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giovedì 14 gennaio 2016


SI APPANNANO I CASUCCIO

Una commovente lettera dei Casuccio del Settecento.

Emblematica del travaglio dei tempi, è questa lettera scritta da un Casuccio all’arciprete Campanella: lo stile sarà impacciato ma il mittente mostra una consuetudine con la parola scritta che per l’epoca è apprezzabile; la mortalità infantile è drammatica, le ristrettezze economiche diffuse.

Ill.mo Signore e Reverendissimo Colendissimo.
L’afflizioni che hà recato a mè e a tutta questa mia picciola famiglia rimasta, per la morte di quel benedetto, sfortunato figlio d: Bartolomeo, non possono esagerarsi con la lingua, né esprimersi con la penna; tutta lascio considerare a V. S. Ill.ma, pensando, che dietro le morti di quelli anco altri premorti figli, il Signore mi hà tolto questo, restandomi solamente una figlia, e don Ignazio, i quali sbigottiti di quest’ultimo caso, campano in cura di medicamenti, ma tutti impauriti. Mentre ringrazio il suo affetto di quest’Ufficio sacro passato, prigandola di raccomandarmi al Signore e di onorarmi con li suoi comandi, mi soscrivo di V.S. Ill.ma Ill.mo Signor d: Stefano Campanella – Racalmuto. -  Dato li 15 dicembre 1770

Ma tanto non è solo il grido di dolore di notabile in decadenza, quanto il segno di un declino di una famiglia che un tempo era stata localmente egemone: trattasi di un declino che durerà un secolo; alla fine dell’Ottocento ritornerà in auge, prima con un intraprendente burgisi che lascia la vanga per il piccone e scava con successo nelle viscere della contrada Ciaula alla ricerca del nuovo oro, lo zolfo, e poi con un arciprete che dominerà Racalmuto per tutto il periodo fascista e, soprattutto, nella prima era democristiana.
I Casuccio, invero, affondano le loro scaturigini familiari nei primordi della storia locale: nei registri parrocchiali della Matrice - una grande miniera di dati, sinora sostanzialmente negletta – si riscontrano già agli albori di quella documentazione [risalenti al 1564 e cioè al tempo della prima attuazione della Controriforma Tridentina] ben undici ceppi familiari con il cognome “Casuccio”, in grafia più o meno corretta. Sono tutti appartenenti alla buona borghesia del luogo e portano spesso un doppio cognome che si rifà nientemeno ai DORIA.
Quella famiglia può oggi vantare veri e propri nobili lombi, e sono i soli a Racalmuto. Ciò nei limiti, s’intende, in cui i Doria - quelli di Dante e quelli della storia di Genova, quelli del Cardinale Giannettino Doria di Palermo del tempo di M.A. Alaimo e Beatrice del Carretto e gli altri della celeberrima prosapia -  possono essere considerati nobili.

Cognome
Nome
Coniuge
1
Casuccia
Francesco
Maruzza
2
Casuccia
Gioseppe
Bastiana
3
Casuccia
Jacobo
Ioannella
4
Casuchia
Joanni
Rosa
5
Casuccia
Michele
Beatrice
6
Casuccia
Nardo
Minichella
7
Casuccio
Petro
Cartherina
8
Casuccia
Salvaturi
Juannella
9
Casuccia
Silvestro
Angela
10
Casuchia
Simuni
Contissa
11
Casucci
Vincenzo
Betta

Comprovano il doppio cognome questi atti parrocchiali:
10
9
1585
Geronimo
1
Antoni
Gulpi
Agata
Casuchia Doria Joanni

24
9
1586
Leonardo
Vincenzo
Parla
Solemia
Cimbardo cl. Angilo
Casucia Doria Vinc. m. di Fran.

8
7
1585
Jannuccio
Nicolao
Antonuccio quodam
Angila
Fuca'
Agata
Gasparo quondam
Betta
Casucia Doria Giovanni



4
1591
Maruzza
2
Antonino
Muriali
Francesca
Doria Jo:
4
1591
Santo
1
Antonino
Vento
Paola
Doria Jo:

10
6
1591
Jacopo
1
Francesco
Rizzo
Vittoria
Casuccia Doria Jo:


1.8.1616
CASUCCIO DORIA
FILIPPA

Emergevano, alla fine del Seicento, don Giuseppe Casucci e don Pietro Casucci, contro i quali si affilavano le armi giuridiche del conte Girolamo del Carretto, che li accusava di usurpazione di privilegi terrieri ed indebite esenzioni fiscali.
Secondo il conte, don Giuseppe Casucci possedeva sine titulo un fondo in contrada Bovo e cioè:
clusae cum terris scapulis exstentes in dicto pheudo Racalmuti et in contrata nominata di Bovo, confinaneis cum clusa Joseph Torretta, cum vineis Stephani Bruno et cum clusa Augustini de Beneditti, nulliter possessae per dictum reverendum sacerdotem d. Joseph Casucci.

Del pari, ciò valeva per l’altro sacerdote don Pietro Casucci:
 clusae cum terris scapulis cum vineis, arboribus et alijs exstentes in dicto pheudo Racalmuti et in contrata nominata di Bovo seu Montagna confinantes ex una parte cum vineis et terris ditti de Signorino, cum clusa notarij Francisci de Puma et cum clusa don Antonini Bartholotta, nec non cuiusdam vineae cum terris scapulis exstentes in dicto pheudo Racalmuti et in contrata nominata della Fontana della Fico confinaneis cum vineis quondam Antonini Vassallo, cum vineis Isidori Lauricella Erarij et cum vineis Pauli Bucculeri alias Gialì, indebité  possessarum per dictum Sacerdotem don Petrum Casucci.
Sappiamo che don Pietro Casucci finì i suoi giorni terreni il 7 dicembre 1713 all’età di 55 anni. Era un “collegiale” e cioè un mansionario di quella Comunia che aveva istituito l’arciprete Lo Brutto. Don Giuseppe Casucci visse più a lungo (decede il 15 gennaio 1728) ed era anche lui “collegiale”.
Ma al di là del patrimonio a suo tempo costituito non ci pare che i due sacerdoti abbiano avuto poi grosse disponibilità finanziarie per allargare le loro possidenze. Ci risulta solo quest’atto in favore di Pietro Casucci, che comunque ha tutta l’aria di una sistemazione di pendenze familiari:
A 5: Aprile Prima Ind. 1708:

Venditione fatta da Brigida Casucci relicta del quondam d. Ignatio al R.do sac: d. Pietro Casucci migliara sei di vigna con il suo palmento, albori, limiti ed'altri nel fego delli Giardinelli confinante con la vigna di Michael Angelo Callega ed altri confini. Sogetta nel suo solito censo. La posessione la medesima giornata per il prezzo di onze cento di contanti come meglio per detta venditione il di di sopra.

Un altro paio di sacerdoti, don Gaspare Casucci e don Vincenzo Casucci, ne mantengono ancora il prestigio ecclesiastico e quindi sociale sino alla prima metà del Settecento. Don Gaspare, collegiale beneficiale di S. Antonio, muore il 26 gennaio 1756; don Vincenzo, beneficiale semplice, muore il 26 settembre 1757 all’età di 62 anni. Poi abbiamo P. Carlo Casucci che è un frate e non può certo operare in disprezzo del voto di povertà. Anche questi comunque muore in quel torno di tempo, attorno al 1763.
Nel LIBER i Casuccio tornano un secolo e mezzo dopo con la morte del chierico D. Paolino Casuccio di Calogero mato in Racalmuto il 10 maggio 1892 e morto in guerra il 12 Agosto 1016 (n° 457.)
La rarefazione di sacerdoti in famiglia attesta proprio questo declino economico di cui la lettera che abbiamo riportata è eco e testimonianza.


L’ascesa di una nuova grande famiglia: i Tulumello.

La grande famiglia Tulumello è un antico nucleo familiare, ma sino alla prima metà del Settecento non vanno al di là delle solite annotazioni anagrafiche nei libri parrocchiali della Matrice. Il ceppo che avrà nell’Ottocento ruoli di risalto nella vita pubblica e, addirittura finirà nei testi araldici, parte da questo Giuseppe Tulumello – pare un gabelloto – che nel 1741 sposa una canicattinese:
Giuseppe Trumello Sch: figlio Legittimo e naturale d'Ignazio e Anna Tulumello Jugali di questa terra di Racalmuto con Paula Cuva sch. f. leg. e naturale di Pietro e Gratia Jugali della terra di Canicattì. Pubblic: 1741 5^ ind. ottobre 22.28.29.


Un sacerdote, don Nicolò Tulumello, frattanto si stava affermando a Racalmuto, ma cessò di vivere ad appena 30 nel 1748 (il 21 luglio) quando era già collegiale. Risulta dai fondi di Palagonia che nel 1763 diversi Tulumello spiccavano per consistenze patrimoniali e denunciavano quantità di grano  ben al di là delle misure consuete, oltre a possidenze ed a proprietà di ovili:
1.    Tulumello Calogero rivela s. 110 f.f.te e timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per mangia della mandra s. 35 ff., p. simenza s. 20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumi e colture di vigne s. 12 e s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia;
2.    Tulumello Giuseppe, rivela s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e garzoni;
3.    Tulumello Giovanne, rivela s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e garzoni.

Nei riveli troviamo, dunque, quel Giuseppe che sarà il capostipite di quello che sarà il ceppo nobiliare per  le vicende di fine Settecento. Nel censimento del 1753 Giuseppe Tulumello ha 33 anni; la moglie 28 ; i figli: Rosa di 11 anni, Vincenzo di 6 anni e Nicolò di quattro (che sarà sacerdote ed acuisterà per persona da nominare il titolo baronale di Gibillini).  Vicino abita il fratello Giovanne Tulumello di Ignazio di 27 anni, sposato con Santa. Assieme c’è la mamma, Anna Cuva di anni 60 e già vedova di Ignazio Tulumello.

Annotiamolo: fino al 1753 i Tulumello non vengono contraddistinti con titoli di risalto come don; d’altronde non fanno parte delle locali maestranze: sono però grossi gabelloti.
Nel 1785 i Tulumello hanno però fatto il salto nella gerarchia sociale racalmutese: don Giuseppe Tulumello ora siede accanto ai giurati; nel 1791 sarà la volta di don Vincenzo Tulumello, il quale può persino permettersi di divenire l’arrendatore del patrimonio urbano per onze 1.126 e tarì 15.18. Tra i giurati del 1794 vi troviamo don Ignazio Tulumello.
Fu in quell’epoca che si fece valere il sacerdote don Nicolò Tulumello. Ecco quello che di lui dice il LIBER (n° 334): «collegiale, vicario foraneo e direttore del Collegio di Maria e fondatore del medesimo, pochi mesi prima di morire si ritirò nell’Oratorio dei Filippini in Girgenti dove morì il 5 Marzo 1814 di anni 65 e per ordine di Monsignor Granata Vescovo di Girgenti si trasportò il cadavere di lui nella Chiesa di questo Collegio di Maria.»

La famiglia Matrona
In un rivelo del 1752 che fa don Giuseppe d’Agrò, quale beneficiale della chiesa di S. Nicolò di Bari, troviamo per la prima volta un personaggio: don Pietro Matrona. Ci appare, già, tra i maggiorenti di Racalmuto.
Dobbiamo attendere il 2 settembre 1802 per avere notizie su un sacerdote locale appartenente a tale grande famiglia: si tratta di don Calogero Matrona che nel LIBER (n° 313) viene così contrassegnato: «morì in Montaperto il 2 Settembre 1802 d’anni 49».
In effetti, nella numerazione delle anime del 1762 troviamo il nucleo familiare di don Pietro Matrona (segnato all’età di 32 anni, e quindi nato nel 1730, a nostro avviso non a Racalmuto) che oltre alla moglie donna Rosalia di anni 32 è composto, appunto, da Calogero di anni 6 (nato quindi attorno al 1756) e da Francesco di anni 3, e Marco di anni .
Quando nel 1784 si fanno le pubblicazioni per l’accesso agli ordini maggiori di don Calogero Matrona, questi ci tiene a farsi indicare con un doppio cognome: Matrona-Moncada; non sappiamo con quale fondamento, arguiamo comunque che i Matrona discendono, per via collaterale, dai Moncada.
In un libro degli “sponsali” della Matrice abbiamo questa notizia su un Matrona che non crediamo abbia messo radici a Racalmuto. Là viene annotato quanto segue:
19/7/1741 - MATRONA E SPINACCIOLO D. PIETRO  DELLA CITTA' DI SUTERA PARR. DI S. AGATA DEL Q. D. MARCO E LA VIV. DOROTEA [si dovrà sposare con] SFERRAZZA D. CALOGERA DEL QUONDAM D. DOMENICO E LA VIVENTE  SANTA.

