SI APPANNANO I CASUCCIO
Una commovente lettera dei Casuccio
del Settecento.
Emblematica del travaglio dei
tempi, è questa lettera scritta da un Casuccio all’arciprete Campanella: lo stile
sarà impacciato ma il mittente mostra una consuetudine con la parola scritta
che per l’epoca è apprezzabile; la mortalità infantile è drammatica, le
ristrettezze economiche diffuse.
Ill.mo Signore e Reverendissimo
Colendissimo.
L’afflizioni che hà recato a mè e a
tutta questa mia picciola famiglia rimasta, per la morte di quel benedetto,
sfortunato figlio d: Bartolomeo, non possono esagerarsi con la lingua, né
esprimersi con la penna; tutta lascio considerare a V. S. Ill.ma, pensando, che
dietro le morti di quelli anco altri premorti figli, il Signore mi hà tolto
questo, restandomi solamente una figlia, e don Ignazio, i quali sbigottiti di
quest’ultimo caso, campano in cura di medicamenti, ma tutti impauriti. Mentre
ringrazio il suo affetto di quest’Ufficio sacro passato, prigandola di
raccomandarmi al Signore e di onorarmi con li suoi comandi, mi soscrivo di V.S.
Ill.ma Ill.mo Signor d: Stefano Campanella – Racalmuto. - Dato li 15 dicembre 1770
Ma tanto
non è solo il grido di dolore di notabile in decadenza, quanto il segno di un
declino di una famiglia che un tempo era stata localmente egemone: trattasi di
un declino che durerà un secolo; alla fine dell’Ottocento ritornerà in auge,
prima con un intraprendente burgisi che lascia la vanga per il piccone e scava
con successo nelle viscere della contrada Ciaula alla ricerca del nuovo oro, lo
zolfo, e poi con un arciprete che dominerà Racalmuto per tutto il periodo
fascista e, soprattutto, nella prima era democristiana.
I Casuccio, invero, affondano le loro scaturigini
familiari nei primordi della storia locale: nei registri parrocchiali della
Matrice - una grande miniera di dati, sinora sostanzialmente negletta – si
riscontrano già agli albori di quella documentazione [risalenti al 1564 e cioè
al tempo della prima attuazione della Controriforma Tridentina] ben undici
ceppi familiari con il cognome “Casuccio”, in grafia più o meno corretta. Sono
tutti appartenenti alla buona borghesia del luogo e portano spesso un doppio
cognome che si rifà nientemeno ai DORIA.
Quella
famiglia può oggi vantare veri e propri nobili lombi, e sono i soli a
Racalmuto. Ciò nei limiti, s’intende, in cui i Doria - quelli di Dante e quelli
della storia di Genova, quelli del Cardinale Giannettino Doria di Palermo del
tempo di M.A. Alaimo e Beatrice del Carretto e gli altri della celeberrima
prosapia - possono essere considerati
nobili.
N°
|
Cognome
|
Nome
|
Coniuge
|
1
|
Casuccia
|
Francesco
|
Maruzza
|
2
|
Casuccia
|
Gioseppe
|
Bastiana
|
3
|
Casuccia
|
Jacobo
|
Ioannella
|
4
|
Casuchia
|
Joanni
|
Rosa
|
5
|
Casuccia
|
Michele
|
Beatrice
|
6
|
Casuccia
|
Nardo
|
Minichella
|
7
|
Casuccio
|
Petro
|
Cartherina
|
8
|
Casuccia
|
Salvaturi
|
Juannella
|
9
|
Casuccia
|
Silvestro
|
Angela
|
10
|
Casuchia
|
Simuni
|
Contissa
|
11
|
Casucci
|
Vincenzo
|
Betta
|
Comprovano
il doppio cognome questi atti parrocchiali:
10
|
9
|
1585
|
Geronimo
|
1
|
Antoni
|
Gulpi
|
Agata
|
Casuchia Doria Joanni
|
24
|
9
|
1586
|
Leonardo
|
Vincenzo
|
Parla
|
Solemia
|
Cimbardo
cl. Angilo
|
Casucia Doria Vinc. m. di Fran.
|
8
|
7
|
1585
|
Jannuccio
|
Nicolao
|
Antonuccio quodam
|
Angila
|
Fuca'
|
Agata
|
Gasparo quondam
|
Betta
|
Casucia Doria Giovanni
|
4
|
1591
|
Maruzza
|
2
|
Antonino
|
Muriali
|
Francesca
|
Doria Jo:
|
4
|
1591
|
Santo
|
1
|
Antonino
|
Vento
|
Paola
|
Doria Jo:
|
10
|
6
|
1591
|
Jacopo
|
1
|
Francesco
|
Rizzo
|
Vittoria
|
Casuccia Doria Jo:
|
1.8.1616
|
CASUCCIO DORIA
|
FILIPPA
|
Emergevano, alla fine del Seicento, don Giuseppe Casucci e
don Pietro Casucci, contro i quali si affilavano le armi giuridiche del conte
Girolamo del Carretto, che li accusava di usurpazione di privilegi terrieri ed
indebite esenzioni fiscali.
Secondo il
conte, don Giuseppe Casucci possedeva sine titulo un fondo in contrada Bovo e
cioè:
clusae cum terris scapulis exstentes in dicto pheudo
Racalmuti et in contrata nominata di Bovo, confinaneis cum clusa Joseph
Torretta, cum vineis Stephani Bruno et cum clusa Augustini de Beneditti, nulliter possessae per dictum
reverendum sacerdotem d. Joseph Casucci.
Del pari,
ciò valeva per l’altro sacerdote don Pietro Casucci:
clusae cum terris scapulis cum vineis,
arboribus et alijs exstentes in dicto pheudo Racalmuti et in contrata nominata
di Bovo seu Montagna confinantes ex una parte cum vineis et terris ditti de Signorino, cum clusa
notarij Francisci de Puma et cum clusa don Antonini Bartholotta, nec non
cuiusdam vineae cum terris scapulis exstentes in dicto pheudo Racalmuti et in contrata nominata della Fontana
della Fico confinaneis cum vineis quondam
Antonini Vassallo, cum vineis Isidori Lauricella Erarij et cum vineis Pauli
Bucculeri alias Gialì, indebité
possessarum per dictum Sacerdotem don Petrum Casucci.
Sappiamo che don Pietro Casucci finì i suoi giorni terreni
il 7 dicembre 1713 all’età di 55 anni. Era un “collegiale” e cioè un
mansionario di quella Comunia che aveva istituito l’arciprete Lo Brutto. Don
Giuseppe Casucci visse più a lungo (decede il 15 gennaio 1728) ed era anche lui
“collegiale”.
Ma al di là del patrimonio a
suo tempo costituito non ci pare che i due sacerdoti abbiano avuto poi grosse
disponibilità finanziarie per allargare le loro possidenze. Ci risulta solo
quest’atto in favore di Pietro Casucci, che comunque ha tutta l’aria di una
sistemazione di pendenze familiari:
A 5: Aprile Prima Ind. 1708:
Venditione fatta da Brigida Casucci relicta del quondam d. Ignatio al
R.do sac: d. Pietro Casucci migliara sei di vigna con il suo palmento, albori,
limiti ed'altri nel fego delli Giardinelli confinante con la vigna di Michael
Angelo Callega ed altri confini. Sogetta nel suo solito censo. La posessione la
medesima giornata per il prezzo di onze cento di contanti come meglio per detta
venditione il di di sopra.
Un altro
paio di sacerdoti, don Gaspare Casucci e don Vincenzo Casucci, ne mantengono
ancora il prestigio ecclesiastico e quindi sociale sino alla prima metà del
Settecento. Don Gaspare, collegiale beneficiale di S. Antonio, muore il 26
gennaio 1756; don Vincenzo, beneficiale semplice, muore il 26 settembre 1757
all’età di 62 anni. Poi abbiamo P. Carlo Casucci che è un frate e non può certo
operare in disprezzo del voto di povertà. Anche questi comunque muore in quel
torno di tempo, attorno al 1763.
Nel LIBER i
Casuccio tornano un secolo e mezzo dopo con la morte del chierico D. Paolino
Casuccio di Calogero mato in Racalmuto il 10 maggio 1892 e morto in guerra il
12 Agosto 1016 (n° 457.)
La
rarefazione di sacerdoti in famiglia attesta proprio questo declino economico
di cui la lettera che abbiamo riportata è eco e testimonianza.
L’ascesa
di una nuova grande famiglia: i Tulumello.
La grande famiglia Tulumello è un antico nucleo familiare,
ma sino alla prima metà del Settecento non vanno al di là delle solite annotazioni
anagrafiche nei libri parrocchiali della Matrice. Il ceppo che avrà
nell’Ottocento ruoli di risalto nella vita pubblica e, addirittura finirà nei
testi araldici, parte da questo Giuseppe Tulumello – pare un gabelloto – che
nel 1741 sposa una canicattinese:
Giuseppe Trumello Sch: figlio
Legittimo e naturale d'Ignazio e Anna Tulumello Jugali di questa terra di
Racalmuto con Paula Cuva sch. f. leg. e naturale di Pietro e Gratia Jugali
della terra di Canicattì. Pubblic: 1741 5^
ind. ottobre 22.28.29.
Un sacerdote, don Nicolò Tulumello, frattanto si stava
affermando a Racalmuto, ma cessò di vivere ad appena 30 nel 1748 (il 21 luglio)
quando era già collegiale. Risulta dai fondi di Palagonia che nel 1763 diversi
Tulumello spiccavano per consistenze patrimoniali e denunciavano quantità di
grano ben al di là delle misure
consuete, oltre a possidenze ed a proprietà di ovili:
1. Tulumello Calogero rivela
s. 110 f.f.te e timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per mangia della
mandra s. 35 ff., p. simenza s. 20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumi e
colture di vigne s. 12 e s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia;
2. Tulumello Giuseppe, rivela
s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per
simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per
mangia di casa e garzoni;
3. Tulumello Giovanne, rivela
s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per
simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per
mangia di casa e garzoni.
Nei
riveli troviamo, dunque, quel Giuseppe che sarà il capostipite di quello che
sarà il ceppo nobiliare per le vicende
di fine Settecento. Nel censimento del 1753 Giuseppe Tulumello ha 33 anni; la
moglie 28 ; i figli: Rosa di 11 anni, Vincenzo di 6 anni e Nicolò di quattro
(che sarà sacerdote ed acuisterà per persona da nominare il titolo baronale di
Gibillini). Vicino abita il fratello
Giovanne Tulumello di Ignazio di 27 anni, sposato con Santa. Assieme c’è la
mamma, Anna Cuva di anni 60 e già vedova di Ignazio Tulumello.
Annotiamolo:
fino al 1753 i Tulumello non vengono contraddistinti con titoli di risalto come
don; d’altronde non fanno parte delle
locali maestranze: sono però grossi gabelloti.
Nel
1785 i Tulumello hanno però fatto il salto nella gerarchia sociale racalmutese:
don Giuseppe Tulumello ora siede accanto ai giurati; nel 1791 sarà la volta di
don Vincenzo Tulumello, il quale può persino permettersi di divenire
l’arrendatore del patrimonio urbano per onze 1.126 e tarì 15.18. Tra i giurati
del 1794 vi troviamo don Ignazio Tulumello.
Fu
in quell’epoca che si fece valere il sacerdote don Nicolò Tulumello. Ecco
quello che di lui dice il LIBER (n° 334): «collegiale, vicario foraneo e
direttore del Collegio di Maria e fondatore del medesimo, pochi mesi prima di
morire si ritirò nell’Oratorio dei Filippini in Girgenti dove morì il 5 Marzo
1814 di anni 65 e per ordine di Monsignor Granata Vescovo di Girgenti si
trasportò il cadavere di lui nella Chiesa di questo Collegio di Maria.»
La famiglia Matrona
In
un rivelo del 1752 che fa don Giuseppe d’Agrò, quale beneficiale della chiesa
di S. Nicolò di Bari, troviamo per la prima volta un personaggio: don Pietro
Matrona. Ci appare, già, tra i maggiorenti di Racalmuto.
Dobbiamo
attendere il 2 settembre 1802 per avere notizie su un sacerdote locale
appartenente a tale grande famiglia: si tratta di don Calogero Matrona che nel
LIBER (n° 313) viene così contrassegnato: «morì in Montaperto il 2 Settembre
1802 d’anni 49».
In
effetti, nella numerazione delle anime del 1762 troviamo il nucleo familiare di
don Pietro Matrona (segnato all’età di 32 anni, e quindi nato nel 1730, a
nostro avviso non a Racalmuto) che oltre alla moglie donna Rosalia di anni 32 è
composto, appunto, da Calogero di anni 6 (nato quindi attorno al 1756) e da
Francesco di anni 3, e Marco di anni .
Quando
nel 1784 si fanno le pubblicazioni per l’accesso agli ordini maggiori di don
Calogero Matrona, questi ci tiene a farsi indicare con un doppio cognome:
Matrona-Moncada; non sappiamo con quale fondamento, arguiamo comunque che i
Matrona discendono, per via collaterale, dai Moncada.
