simulacro di S. Maria di Gesù col pretesto di farne tersa pulitura; gli eredi di G....C... ebber sottratta la roba valutata tremila ducati, ed incamerata dal Convento del Carmine; mentre rimasero tapini gli eredi nel più orrido trivio per le mene del prete N....»

Quante volte l’avrà sciorinata questa querelle al casino di conversazione? Se con quella leziosità linguistica, tra lo sberleffo degli annoiati consoci.

Nel 1873 il solito Serafino si fa pubblicare un libello su «il brigantaggio in Sicilia, ossia i delitti impuniti.» Ora la rabbia contro il fiscalismo di stato non ha più remore: Le nostre aspirazioni sono dirette - esplode a pag. 57 - ad alleggerire le riscosse dei tributi, e tòrre quelli che più scottano per essere inventati da mera baratteria, acciocchè i contribuenti non siano straziati e costretti per scadenza di pagamento.» Ed nella chiusa finale, in termini meno lambiccati, lo sfogo intimo e più vero: «Impertanto siimi indulgente nel compatire la lealtà delle mie idee significate in questa lettera abbandonata e ripresa più volte in questo mese e per le odierne occupazioni della famiglia e del Fisco...» Fisco, terrore di don Serafino Messana  e di don Ferdinando Trupia che i locali sanno chi essere stato veramente: un diretto discendente del grafomane Serafino ottocentesco.

Nel 1874 Serafino Messana non aveva remore religiose - miscredente com’era - e si accaparrò un ettaro di terra in contrada Troiana requisito al disciolto convento di santa Chiara, offrendo 1.400 lire al posto del prezzo base di L. 941. Subì ipso facto la scomunica: lui non se ne dolse. Del resto era in compagnia dell’arciprete Tirone che si servi di una prestanome, la sorella Teresa, per annettersi con poche lire tutti questi beni:

1.          anno 1868 - provenienza: Conv. S. Francesco d’Assisi; terre, alberi frutteto; contr. Motati (? forse Malati); Ha. 1 - prezzo base L. 812; prezzo aggiudicazione L. 832.

2.          anno 1868 - provenienza: Convento Carmine; pagliera; via Carmine; prezzo base L. 453; prezzo aggiudicazione L. 655.

3.          anno 1868 - provenienza: Convento Carmine; terraneo; via Carmine; prezzo base L. 508; prezzo aggiudicazione L. 280.

4.          anno 1868 - provenienza: Convento S. M. di Gesù; 1 stanza; via Matrice; prezzo base L. 571; prezzo aggiudicazione L. 686.

5.          anno 1868 - provenienza: Convento S. M. di Gesù; 1 stanza; via Matrice; prezzo base L. 560; prezzo aggiudicazione L. 555.»

Serafino Messana potè pure sogghignare sull’interdetto, ma un suo discendente ebbe isterie mistiche: «O pio, figlio di padre Pio, che ogni giorno ti prendi la lavatura della comunione», lo insolentiva pubblicamente l’avv. Carmelo Burruano, al tempo del Cavallo Alato, tra lo sghignazzo del popolino plaudente.

Salaci mormorazioni al casino di compagnia nell’Ottocento; salaci mormorazioni al circolo Unione in quell’infocato maggio del 1950.

*    *     *

Nel Giornale Officiale del 6 settembre 1860 i radi soci, che continuavano a frequentare il circolo nel mese più adatto alla villeggiatura nelle campagne circostanti, potevano leggere «Data in Palermo il 26 agosto 1860. - In nome di S.M. Vittorio Emanuele Re d’Italia, il Prodittarore decreta: Art. 1: sono destituiti i giudici circondariali. A Racalmuto: [destituito] Giacomo Sanfilippo » Il  provvedimento reca la firma di De Pretis. Il 13 settembre viene promulgata la legge provinciale e comunale: Racalmuto è il XIV comune del circondario di Girgenti e vanta una popolazione di 9.426 abitanti. E’ chiamato ad eleggere un consigliere provinciale.

Il successivo martedì 19 settembre viene pubblicato “l’indirizzo del consiglio civico e del municipio al Generale Dittatore”: Racalmuto figura in mano di Gaetano Savatteri, presidente; Felice Cavallaro e Giuseppe Savatteri. L’indirizzo è datato 18 agosto 1860. E.N. Messana fa ampie digressioni sulla sindacatura del Savatteri a cavallo del 1860. Non abbiamo elementi per contraddirlo (ma neppure per essere concordi). Forse Gaetano Savatteri non si dimise mai dal settembre 1859, quando ebbe a succedere a Giuseppe Tulumello Grillo.