Una cosa comunque è certa: la madre di don Calogero Matrona non era una Moncada. Sappiamo con precisione che questa, donna Rosalia, era di elevata famiglia, essendo una La Lumia di Naro, ma nulla ha ache vedere con i Moncada. Possiamo solo congetturare che una Moncada fosse la nonna del sacerdote.
 Don Pietro Matrona, il padre del Sac. Calogero,  giunge a Racalmuto già vedovo. La prima moglie era una tale Calogera non meglio precisata negli atti della Matrice, ove si riscontrano gli estremi del secondo matrimonio del Matrona. Questo è almeno quanto emerge dalle pubblicazioni che qui trascriviamo:
../10/1750 – PIETRO MATRONA E MONCADA, VED: REL. DELLA Q. D. CALOGERA  OLIM GIUGALI DI Q. TERRA [intende contrarre matrimonio con] LA LUMIA D. ROSARIA DI D: MICHELE E  D: ELISABETTA GIUGALI DELLA CITTA' DI NARO PARR. DI S. ERASMO 1750 XIIIJ IND. DIE 11/8BRIS/18.25. [1750]

L’ultimo dei figli di don Pietro, Marco Matrona,  sposa nel 1787 con donna Francesca Baeri, la cui famiglia è omai a Racalmuto oltremodo affermata. La rimarchevole importanza di padre e madre della nubenda si coglie appieno in questa trascrizione degli atti dello sposalizio. 
11/3/1787 - MATRONA D. MARCO DI D. PIETRO E LUMIA [intende contrarre matrimonio con] D. ROSALIA BAERI D.NA VINCENZA FRANCESCA DI D. GIUSEPPE E LA FU BELMUNTI D. MELCHIORA OLIM DI QUESTA.

Don Francesco Matrona sposa l’anno dopo ma con una vedova, tale Giovanna Petruzzella, vedova di don Giuseppe Salvaggio, come dal seguente atto:

21/3/1798 - MATRONA D. FRANCESCO FU D. PIETRO E LUMIA [intende contrarre matrimonio con] D. ROSARIA PITROZZELLA D. GIOVANNA VED. DEL FU D. GIUSEPPE SALVAGGIO.
 Nell’anno che intercorre tra i due matrimoni cessa di vivere don Pietro Matrona, il capostipite della famiglia tanto celebrata da Sciascia. Tutti e tre i figli maschi ne ereditano il prestigio ed il notabilato a Racalmuto. Uno come sacerdote beneficiale (come abbiamo visto) e gli altri due in vetta alle maggiori cariche amministrative del paese. Ma sarà nel secolo successivo che i Matrona domineranno incontrastati, almeno fino a quando, nella parte terminale dell’Ottocento la ruota girerà e la decadenza sarà inarrestabile. In tempo. Comunque, per meritarsi queste impareggiabili chiose del grande scrittore racalmutese: «Pare che.. la sua [della contrada Noce] fortuna come luogo di villeggiatura [le sia venuta] dal fatto che una grande famiglia vi abbia costruito, alla fine del settecento, quando venne di moda la fuga dalla citàà nell’estate, una casa grande come un castello … Ma nei primi anni del nostro secoloquella grande famiglia si estingueva, così come si estinguono in Sicilia le grandi famiglie.»[1] E per giunta: «Dall’unità d’Italia in poi, direttamente o per interposte persone, l’amministrazione comunale era stata nelle mani di una famiglia che appunto per amministrare il comune disamministrava il proprio patrimonio o, più esattamente, andava travasandolo nel patrimonio pubblico: la famiglia Matrona. Non nobile – e del resto nel paese una sola famiglia aveva titolo nobiliare, quella dei baroni Tulumello che fu rivale ai Matrona: incerta però resta la legittimità del titolo – ma di grane e vera nobiltà nel comportamento, negli intendimenti, nelle opere. A loro, ai Matrona, si devono scuole, uffici comunali, strade selciate, fognature, macello, fontanelle rionali, teatro. … E non solo i Matrona si occuparono di sanare e abbellire urbanisticamente il paese, di dargli uno splendido teatro e di farlo attivamente funzionare, ma anche della sicurezza sociale. … Naturalmente i Matrona avevano dei nemici: ma si scoprirono più tardi, aggregandosi alla famiglia Tulumello.  … E si capisce che nel giro di mezzo secolo i Matrona furono poveri, sicché fu facile ai loro avversari batterli: col conseguente effetto di un ritorno del malandrinaggio, della mafia, delle usurpazioni e prevaricazioni. »  [2]

Dinamica sociale in seno agli ottimati sel settecento racalmutese.


Il Cinquecento a Racalmuto si era chiuso con amministratori che o erano familiari del conte (vedi il Russo) o suoi strettissimi affiliati. Taluni di tali notabili resistettero nel Seicento, altri sparirono. L’esordio del secolo dei lumi vedeva in declino i Del Carretto (sino alla loro totale estinzione) e di conseguenza il diradamento delle famiglie della locale orbita comitale. Con l’avvento dei Gaetani, l’amministrazione comunale, le pubbliche funzioni, gli incarichi esattoriali, quelli dell’amministrazione della giustizia e della tutela dell’ordine pubblico, e simili passano a funionari di fiducia del nuova padrone di stanza a Naro. Sono soprattutto notai forestieri che scendono in Racalmuto, sposano qualche figlia del locale notabilato e vi mettono le radici. Notai come i Vaccaro, i Picataggi, i Vinci prendono il posto di ceppi d’eccellenza che si disperdono o decadono come i Piemontesi, gli Afflitto, gli Alaimo, i Monteleone, gli Ugo, gli Amella, i Tudisco, i Salvaggio, i Promontori, i Chiccarano, i Fanara, i Catalano, i Justiniano.
A metà secolo, i maggiorenti sono ora tutti raccolti in una famiglia baronale – i Grillo – scomparsa nell’ottocento, quando il relativo patrimonio  trasmigra ad una famiglia collaterale,  i Bordonaro di Canicattì. A fianco, abbiamo i Gambuto, i Pomo, i Vinci, i Bellavia, i Matina ed i Picataggi. Lo scenario di fine secolo sarà ancora diversificato. Gente forestiera come gli Impellizzeri, i Perrone, gli Scimonelli, i Mannarà, fanno una fugace apparizione e poi ritornano nei loro luoghi dìorigine senza lasciare traccia a Racalmuto. I nuovi quadri dirigenti restano però contrassegnati dagli ottimati locali quali i Picataggi, gli Amella, i Grillo e Pistone, i Matrona, i Fucà, i Cavallaro, i Lo Brutto, gli Scibetta, i Gambuto, i Tulumello, i Tirone, i Grillo e Brutto, i Pomo, i Grillo-Alessi, gli Sferrazza, i Vinci, i Baeri, i Mattina, i Bellavia, i Farrauto, i Savatteri, i Grillo-Ingrao, i Grillo ed Alessi.
Ma sono le fortune che cambiano. Ad inizio del secolo, le famiglie di maggior reddito non erano molte e gravitavano attorno ai cospicui patrimoni di taluni sacerdoti come il Signorino, don Santo La Matina, i Casuccio, i Baera (per non ripetere quanto detto sulle acquisizioni terriere e immobiliari dei Cavallaro).
A metà del secolo, la locale crestomazia è molto più estesa ed investe patrimoni notevolissimi come quelli dei Grillo, dei Pumo, dei Savatteri, degli Sferrazza, degli Scibetta, degli Spinola e dei Vinci. Da un documento contabile del 1763 i proprietari terrieri con una disponibilità di frumento oltre le 20 salme non superano i 29 nominativi, come dal seguente quadro:

Denominazione
Salme
Alfano m.° Giuseppe del quondam Bartulo
65
Alfano sac. d. Filippo
30
Avarello sac. d.  Alberto
75
Burruano Giuseppe del quondam Marcello
28
Busuito Grispino
26
Campanella sac. d. Stefano arciprete
100
Conti sac. d. Gerolamo
26
Di Franco m.° Agostino
40
Farrauto sac. d. Santo
220
Gambuto don Francesco Antonio
50
Grillo don Antonio
802
Grillo don Antonio come Governadore di Racalmuto dice avere nelli magazini della Segrezia di detta terra a nome di detta
703
Grillo don Antonio Maria
91
Grillo don Gaetano
306
Grillo e Poma Dr. Don Barone Niccolò
132
Grillo sac. d. Salvadore Maria
160
La Licata Paulo
25
Mantione sac. d. Antonino
27
Nalbone sac. d. Benedetto
360
Picone Chiodo Nicolò
42
Pomo fra' Giuseppe Priore del venerabile convento del Carmine
26
Rizzo don Vincenzo
24
Savatteri sac. d. Michel'Angelo
21
Scibetta e Franco sac. d. Giuseppe
30
Scibetta ed Alfano sac.d . Giuseppe
70
Scibetta m.° Stefano
160
Tulumello Giovanne
70
Tulumello Giuseppe
70
Vinci don Calogero
26

Certo la distribuzione è tutt’altro che omogenea: i Grillo appaiono su un livello del tutto eccezionale e si discostano enormemente dalle possidenze degli altri. Sono tre soli quelli che, a distanza, emergono: don Benedetto Nalbone, don Santo Farrauto, mastro Stefano Scibetta ed infine l’arciprete Campanella.

R La famiglia Savatteri

Grande è sta l’importanza della famiglia Savatteri: emergente nel Cinquecento, notevolissima nel Seicento, ebbe splendori nel Settecento, ma fu nell’Ottocento che fu dominante, specie dopo l’unità d’Italia, per eclissarsi alla fine di quel secolo.  Qui ci intratteniamo sul filone settecentesco. Sono, ovviamente, gli ecclesiastici della famiglia ad avere lasciato tracce storiche. Iniziamo da don Francesco Savatteri.

 

Sac. Francesco Savatteri (1654-1712)


Appena diacono nel 1677, svolge poi un ruolo di un qualche rilievo il sacerdote Giuseppe Savatteri. Lo incontriamo per la prima volta così contrassegnato:
1
1677
FRANCESCO
SAVATTERI
DIACONO a  23

Nel registro della Matrice “in quo adonata reperiuntur nomina plurorum sacerdotum”  vi sono queste altre scarne notizie:
n.° 170 della c. 8: D. Francesco Savatteri, collegiale obiit 8 7bris 1712 di anni 58.
Nasce dunque nel 1654 e dopo il marzo del 1676 dovette venire consacrato sacerdote come risulta da un libro della Matrice intestato: "Liber Denunciationum in hac Matrici Eccl.a Racalmuti XII. ind. 1673 - S.T. D.re D. Vincentio Lo Brutto Archipresbitero" . Nel marzo del 1676 vi è annotato:
s'havi da ordinare in sacris nella prossima ordinazione di marzo cl. Francesco Savatteri; cl. Vincenzo Castrogiovanni; cl. Davide Corso; cl. Antonino d'Amico; cl. Vincenzo Casuccia.                                                                                                                                          
Nel 1686 è di sicuro confessore “adprobatus”;  per lo meno dal 1693 è uno dei cappellani della matrice. Quando, nel 1690, l’arciprete d. Vincenzo Lo Brutto riesce ad organizzare l’istituto delle celebrazione delle messe per i morti, la cosiddetta “communia”, il nono dei dodici “mansionari” è appunto don Francesco Savatteri: la sua famiglia, nel contesto della società contadina, esce dall’opaco burgisato per cominciare ad aspirare al ruole eminente dei “galantuomini”.
I documenti della istituzione della “communia” li abbiamo rinvenuti nell’archivio vescovile di Agrigento e sono riportati nell’allegato n. 6. Il padre Morreale nel suo libro sulla Madonna del Monte s’imbatte per due volte - pag. 43 e pag. 44 - nel nostro padre Francesco Savatteri: come “dirigente” della confraternita della Madonna del Monte (bolla vescovile del 1679) e come coadiutore del sac. Lo Sardo nella rettoria della chiesa sacramentale di Maria SS. Del Monte.
In un atto datato: A 29 ottobre X^ Indizione 1687 [rectius 1686], il sac. Francesco Savatteri risulta proprietario di vigne in contrada Bovo, giusta il passo seguente:
Vendizione di una vignia con sue alberi ed altri existente nello fego di questa Terra di Racalmuto e nella contrata di Bovo confinante con la vignia di d: Francesco Savatteri e con la vignia dell'infrascritto d. Gio:Battista Baeri che fà mastro Pietro Facciponti di Racalmuto al su detto di Baera di Racalmuto: Suggetta in tt. quattro per raggione di proprietà dovuta all'Ill.mo Conte di Racalmuto. La possessione della quale ci la diede lo stesso giorno, per lo prezzo di -/ novi giusta la stima fatta per Isidoro Pitrozzella e Marco Ristivo presente etc. il prezzo della quale il detto di Facciponti lo confessò de contanti.