In un libro
degli “sponsali” della Matrice abbiamo questa notizia su un Matrona che non
crediamo abbia messo radici a Racalmuto. Là viene annotato quanto segue:
19/7/1741
- MATRONA E SPINACCIOLO D. PIETRO DELLA
CITTA' DI SUTERA PARR. DI S. AGATA DEL Q. D. MARCO E LA VIV. DOROTEA [si dovrà sposare con] SFERRAZZA
D. CALOGERA DEL QUONDAM D. DOMENICO E LA VIVENTE SANTA.
Una
cosa comunque è certa: la madre di don Calogero Matrona non era una Moncada.
Sappiamo con precisione che questa, donna Rosalia, era di elevata famiglia,
essendo una La Lumia di Naro, ma nulla ha ache vedere con i Moncada. Possiamo
solo congetturare che una Moncada fosse la nonna del sacerdote.
Don Pietro Matrona, il padre del Sac.
Calogero, giunge a Racalmuto già vedovo.
La prima moglie era una tale Calogera non meglio precisata negli atti della
Matrice, ove si riscontrano gli estremi del secondo matrimonio del Matrona.
Questo è almeno quanto emerge dalle pubblicazioni che qui trascriviamo:
../10/1750 – PIETRO MATRONA E
MONCADA, VED: REL. DELLA Q. D. CALOGERA
OLIM GIUGALI DI Q. TERRA [intende contrarre
matrimonio con] LA LUMIA D. ROSARIA DI D:
MICHELE E D: ELISABETTA GIUGALI DELLA
CITTA' DI NARO PARR. DI S. ERASMO 1750 XIIIJ IND. DIE 11/8BRIS/18.25. [1750]
L’ultimo
dei figli di don Pietro, Marco Matrona,
sposa nel 1787 con donna Francesca Baeri, la cui famiglia è omai a
Racalmuto oltremodo affermata. La rimarchevole importanza di padre e madre
della nubenda si coglie appieno in questa trascrizione degli atti dello
sposalizio.
11/3/1787
- MATRONA D. MARCO DI D. PIETRO E LUMIA [intende
contrarre matrimonio con] D. ROSALIA
BAERI D.NA VINCENZA FRANCESCA DI D. GIUSEPPE E LA FU BELMUNTI D. MELCHIORA
OLIM DI QUESTA.
Don
Francesco Matrona sposa l’anno dopo ma con una vedova, tale Giovanna
Petruzzella, vedova di don Giuseppe Salvaggio, come dal seguente atto:
21/3/1798
- MATRONA D. FRANCESCO FU D. PIETRO E LUMIA [intende contrarre matrimonio con] D. ROSARIA PITROZZELLA D. GIOVANNA VED. DEL
FU D. GIUSEPPE SALVAGGIO.
Nell’anno che intercorre tra i due matrimoni
cessa di vivere don Pietro Matrona, il capostipite della famiglia tanto
celebrata da Sciascia. Tutti e tre i figli maschi ne ereditano il prestigio ed
il notabilato a Racalmuto. Uno come sacerdote beneficiale (come abbiamo visto)
e gli altri due in vetta alle maggiori cariche amministrative del paese. Ma
sarà nel secolo successivo che i Matrona domineranno incontrastati, almeno fino
a quando, nella parte terminale dell’Ottocento la ruota girerà e la decadenza
sarà inarrestabile. In tempo. Comunque, per meritarsi queste impareggiabili
chiose del grande scrittore racalmutese: «Pare che.. la sua [della contrada
Noce] fortuna come luogo di villeggiatura [le sia venuta] dal fatto che una
grande famiglia vi abbia costruito, alla fine del settecento, quando venne di
moda la fuga dalla citàà nell’estate, una casa grande come un castello … Ma nei
primi anni del nostro secoloquella grande famiglia si estingueva, così come si
estinguono in Sicilia le grandi famiglie.»[1] E
per giunta: «Dall’unità d’Italia in poi, direttamente o per interposte persone,
l’amministrazione comunale era stata nelle mani di una famiglia che appunto per
amministrare il comune disamministrava il proprio patrimonio o, più
esattamente, andava travasandolo nel patrimonio pubblico: la famiglia Matrona.
Non nobile – e del resto nel paese una sola famiglia aveva titolo nobiliare,
quella dei baroni Tulumello che fu rivale ai Matrona: incerta però resta la
legittimità del titolo – ma di grane e vera nobiltà nel comportamento, negli
intendimenti, nelle opere. A loro, ai Matrona, si devono scuole, uffici
comunali, strade selciate, fognature, macello, fontanelle rionali, teatro. … E
non solo i Matrona si occuparono di sanare e abbellire urbanisticamente il
paese, di dargli uno splendido teatro e di farlo attivamente funzionare, ma
anche della sicurezza sociale. … Naturalmente i Matrona avevano dei nemici: ma
si scoprirono più tardi, aggregandosi alla famiglia Tulumello. … E si capisce che nel giro di mezzo secolo i
Matrona furono poveri, sicché fu facile ai loro avversari batterli: col
conseguente effetto di un ritorno del malandrinaggio, della mafia, delle
usurpazioni e prevaricazioni. » [2]
Dinamica sociale in seno agli
ottimati sel settecento racalmutese.
Il
Cinquecento a Racalmuto si era chiuso con amministratori che o erano familiari
del conte (vedi il Russo) o suoi strettissimi affiliati. Taluni di tali
notabili resistettero nel Seicento, altri sparirono. L’esordio del secolo dei
lumi vedeva in declino i Del Carretto (sino alla loro totale estinzione) e di
conseguenza il diradamento delle famiglie della locale orbita comitale. Con
l’avvento dei Gaetani, l’amministrazione comunale, le pubbliche funzioni, gli
incarichi esattoriali, quelli dell’amministrazione della giustizia e della
tutela dell’ordine pubblico, e simili passano a funionari di fiducia del nuova
padrone di stanza a Naro. Sono soprattutto notai forestieri che scendono in Racalmuto,
sposano qualche figlia del locale notabilato e vi mettono le radici. Notai come
i Vaccaro, i Picataggi, i Vinci prendono il posto di ceppi d’eccellenza che si
disperdono o decadono come i Piemontesi, gli Afflitto, gli Alaimo, i
Monteleone, gli Ugo, gli Amella, i Tudisco, i Salvaggio, i Promontori, i
Chiccarano, i Fanara, i Catalano, i Justiniano.
A
metà secolo, i maggiorenti sono ora tutti raccolti in una famiglia baronale – i
Grillo – scomparsa nell’ottocento, quando il relativo patrimonio trasmigra ad una famiglia collaterale, i Bordonaro di Canicattì. A fianco, abbiamo i
Gambuto, i Pomo, i Vinci, i Bellavia, i Matina ed i Picataggi. Lo scenario di
fine secolo sarà ancora diversificato. Gente forestiera come gli Impellizzeri,
i Perrone, gli Scimonelli, i Mannarà, fanno una fugace apparizione e poi
ritornano nei loro luoghi dìorigine senza lasciare traccia a Racalmuto. I nuovi
quadri dirigenti restano però contrassegnati dagli ottimati locali quali i
Picataggi, gli Amella, i Grillo e Pistone, i Matrona, i Fucà, i Cavallaro, i Lo
Brutto, gli Scibetta, i Gambuto, i Tulumello, i Tirone, i Grillo e Brutto, i
Pomo, i Grillo-Alessi, gli Sferrazza, i Vinci, i Baeri, i Mattina, i Bellavia,
i Farrauto, i Savatteri, i Grillo-Ingrao, i Grillo ed Alessi.
Ma
sono le fortune che cambiano. Ad inizio del secolo, le famiglie di maggior
reddito non erano molte e gravitavano attorno ai cospicui patrimoni di taluni
sacerdoti come il Signorino, don Santo La Matina, i Casuccio, i Baera (per non
ripetere quanto detto sulle acquisizioni terriere e immobiliari dei Cavallaro).
A metà del
secolo, la locale crestomazia è molto più estesa ed investe patrimoni
notevolissimi come quelli dei Grillo, dei Pumo, dei Savatteri, degli Sferrazza,
degli Scibetta, degli Spinola e dei Vinci. Da un documento contabile del 1763 i
proprietari terrieri con una disponibilità di frumento oltre le 20 salme non
superano i 29 nominativi, come dal seguente quadro:
Denominazione
|
Salme
|
Alfano m.°
Giuseppe del quondam Bartulo
|
65
|
Alfano sac. d.
Filippo
|
30
|
Avarello sac.
d. Alberto
|
75
|
Burruano
Giuseppe del quondam Marcello
|
28
|
Busuito Grispino
|
26
|
Campanella sac.
d. Stefano arciprete
|
100
|
Conti sac. d.
Gerolamo
|
26
|
Di Franco m.°
Agostino
|
40
|
Farrauto sac. d.
Santo
|
220
|
Gambuto don
Francesco Antonio
|
50
|
Grillo don
Antonio
|
802
|
Grillo don
Antonio come Governadore di Racalmuto dice avere nelli magazini della
Segrezia di detta terra a nome di detta
|
703
|
Grillo don
Antonio Maria
|
91
|
Grillo don
Gaetano
|
306
|
Grillo e Poma
Dr. Don Barone Niccolò
|
132
|
Grillo sac. d.
Salvadore Maria
|
160
|
La Licata Paulo
|
25
|
Mantione sac. d.
Antonino
|
27
|
Nalbone sac. d.
Benedetto
|
360
|
Picone Chiodo
Nicolò
|
42
|
Pomo fra'
Giuseppe Priore del venerabile convento del Carmine
|
26
|
Rizzo don
Vincenzo
|
24
|
Savatteri sac.
d. Michel'Angelo
|
21
|
Scibetta e
Franco sac. d. Giuseppe
|
30
|
Scibetta ed
Alfano sac.d . Giuseppe
|
70
|
Scibetta m.°
Stefano
|
160
|
Tulumello
Giovanne
|
70
|
Tulumello
Giuseppe
|
70
|
Vinci don
Calogero
|
26
|
Certo
la distribuzione è tutt’altro che omogenea: i Grillo appaiono su un livello del
tutto eccezionale e si discostano enormemente dalle possidenze degli altri.
Sono tre soli quelli che, a distanza, emergono: don Benedetto Nalbone, don
Santo Farrauto, mastro Stefano Scibetta ed infine l’arciprete Campanella.
R La
famiglia Savatteri
Grande è sta l’importanza della famiglia Savatteri: emergente nel Cinquecento, notevolissima nel Seicento, ebbe splendori nel Settecento, ma fu nell’Ottocento che fu dominante, specie dopo l’unità d’Italia, per eclissarsi alla fine di quel secolo. Qui ci intratteniamo sul filone settecentesco. Sono, ovviamente, gli ecclesiastici della famiglia ad avere lasciato tracce storiche. Iniziamo da don Francesco Savatteri.
Sac. Francesco
Savatteri (1654-1712)
Appena
diacono nel 1677, svolge poi un ruolo di un qualche rilievo il sacerdote
Giuseppe Savatteri. Lo incontriamo per la prima volta così contrassegnato:
1
|
1677
|
FRANCESCO
|
SAVATTERI
|
DIACONO a 23
|
Nel
registro della Matrice “in quo adonata
reperiuntur nomina plurorum sacerdotum”
vi sono queste altre scarne notizie:
n.° 170
della c. 8: D. Francesco Savatteri, collegiale obiit 8 7bris 1712 di anni 58.
Nasce
dunque nel 1654 e dopo il marzo del 1676 dovette venire consacrato sacerdote
come risulta da un libro della Matrice intestato: "Liber
Denunciationum in hac Matrici Eccl.a Racalmuti XII. ind. 1673 - S.T. D.re D.
Vincentio Lo Brutto Archipresbitero" . Nel marzo del 1676 vi è annotato:
s'havi da ordinare in sacris nella
prossima ordinazione di marzo cl. Francesco Savatteri; cl. Vincenzo
Castrogiovanni; cl. Davide Corso; cl. Antonino d'Amico; cl. Vincenzo Casuccia.
Nel 1686 è
di sicuro confessore “adprobatus”; per
lo meno dal 1693 è uno dei cappellani della matrice. Quando, nel 1690,
l’arciprete d. Vincenzo Lo Brutto riesce ad organizzare l’istituto delle
celebrazione delle messe per i morti, la cosiddetta “communia”, il nono dei
dodici “mansionari” è appunto don Francesco Savatteri: la sua famiglia, nel
contesto della società contadina, esce dall’opaco burgisato per cominciare ad aspirare al ruole eminente dei
“galantuomini”.
I documenti
della istituzione della “communia” li abbiamo rinvenuti nell’archivio vescovile
di Agrigento e sono riportati nell’allegato n. 6. Il padre Morreale nel suo
libro sulla Madonna del Monte s’imbatte per due volte - pag. 43 e pag. 44 - nel
nostro padre Francesco Savatteri: come “dirigente” della confraternita della
Madonna del Monte (bolla vescovile del 1679) e come coadiutore del sac. Lo
Sardo nella rettoria della chiesa sacramentale di Maria SS. Del Monte.