Il 25 ottobre si celebra il plebiscito: Racalmuto risulta naturalmente sabaudo all’unanimità: 1931 elettori iscritti; 1924  votanti; 1924 sì; nessun no; nessuna scheda nulla. Vi sarà stato al circolo qualcuno che come Ciccio Tumeo si lamentava di avere votato no e di vedere poi la sua scheda “cacata” con un sì?

28 ottobre 1860 - Art. 1: Sono nominati i giudici di Mandamento - In Racalmuto: il signor Benedetto Diliberti. - Palermo 26 ottobre 1860. Il prodittatore: Mordini.

6 novembre - Racalmuto, il signor Salvatore Bellomo, cancelliere di Mandamento.

Statistica

Racalmuto

                                         Maggio 1860              Giugno 1860

*                compagni d’arme                    n.° 48                        40 militi a cavallo

*                guardie di polizia                        22                          5 guardie di sicurezza

*                Rondieri                                       4

*                sopranumeri                                38

A Racalmuto ufficialmente non v’è dunque opposizione ai Savoia, come se li avessero voluti sin da quando se ne erano andati senza rimpianti nel lontano 2 agosto 1718. Il Consiglio civico si spreme le meningi per formulare un solenne indirizzo al nuovo re sabaudo. Crediamo che si siano avvalsi della penna del mazziniano Calogero Savatteri, figlio del presidente Gaetano. Lo stile è quello, del tutto analogo alle lacrimevoli accenti delle lapidi funeree della madre «Donna Maria Grillo in Savatteri fù Francesco Paolo nata a Racalmuto e quivi [morta] di anni 52 l’alba del 20 Marzo 1862, col maledetto aneurisma», nonché del notar Pietro Cavallaro, morto il 20 giugno 1860, lapide che ancor oggi si legge nella cappella della navata sinistra della Matrice.

Il reboante messaggio recitava:

«Consiglio Civico di Racalmuto.

Sire,

La libertà da tanti suoli bandita dall’invidiato suol d’Italia, è nostra finalmente, e nell’unità Italiana, e sotto l’egida del Vostro glorioso scettro, consolida il suo più splendido trionfo, e segna il rovescio del nemico austriaco.

I gemiti degli oppressi Italiani Voi li sentiste, un’eco dolorosa trovarono nel Vostro cuore, vi commoveste, e gettando il Vostro scettro nella bilancia della politica, e quasi immolandolo sull’altare della Patria sposando la giusta causa del popolo, foste celere a redimerlo, ed a porlo nell’esercizio dei suoi più sacri diritti.

Il molto sangue di cui fu prodiga la nostra Sicilia, ed i suoi ultimi, ed infiniti patimenti, valsero molto per essa quando avventurosamente faceva acquisto del Vostro amorevole paterno regime.

Undici anni di efferata tirannide, e di crudele reazione non valsero ad intiepidirla di affetto per la gloriosa dinastia di Carlo Alberto. Scosso nel 1848 il giogo borbonico, chiamava alla reggenza dei suoi destini il Vostro rimpianto fratello, liberatasi un’altra volta Vi proclama Suo Re, ed avventurosa per aver tanto compiuto; oggi festeggia il Vostro arrivo, e corre esultante a presentarVi le più calde ovazioni, e i più veraci sensi di obbedienza, e di amore.

Sire, fra gli omaggi che Vi giungono da ogni angolo della sicula terra, accogliete pure benignamente gli affettuosi voti di sudditanza dei sottoscritti consulenti civici di Racalmuto.»

Indirizzi rassegnati a S.M. Vittorio Emanuele - Municipio di Racalmuto.

«Sire,

Il voto della nazionalità italiana, questo fervido desiderio nutrito da ogni italico cuore, cresciuto tra i patiboli e le carcerazioni, tra l’ostracismo e i martirî, si è compiuto.- L’Italia è una: e nella storia di sì lieti e grandi avvenimenti son Vostri gli allori, com’è Vostro il compimento.- L’Italia è una; e sotto l’egida del vostro scettro che si fregia di ogni civile e religiosa virtù, che si sorregge dall’amore dei popoli sarà felice; e sotto la nobile insegna della Sabauda Croce acquisterà gloria e fortezza.

DescriverVi lo eccesso del contento, i sensi di suttitanza e riconoscenza è superfluo. Sicilia tutta, avventurosa pel vostro arrivo esulta e festeggia e da ogni parte si vola per offrire al rigenitore della Patria comune, all’apostolo dell’indipendenza italiana, le più calde manifestazioni di sincero ossequio e di verace amore.

Racalmuto che non fu l’ultimo alla riscossa, che fu solerte a secondare, non è l’ultimo a presentare, per organo del Magistrato Municipale, gli omaggi di sua obbedienza ed amore alla Maestà Vostra e a manifestarVi ad un tempo, che se tutti i popoli dell’Isola idolatrano il Re Galantuomo, l’entusiasmo di alcuno non sorpasserà mai quello del Popolo Racalmutese.