Ch. Stefano Savatteri (+1742)


Un fugace accenno nel Liber in quo ... di tal chierico Stefano Savatteri, qui obiit primo februarii 1742. Disponiamo anche dei seguenti  altri dati:
1736
STEFANO
SAVATTERI
CHIERICO LICENZIATO

Sac. Michele Savatteri ( +1756)


Nel liber prima citato troviamo (n.° 255 c. 13) D. Michele Savatteri, obiit 24 7bris 1756.

Sac. Michelangelo Savatteri (nato: 1696 + 1765).


E’ personaggio di spicco. Ecco come viene anotato nel Liber n.° 274 - c. 14: D. Michelangelo Savatteri, collegiale, obiit die 28 7bris 1765 - d’anni 65. Nel rivelo del 1763 non è indifferente la rispondenza patrimoniale del Savatteri che dispone di ben 11 salme di frumento come dalla seguente specifica:
Savatteri sac. d. Michel'Angelo,  rivela s. 21 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso di detto sem.° e sem.° di legumi ed orzo, s. 4  dati in accordo e s. 10 per mangia e commodo di casa.

Su 125 dichiaranti è il 29° anche se è ben lontano da quello che rivela il sac. Don Benedetto Nalbone (360 salme): è ancora lontana la competizione tra le due grandi famiglie, competizione che toccherà l’acme alla fine dell’Ottocento. Ma è già un sintomo il fatto che rispetto a Giovanni Nalbone (salme 10) il sac. Michelangelo Savatteri appaia facoltoso più del doppio.

Risulta altresì che nel 1736 il Savatteri fosse confessore approvato per il monastero:
1736
MICHELANGELO
SAVATTERI
ANNI 4O CONFES.DEP.MONASTERO

Nei riveli del 1754, don Michelangelo Savatteri figura come un magistrato locale:
Die 13 Maij 1754 Presentat. deci. que.   d. Michael. Savatteri Mag. ...
Un paio d’anni prima v’era stato l’ordine di denunciare tutti gli atti di compravendita aventi per protagonisti i religiosi locali, preti secolari compresi. Tanto doveva avvenire:

nell'Officio di questa Deputazione locale per ordine dell'Ill.mo Monsignor Vescovo di Girgenti per sua significat.a sotto li setti Maggio. In virtù di bando di S.E. promulgato in questa sotto li 10 dicembre 1752..
In un inciso, c’imbattiamo nel sac. Michelangelo Savatteri, definito “magister notariorum”:
Presentatione de ordine quo supra D.  Michel. i Savatteri Mag. Not.

Nel corpo di quegli atti, affiorano, incidentalmente, alcune proprietà del Savatteri come una bottega in piazza:
E più tarì 6 da don Giuseppe Bellavia sopra la speziaria nella piazza confinante colla bottega di d. Michelangelo Savatteri, e case del d.o Bellavia ............................ -/ 4

terre in contrada Bovo:
Esigo di più da Soro Angela La Matina tt. tre e gr. 6 e piccioli tre sopra terre contrada Bovo confinanti con terre del Rev. Sac. don Michelangelo Savatteri d'ogni parti che ragionati al 5% il capitale importa -/ due e tarì se e grana tre, d.o ................................................................ -/2.6.3


D. Giovanni Savatteri (1713-1778)


Il Liber annota: n.° 289 c. 15  D. Giovanni Savatteri - predicatore, morì a Palermo il giorno 1° maggio 1778 - anni 65. In un registro delle pubblicazioni parrocchiali, l’ascesa agli ordini sacri è seguita passo passo con i seguenti bandi:

2 FEBBRAIO 1732
Il Cl. Giovanni SAVATTERI di questa terra di Racalmuto desideran­do ascendere all'Ordini Sacri si ha costituito il suo patrimonio, pertanto  se alcuno sapesse che il d.to patrimonio sia  simulato, fiduciario o che non sia bastante o di realta' dal detto Cl. o che il sud.to di SAVATTERI sia di mali costumi, inquisito, querelato,processato,  o  che  habbia altro impedimento  canonico  per  non potere  ascendere  all' ordine del Suddiaconato,  come  se  fosse irregolare, illegitimo o simile impedimento lo venghi a rivelare.
2 FEBBRAIO 1732
Il Cl. Giovanni SAVATTERI di questa terra di Racalmuto desideran­do ascendere all'Ordini Sacri si ha costituito il suo  patrimoniouna Cappella di onze 10 annuali con l'onere di Messi dieci fonda­ta nell'altare di. S. Leonardo in Serra di Falco come appare  per contratto  di fundat.e ed elettione stipulato per l'atti  di  N.o Simone BONI' sotto li 14 Gennaro 1732 ed in Supplimento una Vigna consistente  in migliara cinque con Tumuli due e Mondelli due  di terre  vacue  confinata con la Vigna di N.o  Michael  Vaccaro,  e altri confini nella contrada di BOVO e numero cinque case  conla­terali confinati con le casi di d. Vincenzo La Matina nel quarte­ri  del Monte in virtu' di donatione stipulata per l'atti di  N.o Nicolo'  Pumo. pertanto se alcuno sapesse che il d.to  patrimonio sia  simulato fiduciario o che non sia bastante o  di  realta' dal detto Cl. o  che il sud.to di SAVATTERI sia  di  mali  costumi, inquisito, querelato, processato, o che habbia altro  impedimento canonico  per  non potere ascendere all' ordini  sacri,  come  se fosse  irregolare,  illegitimo o simile impedimento lo  venghi  a rivelare.
24 31 AGOSTO, 4 SETTEMBRE 1732
Il  Sudiacono  Giovanni SAVATTERI di questa  terra  di  Racalmuto desiderando  ascendere all' ordine Diaconale si ha costituito  il suo patrimonio, pertanto se alcuno sapesse che il d.to patrimonio non  essere  bastante o di realta'dal detto Suddiacono o  che  il sud.to  di SAVATTERI sia di mali costumi,  inquisito,  querelato, processato,  o  che  habbia altro impedimento  canonico  per  non potere ascendere al Diaconato, come se fosse irregolare,  illegi­timo o simile impedimento lo venghi a rivelare.
30 NOVEMBRE, 7 DICEMBRE XI Ind. 1732
Il Diacono Giovanni SAVATTERI di questa terra di Racalmuto  desi­derando ascendere all' ordine Sacerdotale si ha costituito il suo patrimonio, pertanto se alcuno sapesse che il d.to patrimonio non essere bastante o di realta' del detto Diacono o che il sud.to di SAVATTERI sia di mali costumi, inquisito, querelato,  processato, o che habbia altro impedimento canonico per non potere  ascendere al d.o Ordine Sacerdotale, come se fosse irregolare, illegitimo o simile impedimento lo venghi a rivelare.

Sac. Francesco Savatteri (operante dal 1731 a dopo il 1763)



Il Liber lo ignora, ma di lui si hanno notizie sin dal 1731 allorché era un chierico tonsurato:

16
1731
FRANCESO
SAVATTERI
CHIERICO TONSURATO

E’ però presente nel rivelo frumentario del 1763 ove, con le sue 8 salme di frumento dichiarate, è alla pari con il celebre sacerdote d. Elia Lauricella:

Savatteri don Francesco, rivela s. 4 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 3 per simenza, s. 2 per soccorso di d.° sem.° e s. 3 a comp. di dette s. 8 per mangia

Il servo di Dio p. Lauricella aveva infatti dichiarato:

Lauricella sac. d. Elia, rivela s. 8.8 ff. raccolto XI ind. 1763, delle quali mi bisognano s. 7 per simenza e mi bisognano salme 10 per mangia almeno di dieci persone

Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)


Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del beneficio del Crocifisso, su cui ci diffonderemo altrove.
Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario - che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori, che fra l’altro lo facevano studiare da medico a spese dell’Amministrazione comunale.
Quello su cu il Tinebra trama è un carteggio del Caracciolo su cui abbiamo avuto modo di effettuare nostre personali ricerche. Iniziano dal 16/2/1785 gli appunti del Caracciolo sulla questione[3]:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16 - Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non vedersi pur troppo soverchiati

E, quindi, in data 12.3.1785:

«32. [4]L’avvocato fiscale Vagginelli proceda quel che convenga ed avendo di riferirlo, dica- A 12 Marzo detto - Li singoli di Racalmuto: V. E. rimise le pendenze loro col barone all’avv.to sig.re Vagginelli. Innanti a costui facendosi dui contraddittorij vi interviene il Cav.e fratello del principe di Pantelleria, che ha procura. E poiché per rispetto che vuole esigere molte cose  bisognano trovarsi e li professori  concepiscono qualche timore, prega V.E. di ordinare che tal Cav.e non  intervenga più nei contraddittori ma con i singoli e il Barone.» 
 Ed in data 22.3.1785:[5]
«12 - L’avv.to fiscale barone Vagginelli informi col parere - 22 marzo - Li singoli di Racalmuto. Il suggello della verità lo tiene in potere il governatore baronale, ed occorrendo di suggellarsi l’investitura questa si deve suggellare dal Barone e si suggella quando a costui piaccia. Ciò essendo un inconveniente molto più quando occorre a singoli di suggellare scritture contrarie al ripetuto Barone.
«Pregano l’E.V. di ordinare che il suggello si riformi con il ricorso al Re, e che debba riservarsi al mastro notaro della Corte Giuratoria.»
E’ del successivo 28 marzo[6] il seguente appunto:
«4. L’avvocato fiscale Barone Vaggianelli disponga perché urgendo le provvidenze che siano convenienti per la superiore, che riferisca col parere - 29 marzo 1785 -  Don Stefano Campanella arciprete di Racalmuto - Dietro un raccolto sterilissimo ed una tirannica esazione fatta dall’arrendatario di questa terra don Giuseppe Savatteri ... trovasi in oggi questa Popolazione in somma necessità a segno che non si può riparare, e si teme di qualche tumultuazione per la fame, e dal ricorrente e da altri preti si à soccorso per quanto debolmente si è potuto, ma si prevede maggior necessità in questi mesi che sono li più poveri.
«E’ perciò da credere opportuno che dovendo dal amministrare pagare per maggio onze 1000 al Principe della Pantelleria gliene paghi medietà, e l’altra medietà distribuirsi per aiuto a poveri, che si obbligano in agosto pagare; prega V.E. di ordinare l’esecuzione di tale distribuzione a quattro persone elette da chi invochi, dapoiché quei Giurati son poveri e senza veruna abilità
Il dato di maggior risalto è quello contenuto nel biglietto datato 11 aprile 1785:[7] abbiamo questo richiamo storico:
«13 - L’avvocato faccia quel che convenga per l’accertamento della giustizia e della legalità.  - 11 aprile 1785 -  Li singoli di Racalmuto. - Nel 1559 don Giovanni del Carretto ebbe venduto il mero, e misto impero dal viceré don Giovanni della Cerda sopra la Baronia di Regalmuto per il prezzo di onze seicento, cioè cinquecento l’ebbe allora il Governante, e le onze 100 le dovea dare qualora veniva continuata la vendizione da S. M. fra il termine di un anno.
«Sino al presente giorno non è stato possibile dimostrarsi detta rattifica, o confirma; ed è segno evidente che la M.S. non l’abbia concessa. Che perciò li ricorrenti .. pregano l’E.V. di ordinare che il Barone di Ragalmuto che è oggi il Principe di Pantellaria, che per esercitare il mero, e misto dimostri all’E.V. il titolo.»
Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali.  Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo Sciascia[8]:
«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso. Per una di quelle strane coincidenze storiche, il Busuito era parente stretto della moglie del notaio Nalbone.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggettiche il sacerdote Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le cose erano molto più complesse e coinvolgono la poltica dei re Borboni di Napoli, che è quanto dire.