In un atto
datato: A 29 ottobre X^ Indizione 1687
[rectius 1686], il sac. Francesco Savatteri risulta proprietario di vigne
in contrada Bovo, giusta il passo seguente:
Vendizione di una vignia con sue alberi ed altri
existente nello fego di questa Terra di Racalmuto e nella contrata di Bovo
confinante con la vignia di d: Francesco Savatteri e con la vignia
dell'infrascritto d. Gio:Battista Baeri che fà mastro Pietro Facciponti di
Racalmuto al su detto di Baera di Racalmuto: Suggetta in tt. quattro per
raggione di proprietà dovuta all'Ill.mo Conte di Racalmuto. La possessione
della quale ci la diede lo stesso giorno, per lo prezzo di -/ novi giusta la
stima fatta per Isidoro Pitrozzella e Marco Ristivo presente etc. il prezzo
della quale il detto di Facciponti lo confessò de contanti.
Ch. Stefano Savatteri (+1742)
Un fugace
accenno nel Liber in quo ... di tal
chierico Stefano Savatteri, qui obiit primo februarii 1742. Disponiamo anche
dei seguenti altri dati:
1736
|
STEFANO
|
SAVATTERI
|
CHIERICO LICENZIATO
|
Sac. Michele Savatteri ( +1756)
Nel liber prima citato troviamo
(n.° 255 c. 13) D. Michele Savatteri, obiit 24 7bris 1756.
Sac. Michelangelo Savatteri (nato: 1696 + 1765).
E’
personaggio di spicco. Ecco come viene anotato nel Liber n.° 274 - c. 14: D. Michelangelo Savatteri, collegiale, obiit
die 28 7bris 1765 - d’anni 65. Nel rivelo del 1763 non è indifferente la
rispondenza patrimoniale del Savatteri che dispone di ben 11 salme di frumento
come dalla seguente specifica:
Savatteri sac. d.
Michel'Angelo, rivela s. 21 ff. raccolto
XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per
soccorso di detto sem.° e sem.° di legumi ed orzo, s. 4 dati in accordo e s. 10 per mangia e commodo
di casa.
Su 125
dichiaranti è il 29° anche se è ben lontano da quello che rivela il sac. Don
Benedetto Nalbone (360 salme): è ancora lontana la competizione tra le due
grandi famiglie, competizione che toccherà l’acme alla fine dell’Ottocento. Ma
è già un sintomo il fatto che rispetto a Giovanni Nalbone (salme 10) il sac.
Michelangelo Savatteri appaia facoltoso più del doppio.
Risulta
altresì che nel 1736 il Savatteri fosse confessore approvato per il monastero:
1736
|
MICHELANGELO
|
SAVATTERI
|
ANNI 4O
CONFES.DEP.MONASTERO
|
Nei riveli
del 1754, don Michelangelo Savatteri figura come un magistrato locale:
Die 13 Maij 1754 Presentat. deci. que. d. Michael. Savatteri Mag. ...
Un paio
d’anni prima v’era stato l’ordine di denunciare tutti gli atti di compravendita
aventi per protagonisti i religiosi locali, preti secolari compresi. Tanto
doveva avvenire:
nell'Officio di questa Deputazione locale per ordine
dell'Ill.mo Monsignor Vescovo di Girgenti per sua significat.a sotto li setti
Maggio. In virtù di bando di S.E. promulgato in questa sotto li 10 dicembre
1752..
In un inciso,
c’imbattiamo nel sac. Michelangelo Savatteri, definito “magister notariorum”:
Presentatione de ordine quo supra D. Michel. i Savatteri Mag. Not.
Nel corpo
di quegli atti, affiorano, incidentalmente, alcune proprietà del Savatteri come
una bottega in piazza:
E più tarì 6 da don Giuseppe Bellavia sopra la speziaria
nella piazza confinante colla bottega di d. Michelangelo Savatteri, e case
del d.o Bellavia ............................ -/ 4
terre in
contrada Bovo:
Esigo di più da Soro Angela La Matina tt. tre e gr. 6
e piccioli tre sopra terre contrada Bovo confinanti con terre del Rev. Sac.
don Michelangelo Savatteri d'ogni parti che ragionati al 5% il capitale
importa -/ due e tarì se e grana tre, d.o
................................................................ -/2.6.3
D. Giovanni Savatteri (1713-1778)
Il Liber
annota: n.° 289 c. 15 D. Giovanni
Savatteri - predicatore, morì a Palermo il giorno 1° maggio 1778 - anni 65. In
un registro delle pubblicazioni parrocchiali, l’ascesa agli ordini sacri è
seguita passo passo con i seguenti bandi:
2 FEBBRAIO 1732
Il Cl. Giovanni SAVATTERI di questa terra di Racalmuto
desiderando ascendere all'Ordini Sacri si ha costituito il suo patrimonio,
pertanto se alcuno sapesse che il d.to patrimonio sia simulato,
fiduciario o che non sia bastante o di realta' dal detto Cl. o che il sud.to di
SAVATTERI sia di mali costumi, inquisito, querelato,processato, o
che habbia altro impedimento canonico per non
potere ascendere all' ordine del Suddiaconato, come se
fosse irregolare, illegitimo o simile impedimento lo venghi a rivelare.
2 FEBBRAIO 1732
Il Cl. Giovanni SAVATTERI di questa terra di Racalmuto
desiderando ascendere all'Ordini Sacri si ha costituito il suo
patrimoniouna Cappella di onze 10 annuali con l'onere di Messi dieci
fondata nell'altare di. S. Leonardo in Serra di Falco come appare per
contratto di fundat.e ed elettione stipulato per l'atti di
N.o Simone BONI' sotto li 14 Gennaro 1732 ed in Supplimento una Vigna
consistente in migliara cinque con Tumuli due e Mondelli due di
terre vacue confinata con la Vigna di N.o Michael
Vaccaro, e altri confini nella contrada di BOVO e numero cinque
case conlaterali confinati con le casi di d. Vincenzo La Matina nel
quarteri del Monte in virtu' di donatione stipulata per l'atti di
N.o Nicolo' Pumo. pertanto se alcuno sapesse che il d.to
patrimonio sia simulato fiduciario o che non sia bastante o
di realta' dal detto Cl. o che il sud.to di SAVATTERI
sia di mali costumi, inquisito, querelato, processato, o che
habbia altro impedimento canonico per non potere ascendere
all' ordini sacri, come se fosse irregolare,
illegitimo o simile impedimento lo venghi a rivelare.
24 31 AGOSTO, 4 SETTEMBRE 1732
Il Sudiacono Giovanni SAVATTERI di questa
terra di Racalmuto desiderando ascendere all' ordine
Diaconale si ha costituito il suo patrimonio, pertanto se alcuno sapesse
che il d.to patrimonio non essere bastante o di realta'dal detto
Suddiacono o che il sud.to di SAVATTERI sia di mali costumi,
inquisito, querelato, processato, o che habbia
altro impedimento canonico per non potere ascendere al
Diaconato, come se fosse irregolare, illegitimo o simile impedimento lo
venghi a rivelare.
30 NOVEMBRE, 7 DICEMBRE XI Ind. 1732
Il Diacono Giovanni SAVATTERI di questa terra di
Racalmuto desiderando ascendere all' ordine Sacerdotale si ha costituito
il suo patrimonio, pertanto se alcuno sapesse che il d.to patrimonio non essere
bastante o di realta' del detto Diacono o che il sud.to di SAVATTERI sia di
mali costumi, inquisito, querelato, processato, o che habbia altro
impedimento canonico per non potere ascendere al d.o Ordine Sacerdotale,
come se fosse irregolare, illegitimo o simile impedimento lo venghi a rivelare.
Sac. Francesco Savatteri (operante dal 1731 a dopo il 1763)
Il Liber lo ignora, ma di lui si hanno
notizie sin dal 1731 allorché era un chierico tonsurato:
16
|
1731
|
FRANCESO
|
SAVATTERI
|
CHIERICO TONSURATO
|
E’ però
presente nel rivelo frumentario del 1763 ove, con le sue 8 salme di frumento
dichiarate, è alla pari con il celebre sacerdote d. Elia Lauricella:
Savatteri don
Francesco, rivela s. 4 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 3
per simenza, s. 2 per soccorso di d.° sem.° e s. 3 a comp. di dette s. 8 per
mangia
Il servo di
Dio p. Lauricella aveva infatti dichiarato:
Lauricella sac. d.
Elia, rivela s. 8.8 ff. raccolto XI ind. 1763, delle quali mi bisognano s. 7
per simenza e mi bisognano salme 10 per mangia almeno di dieci persone
Sac. Giuseppe
Savatteri e Brutto (1755-1802)
Bello,
elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere
- questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle della
locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di
infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche per
prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e
intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo potente (e
dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del beneficio del
Crocifisso, su cui ci diffonderemo altrove.
Quando, il
Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello -
si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di
dilatare il senso di un documento giudiziario - che invece di venire custodito
negli archivi del Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per
dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori, che fra l’altro
lo facevano studiare da medico a spese dell’Amministrazione comunale.
Quello su
cu il Tinebra trama è un carteggio del Caracciolo su cui abbiamo avuto modo di
effettuare nostre personali ricerche. Iniziano dal 16/2/1785 gli appunti del
Caracciolo sulla questione[3]:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze
di giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die
16 - Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo
esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del
terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la
Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche
esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie
e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non
vedersi pur troppo soverchiati.»
E, quindi,
in data 12.3.1785:
«32. [4]L’avvocato fiscale Vagginelli proceda quel che
convenga ed avendo di riferirlo, dica- A 12 Marzo detto - Li singoli di
Racalmuto: V. E. rimise le pendenze loro col barone all’avv.to sig.re
Vagginelli. Innanti a costui facendosi dui contraddittorij vi interviene il
Cav.e fratello del principe di Pantelleria, che ha procura. E poiché per
rispetto che vuole esigere molte cose
bisognano trovarsi e li professori
concepiscono qualche timore, prega V.E. di ordinare che tal Cav.e
non intervenga più nei contraddittori ma
con i singoli e il Barone.»
«12 - L’avv.to fiscale barone Vagginelli
informi col parere - 22 marzo - Li singoli di Racalmuto. Il suggello della
verità lo tiene in potere il governatore baronale, ed occorrendo di suggellarsi
l’investitura questa si deve suggellare dal Barone e si suggella quando a
costui piaccia. Ciò essendo un inconveniente molto più quando occorre a singoli
di suggellare scritture contrarie al ripetuto Barone.
«Pregano l’E.V. di ordinare che il suggello si riformi
con il ricorso al Re, e che debba riservarsi al mastro notaro della Corte
Giuratoria.»
«4. L’avvocato fiscale Barone Vaggianelli
disponga perché urgendo le provvidenze che siano convenienti per la superiore,
che riferisca col parere - 29 marzo 1785 -
Don Stefano Campanella arciprete di Racalmuto - Dietro un raccolto
sterilissimo ed una tirannica esazione fatta dall’arrendatario di questa
terra don Giuseppe Savatteri ... trovasi in oggi questa Popolazione in
somma necessità a segno che non si può riparare, e si teme di qualche
tumultuazione per la fame, e dal ricorrente e da altri preti si à soccorso per
quanto debolmente si è potuto, ma si prevede maggior necessità in questi mesi
che sono li più poveri.
«E’ perciò da credere opportuno che dovendo dal
amministrare pagare per maggio onze 1000 al Principe della Pantelleria gliene
paghi medietà, e l’altra medietà distribuirsi per aiuto a poveri, che si
obbligano in agosto pagare; prega V.E. di ordinare l’esecuzione di tale
distribuzione a quattro persone elette da chi invochi, dapoiché quei Giurati
son poveri e senza veruna abilità.»
Il dato di
maggior risalto è quello contenuto nel biglietto datato 11 aprile 1785:[7] abbiamo
questo richiamo storico:
«13 - L’avvocato faccia quel che convenga per
l’accertamento della giustizia e della legalità. - 11 aprile 1785 - Li singoli di Racalmuto. - Nel 1559 don
Giovanni del Carretto ebbe venduto il mero, e misto impero dal viceré don
Giovanni della Cerda sopra la Baronia di Regalmuto per il prezzo di onze
seicento, cioè cinquecento l’ebbe allora il Governante, e le onze 100 le dovea
dare qualora veniva continuata la vendizione da S. M. fra il termine di un
anno.
«Sino al presente giorno non è stato possibile
dimostrarsi detta rattifica, o confirma; ed è segno evidente che la M.S. non
l’abbia concessa. Che perciò li ricorrenti .. pregano l’E.V. di ordinare che il
Barone di Ragalmuto che è oggi il Principe di Pantellaria, che per esercitare
il mero, e misto dimostri all’E.V. il titolo.»
Al Tinebra
Martorana mancano competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda
della lotta al baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo
(l’agiografica visione dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia
oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate
“notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica
(pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore
di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di
rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali. Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun
approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo Sciascia[8]:
«Ecco il
rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi
praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza
analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere
dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito,
contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio
del Crocifisso. Per una di quelle strane coincidenze storiche, il Busuito era
parente stretto della moglie del notaio Nalbone.
Prosegue
Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte
ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggettiche
il sacerdote Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo
crederanno ma la cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a
noi pare che le cose erano molto più complesse e coinvolgono la poltica dei re
Borboni di Napoli, che è quanto dire.