Gaetano Savatteri, Presidente.»

 

Il Re Galantuomo: ai civili, ai galantuomini di Racalmuto quell’attributo doveva tornare gradito, familiare. Complimenti! Bravo davvero! E forse stavolta al circolo i complimenti erano sinceri.

Il 20 gennaio 1861 si ebbero le elezioni: Emerico Amari entra “in ballottazione”. A Girgenti: esito di ballottaggio. Eletto Specchi.

Il 12 febbraio 1861 a Canicattì viene eletto il barone D. Salvatore D’Ondes Reggio. Il 5 aprile 1861 a Girgenti il ballottaggio ha il seguente esito: Dottor G.B. Picone (di origini racalmutesi) n.° 372 voti; Marchese D. Ignazio Specchi n.° 367 voti: per 5 voti la vittoria va al Picone. Ma questi rinunzia. Si riaprono i ludi elettorali. Garibaldi vuole Luigi La Porta da Sambuca. “Nel corso del mese - scrive il Picone nelle sue Memorie, pag. 656 - si anima intemperante lotta elettorale. I candidati sono Laporta e il sindaco dottor Drago. Tutti i garibaldini o veri o finti propendono pel primo, e vogliono imporsi agli altri cogli insulti, colle minacce. La società operaia pubblica un proclama incendiario. Si viene quasi alle mani nel Casino Empedocleo. Si procede alla votazione, e Drago riporta tre voti meno di Laporta.»

Gli echi al casino di conversazione racalmutese inevitabili, altrettanto irascibili, infiammati. Le mandorle toccano quota ducati 22,20 per quintale. Finalmente una buona notizia. Il 2 maggio sono da eleggere i consiglieri provinciali di Girgenti. Racalmuto riesce a piazzare il barone d. Giuseppe Tulumello Grillo.

Rientra così in scena l’antica famiglia nobiliare. Sciascia è insolente contro di essa. Fuori tempo massimo, ancora fanatico della famiglia Matrona, antagonista, ha parole di elogio per quest’ultima nella introduzione (mirabile) al testo del Tinebra sulla storia di Racalmuto ed a pag. 11 chiosa: «Non nobile [la famiglia Matrona] - e del resto nel pasese una sola famiglia aveva titolo nobiliare, quella dei baroni Tulumello che fu rivale ai Matrona: incerta però resta la legittimità del titolo - ma di grande e vera nobiltà nel comportamento, negli intendimenti, nelle opere.» Ci consta invece che i Matrona erano per parte di madre dei Moncada . Più nobili di così! I Tulumello - discutiamoli quanto vogliamo - ma nobili lo furono sul serio (per quello che significa nobili. Abbiamo poi visto don Illuminato Grillo fregiarsi del titolo di barone. Pensiamo a ragione.

Un precesso d’investitura è lì in Palermo a testimoniare sulla indubitabilità del loro blasone baronale su Gibillini (alias il Castelluccio).  Quanto alla nobiltà del comportamento e degli intendimenti dei Matrona, absit iniuria verbis. Una pur vaga sbirciata ai vari incartamenti degli archivi agrigentini (ed ora anche racalmutesi), svela ben altro.

Il giorno 7 giugno 1809 si ebbe l’investitura unciarum 157.14.2.3 census super feudo gibillinorum, in personam D: Joseph Tulumello. Fu l’eccellentissimo dominus marchio D: Franciscus Migliorni Regius Consiliarius, et Secretarius Status Suae Regiae Majestatis, ad accordare l’invetitura a  D: Franciscus Gaipa Procurator vigore procurationis in actis notarij D: Gabrielis Cavallaro Terrae Recalmuti, in nome e per conto di Dn Aloysius Tulumello veluti tutoris, et pro tempore curatoris D: Joseph Xaverij Tulumello minoris, del feudo di Gibillini nella rendita prima segnata. E viene narrata la provenienza del titolo: l’aveva ottenuto dal saserdote D. Nicolò Tulumello che gliene aveva fatto dono. Quel prete Tulumello, operante a fine Settecento ed osannato per la pretesa fondazione del Collegio di Maria, aveva acquistato il feudo dall’ Ill.re D: Julio Antonio Giardina et Grimaldi Principe Firacaridiorum con atto del notaio Salvatore Scibona di Palermo in data 22 luglio 1796. Aveva preteso che il suo nome non apparisse e che l’atto si stipulasse a pro di persona da nominare. Trattandosi di feudo vi fu controversia anche giudiziaria ma alla fine l’alienazione fu approvata dal re (“venditio et dismembratio fuit a Sua Regia Maestate approbata, et confirmata vigore realis diplomatis de die vigesima nona aprilis anni currentis - 1809 - executoriati sub die quinta proximi preteriti mensis maij”). L’investitura fu formalmente ineccepibile:  il mandatario  fecit, flexis genibus juramentum, et homagium debitae fidelitatis, et vassallagij manibus, et ore commendatam in forma debita, et consueta juxta , sacrarum huius Regni constitutionum imperialium, continentiam, et tenorem in manibus, et posse eiusdem Excellentissimi domini de Migliorini illud recipientis nomine et pro parte Suae Regiae maestatis Ferdinandi (D.G.) regis utriusque Siciliae, Hierusalem, Hispaniarum, Hinfantis Ducis Parmae, Placentiae, Castri mani haereditarii Etruriae Principis, eiusque heredum et successorum in perpetuum ...” Il titolo baronale era dunque inattaccabilmente legittimo, la vetustà, magari .. Ma Sciascia non sottilizza, stronca e passa oltre. Del resto come storico locale, poco gli importa dell’esatteza di ciò che afferma se ciò gli offre il destro di un aforisma, di un’acidula insinuazione, di un’atavica vendetta, di una fantasmagoria, di un apologo. Sono pronto a sostenere il linciaggio, anche nel nostro circolo Unione, se queste mie note verranno mai alla luce.

