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sabato 26 dicembre 2015


IL QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A RACALMUTO


Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia  proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 ([1]) - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,  difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Ed è comunque questione che poco ha a che vedere con la storia religiosa del nostro paese: la storia che specificatamente ci interessa in questa sede.([2])

Quel che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato  del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.

Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che riportiamo, in calce, in una nostra traduzione dal latino ([3]):

Il documento fu ben presente a Giovan Luca Barberi che gli tornava comodo per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento.  Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di Agrigento dedicata a S. Margherita. E prima?

Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente  Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.

GLI EBREI  A RACALMUTO


La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel 1492. ([4])

Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l’anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco ebreo, dedito certamente all’usura. Trattasi di documento  interessante e che va riportato integralmente sia per la singolarità della testimonianza sia pure per l’affiorare di antichi termini dialettali della nostra terra. [5]

In piena estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen Durrea dava, dunque, ordine all’algoziro (a metà tra il capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore) Olivero Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro Raneri. Ma tanti altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne assalito, bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato. Tagliata la lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato ancor vivo in una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.

Non sembra che tanto accanimento fosse ispirato da furore religioso. Dovette, dunque, trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e per l’inflessibilità nel loro recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si desume dal fatto che sembra avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa come 150 pezzi d’oro  - una enormità per i tempi e le condizioni della Racalmuto di allora -  e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.

L’algoziro Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con prudenza ed acume. Dovrà appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione del giudeo. Complici e fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti dal funzionario viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare l’incarico recandosi di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta scoprire se trattasi di moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente tumulto popolare. Non va trascurata l’eventualità che addirittura si sia consumata una vendetta collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto va fatta una puntuale relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma inflessibilmente, andranno carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti nella città di Agrigento, per essere affidati alle carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga.

La città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che  gli ebrei sono servi della regia Camera e quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento  con le autorità locali agrigentine e quelle racalmutesi.

E’ uno spaccato del vivere sociale locale che trascende l’efferatezza del crimine e la condizione ebraica verso lo spirare del Medio Evo. Se tanta solerzia traspare nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli imperdonabili criminali, ciò connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva vivere e prosperare nell’assetto comunale come quello racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo. Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e, pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.

Quanto alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano significativi assetti organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero Sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l’Inquisizione. Quel non glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non collimanti con quelle della laica canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.

IL SECOLO DELLA MADONNA DEL MONTE


La tradizione colloca nell’anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte. La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni ricerca storica che suonerebbe falsa e blasfema. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione dell’Officio sulla nostra prodigiosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si recita in latino - da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione, la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino per essere condotta nella antica città di Castronovo. E questo fu un mero portento

Francesco Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone Messana nel 1968,  Leonardo Sciascia in una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull’evento, quasi sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di Racalmuto.

Un quadro storico puntuale e documentato ce l’ha fornito di recente il compianto gesuita locale P. Girolamo Morreale. Esso è esaustivo per chi pretende l’umana verità storica. Col suo candore l’ex-voto esposto nel Santuario del Monte rappresenta, pare dalla fine del Seicento, la nostra ancestrale devozione mariana; esso ci immerge nella concitazione del popolo racalmutese per l’arrivo nella parte alta del paese del carro trainato dai buoi con sopra il venerato simulacro della Madonna.

Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia notizia documentata - la gloriosa statua viene come inventariata, con stile del tutto anodino. Nell’Archivio Vescovile di Agrigento si rinviene il documento della visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge però nulla che possa richiamare alla mente un santuario prestigioso della Vergine. P. Morreale ([6]) ha come un moto di stizza quando vede il notista della Curia trattare apaticamente l’argomento. In seconda battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l’irriguardoso burocrate si limita ad inventariare il glorioso simulacro semplicemente come «una figura di nostra donna di marmaro». Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode a Racalmuto solo a partire dai primi decenni del ‘700, dopo l’opera del p. Signorino.

La visita pastorale del Vescovo di Agrigento, datata 1540, è per altri versi un momento importante per la storia religiosa di Racalmuto. Abbiamo un documento storico  basilare. Pur nel linguaggio non perspicuo ed arcaico, balza un quadro della struttura ecclesiale di Racalmuto.

 

 

Ci affacciamo, così, all’epoca moderna per la quale disponiamo di fonti d’archivio e documentali rilevantissime che vanno studiate ed interpretate con rigore scientifico, bandendo quel vezzo della visionarietà cui gli eruditi locali sono stati soliti abbandonarsi. La storia della comunità ecclesiale racalmutese appare ora circostanziata e colma di  affascinanti spunti e di specificità di grande portata edificante. Si pensi al culto della Madonna, alla devozione verso S. Rosalia, alla veneranda figura di padre Elia Lauricella ed ai tanti servi di Dio della nostra epoca contemporanea. 