D. Giuseppe
Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giusppe Savatteri e Brutto, 27
februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della
Communia. Il Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della
Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a
celebrare per i confrati defunti: subisce delle sanzioni. Vediamole:
GIUSEPPE SAC. D.
|
SAVATTERI
|
n. undeci messe cioè n. 9 per l' ... e n. 2 per pena
d'essere stato negligente in scrivere le d. messe.
|
Così
risulta annotato in registri della confraternita. Dopo di lui, i religiosi
della famiglia Savatteri appaiono come scialbe figure. Eccole.
Diacono Gaetano Savatteri (+ 1809)
Viene così
annotato nel liber: n.° 323 c. 20 D.
Gaetano Savatteri, Diacono - obiit 21 7bris 1809 - d’anni 23.
Sac. Nicolò Savatteri (+ 1842)
Viene così
annotato nel liber: n.° 374 c. 22 D.
Nicolò Savatteri - obiit 16 7bris 1842 - d’anni 80, mesi 8. E’ varie volte
citato nei registri della Mastranza come sacerdote celebrante. Aliunde, apprendiamo che:
30
|
1807
|
NICOLO'
|
SAVATTERI
|
A.46 CONFESSORE PRO
UTROQUE
|
6
|
1830
|
NICOLO'
|
SAVATTERI
|
A.68 MANS.CONF.UTROQUE
ORDINARIO
|
Padre Carmelo Savatteri, carmelitano.
Il Liber
non accenna ai religiosi carmelitani della famiglia Savatteri. Il primo è
appunto il padre Carmelo che fu priore del locale convento, come si apprende
dalle seguenti annotazioni:
51
|
1807
|
CARMELO
|
SAVATTERI
|
A.42 PRIORE CONVENTO
CARMELO
|
44
|
1830
|
CARMELO
|
SAVATTERI
|
A.60 CARMELITANO PRIORE
|
4
|
1839
|
NICOLO'
|
SAVATTERI
|
BENEF. CONFES.PRO UTROQUE
|
Padre Elisio Savatteri, carmelitano.
Valgano anche per lui le precedenti note.
Sappiamo, inoltre:
54
|
1807
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
A.38 CONVENTUALE CARMELO
|
34
|
1839
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
CARMELITANO,PRIORE.CONF.UTROQUE
|
38
|
1847
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
A.70 CARMELITANO
CONF.UTROQUE
|
36
|
1851
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
A.72 CARMELITANO
|
La controversa questione del beneficio del Crocifisso.
Nell’intricata
controversia giudiziaria del beneficio del Crocifisso di Racalmuto, i Savatteri
vi entrano prepotentemente per due volte: nella prima, è attore il sac.
Giuseppe Savatteri e Brutto, a ridosso dell’Ottocento; nella seconda un
patetico personaggio: Giuseppe Savatteri, sposato con una Matrona. Siamo
nell’ultimo quarto del secolo scorso. In entrambi i casi i Savatteri finirono
soccombenti e gabbati. Ma procediamo con ordine.
La vicenda del beneficio del Crocifisso è lunga, tortuosa ed intrigante ed ha dato
adito ad almeno un paio di complicate vertenze giudiziarie. Leggiamo nella
bolla che si tratta dei seguenti beni:
in oppido
praedicto reperiatur Ecclesia Sancti Antonij jam diruta cum Immagine SS.mi
Crucifixi quae detinet salmas tres et tumulos quatuor terrarum in pheudo Mentae
Status Racalmuti cum onere proprietatis unciae 1.6. aliam clausuram terrarum
salmae unius tumulorum quatuordecem et quarti unius cum dimidio in dicto Statu
et pheudo Racalmuti et contrata di Garozza cum onere proprietatis unciae
1.6.7.3. et tarinorum viginti quatuor Conventui Sancti Francisci de Assisia
dictae Terrae.
Negli atti giudiziari dell’arciprete Tirone avverso i
coniugi Giuseppe Savatteri e Concetta Matrona abbiamo la ricostruzione della provenienza di
tali beni. Come risulta da un atto del 3 settembre 1659, la Confraternita del
SS. Crocifisso di Racalmuto aveva diritto ad un canone di proprietà
«primitivo veluti jus pheudi et
proprietatis su terre della Menta e Culmitella». Trattavasi, in base a quel che
si desume da altri atti, di un fondo di quattro salme e tumoli sei di terre
ubicate nel feudo Menta, contrada Fico Amara, detta - secondo l’arc. Tirone -
«in quei tempi Mercanti». Del resto
aggiunge l’arciprete che «il nome di contrada fico amara e Mercanti andiede in
disuso. Questa contrada prese nome di SS. Crocifisso.»
Non essendo stato pagato tale canone per più di un
triennio, ed essendo state le suddette terre abbandonate, la confraternita del SS. Crocifisso esperì il diritto domenicale di avocazione del
fondo per distruzione di migliorie, mancata corresponsione del canone ed
abbandono delle terre dell’enfiteuta che era tal Giaimo Lo Brutto. Essa, pertanto, fu immessa
nel pieno possesso delle cennate terre della Menta secondo il rito del tempo con atto notarile
del 3 settembre 1659, redatto innanzi a
quattro testimoni.
Gli atti giudiziari tacciono sulle vicende che
intercorsero tra il 1659 ed il 1767, un intervallo di tempo in cui si colloca
la dotazione dell’Oratorio Filippino. Intanto non so su che cosa basi l’arc.
Tirone il ruolo sostenuto dalla Confraternita del SS. Crocifisso. Di questa conosco il vago
accenno contenuto nell’elenco della Giuliana della Curia Vescovile - voce
Racalmuto, pag. 205 - che riguarda la «conferma della
Conf.ta del SS. Crocifisso - reg.tro 1669-70, pag. 488». Ma qualche chiarimento lo troviamo in
quest’atto del 10 ottobre 1648 del notaio Michelangelo Morreale. Trattasi della «recognitio
pro Archiconfraternitate SS.mi Crucifixi contra Donnam Vittoriam del Carretto e Morreale». In esso la Del Carretto (del ramo
collaterale dei locali conti) si obbliga di corrispondere al «Rev. D. Joseph Thodaro .. uti procuratori
venerabilis Archiconfraternitatis SS.mi Crucifixi fundatae in Ecclesia Sancti
Antonii huius terrae Racalmuti .. uncias quinque red. ann. cens. et red.bus
dictae Archiconfraternitatis cession. nomine Petri Piamontesio et alijs
nominibus in scripturis debitas, et anno quolibet solvendas supra loco qui olim
erat dicti quondam de Monteleone vigore contractus emphiteuci celebrati in
actis notarij Nicolai Monteleone die XXIIIJ Maij XII ind. 1584 et contractus
solutionis donationis et assignationis
in actis not. Simonis de Arnone die 31 aug. 1605 et aliorum
contractum in eis calendatorum.» inoltre
«supradicta Donna Victoria .. solvere promisit .. seque sollemniter obligavit
et obligat eidem de Thodaro dicto nomine pro se et pro successoribus in dicta
Archiconfraternitate in perpetuum uncias centum quatraginta una p.g. tempore
annorum decem in decem equalibus solutionibus et partitis anno quolibet facere
numerando et cursuro a die date literarum Civitatis Agrigenti ... Et sunt
uncias 141 in totalem complimentum omnium censuum decursorum annorum
retropreteritorum enumerandorum ab anno 1608 usque et per annum presentem
inclusive , ratione d. unc. quinque anno dictae Archiconfraternitate debitae
super dicta vinea.»
Quell’arcicofraternita era dunque operante dentro la
chiesa di S. Antonio e siamo
nel 1648. Ne è procuratore il sac. d. Giuseppe Todaro che muore il 7 maggio
1650.[9]Successivamente
alla morte del sacerdote Todaro, si rinviene l’atto del 3 settembre 1659 di cui
sopra; dopo dell’arciconfraternita si perdono le tracce e tutto fa pensare che
si sia estinta: si spiega forse così perché in un primo tempo i benefici di
quel sodalizio finirono all’Oratorio di S. Filippo Neri, per volere del Vescovo
Rini.
Nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti quei
beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D.
Francesco Busuito. La ricostruzione di un successivo beneficiario, il sac. Don
Calogero Matrona,
fatta il 15 giugno 1870, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - vi
si legge fra l’altro - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo
Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium Parochi di libera collazione da conferirsi a
concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco
nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno
nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del
beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione,
dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il
Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui
si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di
lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso
Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco
Busuito di
Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e
dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un
Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al
beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un
avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri
qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al
Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro
il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i
fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto
Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva
onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre
esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo
Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato
di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per
attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei
suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza
figura di giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di
quei fondi e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero
autorizzati a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto
enfiteuco solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo
meno il pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di
propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti
di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind.
1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le
onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle
fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor
Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al
sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e
facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione.
Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto
al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo
sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni
inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del
Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri,
dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta
evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a
lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione
del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle
più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del
Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece
ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei
Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di
costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione
pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e
desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto
che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la
pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni
proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente
usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio,
perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la
prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la
verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in
minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale
investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con
decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa
Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella
minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo
della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali
sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii
[...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don
Calogero Matrona,
con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo
1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe
Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi,
appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue
memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in
proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902
pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di
padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Altri dati sui Savatteri del ‘700
Le numerazioni delle anime della Matrice di Racalmuto
riprendono a metà del settecento. Spigoliamo questi dati sui Savatteri di quel
secolo.
Elenco dei capifamiglia nel censimento del 1753
1) Giuseppe Savatteri di
Giacomo, di anni 32; Rosa, sua madue di anni 70.
2) Vincenzo Savatteri di
Giacomo di anni 48; Giovanna, moglie di anni 38; Domenica, figlia di anni 20;
Nicola figlia di anni 18; Giuseppa figlia di anni 15; Calogera figlia di anni
12; Stefana figlia di anni 10; Giacomo figlio di anni 2.
3) Francesco Savatteri di
Giacomo di anni 32; Angela moglie di anni 24; Maddalena figlia di anni 3;
Calogero figlio di anni 5.
4) Vincenzo Savatteri di
Ignazio di anni 44; Rosa moglie di anni 33; Giovanna figlia di anni 13; Carmela
figlia di anni 11; Grazia figlia di anni 9; Mariano figlio di anni 8.
5) Antonia Savatteri
vedova d’Ignazio di anni 66.
6) Mastro Antonino
Savatteri di anni 59; Maria moglie di anni 56; Sr. Angela Maria figlia di anni
27; chierico Giuseppe figlio di anni 22.
7) Giuliano Savatteri
d’Ignazio di anni 34; Antonia moglie di anni 21; Sebastiana figlia di anni 1.
8) Francesco Savatteri di
anni 39; Dorotea moglie di anni 28; Giuseppa figlia di anni 15; Filippa figlia
di anni 11; Vincenzo figlio di anni 9; Gaspare figlio di anni 6; Stefano figlio
di anni 2.
9) Don Sac. Michel’angelo
Savatteri di anni 55; Francesca Maria sorella di anni 41; Cruci serva di anni
52.
Dalla Numerazione delle anime del 1762.
Francesco
Savatteri di Giacomo di anni 28; Angela moglie di anni 22; Maddalena figlia di
anni 8; Giuseppa figlia di anni 1; Calogero figlio di anni 4.
Vincenzo
Savatteri di Giacomo di anni 52; Giovanna moglie di anni 42; Giuseppa figlia di
anni 19; Calogera figlia di anni 16; Stefana figlia di anni 14; Giacomo figlio
di anni 6; Angela figlia di anni 4.
Giuseppe Savatteri
di anni 36; Maria moglie di anni 30; Antonia figlia di anni 4; Calogera figlia
di anni 1.
Antonino
Savatteri di anni 44; Rosa moglie di anni 43; Carmela figlia di anni 17; Grazia
figlia di anni 13; Mariano figlio di anni 12.
Giuliano
Savatteri di anni 38; Antonina moglie di anni 30; Raffaele figlio di anni 3;
Carmela figlia di anni 1.
mastro Antonino
Savatteri di anni 63; Maria moglie di anni 50; don Giuseppe figlio di anni 28.
Don Francesco
Savatteri di anni 43; donna Dorotea moglie di anni 39; Giuseppa figlia di anni
20; Vincenzo figlio di anni 13; Gaspare figlio di anni 10; Stefano figlio di
anni 6; Calogero figlio di anni 4; Giuseppe figlio di anni 2; Leonardo figlio
di anni 1; Antonia serva di anni 39.
Reverendo don
Michelangelo Savatteri di anni 65; Mita sorella di anni 50; Apollonia serva di
anni 40.
Nicolò Savatteri
[parte del foglio abrasa]; Grazia moglie; Vita figlia; Calogero figlio.
Dalla Numerazione delle anime del 1795
1.
Don Stefano Savatteri; donna Catarina moglie.
2.
Don Gaspare Savatteri; Donna Angelica moglie; Concetta
figlia di anni 16; Gaetano figlio di anni 12; Leonardo figlio di anni 5;
Antonia di anni 10.
3.
Calogero Savatteri libero; Giuseppa sorella libera.
4.