 

 

Il neo eletto consigliere provinciale non era come compravano questi dati anagrafici del matrimonio del Tulumello con donna Maria Angelica Messana:

 

1842
23/11/1842
TULUMELLO Dr. D. GIUSEPPE DELLI FURONO BARONE D. LUIGI
GRILLO D. MARIA
MESSANA D. MARIA ANGELA DEL FU CALOGERO E
NALBONE D. LUCIA
 Atto Matrice N.° 86

 

Ecco cosa scrive E.N. Messana sulla nobile consorte: «Luigi [Messana era un] borghese arricchito dell’ultimo ‘700 attraverso il commercio degli zolfi, la somministrazione del conte, che tenne per molti anni, e l’esazione, più tardi della tassa del macino. Don Calogero Messana era stato fatto speziale dal padre Luigi. La ricchezza ereditata dal padre gli consentì di sposare, con lauta dote, l’unica figlia Maria Angela al barone Giuseppe Tulumello, divenuta poi madre di Luigi ed Arcangelo che incontreremo nel corso di questo scritto.» [16]

Giuseppe Tulumello non era dunque figlio di Giuseppe Saverio Tulumello, [17] l’unico ad avere davvero diritto al titolo di barone. Ma pare che questi morì (l’11/1/1858) senza eredi ed il titolo passò a Luigi Tulumello, il nipote del fratello Luigi. 

Alla fine del secolo XIX, proprio sul punto del declino definitivo della potente famiglia, i tanti Tulumello ancora sulla breccia erano i seguenti:

n. ° lista commerciale
n.° lista politica
 
Cognome
 
Nome
 
paternità
 
data di nascita
 
Attività comm.
285
493
TULUMELLO
LUIGI
fu Giuseppe
 25 luglio 1850
Negoziante di zolfi
286
494
TULUMELLO
NICOLO'
fu Giuseppe
10 febbr. 1853
Idem
287
495
TULUMELLO
SALVATORE
fu Giuseppe
31 dic. 1860
Idem
288
496
TULUMELLO
ARCANGELO
fu Giuseppe
13 sett. 1865
Idem
289
497
TULUMELLO
NICOLO'
fu Luigi
14 ott. 1844
Idem
290
498
TULUMELLO
SALVATORE
fu Luigi
18 aprile 1847
Farmacista
291
499
TULUMELLO
VINCENZO
fu Luigi
16 giugno 1839
Neoziante di Cereali.
292
500
TULUMELLO
GIUSEPPE
fu Vincenzo
4 ott. 1851
Negoziante di zolfi.
293
501
TULUMELLO
GIOVANNI
fu Vincenzo
18 dic. 1853
Idem.
294
502
TULUMELLO
BIAGIO
di Giuseppe
27 aprile 1865
Idem.

 

Si può star certi che tutti i dieci magnifici Tulumello fossero soci del Circolo Unione; ne dominassero le assemblee, impallinassero gli sgraditi, ricoprissero le cariche di prestigio. Ancora negli anni ’50, in piena decadenza nobiliare, erano il sale del circolo. S’ispira a qualche membro della famiglia Sciascia quando tratteggia nelle Parrocchie di Regalpetra la satiriasi senile del barone Lascuda. I più anziani del sodalizio sono ancor oggi in grado di farvi nome e cognome - quelli veri - di ognuno dei coloriti personaggi sciasciani del Circolo della Concordia. A Sciascia è stato perdonato il dileggio del circolo: una simile infamia a nessuno mai è stata consentita; a nessuno  si consentirà mai.