SACERDOTI DI RACALMUTO DEL XVI SECOLO


Premessa


Nell’Archivio parrocchiale della Matrice di Racalmuto si rinviene un elenco di sacerdoti che abbraccia il periodo dal 1545 sino ai nostri giorni. L’intestazione è molto eloquente e ben specifica il contenuto del registro. «Liber - viene denominato - in quo adnotata reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum, nec non Diaconorum, Subdiaconorum et Clericorum huius terrae Racalmuti, jam ex hac vita discessorum a pluribus ab hinc annis fere immemorabilibus, opere R.di Sac. D. Paulini Falletta hoc anno 1636 pro quarum animarum suffragio semel in mense in feria secunda secundae hebdomadae ad cantandam Missam omnes Sacerdotes, Diaconi, Subdiaconi et Clerici se obligaverunt convenire. - Ut in actis Not. Panfili Sferrazza Racalmuti sub die 26 Marzii 1638.» Fino a quando si cantò quella messa il lunedì  della seconda settimana di ogni mese, non sappiamo. Oggi non avviene più e crediamo a memoria d’uomo.

Il primo sacerdote a venirvi annotato è l’arciprete e canonico d. Nicola de Galloctis, citato nella visita pastorale di Mons. Pietro di Tagliavia e d’Aragona del 1543. La trascrizione è però scorretta: lo si chiama “Nicola Galletti”. Abbiamo quindi i tre successori nel tempo: d. Tommaso Sciarrabba - anche lui arciprete e canonico - D. Gerlando d’Averna e don Michele Romano. Viene omesso l’arciprete Capoccio per saltare a d. Andrea d’Argomento, con il quale s’inizia il secolo XVII.

Sui sacerdoti racalmutesi del secolo XVI sappiamo ben poco. Qualche dato si desume dall’archivio vescovile di Agrigento. Notizie e riferimenti si colgono nei libri parrocchiali della Matrice, quasi tutti di battesimo per quello scorcio di secolo, e databili, comunque, a partire dal 1564. La bolla di conferimento dell’arcipretura di Racalmuto al sac. Gerlando di Averna  è stata da noi rintracciata nell’ Archivio Vaticano Segreto e risale al 13 novembre del 1561.

Lo stato delle nostre ricerche ci permette di individuare soltanto due sacerdoti officianti a Racalmuto prima del XVI secolo. Sono i religiosi ricordati nella Colletteria dell’archivio vaticano (cfr. ASV - Collect. 161 f. 96) Martuzio de Sifolono, titolare della chiesa di S. Maria, chiamato  a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310), ed il prete  Angelo di Montecaveoso, tassato per nove tarì  in re­lazione all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S. Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna è mero arbitrio. Il “presbiter”  Angelo de Montecaveoso ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava pochi proventi (dopo, l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.) e non lascia traccia di sé.

Non abbiamo elementi per stabilire se, oltre ad incassare le prebende, i beneficiari di S. Margherita, ebbero a svolgere una qualche missione sacerdotale a Racalmuto: si tratta di due preti di cui ci tramanda i nomi un noto documento (Archivio di Stato di Palermo: Reale Cancelleria, Vol. 34, f. 137v, anno 1398) del 20 settembre 1398, Tommaso de Manglono e Gerardo de Fino. Il primo era un canonico agrigentino, considerato ribelle dal re Martino e pertanto spogliato della prebenda racalmutese; il secondo, arciprete di Paternò, era divenuto cappellano regio: difficilmente avrà avuto tempo per pratiche religiose nella terra del beneficio di Santa Margherita, ricevuto graziosamente dal re. Gli bastava mettersi in contatto con Matteo del Carretto, cui erano state impartite istruzioni per la corresponsione dei proventi a quelll’arciprete di Paternò.

Biagio Pace vorrebbe un ipogeo cristiano in contrada delle Grotticelle di Racalmuto. Se ha ragione, il cristianesimo si sarebbe diffuso nel paese fin dal V-VI secolo; da allora sino al nono secolo, quando gli arabi s’impadronirono di questa parte della Sicilia, molti sacerdoti si saranno succeduti ma su di loro nulla assolutamente si sa e non sono neppure tentabili congetture, anche azzardate. Lo stesso avviene per i tempi dei Normanni e per quelli successivi sino al 1308. Occorre fare un salto, dunque, che ci porta al 17 maggio del 1512: in un documento vescovile si accenna al sacerdote racalmutese Francesco La Licata che - unitamente ai sindaci Vito Graci, Francesco Bona, Giacomo Mulè, Filippo Fanara, Salvatore Casuccio, Gabriele La Licata. Orlando Messina e Stefano Santalucia - si era rivolto all’autorità viceregia per avanzare un imprecisato ricorso avverso il chierico Paolo del Carretto. Possiamo affermare che il La Licata sia il primo sacerdote veramente racalmutese di cui abbiamo notizia.