Mariano Savatteri; Vincenza moglie; Domenica figlia di
anni 8; Santa figlia di anni 14; Rosa figlia di anni 6; Santo figlio di anni
19; Antonio figlio di anni 17.
5.
Giuseppe
Savatteri; Antonia moglie; Biaggio (sic) figlio di anni ...
6.
Don Giuseppe Savatteri; Giuseppa; Rev. Don Nicolò
figlio; Raffaela figlia di anni 23; Fidela figlia di anni 21; Luiggi (sic) di
anni 17.
7.
Don Vincenzo Savatteri.
Rev.
Don Giuseppe Savatteri; donna Dorotea madre; D. Giachino Brutto; donna Giuseppa
di anni 46; Rosa nipote di anni ...; Pasquala serva.
La
storia della famiglia Savatteri appare, davvero, uno spaccato della media
borghesia racalmutese, quale si va configurando nel secolo dei lumi per
consolidarsi nell’Ottocento, come meglio vedremo a suo tempo.
Racalmuto
del Settecento nelle carte del fondo Palagonia.
Tra
le carte del fondo Palagonia – pervenute all’Archivio di Stato di Palermo dalla
famiglia dei Gaetani [10]
- ricaviamo questo documento che ci pare illuminate per la storia feudale
racalmutese, nel suo dteriorarsi settecentesco:
[f. 5]
Ecc.mo Signore
il Ill.mo duca d. Luiggi Gaetano
possessore del Stato e terra di Recalmuto N.bus nelle sue scritture dice a V.E.
che il sudetto stato si ritrova in deputazione ed amministrazione da più anni,
il cui giudice deputato ed amministratore attualmente si ritrova l’illustre
Preside d. Casimiro Drago, e con tutto che la gabella corrente di detto stato
si trova nella più alta somma che giammai non fu il pagato, tuttavia li
creditori suggiogatarijnon hanno potuto giammai ottenere l’intera annualità,
anziche nemmeno l’intera mezza annualità, tanto perché le suggiogazioni apo.te
trascendono di gran lunga l’introiti dello stato sudetto, quando ancora perché
consistendo la maggior parte delli introiti
da ... molini situati in parte di lavanchiki ricercano ogni anno spese
considerevoli per riparo di esse lavanche oltre le vacature che si bonificano
alli gabelloti di detti molini; per quei tempi che non macinano, motivo che
riflettendo oggi il supplicante ed anche le grosse spese di salarij ed altri
che cagionando da detta deputazione, ed amministrazione onde ha considerato
l’esponente come possessore di detto stato di Regalmuto, intervenendo prima che
la maggior parte dei creditori suggiogatarij sopra detto stato gradualmente
fare abolire che a detta deputazione ed amministrazione in circostanza anche di
non potere questa sussistere a tenore degli ordini di S.E. in data 16 agosto
1735 per il quale si stabilì come la deputazione che non possono pagare a
creditori l’annualità ed offerire a detti creditori suggiogatarij per conto
delle di loro respettive suggiogazioni, di pagarli il 60 per 100 ogn’anno per
l’importo di anni dieci; nel qual tempo però si devono consentire che
l’amministrazione di detto stato resti e si faccia per l’esponente, con che per
il consenso prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij non
se li possa dare nè inserire per detti dieci anni dalla minor parte di detti
creditori suggiogatarij veruna sorte di molestia talmente che li detti
creditori suggiogatarij in siffatta maniera vengono a conseguire ogni anno durante la suddetta decennale amministrazione dell’esponente non solamente
l’intiera mezza annualità in due .. di decembre e maggiodi ogni anno, che non
hanno mai conseguito, ma anche vengono a conseguire un’altra sesta parte oltre di detti pagamenti, ed inoltre tengono
la futura speranza di conseguire doppo la suddetta decennale amministrazione
maggior somma; per il che possedendo l’esponente senza deputazione il sudetto
stato independentemente d’ogni altro potrà facilmente invigilare all’augumento
delli introiti del medesimo in beneficio anche di essi creditori, onde in vista
di tutto ciò, considerando l’esponente che abolirsi la sudetta deputazione ed
amministrazione e contentarsi la maggior parte di detti creditori suggiogatarij
.. samministri su detto stato di Recalmuto per detti anni dieci del .. con
l’obbligo di pagare a detti creditori suggiogatarij il 60 per 100 come sopra
ogn’anno e durante la sudetta decennale amministrazione dell’esponente viene à
resultare anche in beneficio delli sudetti creditori suggiogatarij. Pertanto
ricorre a V.E. e la supplica si segni servita provedere ed ordinare che
prestandosi prima il consenso della maggior parte delli creditori
suggiogatarij, che non solo si abolisca la detta deputazione, ma anche cje la
minor parte delli creditori suggiogatarij, che forse non interverrà a prestare
il medesimo consenso, fosse tenuta ed obligata a concorrere colla maggior parte
di detti creditori suggiogatarij dalli quali si presterà il consenso nel modo e
forma di sopra espressati, ed acquiescerà e starà alla decennale
amministrazione in persona del supplicante con l’obligazione come sopra per il
medesimosenza che dalla detta minor parte di detti creditori suggiogatarij se
li possa dare, a riflesso del consenso
forse prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij per il
spazio di detti dieci anni, nessuna sorte di molestia nè cancellare l’atti
fatti per la medesima deputazione seu amministrazione, come s’ha pratticato per
l’altre deputazioni fin oggi abolite;
vel ... si vorrà ordonare che sopra l’abolizione suddetta interverrà il
consenso della maggior parte delli creditori suggiogatarij ed obbligare a detta
minor parte delli creditori suggigatarii di concorrere ed acquiescere come
sopra, come il tribunale della R.G.C. della Sede Civile, a cui spetta doversi
provvedere vocatis creditoribus e in vista del consenso che si presterà per
publici documenti della maggior parte dei creditori suggiogatarij, per
resultare in beneficio delli medesimi. E ciò non ostante quasivoglia cosa che
in contrario l’ostasse o potesse ostare, etiam che fosse tale che .. se ne dovesse farre espressa ed
individuale menzione quale s’habbia ..
per la sussistenza della presente, qualmente al tutto disponendo V.E. de
plenitudine potestatis et ex certa scientia ... Datun Primo Junij 1736 ex parte
G.S.d. Joseph Chiavarello .. vocatis
creditoribus per sp: de Paternò: Die sexto settembris 1736.
Jesus Maria
Item ista comm.do .., ac consensi
maioris partis creditorium, tollatur deputatio de qua agitur, solutis prius juribus
officialibus deputationis status ..
penes acta
per sp. de Joanni, Xileci, Paternò.
Copia Don Joannes Marchisi ..
Lo
stato dei “naturali” di Racalmuto, e cioè le loro disponibilità in frumento e
legumi, ci pare esaustivo in questo quadro statistico:
f. 302
Rivelo de naturali di Racalmuto e
di alcuni delle Grotte di tutti i generi e novali della Ricolta X.ma
Ind. 1762 prodotti nello Stato e territorio di detta terra, nel fego de’
Gibbellini e feudi d’Aquilìa e Cimicìa de RR. PP. Benedettini de Scalis:
forti
|
orzi
|
Fave
|
lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 1123:3
|
salme 578:2
|
salme 367
|
salme 113:19
|
salme 126:7
|
salme 133:3
|
Rivelo fatto da’ Reverendi
Sacerdoti di detta terra Jorati della SS.ma Inquisizione del Tribunale del
Santo Officio di tutti li prodotti come trova in detto anno:
forti
|
orzi
|
Fave
|
Lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 47
|
salme 36
|
salme 14:4
|
salme 0:3
|
salme 1:8
|
salme 4:1:3
|
Riveli de’ Chierici di detta Terra
fatto d’ordine di Monsignor Vescovo di Girgenti emanato sotto li 20 Agosto 1762
per li prodotti di detto anno:
forti
|
orzi
|
Fave
|
Lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 344:15
|
salme 154:14
|
salme 137:18
|
salme 7:4
|
salme 28:9
|
salme 26:9
|
A
fine secolo i fuochi erano saliti a 1961. In altra sede abbiamo scritto a lungo
sull’evoluzione demografica di Racalmuto. Qui ci limitiamo ad osservare che la
popolazione si era assestata a fine del Seicento intorno alle cinquemila unità.
Dopo sarebbe scesa, ma davvero essa si è notevolmente contratta sino a toccare
la quota di 4.757 nel 1713 (o secondo Maggiore-Perni nel 1714)[11]?
Noi
francamente pensiamo che quel rivelo sia scarsamente veridico. La
documentazione dell’Archivio di Stato di Palermo (Deputazione Regno, Inv. n.° 5
- RIVELI ANNO 1714 vol. n.° 1682) testimonia che a Racalmuto funzionari del
censimento operarono dal ventotto maggio ottava ind. 1715 sino al “ primo Junii
Millesimo septimo decimo quinto 1715”. Si era dunque in pieno interdetto
religioso. Plausibile dunque che, se non il sabotaggio, almeno il disinteresse
del clero locale abbia facilitato le diffuse omissioni del censimento di tanti
racalmutesi, come sempre preoccupati delle conseguenze fiscali del rivelo.
Nel primo
quindicennio del ‘700 non risultano epidemie di rilievo a Racalmuto. Gli indici
di mortalità sono quelli della norma (allegato 5). Le nascite come sempre sono
cospicue e per di più l’immigrazione è documentabile (famiglie come quelle
degli Sciascia, dei Taverna etc., che erano emigrate intorno al 1660, ritornano
a Racalmuto proprio a cavallo tra il XVII ed il XVIII secolo). Quella drastica
contrazione della popolazione che vorrebbe il rivelo del 1714-15 non appare per
nulla attendibile. Quel che è certo è che proprio al tempo del rivelo
(1713-1715) il tasso di mortalità di Racalmuto era tra i più bassi della sua
storia sino all’unità d’Italia (2,59% della popolazione media di
quel tempo). E tale popolazione nel 1714, doveva, secondo le nostre stime,
aggirarsi sui 5.370 abitanti (contro gli appena 4.757 che segnala il
Maggiore-Perni con un divario del 12,89%).
Il XVIII
secolo si chiude con una flessione della popolazione: i dati disponibili
(quelli della Matrice e quelli dei censimenti ufficiali confermano) il
repentino contrarsi della densità abitativa. Eccone alcuni elementi
significativi:
Anno
|
Popolazione
di Racalmuto
|
fonte
|
1748
|
6.063
|
Maggiore-Perni
pag. 352
|
1795
|
7.620
|
Matrice
Racalmuto - arc. Mantione
|
1798
|
7.630
|
Maggiore-Perni
pag. 352
|
1801
|
7.138
|
Matrice Racalmuto - L’arc.
Mantione appone questa annotazione: «terminata detta numerazione a 20 maggio 4^
Ind. 1801 Si vede che il popolo trovasi diminuito considerevolmente rispetto
all'anno scorso»
|
Dagli
archivi di Stato di Palermo ricaviamo qualche notizia sull’amministrazione del
Comune di Racalmuto, una volta affrancato dal giogo feudale. Negli anni dal
1784 al 1787, il razionale del luogo
è don Francesco Perrone, il notaio ufficiale: d. Antonino Picataggi; manca il
tesoriere: in sua assenza c’è un ”collettore ed esattore di tutte le tasse”
sostituto; i giurati sono: d. Giuseppe Amella, Francesco Grillo e Pistone,
Marco Matrona, Calogero Fucà; il sindaco è il Magnifico don Giuseppe Cavallaro.
Vene pagata un’onza a Bonaventura Brutto per il pubblico panizzo; a m° Pietro
Castrogiovanni tarì 1 e 8 grani “per avere acconciato la porta della chiesa di
S. Rosalia”; altre spese per riparazione e manutenzione dell’orologio cui
accudisce m° Vincenzo Terrana. Nel successivo esercizio del 1785-86 abbiamo i seguenti giurati: Bonaventura Lo
Brutto, Giuseppe Scibetta Letizia, Salvatore Gambuto e Giuseppe Tulumello.
Sindaco: Antonino Grillo. Collettore: don Giuseppe Amella.
Ecco
alcune annotazioni relative al 1790: d. Giuseppe Amella è l’arrendatario che
paga a m° Melchiorre Lo Cicero onze 11.7.14 “per altrettante dal medesimo
pagate e distribuite a diverse persone per la santa solennizzazione della festa
della gloriosa S. Rosalia, patrona di questa università, il 4 di settembre e
cioè: a m° Francesco Galeano e compagni per n° 3900 maschi che si sparano nel
corso della festa, onze 1.28. 0; a don Calogero Grillo per sei rotoli di cera a
tarì 10 per rotolo, che si consumò in detta festa, onze 1; al m° Mariano Busuito per fatiche per
avere apparato la chiesa tarì 14; a d. Antonio Grillo per regalia per avere
suonato l’organo, tarì 2; al rev. D. Morrino per avere rappresentato il
panegirico della Santa, tarì 2; tamburi n° 4, tarì 21; trombi 4, tarì 25;
piffaro: tarì 6; per il trionfo nel corso dell’ottavo: tarì 6; messe
celebrative n° 13 tarì 19.10; figure n° 200 tarì 2.10; spese a minuto tarì
9,14; corsa: onze 1: che in tutto fanno onze 11.7.14.» Per l’esercizio 1790-91,
Giuseppe Amella «pagava per patrimonio urbano per la nona indizione onze 1.126
. 15 - 18
Nel
1791 “arrendatario” di Racalmuto figura
don Giuseppe Amella; d. Calogero Amella risulta il “fisico” locale. I giurati
sono: Calogero Tirone, Giuseppe Scibetta, Vincenzo Tulumello e Calogero Fucà.