*    *    *

Racalmuto vive, tra il 1859 e la fine del 1861, un periodo di profonda trasformazione. Vecchie famiglie crollano, nuove s’impongono, altre sopravvivono. Un trambusto sociale il cui acme esploderà però nel 1862 con le note rivolte e le vicende che più o meno mistificate vengono tuttora rievocate, reintinterpretate, spesso rivisitate. A dire il vero, è stato Eugenio Napoleone Messana a tentarne per ora una lettura alquanto documentata e con una qualche sensibilità sociale. Con risultati comunque del tutto insoddisfacenti. C’erano di mezzo i suoi antenati - sia di parte paterna, sia materna con i Savatteri - e ciò impediva al nostro ricercatore di affrontare quella suggestiva tematica storica con la dovuta oggettività e con il debito distacco.

Le nostre ricerche approdano, così, a lidi ben diversi da quelli cari e consueti al nostro E.N. Messana. Già in un punto nodale discordiamo: Gioacchino Savatteri condusse imperterrito la barca comunale dai borboni del 1859 ai novelli padroni savoiardi come il cambiare di bandiera fosse nient’altro che un insignificante incidente storico. Padroni lontani i primi, padroni lontanissimi i secondi. Servire, si doveva sempre e gli uni valevano gli altri. Gioacchino Savatteri, che non sembra eccellere per intelligenza, era un conservatore bigotto, fideista, ossequioso. Aveva diversi figli: due per constrasto giocavano a fare i massoni ed i mazziniani, ma era un gioco giovanile. Teatrale e teatrante. Nella loro settecentesca dimora del Purgatorio, disponevano di un teatro e là, anche per sedurre le goffe signorine del loro ambiente, recitavano. Misero in scena un lavoro  di Agesilao Milano e credettero di fare una rischiosissima provocazione politica, una ribellione storica, una rivoluzione. Quando Calogero Savatteri - morto piuttosto giovane - non si seppe trovare di meglio per il suo necrologio che questa risibile rievocazione: «per conseguire lo scopo nel 1864 si affiliò alla Loggia Massonica col titolo di Roma e Venezia. I Massoni facevano progressi giganteschi giorno per giorno. Essi prevennero la popolazione con ispettacoli pubblici, tra i quali rappresentarono il dramma stupendo di Agesilao Milano con tale naturalezza e forze, che si attirarono la simpatia del popolo.»

Gaetano Savatteri lo troviamo appena decenne in casa della zia quando viene redatto nel 1822 il censimento. Sappiamo che è nipote di  Serafina Tirone: da quella famiglia verrà poi fuori il noto e controverso arciprete Tirone.

TIRONE
SERAFINA
LIBERA
 
DONNA
SAVATTERI
GAETANO
NIPOTE
10
 

 

Il sindaco della venuta di Garibaldi è dunque del 1812. Contrae matrimonio con una Grillo nel 1830 come dal seguente atto:

1830
10/1/1830
SAVATTERI D. GAETANO DE FURONO D. LEONARDO E
TIRONE D. VINCENZA
GRILLO D. MARIA DI D. FRANCESCO PAOLO
CAVALLARO D. MARIANNA
ottobre 1829 -  3° grado consanguineitatis sub 10/1/1830 -

 

Don Gaetano Savatteri è un diretto discendente del cinquecentesco Scipione Savatteri che Eugenio Napoleone Messana - del tutto cervelloticamente - vuole “milite” ed imparentato con i Del Carretto.  A noi, più semplicemente, consta che il 12 ottobre 1586, Scipioni Savatteri (inequivocabilmente oriundo da Mussomeli) si sposa con Petrina Saguna, figlia di Antonino e di Marchisa. Marchisa è nome comune di donna in quel tempo: forse si deve anche a questo equivoco se Eugenio Napoleone Messana, riesumando un’epopea di famiglia, fa del modesto ma dignitoso Scipione Savatteri un “milite” che convola a nozze un po’ forzate con una figlia dei del Carretto (eventualità impossibile, per questioni di divario nobiliare). E’ certo invece che Scipione Savatteri è il capostipite racalmutese di una famiglia che ha cifrato la storia locale nel Seicento, nel Settecento e marcatamente nell’Ottocento. Il circolo Unione nasce sotto l’egida dei Savatteri.

Al matrimonio di Scipione Savatteri fanno da teste i due fratelli notai Monteleone (Gasparo e Cola), appartenenti, per parte di madre, al ramo cadetto dei del Carretto. Paolino Savatteri resta vedova e sposa nel  1594 (vedi sopra) una di Mussomeli,  Lauria Cuscacino  di Matteo: benedice le nozze l’arciprete di Racalmuto in persona, don Michele Romano. Sono indizi della rilevanza sociale dei Savatteri, che pur tuttavia non assurgono a livelli di nobiltà feudale.

