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domenica 26 luglio 2015


Prosegue il TCI: “fino al ‘300 l’abitato sorgeva presso il luogo detto Casalvecchio [è invenzione del tutto infondata, n.d.r.]; l’odierno si venne fondando attorno al castello dei Chiaramonte [anche qui inesattezze a profusione: il primo nucleo databile attorno al 1250 si stabilì nelle grotte sotto il Carmine; il castello sorge postumo verso il 1310 a seguire il Fazello; codesto pur immenso storico del ‘500 non è perspicuo ad ipotizzare l’erezione dell’attuale castello racalmutese da parte di un cadetto dei Chiaramonte e comunque è molto circospetto per suffragare la ricorrente diceria di un castello chiaramontano a Racalmuto, n.d.r.]. E’ patria del pittore Pietro d’Asaro, d. il Monocolo (1597-1647) [è ormai pacifica la data di nascita del Pittore: 1579 e non 1597, n.d.r.]. Sul Corso Garibaldi, al centro sorge la chiesa Matrice (dell’Annunziata), della fine del ‘600, nel cui interno si conservano due dipinti dell’Asaro (Madonna e Santi e Madonna della Catena) [da rettificare: l’Annunciata è chiesa preesistente sin da prima del XVI secolo; l’attuale chiesa Madre ha laboriosa gestazione, ma può dirsi disegnata nel primo trentennio del 1600 e definita negli anni ’60 del XVII quando la fine del ‘600 era lontana; nessun quadro certo di Pietro d’Asaro vi si conserva, men che meno quelli sopra citati, n.d.r.]. A d. della Matrice, in fondo alla piazza Umberto I, è il Castello, fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte [banalizzazione di una cauta nota del Fazello: a credere a codesto grande storico il castello andrebbe datato 1310: le torri rotonde - fortezze abbisognevoli di alta perizia indisponibili ai tempi di Federico Chiaramonte - fanno invece pensare a Federico II lo Svevo, cioè al 1240 circa. Quando scavi sotto le torri metteranno alla luce i tanti reperti archeologici della dominazione araba - oggi totalmente oscura sotto il profilo dei manufatti - ampia luce ne promanerà anche ai fini del disvelamento della veridica storia dei musulmani in Sicilia. I locali già sanno di tali reperti; la locale Sovrintendenza sembra ignorarli del tutto, n.d.r.]: ha due torri cilindriche e nell’interno conserva un sarcofago romano del secolo IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina [inculture passate e presenti hanno oscurato del tutto l’effettivo luogo del ritrovamento dell’importante sarcofago; oggi di certo non è più conservato al Castello ma nel chiostro dell’ex convento di Santa Chiara; la datazione è del tutto cervellotica, n.d.r.]. A sin. del castello si scende alla chiesetta di San Nicolò [in effetti S. Nicola di Bari, e si crede che nessun forestiero sarà in grado di raggiungere la chiesetta con siffatte indicazioni topografiche, n.d.r.], nella quale è una tela del Monocolo, con S. Nicola di Bari (firmata e datata 1603) [c’era una volta, ora non più; sbagliata la data che invece è quella del 1613, n.d.r.]; in Santa Maria di Gesù, fuori del paese, Madonna del Rosario, (firmata dallo stesso 1636). [Il quadro è disinvoltamente dichiarato “completamente distrutto”, n.d.r.] Altre chiese interessanti: la chiesa del Carmelo, con un Crocifisso dell’Asaro [pare, invece, che il quadro dati ad almeno mezzo secolo prima della nascita del Pittore, n.d.r.] e la tomba di Girolamo III del Carretto (1600) [Girolamo III del Carretto morì oltre un secolo dopo, nel 1710; quello di cui tratti è il secondo