Il 20 gennaio 1791 sono «pagate da Amella al sac. D. Nicolò Pantalone tarì
11.10 per il prezzo di due corde di canape necessarie per la mappera dell’orologio;
a m° Lorenzo d’Agrò tarì 2 in prezzo di chiodi e pezzi di tavola necessari per
l’acconcio dell’orologio». 21 maggio 1791: «Amella paga tarì 4 per eligersi dai
giurati un barbiere più adatto ed abile per apprendere il metodo dell’innesto
del vaiolo, giusta la pratica insegnata a diversi barbieri chiamati in Palermo
per apprendere la suddetta maniera di eseguire il suddetto innesto a norma
delle istruzioni». Il 16 giugno 1791 viene eletto m° Giuseppe Romano.» Il 31 di
agosto Giuseppe Amella corrisponde a Nicolò Pantalone “onze 9 per onorario di
tutto l’anno per avere la cura dell’orologio di questa Università.
1791-92:
«Viene nominato procuratore del tesoriere Giuseppe Tulumello, don Croce di
Napoli. A Francesco Restivo onze 4 per loero della bottega della neve e sue
fatiche per la vendita di detta neve come da mandato.»
1792-1793:
«viene esposta la reliquia di S. Rosalia per la serenità del tempo e penuria
della fame. Tarì a Cicero per averli erogati per formare una sepoltura fuori la
terra per la quantità di morti in questo sterelissimo anno 11a
indizione.»
Nel
1793 cambia il quadro amministrativo: Pietro Scimonelli diviene maestro
razionale; giurati sono: Antonio Grillo e Brutto, Francesco Pomo, Girolamo
Grillo Alessi. Vengono eletti deputati a norma di una circolare del 1793:
Antonino Sferrazza, Salesio Vinci, Angelo Gabriele Mannarà, Antonino Grillo e
Mattina, Giuseppe Cavallaro. Don Giuseppe Tulemello è il tesorerie.
L’anno
successivo, nel 1794, il razionale è
Santo Impellizzeri; deputati: Francesco Vinci (che, se non andiamo errati, deve
essere quello che nel 1760 scrisse la storia di M. SS. del Monte e fu chierico
nel seminario di Agrigento), Giuseppe e Bernardo Grillo, nonché i magnifici
Onofrio d’Amico, Giuseppe Monserrato e don Calogero Amenti. Arrendatore del
patrimonio urbano: don Vincenzo Tulumello per la somma di onze 1.126.15.18.
Per
l’esercizio 1794-1795, abbiamo: razionale,
don Carlo Calabrese; deputati: Calogero Ferrante, notaio Antonino Picataggi,
notaio Cristofaro Pomo. I giurati sono: Giuseppe Baeri, Girolamo Gambuto,
Raffaele Cavallaro, Raffaele Grillo e Addamo. Collettore è il notaio Ignazio
Tulumello.
Per
il 1797 e 1798 il razionale è
Domenico Impellizzeri; i deputati locali sono: il barone d. Girolamo Grillo,
Giuseppe Mattina, Raffaele Grillo e Belmonte; i giurati: Salesio Vinci,
Vincenzo Bellavia, Paolo Baeri e Giuseppe Matrona. “L’intero civico patrimonio
si gabella a d. Raffaele Bisanti, procuratore di d. Felice Cavallaro”.
Il
secolo si chiude con queste cariche: razionale,
Francesco Pirrone; deputati: Salvatore
Gambuto, Giuseppe Mattina. Calogero Farrauto assume la carica di regio
proconservatore. I nuovi giurati: Marco Matrona, Gaspare Savatteri, Antonio
Bellavia, d. Vincenzo Grillo e Ingrao. Come collettore figura d. Vincenzo
Bellavia. Tesoriere è ora don Antonio Grillo ed Alessi.
**********************
Racalmuto nel Settecento secondo il Vaticano.
Presso
l’archivio segreto vaticano sono ora consultabili le relazioni che ogni
triennio i vescovi dovevano rassegnare sullo stato della loro diocesi. Di tanto in tanto affiorano note storiche
sulle vicende laiche delle località diocesane. Racalmuto vi appare spesso, sia
pure con annotazioni rutinarie. Per il Settecento abbiamo questi dati:
Il vescovo
Ramirez, nella relazione datata 15 febbraio 1703 che produce “pro triennio
trigesimo nono”[12],
così descrive Racalmuto:
«Recalmutum:
Item Archipresbiter gerit ibidem curam animarum, atque Sacerdotes in Ecclesia
Matrice quotidie dicunt horas canonicas. Adestque Monasterium Monalium et quatuor
Conventus Religiosorum. Ecclesiae 16, Sacerdotes quadraginta, Clerici 36.
Animae 5.012.»
Vigilavano
dunque su una popolazione di appena 5.012 anime ben 40 sacerdoti coadiuvati da
36 chierici, oltre a quattro conventi di cui qui non viene detto l’organico. La
notizia sciasciana sugli ottanta preti può essere l’eco di questi riferimenti
vaticani.
Nelle città
– precisa il vescovo – in cui si dice «quod animarum curam gerit
archipresbiter” bosogna intendere che questi è beneficiario perpetuo ed ha per
lo meno la congrua. Racalmuto, come si è visto, aveva un arciprete così
beneficiato. La successiva relazione del 1713 ci consente questi riferimenti:
Racalmuto: viene incluso tra gli oppida;
le ecclesiae sono 15; 4 i conventi; c’è il solito monasterium monalium; 44 i sacerdotes
in sacris; 21 clerici e 5.027 anime. [13]
l’oppidum continua a venire designato
erroneamente Recalmutum. Ignoriamo
quale chiesa sia nel frattempo sparita.
Avutosi
l’interdetto del 1713 le relazioni si diradano. Vi è l’eco dei trambusti politici
e religiosi in quel torno di tempo. Passiamo quindi a quella del 15 settembre
1728 ove di specifico per Racalmuto non riscontriamo alcunché.
Il Vescovo ci fa però sapere che a Racalmuto, come altrove
in diocesi, «egli vigila con somma cura affinché la Domenica e nelle altre
feste comandate il popolo ascolti i salutari ammonimenti ed apprenda quanto è
necessario alla salute dell’anima. Dopo pranzo, nei giorni festivi il
sacrestano, al suono di una campanella, gira per i viottoli a chiamare i
fanciulli; li conduce quindi in chiesa ove il parroco, coadiuvato da chierici,
insegna i rudimenti della fede in vernacolo. Il vescovo in persona si era
premurato di far tradurre e pubblicare in siciliano la “dottrina del cardinale
Berllarmino.” Ne ha mandato copia ad ogni parroco «et in visitatione de hoc
specialiter» ebbe ad inquisire. » Non si lamenta il vescovo: il popolo risponde
bene ai precetti della chiesa: «est docilis, et pius; de fidei rebus catholicè
credit; hanc S. Sedem et Christi Vicarium summa et singulari veneratione
prosequitur» Qualche nota dolente: « de decimis autem et primitiis non be
sentit; plbs vero communiter est blasphemiis assuata, quem pravae consuetudinis
abusum,nec confessariorum nec praedicatorum exclamationes, nec episcoporum
paenae aliquando inflictae abolere potuerunt.» Pio e devoto quanto si vuole, il
popolino il malvezzo della bestemmia ce l’aveva radicato e non erano bastevoli
neppure le sanzioni vescovili ad emendarlo. Altrove come a Racalmuto.
Anche se cambia il vescovo, non cambia taglio e genericità
la successiva relazione che è datata 6 aprile 1736. Racalmuto vi è assente in
termini di dettaglio. Rientra nelle note generali che sono del tutto eguali a
quelle che abbiamo prima citate. E così pure quella successiva dello stesso vescovo
Lorenzo Gioeni, anche se ora bisogna rispondere rigidamente ad un nutrito
questionario.
Scarna
anche la relazione del 1748 del medesimo Gioeni, ma alcune note di costume la
rendono particolarmente interessante. Per esperienza il vescovo sa che i negozianti
di frumento, per smodata avidità di lucro, sogliono spesso all’inizio
dell’inverno nascondere partite di grano per vendere dopo a caro prezzo. Donde
il popolo versa in più dura indigenza. Erano, poi, tempi calamitosi: pestilenza
e sterilità si erano abbattute sull’intera Italia (mala quibus tota Italia afficitur[14]).
Ma il sesso è il chiodo fisso del presule: «saepe in Dioecesi evenit ut disculi
juvenes puella virgines sub spe matrimonii seducentes, carnaliter cum eis
conversentur: exinde vero vel alterius mulieris amore capti, vel majoris dotis
intuitu, dum coram meam Curiam conventi super promissione matrimonij stuproque
illato causa exagitur, Parochum vel de nocte, vel aliis furtive conveniunt, ac
coram eo testibusque a se conductis, cum altera clandestinè contrahunt per
evrba de presenti, cum maximo deceptae mulieris paeiudicio, honestarum
familiarum dedecore, ac episcopalis auctoritatis contemptu.» Scene davvero
manzoniane! Era il 28 agosto 1748.
Dal
Gioeni a Lucchesi Palli: è di quest’ultimo la relazione datata 6 gennaio 1765.
Il
Lucchesi Palli si era recato personalmente a Palermo per discutere un’annosa
controversa con il Regio Fisco: «completam
victoriam obtinui.[15]»
Si trattava di canonicati: forse uno riguardava quello delle rendite
racalmutesi di S. Agata (beneficium simplex Sanctae Agatae dictum [16]).
Questione intricata quella che periodicamente ritorna: la competenza del
Tribunale Apostolico della Legazia. «Nullum est oppidum – scrive il vescovo –
pagusque nullus, in quo Commissarius Sancti Officii cum eius Magistro notario,
et saepe cum uno vel duobus librorum revisoribus non existat: et in aliquibus
etiam consultores et qualificatores electi reperiuntur.» Naturalmente anche a
Racalmuto. V’è quindi un salto trentacinquennale nelle relazioni ad limina che non avviene solo ad
Agrigento: gli eventi finali del Settecento coinvolsero anche la chiesa. La
prima relazione disponibile è del primo ottobre 1800 ed è firmata da Saverio
Granata. E’ un resoconto dei benefici ecclesiastici. Racalmuto vi appare (cfr.
f. 619) in quanto in esso «horae canonicae quotidie in choro persolvuntur et ex
Massa Sacrae Distributionis, sic dictae Choro interessentes stipendium
percipiunt..» Il vescovo assicura di avere visitato le località; «cantum
gregorianum juxta Graduale et Antiphonarium praescripsi; eorum memini,
militantis Ecclesiae psalmodiam caelestem Beatorum Spirituum concentum ante
Thorum Dei emulari, et ob id non perturbate, non cursim, sed gravi cum pausa
horas canonicas recitare debere, ut intuentes aedificent.» Aveva ragione quel
presule ad esigere dai mansionari racalmutesi un contegno greve e solenne
durante il canto delle ore canoniche. Un canto che era bene (e sarebbe bene)
che avvenisse secondo il più rigido cerimoniale, quello del Graduale e
dell’Antifonario. Non ne abbiamo tanta nostalgia.
Il succedersi dei vescovi ad Agrigento non è indifferente
per la storia (o microstoria) di racalmuto: quei presuli avevano tanto e tale
potere sul nostro centro abitato da determinarne il corso umano, civile oltre
che religioso, ovviamente. Un non meglio precisato “capitano giustiziere di
Racalmuto” si associa con Francesco
Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore
Antinoro di Casteltermini ed osa recarsi
al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. [17]
Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni
Ochoa, alla presenza di alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il
dottor Giambattista Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine
vicereale dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire.
L’intrusione in questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi
connotati, ma è pur sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia liparitana,
ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di vescovi esiliati ha
contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano ridurre la
questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il
contenzioso ad una vendita di ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente
il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor
Tedeschi, aveva dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il
bottegaio mette in mostra i ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli
acatapani che si precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si
chiama diritto di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce
offerta in vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci
sono della Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono avvertiti, ma
dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò,
vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era
stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il
governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il
loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché
l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei giurati …
[…] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero
pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto
agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una
lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si
ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia.
Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di
diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente
agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano
d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica
personale.