Nel primo decennio del Seicento un’importante tappa di ascesa sociale. Scipione Savatteri raggiunge un’invidiabile posizione sociale. Ha un ingente patrimonio: tutto il versante che dall’attuale casello ferroviario delle Anime Sante porta sino alla cima del Serrone, da dove discende la trazzera del Rovetto, gli appartiene, naturalmente sotto il vincolo del jus proprietatis del conte del Carretto. Come sia potuto arrivare ad una siffatta immensa possidenza immobiliare, resta oggi un mistero. Qualche malaccorto passo dei rogiti notarili può destare maligni sospetti, ma di certo non vi è nulla.

Ci imbattiamo nel dominio di Scipione Savatteri in un preziosissimo Rollo custodito in Matrice relativo alla tenuta della contabilità della confraternita di Santa Maria di Gesù. La confraternita, attorno al 1634, s’insinua in una serie di atti giudiziari contro i tre eredi di Scipione Savatteri. Ritornerà alla carica nel 1651. Scandiamo le fasi ed i tempi che c’illuminano sull’ascesa, sull’apice e sul declino del paradigmatico affermarsi economico di un burgisi nella società contadina della Racalmuto della prima metà del Seicento.

Già nel 1613, Scipione Savatteri è in grando di approntare della liquidità ai coniugi Francesco La Lumia e Margarita. Di conseguenza costoro, il 1° agosto del 1613, si accollano di corrispondere perpetuamente al Savatteri, un’oncia di reddito annuale, censuale e rendale. A garanzia offrono quattro case terranee con un cortile nel quartiere di S. Margherita vicino le case del sacerdote don Angelo Dardo, nonché una vigna di duemila e settecento viti, con sua chiusa, alberi, grotte, confini e mannare a Culmitella, nei pressi della vigna di Matteo d’Alfano e della vigna degli eredi di Vito Gulpi. L’atto - a rogito del notaio Simone de Arnone, e poi trascritto dal notaio Angelo Morreale - ha per testi Girolamo Martorana e Simone Bocculeri.

Il 18 agosto del 1618, Pietro La Licata di Leonardo vende, a rogito del notaio Simone Arnone, - sempre al Savatteri - una vigna de aratro con sua chiusa, alberi e confini, sita in contrada Casa Murata, vicino alla vigna di Gerlando di Gueli e ad un’altra vigna dello stesso Scipione Savatteri. Purtroppo quella proprietà è gravata di un censo di once tre annuali nei confronti della venerabile confraternita di Santa Maria di Gesù. L’atto del Rollo fa la cronistoria della provenienza di quel reddito della confraternita. Il Savatteri è piuttosto malaccorto e si accolla quel greve censo: sarà la cagione degli affanni finanziari dei suoi eredi.

E’ così che il 22 gennaio 1634 i tre fratelli Savatteri, Francesco, Giacomo e Sebastiano, vengono chiamati a rispondere alla venerabile confraternita di S. Maria di Gesù per l’ingente cifra di 43 once e 15 tarì a titolo di coobbligati dei censi morosi dovuti per 15 anni e mesi sei dagli inadempienti debitori principali.

Nel 1624, peraltro, era  scoppiata la famigerata peste ed in quel tempo era deceduto il nostro Scipione Savatteri. Lasciava, appunto,  come eredi i tre figli Francesco, Giacomo e Sebastiano. Ma seguiamo lo svolgimento del citato atto notarile. Tali eredi vengono chiamati dunque ad onorare i debiti per i quali risultano coobbligati. Il 22 gennaio 1634 non hanno modo né proventi per assolvere il debito che con l’annata in corso si porta a 45 onze. Pregano - per usare l’eufemismo del rogito - Francesco La Mendola, Antonino Pitroccella, Giacomo Borzellino e Francesco d’Acquista, rettori pro tempore della venerabile confraternita, affiché acconsentano ad una rateazione del dovuto.

 

I pii rettori erano già comparsi dinanzi al rev.mo don Filippo de Marino, visitatore generale dell’ill.mo rev.mo vescovo di Agrigento e l’avevano “supplicato” affinché volesse loro concedere la licenza di potere accedere a siffatta transazione, licenza invero prontamente ottenuta. Pertanto erano in grado di potere stilare il  contratto.

 

Ma le controversie non finiscono qui: il 6 marzo del 1651, la questione si riapre. Nel frattempo è morto Sebastiano Savatteri ed al suo posto subentrano gli eredi - minori d’età - sotto tutela di Francesco Curto Cirami e Francesco Salvaggio. L’altro figlio di Scipione, Giuseppe, è sacerdote: morirà da lì a poco, il 23 novembre del 1654 a 35 anni.