In definitiva, è proprio dal La Licata che può partire una ricognizione dei sacerdoti racalmutesi: i precedenti quattro nominativi (due dell’inizio e due della fine del XIV secolo) ci appaiono forestieri e per un paio di loro non è ipotizzabile una qualche sia pure sporadica presenza a Racalmuto.



[1]) Ci riferiamo allo scambio dei beni tra Gerardo e Matteo del Carretto. Il documento che utilizziamo è una fotocopia dovuta alle solerti ricerche del prof. Giuseppe Nalbone presso l'Archivio di Stato di Palermo (cfr. ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni 1399-1401)  pag. 177 recto a pag. 181 - Data 9/4/1993).
 
[2]) Resta a nostro avviso ancora insuperata la ricostruzione che della vicenda fa lo SPUCCHES nel quadro 783 del vol. VI (Avv. Francesco SAN MARTINO de SPUCCHES - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol VI). In particolare, ci riferiamo ai seguenti punti dell'opera:
 
«1. - Federico CHIARAMONTE, figlio terzogenito di Federico e Marchisia PREFOLIO,  ebbe Racalmuto da FEDERICO di Aragona; lo affermano concordi tutti gli storici. Sposò questi certa Giovanna di cui si sconosce il casato. Egli morì in Girgenti; il suo testamento porta la data 27 dicembre 1311, X Indiz., fu pubblicato da notar Pietro PATTI di Girgenti il 22 Gennaro 1313, II Indizione.  [XI IND.]
 
2. - Costanza CHIARAMONTE,  come figlia unica di Federico suddetto, successe in tutti i suoi beni come erede universale del padre. In conseguenza ebbe il possesso di RACALMUTO. Sposò questa in prime nozze, Antonino del CARRETTO, M.se di Savona e del Finari (Dotali in Notar Bonsignore de Terrana di Tommaso da Girgenti li 11 settembre 1307). Sposò in seconde nozze Brancaleone Doria, genovese, col quale ebbe molti figli. Questo risulta possessore di RACALMUTO, (MUSCA, Sic. Nob. pag. 20). Costanza morì in Girgenti ... Il testamento di lei è agli atti di Notar Giorlando Di Domenico di Girgenti, sotto la data 28 marzo 1350, V Indiz.; fu transuntato in Catania, agli atti di Notar Filippo Santa Sofia li 24 novembre 1361 (INVEGES, Cartagine Siciliana, f. 228-229).
 
3. - Antonio del CARRETTO successe nella signoria di RACALMUTO, come donatario della madre, per atto in Notar RUGGERO d'ANSELMO da FINARI li 30 agosto 1344, XII Indizione. Sposò questi certa SALVASIA di cui si sconosce il casato. Nacquero da lui GERARDO e MATTEO. Il primo se ne tornò a Genova dopo aver servito Re MARTINO contro i ribelli; i beni di Sicilia li cesse al fratello.
 
4. - Matteo del CARRETTO suddetto fu investito della Baronia di RACALMUTO in Palermo, a 4 Giugno, IV Indizione 1392. (R. Cancelleria, libro dell'anno 1391, f. 71) [L'indizione è del tutto errata. Il 1392 cadeva nella XV Indizione. Occorrerebbe cercare meglio di quanto abbiamo fatto noi nella R. Cancelleria il citato documento che a dir poco è segnalato in modo impreciso]. .»
 