Un non meglio precisato “capitano giustiziere di
Racalmuto” si associa con Francesco
Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore
Antinoro di Casteltermini ed osa recarsi
al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. [18]
Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni
Ochoa, alla presenza di alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il
dottor Giambattista Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo
l’ordine vicereale dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette
obbedire. L’intrusione in questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha
scialbi connotati, ma è pur sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà
la Recitazione della controversia
liparitana, ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di
vescovi esiliati ha contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non
sembrano ridurre la questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il
contenzioso ad una vendita di ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente
il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor
Tedeschi, aveva dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il
bottegaio mette in mostra i ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli
acatapani che si precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si
chiama diritto di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce
offerta in vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci
sono della Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono avvertiti, ma dell’avvertimento
non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò, vollero restituire il
maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era stata consumata, il
diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il governatore e i giurati
di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il loro torto … [..] Degli
acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché l’autorità degli acatapani
emanava da quella del governatore e dei giurati … […] Monsignore voleva
soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero pubblicamente in
torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto
agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una
lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si
ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia.
Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di
diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente
agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano
d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica
personale.
Il papa difese ad oltranza il vescovo Ramirez. Pervenne al
papa una lettera che vogliamo qui riportare, ove i fatti hanno una versione che
è pur di parte ma che hanno una buona attendibilità. «Ha pervenuto non senza
doglianze alla nostra notizia e di questo Tribunale dell’apostolica legazia e
regia monarchia – a scrivere è il dottore in utroque D. Francesco Miranda e
Gayarre, de consilio sacrae catholicae
majestatis – che essendo stato il reverendissimo arcivescovo di Girgenti
don Francesco Ramirez intimato d’ordine di S.E. a partirsi da quella diocesi e
da questo fedelissimo regno, per li giusti motivi che mossero l’animo di S.E.
concernenti al real prestigio e pubblico bene e quiete del regno, valendosi con
matura riflessione et evidente giustizia della potestà economica contro il
nomato prelato, quello, abusandosi del titolo specioso di consigliere di S.M.
(che la divina guardi) e del proprio giuramento di fedeltà e d’osservare le
prerogative regie e del regno, facendosi scudo, benché ideato, d’essere lesa la
libertà ecclesiastica, e d’aver patito violenze dal capitano Ochoa, dottor don
Giovanni Battista Guzzardo, chierico don Pompeo Grugno, Ettore Antinori, ed
altre persone generalmente, specialmente e individualmente nominati, passò a
scomunicarli; e supponendo che l’esercizio di tal potestà economica fosse
enorme delitto, passò ad interdire la cattedrale e tutte le chiese della
diocesi, mostrandosi poco buon genio verso il real servizio e la potestà
economica di S.E. Per la totale elevazione del quale interdetto, per l’evidente
nullità ed altre reazioni, e per aprirsi le chiese con la continuazione de’
divini offici ed amministrazione di sacramenti, si stan spedendo, per via del
Tribunale gli ordini opportuni. Ma per adesso riflettendo che la riferita
censura fulminata contro le persone, così come in specie riferite, ha processo,
ex abrupto, de facto, nullo iuris ordine servato, contro la forma de’ sacri
canoni, concili ecumenici, con pubblico scandalo, evidente perturbazione dei
popoli, ed impedimento al corso della giustizia ed esercizio della potestà
economica, ed in esecuzione di supposta potestà concessagli dalla Corte Romana,
non esecuta né presentata nel regno, in grave pregiudizio delle regalie e
prerogative del regio exequatur,
secondo si prescrive dai più reali dispacci de’ serenissimi monarchi, fondati
in evidenti ragioni, avvalorati da antichissima ed immemorabile osservanza, mai
interrotta nel lungo corso di più secoli, non solo in questo fedelissimo regno,
ma anche per tutto il mondo cattolico, come uniforme al diritto delle genti,
alli sacri canoni, concili universali, e concordie con la Santa Sede; ed
accrescendosi i motivi di suddetta nullità ed insussistenza dalli notabili
eccessi ed evidenti aggravi: resta la suddetta censura, come sopra fulminata,
assolutamente nulla ed ingiusta, da tenersi solamente da chi la fulminò, non
avendo né tampoco precesso le solite e necessarie munizioni, né tampoco la
citazione ad dicendum causam quae,
secondo precettò la stessa Verità increata.» [19]
Ma quella lettera irritò ancor di più il pontefice che
definisce «plurimae atquae vere acerbissimae» le notizie che gli giungono dalla
Sicilia. Quella missiva viene così stroncata: «Declarantur nulla litterae,
edictum et praeceptum a Tribunali monarchiae Siciliae contra censuras ab
episcopo Agrigentino in sui expulsores declaratas et interdictum cui subiecta
fuit dioecesis Agrigentina, cum illarum damnatione et horum confirnatione ac
poenis in contravenientes.» Ora il capitano d’armi racalmutese è ben servito: è
il papa in persona a scomunicarlo. Altrettanto per tutto il popolo di
Racalmuto. Una sepoltura in chiesa non è più consentita. A meno che …(a meno
che non riescano i raggiri di cui abbiamo detto).
Sciascia, spirito laico, non se ne dà pena più di tanto.
Nella Controversia ironizza: «ingastone … Era inevitabile che nascesse
il contrabbando dei sacramenti e che andasse su di prezzo come il pane in tempo
di carestia. perlongo L’altro giorno un mio vicino di casa, orefice
di mestiere, era in punto di olio santo. Ha chiesto un prete buono: cioè non
scomunicato. I figli non sono riusciti a trovarglielo, sono tornati portandosi
dietro don Mamiliano Cozzo, che tra gli scomunicati direi che è il più
conosciuto. Il moribondo, vedendolo, ha trovato la forza di gridare che non
voleva da lui l’estrema unzione. I figli e i vicini sono riusciti a convincerlo
a prendersi l’olio da don Mamiliano. E sapete con quale ragione? Che era meglio
di niente. ingastone Proprio così …A Girgenti, a una donna cui stavano battezzando il nipote,
ho domandato se sapeva che il prete officiante era uno scomunicato. Lo so, mi
ha risposto: ma quando tornano quelli buoni lo faremo ribattezzare. E il bello
è che sanno benissimo quanto siano stati cattivi i preti che chiamano buoni.»
Noi non crediamo che la faccenda dell’interdetto sia stata
presa così alla leggera: credo, comunque, che i preti se ne siano rimasti al
loro posto, a battezzare, a confessare, a perdonare in nome di Dio, a
confortare con l’estrema unzione. Quanto a seppellire, bastava in piccolo
espediente ed anche la chiesa veniva aperta al feretro. Ma il dramma rimaneva
tutto, .. ancor oggi imperdonabile, a nostro avviso.
Mons. De Gregorio – colto e prudente – ci pare
particolarmente circospetto. Scrive: «Il 28 agosto 1713 il vescovo fu costretto
ad allontanarsi da Agrigento […]
Cominciò allora un periodo assai turbolento in cui clero e popolo si
divisero tra favorevoli e sfavorevoli all’interdetto: tra scomuniche minacce,
carceri, esili, confische e vessazioni,
scorsero sei anni di insicurezza e disordine sino al 1719 quando l’interdetto
venne tolto. Durante questo periodo l’ordine del vescovo fu generalmente
osservato, ma per le violenze e le imposizioni delle autorità civili, non solo
in Agrigento ma in diocesi, le chiese furono aperte con la forza e i sacerdoti,
in gran parte provenienti da altre diocesi, vi celebrarono le sacre funzioni.
Ma in genere, sia il clero che il popolo, furono contrari alla violazione
dell’interdetto.» E francamente l’insigne monsignore ci pare imbarazzato e
piuttosto ondivago. [20]
A Racalmuto la bufera non sembra comunque essere soffiata
con asprezza; l’arciprete racalmutese dr. D. Fabrizio Signorino aveva a cuore
le sorto delle anime dei suoi compaesani e vigilò con prudenza e seppe
mantenersi in bilico. Da quello che emerge dagli archivi torinesi il nostro
paese è del tutto defilato. Stralciamo queste notizie che precisano se non altro
i contorni di quella inquietante vicenda.
Da Palermo V. Amedeo scriveva l’8 novembre 1713 al De St.
Thomas sulle vicende agrigentine non mancando di “rimirare” «come un riflesso e
sequela delle Vostre operazioni il riavedimento seguito in Girgenti, ove le
cose sono altresì restituite nella primiera calma, toltone la sola renitenza
de’ PP. Capuccini, rispetto alla quale si stanno qui prendendo le opportune
misure.» [21] Ma
il 5 dicembre 1713 il re deve inviare D. Tommaso Loredano ad Agrigento, giudice
della R. Gran Corte, in quanto occorre «metter il dovuto freno a que’
inconvenienti ch’ancor succedono in Girgenti.» Vi giravano padri cappuccini per
assolvere dall’interdetto. Alcuni di loro furono arrestati “come nel caso di
Cammarata”, giusta quel che si legge in una nota dell’8 aprile 1714.
Veniamo a sapere [22]
che «due stampe sono divalgate a Roma: l’una che contiene un Brebe del Papa,
diretto al Capitolo della Cattedrale di Girgenti: e l’altra che consiste in una
scrittura intitolata «Lettera di disinganno per gl’Ecclesiastici delle Diocesi
di Catania e di Girgenti». La data del Breve si è de’ 10 del mese scorso [marzo
1714] e la sua sostanza si riduce a dolersi che [taluni] canonici riconoschino
per Vicario Generale il Canonico Formica [per cui si ordina] sotto pena di
scomunica a sé riservata di più riputare
il canonico Formica per Vicario […] e l’altra scrittura intitolata il disinganno … potrebbe probabilmente
essere quella del Padre Pisani Gesuita.».
In una sorta di libertà vigilata restano a termine il
canonico Rini e l’arciprete di Bivona. E’ datata 11 maggio questa missiva al De
St. Thomas: «Vedrà V.S. come a Canicattì si fusse trovato affisso il consaputo
Editto del Papa per l’osservanza dell’Interdetto, in seguito a cui si fussero
colà chiuse le Chiese; sopra di che mi commanda S.M. di scrivere in di Lui
nome, a V.S. che ove si trovino effettivamente chiuse le Chiese in Canicattì,
ed altri luoghi … Ella vi proveda a
tenore de’ precedenti ordini di S. M. con mandarvi dei Religiosi ben affetti
tanto Secolari, che Regolari per far riaprire ed ufficiare dette Chiese.»
Fuggito il Ramirez, non senza prima avere comminato
furtivamente l’interdetto sopra rappresentato, la sede resta per lungo tempo
vacante. Il Ramirez muore – per così
dire, esule – il 27 agosto 1715, ma la sede agrigentina viene raggiunta da un
presule riconosciuto da Roma solo il 24 settembre 1723. Il nuovo vescovo è
Anselmo della Penna (Peña): quello che fa tradurre il catechismo in siciliano
ed esige che siano educati i fanciulli inculcando loro le nozioni rudimentali
della fede in perfetto dialetto siciliano. Quel testo andrebbe recuperato per
studi linguistici di portata anche sociologica.
Il
Mongitore – integrando il Pirri - ci
ragguaglia sulla sede vacante con queste laconiche notizie: durante la sede
vacante la Chiesa non fu guidata da alcun Vicario. Ma liberata la diocesi
dall’interdetto nel 1719, il Capitolo della Cattedrale elesse Vicario generale
Giuseppe Pancucci agrigentino U.I.D., canonico della stessa cattedrale e Tesoriere.
Quel
che in quella sede viene precisato su La Peña è così traducibile: «Anselmo
della Penna, ispano, nato in una località denominata Rabaderia della diocesi
auriense in Galizia nel 1655, apparteneva all’ordine di S. Benedetto ed era
laureato in Sacra Teologia. Fu elogiato prefetto dell’ordine ed abbate generale
della congregazione benedettina di Spagna. Fu eletto vescono di Crotone il 2
febbraio 1715. A quattro anni della nomina di Carlo VI Imperatore a re di
Sicilia, fu il La Penna trasferito a capo della chiesa agrigentina con bolla
pontificia di Innocenzo XIII del 5 ottobre 1723, registrata in Palermo il 9
novembre del medesimo anno. Prestò giuramento solenne nelle mani
dell’arcivescovo palermitano F.D. Giuseppe Gasch l’11 novembre 1723 in forza di
breve apostolico. Elesse suo Vicario generale l’ U.I.D. Antonino Zavarrone,
protonotario apostolico. Resse la diocesi spinto da zelo pastorale e si
distinse per la carità verso i poveri. Nell’anno 1729, allorché ebbe
un’impennata il prezzo del frumento in Sicilia, egli a poco prezzo distribuì ai
poveri una gran quantità di grano. Affetto da una grave febbre mentre visitava
Caltanissetta, aggravandosi il male, volle che fosse trasportato nella città di
Agrigento, dopo essere stato munito dei conforti religiosi; qui, ottuagenario,
cessò di vivere il 4 agosto 1729.» [23]
Succede
Lorenzo Gioeni ed Incardona, nobile palermitano, su presentazione di Carlo VI.
Investito con bolla pontificia di Clemente XII dell’11 dicembre 1730,
trascritta in Palermo il 5 gennaio 1731, rifulse – per il Mongitore [24]-
per doti d’animo e per virtù. Sotto di lui viene redatto un volume di tutti i
benefici e cappellanie della cattedrale di Agrigento e della diocesi. Per il
Picone, «fu uno di quegli uomini che, a buon diritto, posono addomandarsi
rigeneratori di una città, ed egli fe’ rifiorirla nella pubblica istruzione,
nel pubblico costume, e nel commercio.» [25] Il che sarà vero per Agrigento, ma dubitiamo
fortemente che valga per Racalmuto. Nelle due visite pastorali che fece a
Racalmuto nel 1737 e nel 1748 ci pare oltremodo fiscale; piuttosto duro e
bigotto, fu, se bene leggiamo, persino critico verso il nostro padre Elia Lauricella. Il padre Morreale
ovviamente non è d’accordo e forse ha ragione lui.