dei Girolami del Carretto, che comunque fu “occisus a servo” nel 1622, un quarto di secolo dopo n.d.r.]; San Giuliano, con una Madonna della Cintura dell’Asaro [si sostiene essere dell’Asaro solo il San Giuliano che si vorrebbe del 1608; codesta “Madonna” non è oggi identificabile ed in ogni casi giammai sembra essere stata esposta in San Giuliano, n.d.r.]; il santuario di S. Maria del Monte, del sec. XVIII, [si dà invece il caso che la chiesa è visitata dal vescovo Tagliavia già nel 1540, n.d.r.] con una Vergine degli Afflitti, [chissà perché la si vuol chiamare “degli afflitti” quando ha un viso radioso!, n.d.r. ], della scuola del Gagini, [mero topos quando non si sa che dire di una statua marmorea di fine secolo XV, n.d.r.], e un altare con rilievi medioevali [ben strano in una chiesa che prima si affermava essere del XVIII secolo; l’attuale altare maggiore è invero databile XVIII secolo. Non si comprende come nessun cenno vi sia a chiese importantissime e di maggior valore storico ed artistico rispetto a talune chiese invece menzionate: ci riferiamo alle chiese del Collegio, di Sant’Anna, dell’Itria, di Santa Chiara, di San Pasquale e soprattutto della chiesa più antica: S. Francesco. n.d.r.]. - A N. e NO del paese, lungo il Vall. Pantano o di Racalmuto, sono numerose miniere di zolfo (oggi tutte inattive, ma intelligentemente riadoperabili per insediamenti turistici o per itinerari folkloristici in tipici carretti siciliani alla scoperta delle fonti d’ispirazioni sciasciane, n.d.r.] e di salgemma [da cui quel Sale sulla piaga, titolo che Sciascia avrebbe voluto per le sue Parrocchie di Regalpetra e che volle per la traduzione in inglese, n.d.r.], fra cui la salina Pantanella [ove il 12 maggio 1955 ebbe a trovare tragica morte il salinaio, i cui funerali vengono angosciosamente e con empiti d’ira descritti da Leonardo Sciascia ne “Le parrocchie di Regalpetra” in quel mirabile squarcio su “i salinari”. Escursione al M. Castelluccio m. 721, ore 1.30 circa. Si segue la strada per Montedoro e a 5 km. C. si sale a d. sul monte ove si trovano avanzi notevoli di una fortezza dei Chiaramonte, del sec. XIV, ma fondata nel ‘200 da Abba Barresi [il quale - normalmente chiamato Abbo - nulla ebbe mai a che fare con Racalmuto e dintorni: la fortezza, sede del feudo (in senso giuspubblicistico) di Gibillini 1, pertiene, a dire il vero, alle nobili famiglie medievali dei Podiovirid; Simone di Chiaromonte, Moncada, Alagona, De Marinis e Telles, Giardina Guerara ed altri, una lunga storia che trascende il dato segnaletico che la pur pregevole pubblicazione turistica fornisce, n.d.r.]. La strada continua per altri km.3,5 alla zolfara Gibellina. Indi prosegue fino, hm. 13,5, a Montedoro.[Nulla sulle interessantissime necropoli sicane; nulla sulle “garbere” del Monte Pernice; nulla sull’ipogeo cristiano delle “grotticelle”; nulla sui cinquecenteschi mulini ad acqua a valle di Racalmuto; nulla sugli “zubbi” di S. Anna (ove esplodono scisti di flora tropicale); nulla sulle “calcarelle” note a Solino e che Brydone cercava ancora nel ‘700; nulla sugli insediamenti bizantini attestati da ritrovamenti numismatici al centro dell’attenzione dei più grandi bizantinisti; nulla sulle “tabulae sulphuris” studiate da Mommsen nell’ottocento ed attualmente motivo di lambiccamento dei più accorti archeologi romanisti; nulla sui fenomeni carsici così atipici in un’isola del mediterraneo e nulla tant’altro, n.d.r.]. ”