 
[3]) Archivio di Stato di Palermo: Real Cancelleria - Vol. 34 - p. 137 v. - 1398 [Ricerche del prof. Giuseppe Nalbone] «Martino etc. Al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai  grati riconoscimenti. E così  apprezziamo quelli che sappiamo essere  i morigerati vostri costumi di vita  di cui v’è generale stima e nei quali noi siamo pienamente fiduciosi, e pertanto per l’autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità - fiduciariamente vi commendiamo e per grazia vi conferiamo, concediamo e doniamo in modo che possediate la prebenda, l’aumentiate, la teniate, ne usufruiate e l’amministriate con i suoi redditi e proventi che potrete destinare alla vostra comodità affinché in modo più consono - Dio permettendo - possiate trarne mezzi di sussistenza durante la nostra vita e finché quel canonicato ci resterà affidato dall’autorità apostolica.
Ai nunzi ed agli incaricati presso il venerabile eletto governatore della predetta maggiore chiesa agrigentina nonché al consesso dei canonici diamo incarico acché vi pongano e vi immettano nel materiale e reale possesso di quel canonicato, con prebenda redditi ed i suoi debiti e consueti proventi, per l’autorità delle presenti credenziali, oppure che ve ne rendano il possesso per il tramite di altri, non mancando di tenerlo intatto e di salvaguardarlo e di rendervelo quindi integro sia per quanto attiene allo stesso canonicato sia alla pertinente prebenda nei consueti termini giuridici.
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente e pienamente  la prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se desiderano e possono mantenere la nostra benevolenza.
Dato in Siracusa, l’anno del Signore, VII^ Ind. 1398.
.... Re Martino - »
 
 
[4]) CODICE DIPLOMATICO DEI GIUDEI DI SICILIA raccolto e pubblicato dai fratelli sacerdoti Bartolomeo e Giuseppe LAGUMINA  - edito  dalla SOCIETA' SICILIANA PER LA STORIA DI SICILIA -  Documenti Storia di Sicilia - Serie I - DIPLOMATICA N.°  12 - Trattasi del terzo volume dei fratelli Lagumina . Palermo 1890. (pag. 145, documento n.° LIX - Palermo 7 luglio 1474,  Ind. VII.)
 