Succede
Andrea Lucchesi Palli (dal 25 luglio 1755 al 4 ottobre 1768). Nobile dei
principi di Campofranco, fondò la celebre omonima biblioteca che interessò
Pirandello e fu oggetto di qualche spunto letterario anche per Sciascia.
Dal
20 novembre 1769 al 23 maggio 1775 è la volta del nobile Antonio Lanza della
celebre famiglia di Mussomeli, cui era appartenuta Melchiorra Lanza la moglie
dell’ultimo conte del Carretto. Teatino, resta immortalato, e non tanto
gradevolmente, dalla sapida penna del viaggiatore inglese Brydone. «Appartiene
– scrisse tra l’altro l’inglese – a una delle prime famiglie dell’isola ed è
fratello del principe di …. È un omettino onesto e una persona piacevole, e
questo è ciò che conta. Non ha ancora quarant’anni, ed è fuori del comune che
abbia raggiunto una simile carica così giovane, essendo questo il vescovado più
ricco del regno. E’ un buon letterato, profondamente erudito sia cose antiche
che di cose moderne, ed è altrettanto intelligente che colto. […] Tra i
commensali abbiamo trovato parecchi massoni, che ci fecero festa apprendendo
che eravamo loro confratelli. » Quel vescovo, durato invero poco, non ebbe
tempo (o voglia) per rassegnare alcuna relatio
ad limina al papa.
Dopo,
per dieci anni, dal 15 aprile 1776 al 31 luglio del 1786, regge la diocesi
Antonio Colonna Branciforti, di cui sappiamo ben poco (e forse, al di là del
suo altisonante casato, passò del tutto inosservato). Il Picone annota: al
magnanimo Lucchesi …« succedevano Lanza
e Branciforti, i quali nel periodo di loro vescovado nulla fecero che ne
ridesti la memoria. » Per un paio di anni abbiamo quindi la sede vacante.
E’
la volta dell’agrigentino Antonio Cavalieri che non dura più di un biennio (dal
15 settembre 1788 al 10 dicembre 1791). Sempre il Picone: «succedeva il nostro
concittadino … che tentò di rendersi benemerito della patria, ma la morte il
prevenne nei suoi disegni. Egli il 14 gennaio 1789 dirigeva al re un memoriale
per lo quale chiedeva che gli si concedesse a titolo di vendita, o di enfiteusi
il conventino dei Riformati (già da tre anni abolito) e la piccola selva annessavi, onde egli potesse
piantarvi un orto botanico di erbe medicinali pei poveri. Egli aveva già
indotto un valente botanico di Palermo a venire in questa, gli aveva assegnato
un convenevole stipendio, e disegnava condurvi una vena d’acqua per
l’irrigazione delle piante.»
Il
1° giugno 1795 accede al soglio episcopale Saverio Granata, il suo magistero
durò sino al 29 aprile del 1817. E’ dunque un prelato che si proietta nel
secolo successivo, in un’altra epoca, davvero.
Considerazioni conclusive sul Settecento
Racalmutese.
Il Settecento si chiude con quattro protagonisti, tutti
sacerdoti, dotati di una personalità spiccata; costoro furono sicuramente fra
loro confliggenti e lasciarono solchi indelebili nel corso della locale vita
paesana. Essi sono : don Nicolò Tulumello,
don Francesco Busuito, don Giuseppe Savatteri e Brutto, nonché
l’arciprete – non ancora canonico - don Gaetano Mantione.
Su don Nicolò Tulumello, con le sue poco pie voglie di
acquisire indebiti titoli nobiliari, abbiamo già detto. Su don Giuseppe
Savatteri, altrettanto enon vanno neppure obliate le stilettate inferte da
Leonardo Sciascia. Don Francesco Busuito – veniamo a sapere dal LIBER – fu
“consultore del Sant’Ufficio”, fino a quando non venne soppresso. C’era materia
per dileggi sciasciani, ma il sacerdote la passò liscia, per non conoscenza dei
fatti, pensiamo.
Era
imparentato con don Benedetto Nalbone ed insieme i due sacerdoti rilanciarono
un ramo di quella famiglia. Sulla vertenza Savatteri-Busuito abbiamo detto. Nel
LIBER, mentre al Savatteri è riservata una secchissima annotazione di morte, al
Busuito l’anonimo estensore, che non poteva che essere o subire l’influenza
dell’arciprete Mantione, viene dedicato quasi un epitaffio. «D. Francesco
Busuito – vi si legge – Collegiale, Missionario, Predicatore Quarisimalista,
Consultore del Sant’Ufficio, Parroco di Comitini, Maestro di Spirito sotto
Monsignor Gioeni alla casa degli Oblati e sotto Mons. Lucchesi successivamente.
– Maestro di Lettere, di Teologia Morale, Prefetto di studii, Direttore,
Rettore del Seminario di Girgenti, Vicario Foraneo, beneficiale del SS.
Crocefisso, Economo – obiit 29 Januarii 1802 – d’anni 74.» Non sappiamo se
tutti questi elogi siano dovuti al rispetto che ancora incuteva il defunto o
non era una scelta di campo dell’arciprete Mantione, tutto a favore del Busuito
e tutto avverso al Savatteri, anche dopo la morte.
L’eco di quegli intrighi si hanno persino nel 1870 in una
memoria difensiva del sacerdote don Calogero Matrona. Anche in quella sede è
detto che nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti alcuni beni
dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D.
Francesco Busuito. La ricostruzione del citato sac. Don Calogero Matrona,
divenuto beneficiario di quei beni per vie traverse, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 -
scrive fra l’altro il Matrona - da
Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium Parochi di libera collazione da conferirsi a
concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco
nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno
nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del
beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene
anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo
fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui si
tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di lui
piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso
Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco
Busuito di
Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e
dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un
Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al
beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un
avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri
qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al
Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro
il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i
fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto
Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva
onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre
esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo
Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per
legato di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata
Confraternita per attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per
deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e
Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le debite formalità
giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in essi fatti dal
predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza ricorrere alle
procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in simili contratti,
in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o deteriorandosi il fondo
fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco,
come tutto rilevasi dagli atti di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind.
1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le
onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle
fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor
Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al
sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e
facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione.
Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto
al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo
sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie
sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte
del Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri,
dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta
evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a
lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione
del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle
più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del
Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece
ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei
Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di
costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione
pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e
desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto
che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la
pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni
proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente
usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio,
perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la
prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la
verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in
minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale
investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con
decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa
Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella
minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo
della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali
sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii
[...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don
Calogero Matrona,
con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo
1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe
Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi,
appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue
memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in
proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il
beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902
pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di
padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Il
canonico Mantione è personaggio tuttora popolare: ci viene tramandato come uomo
coltissimo ma sbadato, grande mangiatore di olive come il padre Pirrone del
Gattopardo. Personalmente ci indispettisce per la faccenda della chiesa di
Santa Rosalia. V’è tutta una documentazione all’arcivio vescovile di Agrigento
ove si parla della chiesa in questione. È fatiscente; si chiede e si ottiene
l’autorizzazione avenderla come “paglialora”. La comprano i voraci sacerdoti
Grillo;a venderla è proprio il Mantione. In cambio null’altro che un altare –
quale ancora sussiste – alla Matrice. E’ questa – a nostro avviso – una imperdonabile colpa del
canonico Mantione. Per mera grettezza economica ha lasciato che una
gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa
Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa
in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del
Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed
una sacralità superiori allo stesso
interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva
permettere quello scempio. Era da
quattro anni arciprete di
Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un
tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi. E’ un comportamento – quello
dell’arciprete del tempo – che mi appare incomprensibile. Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la
dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella
gli riverbera una poco esaltante ombra.
A voler sintetizzare, quella era un’antichissima chiesetta
risalente, a seconda delle varie versioni ,
al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente
quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali
agrigentine). Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio
venne riadatta, o edificata (o riedificata); resistette sino al 3 giugno 1793 quando fu ceduta, appunto, al
sac. Salvadore Grillo; e ciò per un baratto: un altare con statua alla Matrice per una
chiesa da ridurre a stalla.
Santa
Rosalia non ha più casa a Racalmuto: è proprio la fine del Settecento.
Nell’epoca del romanticismo, i racalmutesi opteranno per Maria Santissima del
Monte di cui credono di avere una statua marmorea “miracolosissima”. Una saga
era stata inventata a metà del Settecento per la penna di un seminarista, don
Francesco Vinci, ritornato allo stato laicale ove l’attendeva un ruolo egemone
nell’amministrazione della cosa pubblica. Nel 1848, anche le autorità
ecclesiastiche derubricano come patrona S. Rosalia ed il suo posto è preso
dalla più romantica “imago Virginis Deiparae”, tutta di marmo, splendidamente
eretta sul Monte. Ai piedi l’erta scalinata per le “prumisioni” a dorso di muli
recalcitranti oppure racchiuse in pesanti sacchi, portati su a fatica sulla
testa di donne smunte o obese, a piedi scalzi, per devozione, triste ed
ancestrale. Immagini romantiche appunto, o – direbbe Sciascia – soffuse di un’
«aura romantica ed un tantino melodrammatica».
[1] ) Leonardo Sciascia – Contrada Noce, in Gli amici della Noce, Fondazione Sciascia Racalmuto 1997, p. 7
[2] ) Leonardo Sciascia Prefazione al libro di Tinebra
Martorana, Racalmuto – Memorie e
tradizioni – Racalmuto 1986, pp. 11-13
[3]) ibidem - Real segreteria
- Incartamenti - B. 3604.
[4]) ibidem - Real Segreteria
- Incartamenti - B. 3605.
[5]) ibidem - Real Segreteria
- Incartamenti - B. 3605.
[6]) ibidem - Real Segreteria
- Incartamenti - B. 3605.
[7]) ibidem - Real Segreteria
- Incartamenti - B. 3606
[8] ) Leonardo
SCIASCIA Le parrocchie di Regalpetra - ed. Laterza 1982 Bari U.L., pag.
21.
[9]) Secondo l’elenco della
Matrice sarebbe invero deceduto il 7 aprile 1650 a 52
anni (cfr. col. 3 n.° 62). Si rilevano però due inesattezze. Nessun dubbio
sulla data di morte può sorgere stante il seguente atto della Matrice:
7
|
5
|
1650
|
Todaro
|
Giuseppe
Sacerdote
|
sepolto
nella chiesa di S. Maria del Monte
|
gratis
|
Sull’età del
Sacerdote Todaro è da precisare che era già chierico nel 1598 come
risulta del tuo elenco:
4
|
1598
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
CHIERICO
|
12
|
1600
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
CHIERICO
|
9
|
1632
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
4
|
1634
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
e nella visita del 1608 è già sacerdote abilitato alle
confessioni. Sono portato a pensare che il sacerdote sia morto settantenne e
questo potrebbe essere il suo atto di battesimo:
26
|
12
|
1580
|
Todaro
|
Joseppi
|
Vincenzo
Mastro
|
Violanti
|
[10] )
Archivio di Stato di Palermo - FONDO ARCHIVISTICO PALAGONIA - SERIE ARCHIVI
PRIVATI – UNITA’ ARCHIVISTICA: 694 - ANNI 1736-1752
[11]) Nel Dizionario Topografico della Sicilia di
Vito Amico, tradotto e aggiornato da Gioacchino Di Marzo, si afferma che a
Racalmuto si erano registrati «nell’anno 1713, 1175 fuochi e 4757».
Francesco
Maggiore-Perni ne’ “La popolazione di
Sicilia e di Palermo dal X al XVIII secolo” colloca il censimento nel 1714
(cfr. Tavola I pag. 527).
[12] )
Archivio Segreto Vaticano – Relationes ad limina –Agrigentum – 16A – f. 349.
[13] ) ibidem. F. 401
[14] ) ibidem, f. 499v.
[15] ) ibidem, f. 578v.
[16] ) ibidem, f. 579.
[17] ) Giuseppe Picone, Memorie
Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 551.
[18] ) Giuseppe Picone, Memorie
Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 551.
[19] ) Bullarium romanum –An.
C. 1713 – Torino 1871, p. 590a.
[20] ) Domenico De Gregorio, Cammarata,
Agrigento 1986, p. 305.
[21] ) Il
Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia, nell’Isola di Sicilia dall’anno MDCCXIII
al MDCCXIX – Documenti raccolti e stampati per ordone della Maestà del re
d’Italia Vittorio Emanuele II – Torino, Eredi Botta 1863, pp. 44-45.
[22] ) ibidem, p. 55
[23] ) Rocco Pirri, Sicilia
Sacra, Tomus Primus, Palermo 1733, p. 727.
[24] ) ibidem, p. 727.
[25] ) Giuseppe Picone, Memorie
Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 574.
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