D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giusppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i confrati defunti: subisce delle sanzioni. Vediamole:
GIUSEPPE SAC. D.
SAVATTERI
n. undeci messe cioè n. 9 per l' ... e n. 2 per pena d'essere stato negligente in scrivere le d. messe.

Così risulta annotato in registri della confraternita. Dopo di lui, i religiosi della famiglia Savatteri appaiono come scialbe figure. Eccole.

Diacono Gaetano Savatteri (+ 1809)


Viene così annotato nel liber: n.° 323 c. 20 D. Gaetano Savatteri, Diacono - obiit 21 7bris 1809 - d’anni 23.

Sac. Nicolò Savatteri (+ 1842)


Viene così annotato nel liber: n.° 374 c. 22 D. Nicolò Savatteri - obiit 16 7bris 1842 - d’anni 80, mesi 8. E’ varie volte citato nei registri della Mastranza come sacerdote celebrante. Aliunde, apprendiamo che:
30
1807
NICOLO'
SAVATTERI
A.46 CONFESSORE PRO UTROQUE

6
1830
NICOLO'
SAVATTERI
A.68 MANS.CONF.UTROQUE ORDINARIO

Padre Carmelo Savatteri, carmelitano.


Il Liber non accenna ai religiosi carmelitani della famiglia Savatteri. Il primo è appunto il padre Carmelo che fu priore del locale convento, come si apprende dalle seguenti annotazioni:

51
1807
CARMELO
SAVATTERI
A.42 PRIORE CONVENTO CARMELO

44
1830
CARMELO
SAVATTERI
A.60 CARMELITANO PRIORE

4
1839
NICOLO'
SAVATTERI
BENEF. CONFES.PRO UTROQUE

Padre Elisio Savatteri, carmelitano.

 Valgano anche per lui le precedenti note. Sappiamo, inoltre:
54
1807
ELISEO
SAVATTERI
A.38 CONVENTUALE CARMELO
34
1839
ELISEO
SAVATTERI
CARMELITANO,PRIORE.CONF.UTROQUE
38
1847
ELISEO
SAVATTERI
A.70 CARMELITANO CONF.UTROQUE
36
1851
ELISEO
SAVATTERI
A.72 CARMELITANO

 

La controversa questione del beneficio del Crocifisso.


Nell’intricata controversia giudiziaria del beneficio del Crocifisso di Racalmuto, i Savatteri vi entrano prepotentemente per due volte: nella prima, è attore il sac. Giuseppe Savatteri e Brutto, a ridosso dell’Ottocento; nella seconda un patetico personaggio: Giuseppe Savatteri, sposato con una Matrona. Siamo nell’ultimo quarto del secolo scorso. In entrambi i casi i Savatteri finirono soccombenti e gabbati. Ma procediamo con ordine.

La vicenda del beneficio del Crocifisso è lunga, tortuosa ed intrigante ed ha dato adito ad almeno un paio di complicate vertenze giudiziarie. Leggiamo nella bolla che si tratta dei seguenti beni:
in oppido praedicto reperiatur Ecclesia Sancti Antonij jam diruta cum Immagine SS.mi Crucifixi quae detinet salmas tres et tumulos quatuor terrarum in pheudo Mentae Status Racalmuti cum onere proprietatis unciae 1.6. aliam clausuram terrarum salmae unius tumulorum quatuordecem et quarti unius cum dimidio in dicto Statu et pheudo Racalmuti et contrata di Garozza cum onere proprietatis unciae 1.6.7.3. et tarinorum viginti quatuor Conventui Sancti Francisci de Assisia dictae Terrae.
Negli atti giudiziari dell’arciprete Tirone avverso i coniugi Giuseppe Savatteri e Concetta Matrona abbiamo la ricostruzione della provenienza di tali beni. Come risulta da un atto del 3 settembre 1659, la Confraternita del SS. Crocifisso di Racalmuto aveva diritto ad un canone di proprietà «primitivo veluti jus pheudi et proprietatis su terre della Menta e Culmitella». Trattavasi, in base a quel che si desume da altri atti, di un fondo di quattro salme e tumoli sei di terre ubicate nel feudo Menta, contrada Fico Amara, detta - secondo l’arc. Tirone - «in quei tempi Mercanti». Del resto aggiunge l’arciprete che «il nome di contrada fico amara e Mercanti andiede in disuso. Questa contrada prese nome di SS. Crocifisso.»
Non essendo stato pagato tale canone per più di un triennio, ed essendo state le suddette terre abbandonate, la confraternita del SS. Crocifisso esperì il diritto domenicale di avocazione del fondo per distruzione di migliorie, mancata corresponsione del canone ed abbandono delle terre dell’enfiteuta che era tal Giaimo Lo Brutto. Essa, pertanto, fu immessa nel pieno possesso delle cennate terre della Menta secondo il rito del tempo con atto notarile del 3 settembre 1659,  redatto innanzi a quattro testimoni.
Gli atti giudiziari tacciono sulle vicende che intercorsero tra il 1659 ed il 1767, un intervallo di tempo in cui si colloca la dotazione dell’Oratorio Filippino. Intanto non so su che cosa basi l’arc. Tirone il ruolo sostenuto dalla Confraternita del SS. Crocifisso. Di questa conosco il vago accenno contenuto nell’elenco della Giuliana della Curia Vescovile - voce Racalmuto, pag. 205 - che riguarda la «conferma della Conf.ta del SS. Crocifisso - reg.tro 1669-70, pag. 488».  Ma qualche chiarimento lo troviamo in quest’atto del 10 ottobre 1648 del notaio Michelangelo Morreale. Trattasi della «recognitio pro Archiconfraternitate SS.mi Crucifixi contra Donnam Vittoriam del Carretto e Morreale». In esso la Del Carretto (del ramo collaterale dei locali conti) si obbliga di corrispondere  al «Rev. D. Joseph Thodaro .. uti procuratori venerabilis Archiconfraternitatis SS.mi Crucifixi fundatae in Ecclesia Sancti Antonii huius terrae Racalmuti .. uncias quinque red. ann. cens. et red.bus dictae Archiconfraternitatis cession. nomine Petri Piamontesio et alijs nominibus in scripturis debitas, et anno quolibet solvendas supra loco qui olim erat dicti quondam de Monteleone vigore contractus emphiteuci celebrati in actis notarij Nicolai Monteleone die XXIIIJ Maij XII ind. 1584 et contractus solutionis donationis et assignationis  in actis not. Simonis de Arnone die 31 aug. 1605 et aliorum contractum  in eis calendatorum.» inoltre «supradicta Donna Victoria .. solvere promisit .. seque sollemniter obligavit et obligat eidem de Thodaro dicto nomine pro se et pro successoribus in dicta Archiconfraternitate in perpetuum uncias centum quatraginta una p.g. tempore annorum decem in decem equalibus solutionibus et partitis anno quolibet facere numerando et cursuro a die date literarum Civitatis Agrigenti ... Et sunt uncias 141 in totalem complimentum omnium censuum decursorum annorum retropreteritorum enumerandorum ab anno 1608 usque et per annum presentem inclusive , ratione d. unc. quinque anno dictae Archiconfraternitate debitae super dicta vinea.»
Quell’arcicofraternita era dunque operante dentro la chiesa di S. Antonio e siamo nel 1648. Ne è procuratore il sac. d. Giuseppe Todaro che muore il 7 maggio 1650.[9]Successivamente alla morte del sacerdote Todaro, si rinviene l’atto del 3 settembre 1659 di cui sopra; dopo dell’arciconfraternita si perdono le tracce e tutto fa pensare che si sia estinta: si spiega forse così perché in un primo tempo i benefici di quel sodalizio finirono all’Oratorio di S. Filippo Neri, per volere del Vescovo Rini.
Nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti quei beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione di un successivo beneficiario, il sac. Don Calogero Matrona, fatta il 15 giugno 1870, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - vi si legge fra l’altro - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium   Parochi di libera collazione da conferirsi a concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio, perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii [...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.

 

 

Altri dati sui Savatteri del ‘700


Le numerazioni delle anime della Matrice di Racalmuto riprendono a metà del settecento. Spigoliamo questi dati sui Savatteri di quel secolo.

Elenco dei capifamiglia nel censimento del 1753


1)  Giuseppe Savatteri di Giacomo, di anni 32; Rosa, sua madue di anni 70.
2)  Vincenzo Savatteri di Giacomo di anni 48; Giovanna, moglie di anni 38; Domenica, figlia di anni 20; Nicola figlia di anni 18; Giuseppa figlia di anni 15; Calogera figlia di anni 12; Stefana figlia di anni 10; Giacomo figlio di anni 2.
3)  Francesco Savatteri di Giacomo di anni 32; Angela moglie di anni 24; Maddalena figlia di anni 3; Calogero figlio di anni 5.
4)  Vincenzo Savatteri di Ignazio di anni 44; Rosa moglie di anni 33; Giovanna figlia di anni 13; Carmela figlia di anni 11; Grazia figlia di anni 9; Mariano figlio di anni 8.
5)  Antonia Savatteri vedova d’Ignazio di anni 66.
6)  Mastro Antonino Savatteri di anni 59; Maria moglie di anni 56; Sr. Angela Maria figlia di anni 27; chierico Giuseppe figlio di anni 22.
7)  Giuliano Savatteri d’Ignazio di anni 34; Antonia moglie di anni 21; Sebastiana figlia di anni 1.
8)  Francesco Savatteri di anni 39; Dorotea moglie di anni 28; Giuseppa figlia di anni 15; Filippa figlia di anni 11; Vincenzo figlio di anni 9; Gaspare figlio di anni 6; Stefano figlio di anni 2.
9)  Don Sac. Michel’angelo Savatteri di anni 55; Francesca Maria sorella di anni 41; Cruci serva di anni 52.

Dalla Numerazione delle anime del 1762.

             Francesco Savatteri di Giacomo di anni 28; Angela moglie di anni 22; Maddalena figlia di anni 8; Giuseppa figlia di anni 1; Calogero figlio di anni 4.
             Vincenzo Savatteri di Giacomo di anni 52; Giovanna moglie di anni 42; Giuseppa figlia di anni 19; Calogera figlia di anni 16; Stefana figlia di anni 14; Giacomo figlio di anni 6; Angela figlia di anni 4.
             Giuseppe Savatteri di anni 36; Maria moglie di anni 30; Antonia figlia di anni 4; Calogera figlia di anni 1.
             Antonino Savatteri di anni 44; Rosa moglie di anni 43; Carmela figlia di anni 17; Grazia figlia di anni 13; Mariano figlio di anni 12.
             Giuliano Savatteri di anni 38; Antonina moglie di anni 30; Raffaele figlio di anni 3; Carmela figlia di anni 1.
             mastro Antonino Savatteri di anni 63; Maria moglie di anni 50; don Giuseppe figlio di anni 28.
             Don Francesco Savatteri di anni 43; donna Dorotea moglie di anni 39; Giuseppa figlia di anni 20; Vincenzo figlio di anni 13; Gaspare figlio di anni 10; Stefano figlio di anni 6; Calogero figlio di anni 4; Giuseppe figlio di anni 2; Leonardo figlio di anni 1; Antonia serva di anni 39.
             Reverendo don Michelangelo Savatteri di anni 65; Mita sorella di anni 50; Apollonia serva di anni 40.
             Nicolò Savatteri [parte del foglio abrasa]; Grazia moglie; Vita figlia; Calogero figlio.

Dalla Numerazione delle anime del 1795


1.    Don Stefano Savatteri; donna Catarina moglie.
2.    Don Gaspare Savatteri; Donna Angelica moglie; Concetta figlia di anni 16; Gaetano figlio di anni 12; Leonardo figlio di anni 5; Antonia di anni 10.
3.    Calogero Savatteri libero; Giuseppa sorella libera.
4.    Mariano Savatteri; Vincenza moglie; Domenica figlia di anni 8; Santa figlia di anni 14; Rosa figlia di anni 6; Santo figlio di anni 19; Antonio figlio di anni 17.
5.     Giuseppe Savatteri; Antonia moglie; Biaggio (sic) figlio di anni ...
6.    Don Giuseppe Savatteri; Giuseppa; Rev. Don Nicolò figlio; Raffaela figlia di anni 23; Fidela figlia di anni 21; Luiggi (sic) di anni 17.
7.    Don Vincenzo Savatteri.
Rev. Don Giuseppe Savatteri; donna Dorotea madre; D. Giachino Brutto; donna Giuseppa di anni 46; Rosa nipote di anni ...; Pasquala serva.

