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giovedì 24 dicembre 2015


giovedì 7 giugno 2012

LA CASINA DI LA NUCI


Nel mese di giugno, è buona abitudine dei racalmutesi “acchianarisinni n’campagna”; è la villeggiatura di tanti che non amano il mare e preferiscono la frescura e la serenità di un soggiorno nel verde. Durante tale periodo, una volta, venivano svolte tante attività: si faceva “l’astrattu”,  “li chiappi di pumadoru”,  “li ficu curati”, “li buttigli di sarsa”.
Anche i miei nonni avevano l’abitudine, d’estate, di recarsi nella loro casa in campagna, alla  Noce.
Si stabiliva un giorno nel quale veniva il carretto per il trasporto delle masserizie.
Mia nonna cominciava col raccogliere tutto quanto potesse servire per il lungo soggiorno.
Le ultime cose che venivano caricate erano gli animali. I gatti venivano catturati e infilati in un sacco. Bambino, vedevo quei sacchi che sprizzavano protuberanze da tutte le parti. Le galline venivano legate per i piedi e, a testa in giù, caricate. Il cane non aveva diritto a viaggiare in cabina e, quindi, veniva legato con una corda  all’asse del carretto, dove pendeva un lume a petrolio usato di notte, per segnalare la presenza del mezzo .
Caricato tutto, il carrettiere dava il via al mulo e partiva. Noi si andava con la macchina presa in affitto da Di Marco, che stazionava in piazzetta in attesa dei pochi clienti. Si arrivava alla Noce, varcando “la grada”, dove era posizionata “la figuredda di lu Cori di Gesù” e trovavamo mio nonno,  partito di buon ora, “gninucchiuni” che “scippava” erba “di lu chianu”, facendo innervosire mia nonna, preoccupata del fatto che “Cicciu” -così si chiamava-  in quella posizione, potesse consumare i pantaloni.
La casa era una costruzione dal tetto spiovente, senza pretese e senza luce, con una piccola porzione,  stalla e pollaio, attaccata alla parte più bassa. Si entrava, varcando una porta di legno spesso,chiusa la sera “cu lu monacu” (un pezzo di legno grosso infilato nel muro che bloccava la porta), in una stanza che serviva da soggiorno e, all’occorrenza, come stanza degli ospiti, per lo più  zii che venivano per qualche giorno. Superando un gradino, si accedeva alla camera da letto vera e propria, intasata di “tavuli e trispa” che formavano dei letti, tanti eravamo i nipoti. Allo stesso livello del soggiorno, oltre un’apertura senza porta, stava “lu cufulari”, “la bileddra” e, più in alto, “lu parmientu cu lu tuorchiu”. Per noi bambini era una vera grande festa, potevamo fare quello che volevamo, senza controllo alcuno di genitori rigorosi. Dopo il primo giorno, dedicato all’organizzazione e alle pulizie, tutto prendeva un ritmo regolare, con pranzi a base di “minestri a vuddru apiertu”, cavati e “nzalati di pumadoru, sardi salati, spicuna di chiappari, cipuddri e ova”. Si andava a prendere l’acqua alle fontane di “Ficamara” o “a la Menta”. Si usava di solito la cortesia di qualcuno o, in alternativa, si chiedeva in prestito “la scecca”, già sellata “cu lu pannieddru”, sopra il quale stavano “li cancieddri” , dove venivano inserite “li lanceddri”. Noi bambini trascorrevamo il tempo esplorando varie zone nelle vicinanze, cacciando grilli e lucertole o, muniti di fionde, speranzosi di acchiappare qualche sfortunato passero. Arrivava il periodo della raccolta delle mandorle. Veniva “lu mitatieri” Totu e la moglie Luvigina. Il marito, con degli scarponi così pesanti e rigidi, che non permettevano, camminando, di piegare il piede e la moglie con un fazzoletto in testa a mo’ di bandana. Noi bambini aiutavamo, scartando “li burduna” e raccogliendo mandorle sfuggite alla loro attenzione.
Il pomeriggio il raccolto veniva pesato “cu lu tumminu” e si stendeva all’aria ad asciugare.
La sera, dopo cena, era usanza fare le passeggiate al chiaro di luna (non ricordo più un chiarore lunare così intenso, sicuramente dovuto al fatto che c’erano poche luci); si cantava e si chiacchierava di tante cose. Prima di rientrare, veniva acceso un lumino “a lu Cori di Gesù” e ci si sedeva “nni lu  limmitu” a pregare. Le mattine, noi bambini, le dedicavamo a “fari sulami” ( le mandorle dimenticate a terra).
Tutto scorreva serenamente. Di solito, si metteva  qualche chilo e poco si sentiva la mancanza dei genitori, che ci avrebbero vietato tante cose. C’era un giorno di luglio nel quale i grandi decidevano di portarci dal barbiere. Tutti nella macchina di Di Marco, andavamo da “Mastru Bilasi, a lu Carminu”. Un simpatico personaggio che, alternando il lavoro di contadino e di barbiere, a volte dimenticava che, in quel momento, stava facendo il barbiere e non il contadino. Dopo la….potatura, si tornava “a la Nuci”, con l’aria di bambini scappati da un riformatorio.
Alcuni giorni, mia nonna faceva il pane e “li fuazzi”, impastava con le mie zie, “famiava” e infornava prima “li fuazzi” e dopo il pane che, immancabilmente risultava eccessivamente abbronzato.  Ma non si doveva dire.
Arrivava così settembre e le prime piogge. Era quello che aspettavamo : “quannu scampava”, stivali ai piedi e tutti a raccogliere “babbaluci”, classificati in “babbaluci, judisca e muntuna”. Il divertimento stava nel contarli e vantarsi con i vicini: “nni cuglivu quattrucientucinquanta!” e l’altro: “iu e ma muglieri setticientu ntre du uri!”
La stagione, per noi bambini, si concludeva con la vendemmia e con l’uva pestata rigorosamente con i piedi e con l’odore del mosto “nni la bileddra”. Sempre Totu e Luvigina per la raccolta, Totu sulu pi pistari.

Racalmutese Fiero
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