Non val la pena - anche per il TCI - attivare un parco letterario in un cosiffatto territorio? Non si reputa del caso propiziare studi storici, scavi archeologici, ricerche paleografiche in una plaga - per sua ventura patria di Leonardo Sciascia - ove dovranno prima o poi affluire scienziati, storici, archeologici alla scoperta di mondi antichi i cui flebili echi si nascondono ancora nel grembo di quella terra e che non è bene che siano negletti o peggio deformati da pur eccelse pubblicazioni turistiche? Noi tentiamo qui una qualche progettazione: senza inquinamenti politici, senza cointeressamenti sospetti, senza padrinati colpevoli.

SEZIONE II

Descrizione delle modalità ipotizzate per la gestione del Parco Letterario



Abbiamo qua e là sufficientemente precisato come intenderemmo gestire il Parco: affidatane la direzione al dott. Taverna, la nostra associazione sarebbe il soggetto “no profit” che veicolerebbe i fondi per dar lavoro alle altre associazioni della specie pullulanti a Racalmuto, per commissionare alle competenti imprese locali (la società a capitale misto, Infotar, Arcon, aziende turistiche operanti già a Racalmuto, etc.) l’esecuzione delle opere e dei manufatti occorrenti in ordine alle finalità dei vari laboratori che ci si accinge a descrivere.

La tempistica può succintamente prefigurarsi nel succedersi delle seguenti fasi:

  1. studi e ricerche;
  2. commissione delle opere e dei manufatti occorrenti;
  3. pratiche burocratiche varie (richiesta del comodato dei locali del vecchio ed abbandonato Ospedale; fitto delle vecchie case; postulazione di comodato di luoghi pubblici, locali comunali oggi in stato di abbandono, etc.);
  4. opere murarie occorrenti;
  5. attrezzatura di locali per renderli idonei alla realizzazione degli scopi prefissi (musei, esposizioni, registrazioni, allocazione di archivi, installazioni multimediali e via dicendo);
  6. concertazioni con Curia, parroci, sindaci, amministratori provinciali, organi pubblici, associazioni teatrali, registi cinematografici, presidente del circolo Unione di Racalmuto per la messa a punto dei progetti di cui in seguito;
  7. reperimento delle forze lavoro occorrenti;
  8. avvio dei vari laboratori;
  9. svolgimento di relativi compiti;
  10. afflusso dei risultati nelle collegate società d’informatica;
  11. attività editoriale su supporto cartaceo, ma, soprattutto, su CD-ROM;
  12. attivazione dei siti Internet per navigare nell’intero mondo del costituendo Parco Letterario intestato a Sciascia.

* * *



Ma ritorniamo a quella che crediamo la nostra idea vincente: i laboratori.

Più che un titolo serve una descrizione anche prolissa ma forse più esplicita. Li abbiamo sopra definiti:

  1. ) organizzazione di itinerari turistici ispirati all’opera di Sciascia con modalità e percorsi inconsueti;
  2. ) istituzione di musei (religiosi, etnografici, storici) che pur rifacendosi alle notazioni sciasciane sappiano valorizzare la sconfinata - ma per il momento solo parzialmente conosciuta - storia di Racalmuto e dei dintorni (Grotte, Naro, Montedoro, Bompensiere, Milena);
  3. ) scuole di alta specializzazione nei settori della diplomatica, paleografia, archeologia, microstoria, settori di specifico riferimento a Racalmuto ed al suo inestimabile patrimonio archivistico, archeologico e storico;
  4. ) sofà psicanalitico per una inusitata indagine sui testi di Sciascia e per una concreta fruizione dei risultati a fini terapeutici, specie nel settore della labilità mentale senile;
  5. ) concertazione di iniziative volte al recupero del dialetto racalmutese, della tradizione musicale locale, del canto gregoriano quale nei secoli scorsi clero, sodalizi monacali e le peculiari confraternite racalmutesi salmodiavano come i tanti “libri cantorum” custoditi nelle chiese di Racalmuto comprovano ed in certo senso tramandano;
  6. ) coordinamento con i centri culturali di Grotte per il recupero della tradizionale teatralità di questa periferia agrigentina;
  7. ) collegamento con il locale circolo Unione per un’ardita riesumazione dello sciasciano “circolo della concordia” con i suoi veridici personaggi, le sue atmosfere sociali, il suo scenario, le sue vetuste sale: un micromuseo in un normale e funzionante circolo quale continua ad essere;
  8. ) compartecipazione maggioritaria in una società mista con il Comune cui demandare iniziative imprenditoriali nel campo del turismo locale;
  9. ) costituzione di una società di capitali per rilanciare il vecchio progetto di una traslazione cinematografica delle “Parrocchie di Regalpetra” che il regista racalmutese Beppe Cino - discepolo di Rossellini - da tempo agogna di girare;
  10. ) attività traslativa dei disparati risultati conseguiti in CD-ROM navigabili o in siti Internet a disposizione del mondo dei navigatori informatici.