La storia della famiglia Savatteri appare, davvero, uno spaccato della media borghesia racalmutese, quale si va configurando nel secolo dei lumi per consolidarsi nell’Ottocento, come meglio vedremo a suo tempo.

Racalmuto del Settecento nelle carte del fondo Palagonia.

Tra le carte del fondo Palagonia – pervenute all’Archivio di Stato di Palermo dalla famiglia dei Gaetani [10] - ricaviamo questo documento che ci pare illuminate per la storia feudale racalmutese, nel suo dteriorarsi settecentesco:
[f. 5]
Ecc.mo Signore
il Ill.mo duca d. Luiggi Gaetano possessore del Stato e terra di Recalmuto N.bus nelle sue scritture dice a V.E. che il sudetto stato si ritrova in deputazione ed amministrazione da più anni, il cui giudice deputato ed amministratore attualmente si ritrova l’illustre Preside d. Casimiro Drago, e con tutto che la gabella corrente di detto stato si trova nella più alta somma che giammai non fu il pagato, tuttavia li creditori suggiogatarijnon hanno potuto giammai ottenere l’intera annualità, anziche nemmeno l’intera mezza annualità, tanto perché le suggiogazioni apo.te trascendono di gran lunga l’introiti dello stato sudetto, quando ancora perché consistendo la maggior parte delli introiti  da ... molini situati in parte di lavanchiki ricercano ogni anno spese considerevoli per riparo di esse lavanche oltre le vacature che si bonificano alli gabelloti di detti molini; per quei tempi che non macinano, motivo che riflettendo oggi il supplicante ed anche le grosse spese di salarij ed altri che cagionando da detta deputazione, ed amministrazione onde ha considerato l’esponente come possessore di detto stato di Regalmuto, intervenendo prima che la maggior parte dei creditori suggiogatarij sopra detto stato gradualmente fare abolire che a detta deputazione ed amministrazione in circostanza anche di non potere questa sussistere a tenore degli ordini di S.E. in data 16 agosto 1735 per il quale si stabilì come la deputazione che non possono pagare a creditori l’annualità ed offerire a detti creditori suggiogatarij per conto delle di loro respettive suggiogazioni, di pagarli il 60 per 100 ogn’anno per l’importo di anni dieci; nel qual tempo però si devono consentire che l’amministrazione di detto stato resti e si faccia per l’esponente, con che per il consenso prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij non se li possa dare nè inserire per detti dieci anni dalla minor parte di detti creditori suggiogatarij veruna sorte di molestia talmente che li detti creditori suggiogatarij in siffatta maniera vengono a conseguire  ogni anno durante la suddetta decennale   amministrazione dell’esponente non solamente l’intiera mezza annualità in due .. di decembre e maggiodi ogni anno, che non hanno mai conseguito, ma anche vengono a conseguire un’altra sesta parte  oltre di detti pagamenti, ed inoltre tengono la futura speranza di conseguire doppo la suddetta decennale amministrazione maggior somma; per il che possedendo l’esponente senza deputazione il sudetto stato independentemente d’ogni altro potrà facilmente invigilare all’augumento delli introiti del medesimo in beneficio anche di essi creditori, onde in vista di tutto ciò, considerando l’esponente che abolirsi la sudetta deputazione ed amministrazione e contentarsi la maggior parte di detti creditori suggiogatarij .. samministri su detto stato di Recalmuto per detti anni dieci del .. con l’obbligo di pagare a detti creditori suggiogatarij il 60 per 100 come sopra ogn’anno e durante la sudetta decennale amministrazione dell’esponente viene à resultare anche in beneficio delli sudetti creditori suggiogatarij. Pertanto ricorre a V.E. e la supplica si segni servita provedere ed ordinare che prestandosi prima il consenso della maggior parte delli creditori suggiogatarij, che non solo si abolisca la detta deputazione, ma anche cje la minor parte delli creditori suggiogatarij, che forse non interverrà a prestare il medesimo consenso, fosse tenuta ed obligata a concorrere colla maggior parte di detti creditori suggiogatarij dalli quali si presterà il consenso nel modo e forma di sopra espressati, ed acquiescerà e starà alla decennale amministrazione in persona del supplicante con l’obligazione come sopra per il medesimosenza che dalla detta minor parte di detti creditori suggiogatarij se li possa dare, a riflesso del  consenso forse prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij per il spazio di detti dieci anni, nessuna sorte di molestia nè cancellare l’atti fatti per la medesima deputazione seu amministrazione, come s’ha pratticato per l’altre deputazioni fin oggi abolite;  vel ... si vorrà ordonare che sopra l’abolizione suddetta interverrà il consenso della maggior parte delli creditori suggiogatarij ed obbligare a detta minor parte delli creditori suggigatarii di concorrere ed acquiescere come sopra, come il tribunale della R.G.C. della Sede Civile, a cui spetta doversi provvedere vocatis creditoribus e in vista del consenso che si presterà per publici documenti della maggior parte dei creditori suggiogatarij, per resultare in beneficio delli medesimi. E ciò non ostante quasivoglia cosa che in contrario l’ostasse o potesse ostare, etiam che fosse tale che  .. se ne dovesse farre espressa ed individuale menzione quale s’habbia  .. per la sussistenza della presente, qualmente al tutto disponendo V.E. de plenitudine potestatis et ex certa scientia ... Datun Primo Junij 1736 ex parte G.S.d. Joseph Chiavarello  .. vocatis creditoribus per sp: de Paternò: Die sexto settembris 1736.
Jesus Maria
Item ista comm.do .., ac consensi maioris partis creditorium, tollatur deputatio de qua agitur, solutis prius juribus officialibus deputationis  status .. penes acta
per sp. de Joanni, Xileci, Paternò.
Copia Don Joannes Marchisi ..



Lo stato dei “naturali” di Racalmuto, e cioè le loro disponibilità in frumento e legumi, ci pare esaustivo in questo quadro statistico:

f. 302

Rivelo de naturali di Racalmuto e di alcuni delle Grotte di tutti i generi e novali della Ricolta X.ma Ind. 1762 prodotti nello Stato e territorio di detta terra, nel fego de’ Gibbellini e feudi d’Aquilìa e Cimicìa de RR. PP. Benedettini de Scalis:

forti
orzi
Fave
lenti
ceci
novali
salme 1123:3
salme 578:2
salme 367
salme 113:19
salme 126:7
salme 133:3

Rivelo fatto da’ Reverendi Sacerdoti di detta terra Jorati della SS.ma Inquisizione del Tribunale del Santo Officio di tutti li prodotti come trova in detto anno:


forti
orzi
Fave
Lenti
ceci
novali
salme 47
salme 36
salme 14:4
salme 0:3
salme 1:8
salme 4:1:3

Riveli de’ Chierici di detta Terra fatto d’ordine di Monsignor Vescovo di Girgenti emanato sotto li 20 Agosto 1762 per li prodotti di detto anno:


forti
orzi
Fave
Lenti
ceci
novali
salme 344:15
salme 154:14
salme 137:18
salme 7:4
salme 28:9
salme 26:9    


A fine secolo i fuochi erano saliti a 1961. In altra sede abbiamo scritto a lungo sull’evoluzione demografica di Racalmuto. Qui ci limitiamo ad osservare che la popolazione si era assestata a fine del Seicento intorno alle cinquemila unità. Dopo sarebbe scesa, ma davvero essa si è notevolmente contratta sino a toccare la quota di 4.757 nel 1713 (o secondo Maggiore-Perni nel 1714)[11]?
Noi francamente pensiamo che quel rivelo sia scarsamente veridico. La documentazione dell’Archivio di Stato di Palermo (Deputazione Regno, Inv. n.° 5 - RIVELI ANNO 1714 vol. n.° 1682) testimonia che a Racalmuto funzionari del censimento operarono dal ventotto maggio ottava ind. 1715 sino al “ primo Junii Millesimo septimo decimo quinto 1715”. Si era dunque in pieno interdetto religioso. Plausibile dunque che, se non il sabotaggio, almeno il disinteresse del clero locale abbia facilitato le diffuse omissioni del censimento di tanti racalmutesi, come sempre preoccupati delle conseguenze fiscali del rivelo.

Nel primo quindicennio del ‘700 non risultano epidemie di rilievo a Racalmuto. Gli indici di mortalità sono quelli della norma (allegato 5). Le nascite come sempre sono cospicue e per di più l’immigrazione è documentabile (famiglie come quelle degli Sciascia, dei Taverna etc., che erano emigrate intorno al 1660, ritornano a Racalmuto proprio a cavallo tra il XVII ed il XVIII secolo). Quella drastica contrazione della popolazione che vorrebbe il rivelo del 1714-15 non appare per nulla attendibile. Quel che è certo è che proprio al tempo del rivelo (1713-1715) il tasso di mortalità di Racalmuto era tra i più bassi della sua storia sino all’unità d’Italia (2,59% della popolazione media di quel tempo). E tale popolazione nel 1714, doveva, secondo le nostre stime, aggirarsi sui 5.370 abitanti (contro gli appena 4.757 che segnala il Maggiore-Perni con un divario del 12,89%).
Il XVIII secolo si chiude con una flessione della popolazione: i dati disponibili (quelli della Matrice e quelli dei censimenti ufficiali confermano) il repentino contrarsi della densità abitativa. Eccone alcuni elementi significativi:

Anno
Popolazione di Racalmuto
fonte
1748
6.063
Maggiore-Perni pag. 352
1795
7.620
Matrice Racalmuto - arc. Mantione
1798
7.630
Maggiore-Perni pag. 352
1801
7.138
Matrice Racalmuto - L’arc. Mantione appone questa annotazione: «terminata detta numerazione a 20 maggio 4^ Ind. 1801 Si vede che il popolo trovasi diminuito considerevolmente rispetto all'anno scorso»