[5] ) «Il Vicere’ Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio RAFFA  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il  giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei
«Ioannes etc. Vicerex etc. nobili oliverio raffa militi algoczirio regio fideli dilecto salutem. diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati sadia di palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu  dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno liuni figlastro di mastro raneri et dapoy alcuni altri di lu dictu casali  quasi  a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non  havendu  timuri alcuno di iusticia. Immo  diabolico  spiritu dicti  tagliaro  la lingua et altri menbri et  ruppiro  li  denti usando in la persuna di lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu gettaru  in una fossa et copersilu di pagla et  gictaru  foco petri  et  terra.  la qual cosa essendo di  malo  exemplo  merita grande  punicioni et nui tali commoturi di popolo et  delinquenti volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di  la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo  provisto per  sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi  et culpabili. et per la presenti vi dichimo commictimo et  comandamo che  vi digiati personaliter conferiri in lu dictu casali et  cum quilla  discrepcioni  lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti  et partechipi a la dicta morti et delicto. et de  tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. comandanduvi chi cum  diligencia  et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati  prindiri de  personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo  dicto acto et quilli digiati minari in la chitati di girgenti et carcerarili  in  lu castellu di la dicta chitati in modo  chi  non  si pocza  di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che  a  lu dictu iudeu  fu prisa certa roba et intra li altri uno gippuni  in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro farriti di  lo  dicto gippuni e di tucta l’altra roba libri  et  scripturi diligenti  investigacioni  et perquisicioni cui li  prisi  et  in putiri  di chi persuna sono. et trovandoli cum ydonia  et  sufficiente pligiria de restituirili ad omni simplichi requisicioni di la  regia  curia li restituiriti a li heredi di lu  dictu  iudeu. preterea  perche multi audachi et temerari persuni li quali  poco timino  la iusticia presummino in la chitati di girgenti  parlari et  usari  alcuni prosuncioni et adminanzi ac iniurij  contra  li iudei  di dicta chitati di che porria suchediri inconvenienti  et scandalu  non  senza disservicio di la regia curti.  a  li  quali inconvenienti volendo debitamente providiri actento chi li  iudei sono servi di la regia cammara  et non si divino lassari  indebitamente   vexare ne molestari. vi comandamo chi eciam vi  digiate conferiri  in la dicta chitati di girgenti per li lohi soliti  et consueti  farriti voce preconis emictiri banno puplico  sub  pena vite et publicacionis bonorum et altri a vui meglo visti chi  non sia  persuna  alcuna  digia ne persuna  cuiusvis  condicionis  et gradus  chi digia palam vel oculte de die nec de nocte intus  nec extra civitatem offendiri vexari ne molestari li dicti iudey.  ne alcuno di loro tanto masculi comu fimini tanto grandi comu pichuli  ne  loru beni re facto verbo et opere. et  chi  lo  capitaneo iurati  gubernaturi di li iudei et altri officiali  digiano  ipsi iodey  favoriri et defendiri contro omni persuna chi indebite  li volissi offendiri et molestari. lu quali banno post eius  pubblicacionem   farriti reduchiri in scriptis ut appareat in  futurum. et si alcuno volissi dimandari iusticia  oy incusari alcunu iudeu digia  compariri davanti di nui et farrimo debito complimento  di iusticia.  in modo chi cui havira commissu malificio et delicto sarra debitamente castigato. Nam in  premissis et circa ea cum dependentibus emergentibus et annexis vi damo et conferimo plena bastanti et sufficienti potestati per  presentes.  per  li  quali comandamo a tutti et  singoli  officiali  et persuni  di  la chitati nec non a lu nobili baruni  officiali  et persuni di lo dicto casali chi in la execucioni di li  sopradicti cosi cum li dipendenti emergenti et quilli vi digiano obediri  et assistiri  ac  prestari omni aiuto consiglio et  faguri  et  loro brazo  si et quociens opus erit et per vos fuerint requisiti  nec contraveniant aut aliquem contravenire permictant ratione aliqua sive causa sub pena unciarum mille regio fisco applicandarum. vui vero  in la execucioni di li dicti cosi vi haviriti et  portariti in tali modo et omni quilla diligencia  chi pozati  meritatamente essiri  inanzi  nui comandatu. Dat. panormi die VII  Iulij  VIIe Indicionis  M° CCCCLXXIIII°. post datam. constituimo a vui  dicto nobili per vostri iornati et salario ad racionem de tarenis  octo pro  quolibet die dum in premissis legitime vacaveretis. Dat.  ut supra.
Lop Ximen Durrea»
Cancelleria, vol. 130, pag. 332 - R. Protonotaro,  vol.  73, pag. 160
[6]) Girolamo M. Morreale, S.J - Maria SS. del Monte di Racalmuto - Racalmuto 1986: pag. 29 «Le notizie più sicure e più antiche sulla Madonna del Monte le abbiamo dalla sacra Visita, fatta a Racalmuto dal vescovo o da un suo delegato, nel 1540 ... La statua è descritta con termini assai scarni, secondo lo stile inventariale: "Una figura di Nostra Donna di marmaro"» Pag. 30: «Poco dopo sono riportati gli ornamenti della statua: "Item uno panigliuni [rectius: pavigluni, n.d.r.] di cuttuni cum sua frinza di sita russa per [rectius: supra, n.d.r.] la Immagini  [rectius: inmagini, n.d.r.] di marmaro di Nostra Donna et una cultra vecchia  [rectius: vecha, n.d.r.] per la ditta Immagini  [rectius: supra la ditta inmagini, n.d.r.] ... Item: uno panigliuneddo  [rectius: paviglunetto, n.d.r.] a la immagini  [rectius: inmagini, n.d.r.] di Nostra Donna .»
«Il titolo della chiesa è riportato nel paragrafo che la riguarda: "Visitatio ecclesie sancte Marie di lo Munti".
«Per la quantità di beni riportati nell'inventario, la chiesa del Monte è la terza dopo la Matrice e l'Itria. Si ha l'impressione di una chiesa periferica  che ha appena il necessario: sono ricordati un solo paio di candelieri di legno e le 13 tovaglie di altare come biancheria sacra. Le due chiese centrali, Annunziata (Matrice) e l'Itria, invece appaiono bene attrezzate di parati sacri..»
A quest'ultimo proposito mi par di potere annotare: a) Il P. Morreale legge sicuramente in modo errato Jsu  in Itria (la chiesa dell'Itria sorgerà a Racalmuto un secolo dopo); b) la chiesa del Monte figura dopo Matrice, S. Maria di Gesù ed anche S. Giuliano, al quarto posto, forse addirittura alla pari di S. Margherita; c) in ogni caso, trattasi delle prime cinque chiese di Racalmuto: le altre (ricordo ad esempio: S. Rosalia e  S. Leonardo) non attiravano l'attenzione dei visitatori episcopali per la loro scarsa importanza. La chiesa del Monte, comunque, ha una buona dotazione di paramenti sacri, ha una cassetta per le elemosine ed un guardaroba per la sua prestigiosa statua di marmo, anche se viene indicata come vecchia (da ciò si potrebbe anche dedurre che la statua marmorea non è poi detto che sia quella che si venera oggi e che la chiesa del Monte è molto antica, forse più antica della stessa S. Maria di Gesù).
Altra importante fonte è : «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - Tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto risulta tratttato nelle pagine 207-218. La visita è dell'11 giugno 1543 ed è successiva di tre anni a quella qui indicata. La Chiesa del Monte non vi figura perché il visitatore si limitò ad annotare a lato la vecchia visita.

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