 

Da quello che emerge da quanto sopra riportato e da quanto appare in altri Rolli della Matrice, Scipione Savatteri era divenuto, in breve tempo, un latifondista, disponeva di case date in affitto in varie parti del paese, mostrava uno spirito d’intrapresa come un moderno capitalista. Non fu però provvido nella scelta degli affari e mostra una qualche insipienza nell’accollarsi coobbligazioni di terzi nei riguardi del famelico convento di S. Francesco. I figli - lasciati in tenera età alla sua morte precoce nel terrificante sterminio della peste del 1624 - non ebbero certamente l’acume del padre e finirono con il dilapidare quell’immenso patrimonio. Giuseppe Savatteri si fa prete ed a 35 anni cessa di vivere. Sebastiano[18] muore anch’egli giovane lasciando dei figlioletti in mano a due tutori - Francesco Curto Cirami e Francesco Salvaggio - pessimi amministratori. Si salva appena Giacomo Savatteri che perpetuerà la stirpe con figli migliori di lui e che riusciranno ad imporsi nella difficile società feudale racalmutese della fine del Seicento.

Quello che ancor oggi desta sorpresa è comunque il fatto che un modesto immigrato da Mussomeli sia riuscito ad accaparrarsi l’intera fiancata nord-est del Serrone e cioè la fertilissima landa che dalle Anime Sante sale lungo le Grotticelle, lo Judio,  sino a portarsi al passo tra il Serrone e la discendente trazzera del Rovetto. Ai primi del Seicento, la proprietà di Scipione Savatteri confina con la chiesetta rustica di Santa Maria, a quel tempo chiamata di Monserrato e poi divenuta la chiesa del Serrone, una chiesetta che alcuni ora fanno coincidere con quella esistente nel versante opposto degli Sferrazza. Noi, in base ai dati dei documenti dei Rolli, stentiamo ad avvalorare una simile congettura.

Ritorniamo alla già citata pagina del Messana su Scipione Savatteri. Il Messana trasse lo spunto da un episodio del 1625 per la sua epopea familiare. L’episodio è narrato dal Cascini, un padre gesuita del ‘600 incaricato dal cardinale Giannettino Doria per un’inchiesta sulla santa, incarico che si risolse in un libro non spregevole ai fini delle ricostruzioni storiche dell’epoca. Il gesuita [19]  narra che: "Ne si mostrò poco divota verso S. Rosalia la terra di Rahalmuto, la quale come si è detto nel primo libro, fin dal suo principio, nacque sotto la protettione di questa Santa e vi dedicò  la sua prima chiesa, havendola hora rifatta di nuovo; è incredibile la divotione, con che viene visitata a piè scalzo ogni sera non da pochi, ma d'una moltitudine grande. Però con molto maggior mostra di pietà, e humiltà ciò fecero il  giorno quando accompagnarono la sua Santa reliquia, che fù l'ultimo di Agosto 1625, erano andati a portarla da Palermo, ben 80. a cavallo, e quella mattina, che fù Domenica, si cantò prima [pag. 375] la Messa nella Chiesa dei Padri Minori Osservanti colla solennità solita; e si liberò una spiritata; dopo il  Vespro pur solenne si fece la processione, nella quale, benché vi fosse molta pompa d'apparato con tre archi trionfali,  di luminarie per tre giorni, di concerto di Musiche, e salve di schioppi, nondimeno superava ogni cosa la devotione, che s'udia delle voci, e sospiri, e pianti, e si vedea della moltitudine tutta a piè scalzo.

Accettò la Santa la pietà loro, e gli mostrò a chiari segni, che la sua protettione l'havea liberati dalla pestilenza; imperoché havendo la terra delle Grotte presso à due miglia molto mal menata da quel morbo, colla quale così infetta per un buon pezzo, prima che fosse dichiarata, vi fù pratica stretta, per essere in buona parte parenti fra loro e haver molta communicatione, non si attaccò però male veruno; anzi entrandoci dentro appestati diversi, si di questa terra, come d'altre, i medesimi che la portavano poi in altri luoghi, quivi non vi lasciarono vestigio alcuno.»

Ed ecco, di rincalzo il nostro Eugenio Napoleone Messana, rifare quella storia, ampliarla, manipolarla, modificarla ed elevare il peana ai suoi parenti Savatteri:

 

«Giovanni IV del Carretto, marito di donna Beatrice Ventimiglia, figlia unica del principe di Castelbuono, quando ascese alla contea [di Racalmuto] aveva tre figli, Girolamo Aldonza e Porzia. Girolamo per la legge del maggiorasco vigente era destinato alla successione della contea.

 

«Le figlie erano entrambi ospiti della zia Marzia del Carretto, figlia di Giovanni III, abbatessa di Santa Caterina in Palermo fino al  1598, data della sua morte e vi sarebbero forse rimaste se non fossero state riportate in paese nel 1600, per volontà del padre, allarmato dell'insurrezione contro il nuovo pretore. In quell'occasione Giovanni IV promise le figlie in moglie a quei cavalieri che gliele avessero ricondotte al castello sane e salve.