Dagli archivi di Stato di Palermo ricaviamo qualche notizia sull’amministrazione del Comune di Racalmuto, una volta affrancato dal giogo feudale. Negli anni dal 1784 al 1787, il razionale del luogo è don Francesco Perrone, il notaio ufficiale: d. Antonino Picataggi; manca il tesoriere: in sua assenza c’è un ”collettore ed esattore di tutte le tasse” sostituto; i giurati sono: d. Giuseppe Amella, Francesco Grillo e Pistone, Marco Matrona, Calogero Fucà; il sindaco è il Magnifico don Giuseppe Cavallaro. Vene pagata un’onza a Bonaventura Brutto per il pubblico panizzo; a m° Pietro Castrogiovanni tarì 1 e 8 grani “per avere acconciato la porta della chiesa di S. Rosalia”; altre spese per riparazione e manutenzione dell’orologio cui accudisce m° Vincenzo Terrana. Nel successivo esercizio del 1785-86  abbiamo i seguenti giurati: Bonaventura Lo Brutto, Giuseppe Scibetta Letizia, Salvatore Gambuto e Giuseppe Tulumello. Sindaco: Antonino Grillo. Collettore: don Giuseppe Amella.
Ecco alcune annotazioni relative al 1790: d. Giuseppe Amella è l’arrendatario che paga a m° Melchiorre Lo Cicero onze 11.7.14 “per altrettante dal medesimo pagate e distribuite a diverse persone per la santa solennizzazione della festa della gloriosa S. Rosalia, patrona di questa università, il 4 di settembre e cioè: a m° Francesco Galeano e compagni per n° 3900 maschi che si sparano nel corso della festa, onze 1.28. 0; a don Calogero Grillo per sei rotoli di cera a tarì 10 per rotolo, che si consumò in detta festa,  onze 1; al m° Mariano Busuito per fatiche per avere apparato la chiesa tarì 14; a d. Antonio Grillo per regalia per avere suonato l’organo, tarì 2; al rev. D. Morrino per avere rappresentato il panegirico della Santa, tarì 2; tamburi n° 4, tarì 21; trombi 4, tarì 25; piffaro: tarì 6; per il trionfo nel corso dell’ottavo: tarì 6; messe celebrative n° 13 tarì 19.10; figure n° 200 tarì 2.10; spese a minuto tarì 9,14; corsa: onze 1: che in tutto fanno onze 11.7.14.» Per l’esercizio 1790-91, Giuseppe Amella «pagava per patrimonio urbano per la nona indizione onze 1.126 . 15 - 18
Nel 1791 “arrendatario”  di Racalmuto figura don Giuseppe Amella; d. Calogero Amella risulta il “fisico” locale. I giurati sono: Calogero Tirone, Giuseppe Scibetta, Vincenzo Tulumello e Calogero Fucà. Il 20 gennaio 1791 sono «pagate da Amella al sac. D. Nicolò Pantalone tarì 11.10 per il prezzo di due corde di canape necessarie per la mappera dell’orologio; a m° Lorenzo d’Agrò tarì 2 in prezzo di chiodi e pezzi di tavola necessari per l’acconcio dell’orologio». 21 maggio 1791: «Amella paga tarì 4 per eligersi dai giurati un barbiere più adatto ed abile per apprendere il metodo dell’innesto del vaiolo, giusta la pratica insegnata a diversi barbieri chiamati in Palermo per apprendere la suddetta maniera di eseguire il suddetto innesto a norma delle istruzioni». Il 16 giugno 1791 viene eletto m° Giuseppe Romano.» Il 31 di agosto Giuseppe Amella corrisponde a Nicolò Pantalone “onze 9 per onorario di tutto l’anno per avere la cura dell’orologio di questa Università.
1791-92: «Viene nominato procuratore del tesoriere Giuseppe Tulumello, don Croce di Napoli. A Francesco Restivo onze 4 per loero della bottega della neve e sue fatiche per la vendita di detta neve come da mandato.»
1792-1793: «viene esposta la reliquia di S. Rosalia per la serenità del tempo e penuria della fame. Tarì a Cicero per averli erogati per formare una sepoltura fuori la terra per la quantità di morti in questo sterelissimo anno 11a indizione.»
Nel 1793 cambia il quadro amministrativo: Pietro Scimonelli diviene maestro razionale; giurati sono: Antonio Grillo e Brutto, Francesco Pomo, Girolamo Grillo Alessi. Vengono eletti deputati a norma di una circolare del 1793: Antonino Sferrazza, Salesio Vinci, Angelo Gabriele Mannarà, Antonino Grillo e Mattina, Giuseppe Cavallaro. Don Giuseppe Tulemello è il tesorerie.
L’anno successivo, nel 1794, il razionale è Santo Impellizzeri; deputati: Francesco Vinci (che, se non andiamo errati, deve essere quello che nel 1760 scrisse la storia di M. SS. del Monte e fu chierico nel seminario di Agrigento), Giuseppe e Bernardo Grillo, nonché i magnifici Onofrio d’Amico, Giuseppe Monserrato e don Calogero Amenti. Arrendatore del patrimonio urbano: don Vincenzo Tulumello per la somma di onze 1.126.15.18.
Per l’esercizio 1794-1795, abbiamo: razionale, don Carlo Calabrese; deputati: Calogero Ferrante, notaio Antonino Picataggi, notaio Cristofaro Pomo. I giurati sono: Giuseppe Baeri, Girolamo Gambuto, Raffaele Cavallaro, Raffaele Grillo e Addamo. Collettore è il notaio Ignazio Tulumello.
Per il 1797 e 1798 il razionale è Domenico Impellizzeri; i deputati locali sono: il barone d. Girolamo Grillo, Giuseppe Mattina, Raffaele Grillo e Belmonte; i giurati: Salesio Vinci, Vincenzo Bellavia, Paolo Baeri e Giuseppe Matrona. “L’intero civico patrimonio si gabella a d. Raffaele Bisanti, procuratore di d. Felice Cavallaro”.
Il secolo si chiude con queste cariche: razionale, Francesco Pirrone; deputati: Salvatore Gambuto, Giuseppe Mattina. Calogero Farrauto assume la carica di regio proconservatore. I nuovi giurati: Marco Matrona, Gaspare Savatteri, Antonio Bellavia, d. Vincenzo Grillo e Ingrao. Come collettore figura d. Vincenzo Bellavia. Tesoriere è ora don Antonio Grillo ed Alessi.



**********************



Racalmuto nel Settecento secondo il Vaticano.


Presso l’archivio segreto vaticano sono ora consultabili le relazioni che ogni triennio i vescovi dovevano rassegnare sullo stato della loro diocesi.  Di tanto in tanto affiorano note storiche sulle vicende laiche delle località diocesane. Racalmuto vi appare spesso, sia pure con annotazioni rutinarie. Per il Settecento abbiamo questi dati:
Il vescovo Ramirez, nella relazione datata 15 febbraio 1703 che produce “pro triennio trigesimo nono”[12], così descrive Racalmuto:
«Recalmutum: Item Archipresbiter gerit ibidem curam animarum, atque Sacerdotes in Ecclesia Matrice quotidie dicunt horas canonicas. Adestque Monasterium Monalium et quatuor Conventus Religiosorum. Ecclesiae 16, Sacerdotes quadraginta, Clerici 36. Animae 5.012.»
Vigilavano dunque su una popolazione di appena 5.012 anime ben 40 sacerdoti coadiuvati da 36 chierici, oltre a quattro conventi di cui qui non viene detto l’organico. La notizia sciasciana sugli ottanta preti può essere l’eco di questi riferimenti vaticani.
Nelle città – precisa il vescovo – in cui si dice «quod animarum curam gerit archipresbiter” bosogna intendere che questi è beneficiario perpetuo ed ha per lo meno la congrua. Racalmuto, come si è visto, aveva un arciprete così beneficiato. La successiva relazione del 1713 ci consente questi riferimenti: Racalmuto: viene incluso tra gli oppida; le ecclesiae sono 15; 4 i conventi; c’è il solito monasterium monalium; 44 i sacerdotes in sacris; 21 clerici e 5.027 anime. [13] l’oppidum continua a venire designato erroneamente Recalmutum. Ignoriamo quale chiesa sia nel frattempo sparita.

Avutosi l’interdetto del 1713 le relazioni si diradano. Vi è l’eco dei trambusti politici e religiosi in quel torno di tempo. Passiamo quindi a quella del 15 settembre 1728 ove di specifico per Racalmuto non riscontriamo alcunché.

Il Vescovo ci fa però sapere che a Racalmuto, come altrove in diocesi, «egli vigila con somma cura affinché la Domenica e nelle altre feste comandate il popolo ascolti i salutari ammonimenti ed apprenda quanto è necessario alla salute dell’anima. Dopo pranzo, nei giorni festivi il sacrestano, al suono di una campanella, gira per i viottoli a chiamare i fanciulli; li conduce quindi in chiesa ove il parroco, coadiuvato da chierici, insegna i rudimenti della fede in vernacolo. Il vescovo in persona si era premurato di far tradurre e pubblicare in siciliano la “dottrina del cardinale Berllarmino.” Ne ha mandato copia ad ogni parroco «et in visitatione de hoc specialiter» ebbe ad inquisire. » Non si lamenta il vescovo: il popolo risponde bene ai precetti della chiesa: «est docilis, et pius; de fidei rebus catholicè credit; hanc S. Sedem et Christi Vicarium summa et singulari veneratione prosequitur» Qualche nota dolente: « de decimis autem et primitiis non be sentit; plbs vero communiter est blasphemiis assuata, quem pravae consuetudinis abusum,nec confessariorum nec praedicatorum exclamationes, nec episcoporum paenae aliquando inflictae abolere potuerunt.» Pio e devoto quanto si vuole, il popolino il malvezzo della bestemmia ce l’aveva radicato e non erano bastevoli neppure le sanzioni vescovili ad emendarlo. Altrove come a Racalmuto.

Anche se cambia il vescovo, non cambia taglio e genericità la successiva relazione che è datata 6 aprile 1736. Racalmuto vi è assente in termini di dettaglio. Rientra nelle note generali che sono del tutto eguali a quelle che abbiamo prima citate. E così pure quella successiva dello stesso vescovo Lorenzo Gioeni, anche se ora bisogna rispondere rigidamente ad un nutrito questionario.