Descrizione del laboratorio sub 1) organizzazione di itinerari turistici ispirati all’opera di Sciascia con modalità e percorsi inconsueti



Si è visto sopra come in tema di escursioni Racalmuto viene ridotto nelle guide del TCI in una sola (ed invero asfittica) possibilità: andare al Castelluccio, come faceva La Caico Hamilton con la sua macchina fotografica al sorgere di questo ormai tramontato secolo. Invero, escursioni affascinanti, piene del succo gastrico della prosa sciasciana, paesaggisticamente inobliabili, verso il cielo (Castelluccio, “zubbio” di S.Anna, “garbere” di Monte Pernice”, grotta di fra Diego), verso il mare (la celeberrima “Noce” di Sciascia, l’opalescente “scavo morto”; il mistero bizantino della “Montagna”; la visionarietà ‘peccaminosa’ del “Cozzo della Loggia”), verso l’ancestralità nichilista (l’adombrato cammino verso gli inferi delle terre della Cicuta o di Cugni Longhi), verso la dannazione sulfurea (Cozzo Tondo, Quattro Fanaiti, Pian della Botte) e quella viscerale del sale (Pantanelle, Sacchitello), verso le radici dei progenitori sicani (dalle necropoli sino ai confini di Monte Campanella nel nisseno, oltre Milena sino alle Raffe), queste ed altre escursioni - con poco dispendio tracciabili e con profitto e gioia dello spirito realizzabili - sono pronte a venire ideate. Ritocchi, momenti d’incontro, concertazioni tra le esistenti associazioni specie di giovani e, subito, siffatte escursioni potrebbero venire segnalate persino dalla ineguagliabile Guida del TCI.

L’effettuazione delle escursioni dovrebbe, però, trascendere dal vieto vedere di frettolosi turistici, stracchi per l'estenuante guida delle loro automobili: carretti siciliani, tradizionalmente istoriati, trainati da giumente bardate più e meglio delle locali, antiche contesse carrettesche, comodi comunque per dissimulata tappezzeria, dovranno accompagnare quei turisti che, a margherita, verranno dall’orgia della spettacolarità agrigentina e che potranno immergersi nella sonnacchiosa civiltà di una plurimillenaria sopravvivenza contadina, sicula anzi inimitabilmente sicana.

Strade da tracciare, ma come le vecchie trazzere; posti di ristoro da approntare, ma con i limiti della radicatissima “avara povertà di Catalogna”; accattivanti ricezioni con suoni e luci di atavica estrazione; modernissimo contrasto con proiezioni di originali “cassette” e con “videate” della rivoluzionaria editoria multimediale (che Infotar, già, per suo conto sta approntando); accompagnatori ed assistenti, colti, giovani, adeguatamente istruiti, tutto ciò rientra nella ipotesi di lavoro che si vorrà attuare con il laboratorio in questione.



Descrizione del laboratorio sub 2) istituzione di musei (religiosi, etnografici, storici) che pur rifacendosi alle notazioni sciasciane sappiano valorizzare la sconfinata - ma per il momento solo parzialmente conosciuta - storia di Racalmuto e dei dintorni (Grotte, Naro, Montedoro, Bompensiere, Milena);



S’intendono realizzare in Racalmuto almeno tre tipi di micromusei:

  1. parrocchiale;
  2. etnografico, ma a percorso articolato lungo tutte le principali arterie della vecchia Racalmuto;
  3. storico con preminente caratteristica della virtualità.



Museo Parrocchiale.