 

«La sorte arrise al milite Scipione Savatteri che sposò Maria ed ebbe in dote il feudo di Gibillini. Questo matrimonio diede inizio alla famiglia dei Savatteri di Racalmuto, che risulta essere la più nobile di tutte le altre.

 

«I Savatteri infatti discendono da Pable Zavatier, nobile francese al seguito del conte Ruggero [...]

 

«Non si hanno notizie dei motivi per cui Aldonza non contrasse mai nozze, si sa soltanto che lei nel 1605 a proprie spese fece costruire l'Abbazia di Santa Chiara  ...».  

 

Stando al Villabianca (Sicilia Nobile),  l’abbadessa si chiamava Maria e non Marzia.

 

 





[1] ) Leonardo Sciascia: Le parrocchie di Regalpetra - Morte dell’Inquisitore, Bari 1982, pag. 51.
[2] ) Carmelo Vetro - L’associazionismo borghese nella Sicilia dell’800: le case di compagnia - in Il Risorgimento, anno XLVI n. 2-3 - Milano 1994, pag. 301
[3] ) Archivio di Stato di Agrigento - Convento de’Minori sotto Titolo di S. Francesco d’Assisi - Inventario n.° 46 fascicolo n.° 531 - “Libro vestiario”
[4] ) da “Giornale di Statistica”  del 1838 vol. III, fasc. VIII - Appendice sulle solfare in Sicilia.
[5] ) Per chi avesse voglia di dilettarvisi citiamo per tutti: GIUSEPPE SALVIOLI - LE DECIME DI SICILIA  E SPECIALMENTE QUELLE DI GIRGENTI - RICERCHE STORICO-GIURIDICHE - PALERMO ALBERTO REBER - 1901
[6] ) Archivio di Stato di Agrigento - Atti dell’Intendenza - Decime - Inventario n.° 4 anno 1834-1860 - Serie Ravanusa Racalmuto n.° 813-814.
[7] ) Leonardo Sciascia: Le parrocchie di Regalpetra - Morte dell’Inquisitore, Bari 1982, pag. 61
[8] ) Eugenio Napoleone Messana, Racalmuto nella storia della Sicilia, Canicattì 1969, pag. 221. Citata anche la fonte: Archivio di Stato di Agrigento: 4-95.
[9] ) V. Macaluso: Rivelazioni politiche sulla Sicilia. Torino 1863.
[10]) Domenico De Gregorio - Ottocento Ecclesiastico Agrigentino - Agrigento 1966, vol. II pag. 32, che avvale delle testimonianze di Pipitone Federico: Francesco Crispi - Palermo Boccone del Povero 1910, p. 67.
[11] ) Mons. Domenico de Gregorio - Mons. Lo Jacono, Agrigento 1966, pag. 20.
[12] ) E.N. Messana, Racalmuto op. cit. pag. 204.
[13] ) Leonardo Sciascia, Parrocchie, ... op. cit. pag. 60. Anche se il libro fu pubblicato nel 1956, è ben noto come l’abbozzo del Circolo della Concordia, si ha nel 1949 quando Sciascia pubblica nel primo numero di Galleria Paese con figure. (Cfr. Galleria 1949, I pag. 21-24. 
[14] ) Dottore S. Messana - Origine e decadenza della sovranità della società temporale del Papa - Bologna 1863 - pag. 6.
[15] ) ibidem, pag. 7
[16] ) E. N. Messana,  Racalmuto ... op. cit. pagg. 202-203.
[17] ) Il barone vero don Francesco Saverio Tulumello era nato il 23 maggio 1797 e si era sposato con Maria Grazia Licata Era figlio di Vincenzo Tulumello e Rosa Alfano, nipote di Giuseppe e Paola Cuva e pronipote di Ignazio e Anna (1720 circa). Giuseppe Tulumello, padre di Luigi il futuro barone, era figlio di Luigi e nipote di Vincenzo Tulumello e Rosa Alfano. Vi era poi un terzo ramo: Vincenzo Tulumello. 
[18] ) Riscontriamo negli atti di morte della matrice questa registrazione che ci illumina sulla figura di Sebastiano - sposato con una certa Bartola - cui tocca la sciagura di vedere morire un suo figliolo appena diciottenne: i funerali sono di riguardo: tariffa piena (tt. 5.10); è presente l'intero clero:
 
27
11
1653
Savatteri
Santo
18
Sebastiano e Bartola
S. Maria del Carmelo
5.10
Morreale Antonino presente clero
 
[19] ) P. Giordano Cascini : S. Rosalia, Vergine Romita palermitana  - Palermo  1651 - pag. 373.

Nessun commento:

Posta un commento