Scarna anche la relazione del 1748 del medesimo Gioeni, ma alcune note di costume la rendono particolarmente interessante. Per esperienza il vescovo sa che i negozianti di frumento, per smodata avidità di lucro, sogliono spesso all’inizio dell’inverno nascondere partite di grano per vendere dopo a caro prezzo. Donde il popolo versa in più dura indigenza. Erano, poi, tempi calamitosi: pestilenza e sterilità si erano abbattute sull’intera Italia (mala quibus tota Italia afficitur[14]). Ma il sesso è il chiodo fisso del presule: «saepe in Dioecesi evenit ut disculi juvenes puella virgines sub spe matrimonii seducentes, carnaliter cum eis conversentur: exinde vero vel alterius mulieris amore capti, vel majoris dotis intuitu, dum coram meam Curiam conventi super promissione matrimonij stuproque illato causa exagitur, Parochum vel de nocte, vel aliis furtive conveniunt, ac coram eo testibusque a se conductis, cum altera clandestinè contrahunt per evrba de presenti, cum maximo deceptae mulieris paeiudicio, honestarum familiarum dedecore, ac episcopalis auctoritatis contemptu.» Scene davvero manzoniane! Era il 28 agosto 1748.
Dal Gioeni a Lucchesi Palli: è di quest’ultimo la relazione datata 6 gennaio 1765.
Il Lucchesi Palli si era recato personalmente a Palermo per discutere un’annosa controversa con il Regio Fisco: «completam victoriam obtinui.[15]» Si trattava di canonicati: forse uno riguardava quello delle rendite racalmutesi di S. Agata (beneficium simplex Sanctae Agatae dictum [16]). Questione intricata quella che periodicamente ritorna: la competenza del Tribunale Apostolico della Legazia. «Nullum est oppidum – scrive il vescovo – pagusque nullus, in quo Commissarius Sancti Officii cum eius Magistro notario, et saepe cum uno vel duobus librorum revisoribus non existat: et in aliquibus etiam consultores et qualificatores electi reperiuntur.» Naturalmente anche a Racalmuto. V’è quindi un salto trentacinquennale nelle relazioni ad limina che non avviene solo ad Agrigento: gli eventi finali del Settecento coinvolsero anche la chiesa. La prima relazione disponibile è del primo ottobre 1800 ed è firmata da Saverio Granata. E’ un resoconto dei benefici ecclesiastici. Racalmuto vi appare (cfr. f. 619) in quanto in esso «horae canonicae quotidie in choro persolvuntur et ex Massa Sacrae Distributionis, sic dictae Choro interessentes stipendium percipiunt..» Il vescovo assicura di avere visitato le località; «cantum gregorianum juxta Graduale et Antiphonarium praescripsi; eorum memini, militantis Ecclesiae psalmodiam caelestem Beatorum Spirituum concentum ante Thorum Dei emulari, et ob id non perturbate, non cursim, sed gravi cum pausa horas canonicas recitare debere, ut intuentes aedificent.» Aveva ragione quel presule ad esigere dai mansionari racalmutesi un contegno greve e solenne durante il canto delle ore canoniche. Un canto che era bene (e sarebbe bene) che avvenisse secondo il più rigido cerimoniale, quello del Graduale e dell’Antifonario. Non ne abbiamo tanta nostalgia.
Il succedersi dei vescovi ad Agrigento non è indifferente per la storia (o microstoria) di racalmuto: quei presuli avevano tanto e tale potere sul nostro centro abitato da determinarne il corso umano, civile oltre che religioso, ovviamente. Un non meglio precisato “capitano giustiziere di Racalmuto”  si associa con Francesco Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore Antinoro di Casteltermini ed osa  recarsi al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. [17] Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni Ochoa, alla presenza di alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il dottor Giambattista Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine vicereale dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire. L’intrusione in questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi connotati, ma è pur sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia liparitana, ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di vescovi esiliati ha contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano ridurre la questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come  ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il contenzioso ad una vendita di ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor Tedeschi, aveva dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il bottegaio mette in mostra i ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli acatapani che si precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si chiama diritto di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce offerta in vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci sono della Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga.  […] Gli acatapani furono avvertiti, ma dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò, vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei giurati … […] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia. Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica personale.
Un non meglio precisato “capitano giustiziere di Racalmuto”  si associa con Francesco Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore Antinoro di Casteltermini ed osa  recarsi al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. [18] Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni Ochoa, alla presenza di alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il dottor Giambattista Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine vicereale dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire. L’intrusione in questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi connotati, ma è pur sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia liparitana, ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di vescovi esiliati ha contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano ridurre la questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come  ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il contenzioso ad una vendita di ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor Tedeschi, aveva dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il bottegaio mette in mostra i ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli acatapani che si precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si chiama diritto di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce offerta in vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci sono della Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga.  […] Gli acatapani furono avvertiti, ma dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò, vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei giurati … […] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia. Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica personale.
Il papa difese ad oltranza il vescovo Ramirez. Pervenne al papa una lettera che vogliamo qui riportare, ove i fatti hanno una versione che è pur di parte ma che hanno una buona attendibilità. «Ha pervenuto non senza doglianze alla nostra notizia e di questo Tribunale dell’apostolica legazia e regia monarchia – a scrivere è il dottore in utroque D. Francesco Miranda e Gayarre, de consilio sacrae catholicae majestatis – che essendo stato il reverendissimo arcivescovo di Girgenti don Francesco Ramirez intimato d’ordine di S.E. a partirsi da quella diocesi e da questo fedelissimo regno, per li giusti motivi che mossero l’animo di S.E. concernenti al real prestigio e pubblico bene e quiete del regno, valendosi con matura riflessione et evidente giustizia della potestà economica contro il nomato prelato, quello, abusandosi del titolo specioso di consigliere di S.M. (che la divina guardi) e del proprio giuramento di fedeltà e d’osservare le prerogative regie e del regno, facendosi scudo, benché ideato, d’essere lesa la libertà ecclesiastica, e d’aver patito violenze dal capitano Ochoa, dottor don Giovanni Battista Guzzardo, chierico don Pompeo Grugno, Ettore Antinori, ed altre persone generalmente, specialmente e individualmente nominati, passò a scomunicarli; e supponendo che l’esercizio di tal potestà economica fosse enorme delitto, passò ad interdire la cattedrale e tutte le chiese della diocesi, mostrandosi poco buon genio verso il real servizio e la potestà economica di S.E. Per la totale elevazione del quale interdetto, per l’evidente nullità ed altre reazioni, e per aprirsi le chiese con la continuazione de’ divini offici ed amministrazione di sacramenti, si stan spedendo, per via del Tribunale gli ordini opportuni. Ma per adesso riflettendo che la riferita censura fulminata contro le persone, così come in specie riferite, ha processo, ex abrupto, de facto, nullo iuris ordine servato, contro la forma de’ sacri canoni, concili ecumenici, con pubblico scandalo, evidente perturbazione dei popoli, ed impedimento al corso della giustizia ed esercizio della potestà economica, ed in esecuzione di supposta potestà concessagli dalla Corte Romana, non esecuta né presentata nel regno, in grave pregiudizio delle regalie e prerogative del regio exequatur, secondo si prescrive dai più reali dispacci de’ serenissimi monarchi, fondati in evidenti ragioni, avvalorati da antichissima ed immemorabile osservanza, mai interrotta nel lungo corso di più secoli, non solo in questo fedelissimo regno, ma anche per tutto il mondo cattolico, come uniforme al diritto delle genti, alli sacri canoni, concili universali, e concordie con la Santa Sede; ed accrescendosi i motivi di suddetta nullità ed insussistenza dalli notabili eccessi ed evidenti aggravi: resta la suddetta censura, come sopra fulminata, assolutamente nulla ed ingiusta, da tenersi solamente da chi la fulminò, non avendo né tampoco precesso le solite e necessarie munizioni, né tampoco la citazione ad dicendum causam quae, secondo precettò la stessa Verità increata.» [19]
Ma quella lettera irritò ancor di più il pontefice che definisce «plurimae atquae vere acerbissimae» le notizie che gli giungono dalla Sicilia. Quella missiva viene così stroncata: «Declarantur nulla litterae, edictum et praeceptum a Tribunali monarchiae Siciliae contra censuras ab episcopo Agrigentino in sui expulsores declaratas et interdictum cui subiecta fuit dioecesis Agrigentina, cum illarum damnatione et horum confirnatione ac poenis in contravenientes.» Ora il capitano d’armi racalmutese è ben servito: è il papa in persona a scomunicarlo. Altrettanto per tutto il popolo di Racalmuto. Una sepoltura in chiesa non è più consentita. A meno che …(a meno che non riescano i raggiri di cui abbiamo detto).
Sciascia, spirito laico, non se ne dà pena più di tanto. Nella Controversia ironizza: «ingastone … Era inevitabile che nascesse il contrabbando dei sacramenti e che andasse su di prezzo come il pane in tempo di carestia. perlongo  L’altro giorno un mio vicino di casa, orefice di mestiere, era in punto di olio santo. Ha chiesto un prete buono: cioè non scomunicato. I figli non sono riusciti a trovarglielo, sono tornati portandosi dietro don Mamiliano Cozzo, che tra gli scomunicati direi che è il più conosciuto. Il moribondo, vedendolo, ha trovato la forza di gridare che non voleva da lui l’estrema unzione. I figli e i vicini sono riusciti a convincerlo a prendersi l’olio da don Mamiliano. E sapete con quale ragione? Che era meglio di niente. ingastone   Proprio cosìA Girgenti, a una donna cui stavano battezzando il nipote, ho domandato se sapeva che il prete officiante era uno scomunicato. Lo so, mi ha risposto: ma quando tornano quelli buoni lo faremo ribattezzare. E il bello è che sanno benissimo quanto siano stati cattivi i preti che chiamano buoni.»
Noi non crediamo che la faccenda dell’interdetto sia stata presa così alla leggera: credo, comunque, che i preti se ne siano rimasti al loro posto, a battezzare, a confessare, a perdonare in nome di Dio, a confortare con l’estrema unzione. Quanto a seppellire, bastava in piccolo espediente ed anche la chiesa veniva aperta al feretro. Ma il dramma rimaneva tutto, .. ancor oggi imperdonabile, a nostro avviso.
Mons. De Gregorio – colto e prudente – ci pare particolarmente circospetto. Scrive: «Il 28 agosto 1713 il vescovo fu costretto ad allontanarsi da Agrigento […]  Cominciò allora un periodo assai turbolento in cui clero e popolo si divisero tra favorevoli e sfavorevoli all’interdetto: tra scomuniche minacce, carceri, esili, confische  e vessazioni, scorsero sei anni di insicurezza e disordine sino al 1719 quando l’interdetto venne tolto. Durante questo periodo l’ordine del vescovo fu generalmente osservato, ma per le violenze e le imposizioni delle autorità civili, non solo in Agrigento ma in diocesi, le chiese furono aperte con la forza e i sacerdoti, in gran parte provenienti da altre diocesi, vi celebrarono le sacre funzioni. Ma in genere, sia il clero che il popolo, furono contrari alla violazione dell’interdetto.» E francamente l’insigne monsignore ci pare imbarazzato e piuttosto ondivago. [20]
A Racalmuto la bufera non sembra comunque essere soffiata con asprezza; l’arciprete racalmutese dr. D. Fabrizio Signorino aveva a cuore le sorto delle anime dei suoi compaesani e vigilò con prudenza e seppe mantenersi in bilico. Da quello che emerge dagli archivi torinesi il nostro paese è del tutto defilato. Stralciamo queste notizie che precisano se non altro i contorni di quella inquietante vicenda.
Da Palermo V. Amedeo scriveva l’8 novembre 1713 al De St. Thomas sulle vicende agrigentine non mancando di “rimirare” «come un riflesso e sequela delle Vostre operazioni il riavedimento seguito in Girgenti, ove le cose sono altresì restituite nella primiera calma, toltone la sola renitenza de’ PP. Capuccini, rispetto alla quale si stanno qui prendendo le opportune misure.» [21] Ma il 5 dicembre 1713 il re deve inviare D. Tommaso Loredano ad Agrigento, giudice della R. Gran Corte, in quanto occorre «metter il dovuto freno a que’ inconvenienti ch’ancor succedono in Girgenti.» Vi giravano padri cappuccini per assolvere dall’interdetto. Alcuni di loro furono arrestati “come nel caso di Cammarata”, giusta quel che si legge in una nota dell’8 aprile 1714.
Veniamo a sapere [22] che «due stampe sono divalgate a Roma: l’una che contiene un Brebe del Papa, diretto al Capitolo della Cattedrale di Girgenti: e l’altra che consiste in una scrittura intitolata «Lettera di disinganno per gl’Ecclesiastici delle Diocesi di Catania e di Girgenti». La data del Breve si è de’ 10 del mese scorso [marzo 1714] e la sua sostanza si riduce a dolersi che [taluni] canonici riconoschino per Vicario Generale il Canonico Formica [per cui si ordina] sotto pena di scomunica a sé riservata  di più riputare il canonico Formica per Vicario […] e l’altra scrittura intitolata il disinganno … potrebbe probabilmente essere quella del Padre Pisani Gesuita.».
In una sorta di libertà vigilata restano a termine il canonico Rini e l’arciprete di Bivona. E’ datata 11 maggio questa missiva al De St. Thomas: «Vedrà V.S. come a Canicattì si fusse trovato affisso il consaputo Editto del Papa per l’osservanza dell’Interdetto, in seguito a cui si fussero colà chiuse le Chiese; sopra di che mi commanda S.M. di scrivere in di Lui nome, a V.S. che ove si trovino effettivamente chiuse le Chiese in Canicattì, ed altri luoghi  … Ella vi proveda a tenore de’ precedenti ordini di S. M. con mandarvi dei Religiosi ben affetti tanto Secolari, che Regolari per far riaprire ed ufficiare dette Chiese.»