Racalmuto vanta una Matrice ove si custodisce un patrimonio archivistico che è un “unicum” in tutta la Sicilia: i documenti più antichi risalgono al 1550; i dati della locale diplomatica travalicano il secolo XV. Oggi quel patrimonio è criminosamente abbandonato in ripostigli insicuri, in armadi di fortuna, alla mercé del primo venuto. Trasferire questo patrimonio in un museo parrocchiale - giuridicamente, s’intende, sotto l’egida della Curia, cui compete lo jus disponendi per diritto canonico - si rende ormai improcrastinabile.

Del pari, l’immensa quantità di vestiario antico, di paramenti sacri, di labari, altaretti, di ciò che nel gergo ecclesiastico si denominava “iogalia” andrebbe salvato dalle tarme, dall’incuria e dalla idiota pirateria che la stanno devastando, nelle mefitiche, vecchie e malconce sagrestie di tutte quelle chiese che abbiamo prima menzionato, anche ad integrazione delle guide turistiche oggi disponibili.

E’ un salvataggio doveroso che deve avvenire in un museo - ci pare come quello parrocchiale che proponiamo. Ma non basta, dai diplomi, dagli atti notarili, dalle visite diocesane e da altro affiorano termini inusitati di antica biancheria ecclesiastica (camici, amitti, mozzette e via di seguito), nomi di paramenti, indicazione di arredamenti che ben tipicizzano una vecchia chiesa locale, un costume religioso oggi dismesso. Il museo - affidandone la reinvenzione a fabbriche del luogo specializzate del tipo della costituenda ARCON - appronterà sale, esposizioni ove questo perduto materiale tessile o ligneo potrà risorgere almeno in una imitazione attendibile.

Studi, ricerche, foto, percorsi musivi, materiale vario dovrà accedere in CD-ROM navigabili, in siti Internet. Passi dell’opera sciasciana daranno lustro, senso, allusività al museo: Sciascia non fu religioso; fu certo intriso di soggezioni chiesastiche.



Museo Etnografico.



Presi in affitto talune delle tante case dirute che oggi affliggono il vecchio centro storico di Racalmuto, esse, dopo piccoli lavori di restauro, renderanno, come dal vivo, con sceneggiatura, fotomontaggi, arredi contadini originali o ricostruiti, il contesto socio-economico di una civiltà oggi del tutto tramontata. Atti notarili, materiale in disuso, “cantarani”, “currioli”, “pitazzi” etc. consentono una siffatta - per noi suggestiva - rievocazione in loco, nelle vecchie case terrane, in quelle “solerate”, nei “dammusi”, nelle “arcove”, negli anfratti delle annesse, inverosimili stalle; coi letti all’antica, con le “frazzate”, con i “catoj” - e non è questa la sede per continuare.

I “riveli” del 1595 consentono individuazione delle vecchie contrade, delle case dei vecchi notabili, dei miseri giacigli dei “jurnatara”, delle case terranee “coniunctae et collegatae” nei caratteristici cortili dei ”burgisi”, dei “mastri”.