Fuggito il Ramirez, non senza prima avere comminato furtivamente l’interdetto sopra rappresentato, la sede resta per lungo tempo vacante.  Il Ramirez muore – per così dire, esule – il 27 agosto 1715, ma la sede agrigentina viene raggiunta da un presule riconosciuto da Roma solo il 24 settembre 1723. Il nuovo vescovo è Anselmo della Penna (Peña): quello che fa tradurre il catechismo in siciliano ed esige che siano educati i fanciulli inculcando loro le nozioni rudimentali della fede in perfetto dialetto siciliano. Quel testo andrebbe recuperato per studi linguistici di portata anche sociologica.
Il Mongitore – integrando il Pirri -  ci ragguaglia sulla sede vacante con queste laconiche notizie: durante la sede vacante la Chiesa non fu guidata da alcun Vicario. Ma liberata la diocesi dall’interdetto nel 1719, il Capitolo della Cattedrale elesse Vicario generale Giuseppe Pancucci agrigentino U.I.D., canonico della stessa cattedrale e Tesoriere.
Quel che in quella sede viene precisato su La Peña è così traducibile: «Anselmo della Penna, ispano, nato in una località denominata Rabaderia della diocesi auriense in Galizia nel 1655, apparteneva all’ordine di S. Benedetto ed era laureato in Sacra Teologia. Fu elogiato prefetto dell’ordine ed abbate generale della congregazione benedettina di Spagna. Fu eletto vescono di Crotone il 2 febbraio 1715. A quattro anni della nomina di Carlo VI Imperatore a re di Sicilia, fu il La Penna trasferito a capo della chiesa agrigentina con bolla pontificia di Innocenzo XIII del 5 ottobre 1723, registrata in Palermo il 9 novembre del medesimo anno. Prestò giuramento solenne nelle mani dell’arcivescovo palermitano F.D. Giuseppe Gasch l’11 novembre 1723 in forza di breve apostolico. Elesse suo Vicario generale l’ U.I.D. Antonino Zavarrone, protonotario apostolico. Resse la diocesi spinto da zelo pastorale e si distinse per la carità verso i poveri. Nell’anno 1729, allorché ebbe un’impennata il prezzo del frumento in Sicilia, egli a poco prezzo distribuì ai poveri una gran quantità di grano. Affetto da una grave febbre mentre visitava Caltanissetta, aggravandosi il male, volle che fosse trasportato nella città di Agrigento, dopo essere stato munito dei conforti religiosi; qui, ottuagenario, cessò di vivere il 4 agosto 1729.» [23]
Succede Lorenzo Gioeni ed Incardona, nobile palermitano, su presentazione di Carlo VI. Investito con bolla pontificia di Clemente XII dell’11 dicembre 1730, trascritta in Palermo il 5 gennaio 1731, rifulse – per il Mongitore [24]- per doti d’animo e per virtù. Sotto di lui viene redatto un volume di tutti i benefici e cappellanie della cattedrale di Agrigento e della diocesi. Per il Picone, «fu uno di quegli uomini che, a buon diritto, posono addomandarsi rigeneratori di una città, ed egli fe’ rifiorirla nella pubblica istruzione, nel pubblico costume, e nel commercio.» [25]  Il che sarà vero per Agrigento, ma dubitiamo fortemente che valga per Racalmuto. Nelle due visite pastorali che fece a Racalmuto nel 1737 e nel 1748 ci pare oltremodo fiscale; piuttosto duro e bigotto, fu, se bene leggiamo, persino critico verso il nostro  padre Elia Lauricella. Il padre Morreale ovviamente non è d’accordo e forse ha ragione lui.
Succede Andrea Lucchesi Palli (dal 25 luglio 1755 al 4 ottobre 1768). Nobile dei principi di Campofranco, fondò la celebre omonima biblioteca che interessò Pirandello e fu oggetto di qualche spunto letterario anche per Sciascia.
Dal 20 novembre 1769 al 23 maggio 1775 è la volta del nobile Antonio Lanza della celebre famiglia di Mussomeli, cui era appartenuta Melchiorra Lanza la moglie dell’ultimo conte del Carretto. Teatino, resta immortalato, e non tanto gradevolmente, dalla sapida penna del viaggiatore inglese Brydone. «Appartiene – scrisse tra l’altro l’inglese – a una delle prime famiglie dell’isola ed è fratello del principe di …. È un omettino onesto e una persona piacevole, e questo è ciò che conta. Non ha ancora quarant’anni, ed è fuori del comune che abbia raggiunto una simile carica così giovane, essendo questo il vescovado più ricco del regno. E’ un buon letterato, profondamente erudito sia cose antiche che di cose moderne, ed è altrettanto intelligente che colto. […] Tra i commensali abbiamo trovato parecchi massoni, che ci fecero festa apprendendo che eravamo loro confratelli. » Quel vescovo, durato invero poco, non ebbe tempo (o voglia) per rassegnare alcuna relatio ad limina al papa.
Dopo, per dieci anni, dal 15 aprile 1776 al 31 luglio del 1786, regge la diocesi Antonio Colonna Branciforti, di cui sappiamo ben poco (e forse, al di là del suo altisonante casato, passò del tutto inosservato). Il Picone annota: al magnanimo Lucchesi  …« succedevano Lanza e Branciforti, i quali nel periodo di loro vescovado nulla fecero che ne ridesti la memoria. » Per un paio di anni abbiamo quindi la sede vacante.
E’ la volta dell’agrigentino Antonio Cavalieri che non dura più di un biennio (dal 15 settembre 1788 al 10 dicembre 1791). Sempre il Picone: «succedeva il nostro concittadino … che tentò di rendersi benemerito della patria, ma la morte il prevenne nei suoi disegni. Egli il 14 gennaio 1789 dirigeva al re un memoriale per lo quale chiedeva che gli si concedesse a titolo di vendita, o di enfiteusi il conventino dei Riformati (già da tre anni abolito) e la piccola selva annessavi, onde egli potesse piantarvi un orto botanico di erbe medicinali pei poveri. Egli aveva già indotto un valente botanico di Palermo a venire in questa, gli aveva assegnato un convenevole stipendio, e disegnava condurvi una vena d’acqua per l’irrigazione delle piante.»
Il 1° giugno 1795 accede al soglio episcopale Saverio Granata, il suo magistero durò sino al 29 aprile del 1817. E’ dunque un prelato che si proietta nel secolo successivo, in un’altra epoca, davvero.
Considerazioni conclusive sul Settecento Racalmutese.


Il Settecento si chiude con quattro protagonisti, tutti sacerdoti, dotati di una personalità spiccata; costoro furono sicuramente fra loro confliggenti e lasciarono solchi indelebili nel corso della locale vita paesana. Essi sono : don Nicolò Tulumello,  don Francesco Busuito, don Giuseppe Savatteri e Brutto, nonché l’arciprete – non ancora canonico  - don  Gaetano Mantione.
Su don Nicolò Tulumello, con le sue poco pie voglie di acquisire indebiti titoli nobiliari, abbiamo già detto. Su don Giuseppe Savatteri, altrettanto enon vanno neppure obliate le stilettate inferte da Leonardo Sciascia. Don Francesco Busuito – veniamo a sapere dal LIBER – fu “consultore del Sant’Ufficio”, fino a quando non venne soppresso. C’era materia per dileggi sciasciani, ma il sacerdote la passò liscia, per non conoscenza dei fatti, pensiamo.
Era imparentato con don Benedetto Nalbone ed insieme i due sacerdoti rilanciarono un ramo di quella famiglia. Sulla vertenza Savatteri-Busuito abbiamo detto. Nel LIBER, mentre al Savatteri è riservata una secchissima annotazione di morte, al Busuito l’anonimo estensore, che non poteva che essere o subire l’influenza dell’arciprete Mantione, viene dedicato quasi un epitaffio. «D. Francesco Busuito – vi si legge – Collegiale, Missionario, Predicatore Quarisimalista, Consultore del Sant’Ufficio, Parroco di Comitini, Maestro di Spirito sotto Monsignor Gioeni alla casa degli Oblati e sotto Mons. Lucchesi successivamente. – Maestro di Lettere, di Teologia Morale, Prefetto di studii, Direttore, Rettore del Seminario di Girgenti, Vicario Foraneo, beneficiale del SS. Crocefisso, Economo – obiit 29 Januarii 1802 – d’anni 74.» Non sappiamo se tutti questi elogi siano dovuti al rispetto che ancora incuteva il defunto o non era una scelta di campo dell’arciprete Mantione, tutto a favore del Busuito e tutto avverso al Savatteri, anche dopo la morte.
L’eco di quegli intrighi si hanno persino nel 1870 in una memoria difensiva del sacerdote don Calogero Matrona. Anche in quella sede è detto che nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti alcuni beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione del citato sac. Don Calogero Matrona, divenuto beneficiario di quei beni per vie traverse,  è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - scrive fra l’altro il Matrona  - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium   Parochi di libera collazione da conferirsi a concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio, perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii [...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.

Il canonico Mantione è personaggio tuttora popolare: ci viene tramandato come uomo coltissimo ma sbadato, grande mangiatore di olive come il padre Pirrone del Gattopardo. Personalmente ci indispettisce per la faccenda della chiesa di Santa Rosalia. V’è tutta una documentazione all’arcivio vescovile di Agrigento ove si parla della chiesa in questione. È fatiscente; si chiede e si ottiene l’autorizzazione avenderla come “paglialora”. La comprano i voraci sacerdoti Grillo;a venderla è proprio il Mantione. In cambio null’altro che un altare – quale ancora sussiste – alla Matrice. E’ questa – a nostro avviso – una imperdonabile colpa del canonico Mantione. Per mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini  op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed una sacralità  superiori allo stesso interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva permettere quello scempio. Era  da quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi. E’ un comportamento – quello dell’arciprete del tempo – che mi appare incomprensibile. Un  pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa)  verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella gli riverbera una  poco esaltante ombra.
A voler sintetizzare, quella era un’antichissima chiesetta risalente, a seconda delle varie versioni ,  al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali agrigentine). Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio venne riadatta, o edificata (o riedificata); resistette sino al  3 giugno 1793 quando fu ceduta, appunto, al sac. Salvadore Grillo; e ciò per un baratto: un altare con statua alla Matrice per una chiesa da ridurre a stalla.
Santa Rosalia non ha più casa a Racalmuto: è proprio la fine del Settecento. Nell’epoca del romanticismo, i racalmutesi opteranno per Maria Santissima del Monte di cui credono di avere una statua marmorea “miracolosissima”. Una saga era stata inventata a metà del Settecento per la penna di un seminarista, don Francesco Vinci, ritornato allo stato laicale ove l’attendeva un ruolo egemone nell’amministrazione della cosa pubblica. Nel 1848, anche le autorità ecclesiastiche derubricano come patrona S. Rosalia ed il suo posto è preso dalla più romantica “imago Virginis Deiparae”, tutta di marmo, splendidamente eretta sul Monte. Ai piedi l’erta scalinata per le “prumisioni” a dorso di muli recalcitranti oppure racchiuse in pesanti sacchi, portati su a fatica sulla testa di donne smunte o obese, a piedi scalzi, per devozione, triste ed ancestrale. Immagini romantiche appunto, o – direbbe Sciascia – soffuse di un’ «aura romantica ed un tantino melodrammatica».




[1] ) Leonardo SciasciaContrada Noce, in Gli amici della Noce, Fondazione Sciascia Racalmuto 1997, p. 7
[2] ) Leonardo Sciascia Prefazione al libro di Tinebra Martorana, Racalmuto – Memorie e tradizioni – Racalmuto 1986, pp. 11-13
[3]) ibidem - Real segreteria - Incartamenti - B. 3604.
[4]) ibidem - Real Segreteria - Incartamenti - B. 3605.
[5]) ibidem - Real Segreteria - Incartamenti - B. 3605.
[6]) ibidem - Real Segreteria - Incartamenti - B. 3605.
[7]) ibidem - Real Segreteria - Incartamenti - B. 3606
[8] ) Leonardo SCIASCIA Le parrocchie di Regalpetra - ed. Laterza 1982 Bari U.L., pag. 21.
[9]) Secondo l’elenco della Matrice sarebbe invero deceduto il 7 aprile 1650 a 52 anni (cfr. col. 3 n.° 62). Si rilevano però due inesattezze. Nessun dubbio sulla data di morte può sorgere stante il seguente atto della Matrice:
7
5
1650
Todaro
Giuseppe Sacerdote
sepolto nella chiesa di S. Maria del Monte
gratis

Sull’età del  Sacerdote Todaro è da precisare che era già chierico nel 1598 come risulta del tuo elenco:
4
1598
GIUSEPPE
TODARO
CHIERICO
12
1600
GIUSEPPE
TODARO
CHIERICO
9
1632
GIUSEPPE
TODARO

4
1634
GIUSEPPE
TODARO

e nella visita del 1608 è già sacerdote abilitato alle confessioni. Sono portato a pensare che il sacerdote sia morto settantenne e questo potrebbe essere il suo atto di battesimo:
26
12
1580
Todaro
Joseppi
Vincenzo Mastro
Violanti

[10] ) Archivio di Stato di Palermo - FONDO ARCHIVISTICO PALAGONIA - SERIE ARCHIVI PRIVATI – UNITA’ ARCHIVISTICA: 694 - ANNI 1736-1752



[11]) Nel Dizionario Topografico della Sicilia di Vito Amico, tradotto e aggiornato da Gioacchino Di Marzo, si afferma che a Racalmuto si erano registrati «nell’anno 1713, 1175 fuochi e 4757».

Francesco Maggiore-Perni ne’ “La popolazione di Sicilia e di Palermo dal X al XVIII secolo” colloca il censimento nel 1714 (cfr. Tavola I pag. 527).
[12] ) Archivio Segreto Vaticano – Relationes ad limina –Agrigentum – 16A – f. 349.
[13] ) ibidem. F. 401
[14] ) ibidem, f. 499v.
[15] ) ibidem, f. 578v.
[16] ) ibidem, f. 579.
[17] ) Giuseppe Picone, Memorie Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 551.
[18] ) Giuseppe Picone, Memorie Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 551.
[19] ) Bullarium romanum –An. C. 1713 – Torino 1871, p. 590a.
[20] ) Domenico De Gregorio, Cammarata, Agrigento 1986, p. 305.
[21] ) Il Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia, nell’Isola di Sicilia dall’anno MDCCXIII al MDCCXIX – Documenti raccolti e stampati per ordone della Maestà del re d’Italia Vittorio Emanuele II – Torino, Eredi Botta 1863, pp. 44-45.
[22] ) ibidem, p. 55
[23] ) Rocco Pirri, Sicilia Sacra, Tomus Primus, Palermo 1733, p. 727.
[24] ) ibidem, p. 727.
[25] ) Giuseppe Picone, Memorie Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 574. 

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