1 Emerge come il feudo di Gibillini sia cosa ben diversa dalla contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio degradante tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non soltanto la contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva neppure parte di quella terra feudale.
Il primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile 1358 ; il diplomatista così sintetizza il documento che non ritiene di pubblicare:
Il Re concede al milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu [feudo posto vicino SUTERA, v. doc. prec., n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore, insieme a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente perchè il detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei nemici il detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il Re di emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come sopra.
Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte. Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il fiero conte ebbe dire recisamente a re Ludovico “prius mori eligimus, quam in potestatem et iurisdictionem incidere catalanorum”: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge sull’apporto dei traditori. Per Michele da Piazza, i chiaramontani, che pur vivevano nella loro tirannica fede, non contenti né soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si rivolsero agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re Ludovico.
Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvisi in Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani - [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”. Prosegue Giunta “queste premesse spiegano il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100 cavalieri, 400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò “con trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia”, sì da ottenere festose accoglienze da parte dei Palermitani “che per fame più non aveano vita”, nonché il rapido dilagare della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna “e molte altre terre e castella””. Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e Gibillini.
Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un paio d’anni prima del citato documento. Ma da lì a pochi anni, Federico IV, detto il Semplice riuscì a riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio tutto in favore di Federico della casa chiaramontana.
Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto nell’opera del San Martino de Spucches . Secondo l’araldista il feudo di Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da non confondersi con l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, “per antico possesso” alla famiglia Chiaramonte. Fu Manfredi Chiaramonte a costruirvi la fortezza, quella che ora è denominata Castelluccio. L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu Andrea Chiaramonte, quello che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di sua proprietà, lo Steri.
Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario, iure francorum, con obbligo di servizio militare e cioè con due privilegi, il primo dato in Catania il 28 gennaio 1392 (registrato in Cancelleria nel libro 1392 a foglio 221) ; col secondo diploma, dato ad Alcamo, li 4 aprile 1392 e registrato in Cancelleria nel libro 1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei sovrani, ebbe concessi tutti i beni stabili e feudali, senza vassalli, posseduti da Manfredi ed Andrea Chiaramonte, dai loro parenti e dal C.te Artale Alagona, beni siti in Val di Mazara, eccetto il palazzo dello Steri ed il fondo di S. Erasmo e pochi altri beni. Nel 1397 ad opera del cardinale Pietro Serra, vescovo di Catania e di Francesco Lagorrica, il Moncada fu deferito come reo di alto tradimento, avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397 fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni. Morì di dolore nel 1398.
Subentrò Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia.
Il feudo pervenne successivamente a Gaspare de Marinis, forse figlio, forse parente. Da questi, passa al figlio Giosué de Marinis che ne acquisì l’investitura il 1° aprile 1493 more francorum, per passare quindi a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per la morte del padre e come suo primogenito. Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa dalle figlie Giovanna e Maria il 22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).
Succede Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando De Silva, M.se di Favara con investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita e per la morte di Pietro Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo investiture libro 1560 f. 271).

Maria De Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26 dicembre 1568, per donazione e refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella (Ufficio del Protonotaro, XII Indiz., f.479) .
Beatrice De Marino e Sances de Luna s'investì di due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la morte di Alonso de Sanchez suo marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta Giovanna, M.sa di Favara (Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f. 15); peraltro v’è pure un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a favore di Carlo di Aragona de Marinis, P.pe di Castelvetrano, figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII Indiz., f.160); un’altra investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a favore di Maria de Marinis per la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria, III Indiz. , f. 491); dopo non ci sono investiture a favore dei Moncada.
Diego Giardina s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615, per donazione fattagli da Luigi Arias Giardina , suo padre, a cui le due quote furono vendute da Beatrice suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da Palermo il 5 dicembre 1608 (Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu quindi una reinvestitura in data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo III e successione al trono di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22, f. 283 retro).

Subentra - sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con investitura del 28 febbraio 1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo padre (Cancelleria , libro del 1624-25, f. 214); viene quindi reinvestito il 29 agosto 1666 per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II (Conservatoria, libro Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina morì a Naro il 24 novembre 1667 come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia di S. Nicolò.
Diego Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di Luigi suddetto, s'investì dei due terzi il 7 ottobre 1668 (Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f. 89).
Luigi Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9 settembre 1686 dei due terzi, per la morte e quale figlio primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1686-89, f. 17).

Diego Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come primogenito e, per la morte di Luigi Gerardo suddetto, nonché come rinunziatario dell'usufrutto da parte di Giulia Massa, sua madre, agli atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di Palermo, del 1° ottobre 1738 (Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).

Giulio Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il 3 dicembre 1787, come primogenito e per la morte di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1787-89, f. 25).

Diego Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di Gibellini il 15 luglio 1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio suddetto (Conservatoria vol. 1188 Invest., f. 124 retro); non ci sono ulteriori investiture o riconoscimenti.
Ma a questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino de Spucches non segue bene le vicende feudali di Gibillini. Comunque nel successivo volume IX - quadro 1454, pag. 221 - intesta: “onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI - Cedolario, vol. 2463, foglio 204” ed indi rettifica:
Giulio GIARDINA GRIMALDI, Principe di Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come figlio primogenito ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA (Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).
1. - Quindi vendette agli atti di Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77).

2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'“Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia” del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.”

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