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martedì 15 marzo 2016


LA PARENTESI CARTAGINESE


 

Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.

Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas  ed il suo territorio -  ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili vittorie.

Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.

 

Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».

Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.

Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.

Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.

Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas  e la vicina Eraclea Minoa  appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.

 

IL PERIODO ROMANO


 

Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con  la  lex Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per Roma.

Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ubertoso ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.

Nella contrada del Loggiato agli inizi del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle “gerbere” dei dintorni per il timore di espropri o pubbliche molestie.

 

E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello.[1] Così, il principe archeologo c'informa che a Racalmuto fu rinvenuta una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:

 

C* PP. ILI* F* FUSCI
      RMUS. FEC.

 

 

 

 

 

 

Il  Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale l'epigrafe nei suoi ponderosi volumi  (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota  ed eludendo ogni commento prosopografico.

Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente tra le grandi famiglie romane. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia di tal nome siciliana non sembra essere esistita.

Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di Cicerone.

Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina trascorre nei dintorni senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto Comodo, secondo la pur fallace lettura del Salinas, si registra una svolta economica di grande risalto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, presero piede.

 

MINIERE ROMANE


 

 

Per oltre un millennio non se ne seppe nulla. Nell'Ottocento, dopo un buio millenario, si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri ribaltati dell'indicazione dello stabilimento minerario. A parlarne per primo è il nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia  all'avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.

Kaibel e Mommsen ne fecero oggetto di studio nei Corpora, senza però precisarne l'origine. All'inizio di questo secolo, il Salinas aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un sepolcro, presumibilmente  nei dintorni di Santa Maria.

 Quell'insigne archeologo procedeva ad un'analisi storica di grande acume che pubblicava nel  bollettino dell'Accademia dei Lincei «Notizie degli scavi» (Anno 1900, pagg. 659-60).

 

Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte in  quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» (B. Pace, Arte e Civiltà, I pp. 393-4).

Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze dell'anno 180 d.C. si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria a Racalmuto: risale all'inizio del ’Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data del  22 ottobre 1706 i preti dell'epoca registrano un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. «In fovea salinae, ob  ruinam salis repentinam, defunctus est»,  è la malinconica annotazione in latino. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice, in quelle plebee, ma sacre, carnarie, che nel XX secolo sacrileghe mani pretesche hanno criminalmente distrutto.

 

 

Le miniere romane racalmutesi sono fatto storico di grosso momento e non solo per la storia locale. Va dato atto all’avv. Giuseppe Picone di essere stato il primo ad averne avuta subito piena consapevolezza. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra lui, all’epoca ispettore degli scavi e dei monumenti di Girgenti,  ed il Ministero. I documenti risalgono al 3 novembre del 1877. Ed a dire il vero traspare un’appropriazione indebita da parte del grande Mommsen ai danni del periferico avvocato con antenati racalmutesi. [2]

Il Mommsen fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici nei  volumi del C.I.L. ([3])  ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con una semplice menzione, il nostro avv. Picone.

 

Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa non si rinviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto.

All'inizio di questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire a Racalmuto gli altri reperti di cui abbiamo detto. Quell'insigne archeologo procedeva ad una lettura oggi non più convincente che pubblicava sul  bollettino dell'Accademia dei Lincei. ([4]) Per lui, l’iscrizione:

EX PRAEDIS

M. AURELI

COMMODIAN

che si poteva leggere nell’esemplare cedutogli per denaro da un contadino di Racalmuto, comprovava la «provenienza dai predii dell’imperatore Marco Aurelio Commodo Antonino» ed era anche atta a far desumere dalla locuzione la data esatta; ciò «in quanto Lucius Aurelius Commodus, salendo al trono nel 180, s’intitola Marcus Aurelius Commodus Antoninus, per esser poi di nuovo, nel 191, Lucius (Aelius) Aurelius Commodus (Eckhel, Doctr. Num. VII, 134 segg., 102 seg. C.I.L. VI, 992).» In definitiva, «per siffatta ragione le nostre matrici sarebbero da attribuire al periodo tra il 180 e il 191.»

Già, il dotto Michelangelo Petruzzella mi faceva notare che quella trasposizione di COMMODIAN in Commodo non era molto attendibile. A conferma, il prof. Salmeri [5] optava per la formula: ex praedis/ M. Aureli/ Commodiani, pur non ignorando la tesi del Salinas, e continuava: «al centro della fascia compresa tra l’ultima linea e il margine inferiore è raffigurato, a rilievo come le lettere, un caduceo; mentre tra la prima linea e il margine superiore compaiono – come sigma – un ramo (di palma) e due stelle ad otto punte. Il nesso ex praedis, di uso comune nei bolli laterizi urbani, seguito dal nome del dominus al genitivo, nel secondo secolo d. C., sta ad indicare il “fondo” da cui viene estratta l’argilla per la produzione di mattoni e di altri manufatti di terracotta. Nelle lastre siciliane esso rimanda invece al “fondo” da cui provengono i blocchi gessosi che, una volta sottoposti a fusione, daranno luogo alle forme di zolfo. Il praedium in questione, stando ai dati di rinvenimento delle lastre, deve avere occupato tutta o una parte del territorio degli attuali comuni di Milena e di Racalmuto, che del resto sono stati tra i primi nell’area nisseno-agrigentina ad essere stati interessati, dopo una lunga interruzione, della ripresa dell’attività estrattiva dello zolfo nel XVIII secolo [6]; suo proprietario risulta il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano [7], da collocare nei decenni finale del II secolo d. C. L’assenza di ulteriori specificazioni dopo la formula ex praedis M. Aureli Commodiani, in particolare del nome di un conduttore, induce a ritenere che le cave di zolfo dell’area Milena/Racalmuto, nel tempo a cui risalgono le lastre, venissero sfruttate direttamente dal proprietario. […] Quanto alla manodopera impegnata nel praedium  di Commodiano, essa sarà stata costituita da schiavi e da liberi salariati; nel De officio proconsulis di Ulpiano si prevede inoltre che il governatore possa comminare quale condanna il lavoro in una sulpuraria [8]»

L’avere scisso l’epigrafe dall’imperatore Commodo per collegarlo al liberto Commodiano comporta, però, il rinnegamento della ricognizione temporale del Salinas. Continuare ad assegnare il reperto agli ultimi decenni del II secolo d. C. pare fragile congettura, né la figura di quel liberto può venire invocata per datazioni certe, come invece la primigenia lettura consentiva. Neppure può affermarsi che il liberto Commodiano fosse davvero il dominus delle miniere: più probabile che fosse invece il proprietario di un “fondo” agrigentino ove si potevano benissimo fabbricare le “gàvite” come altri mattoni e manufatti di terracotta. Nulla proprio ci assicura che Comodiamo sia vissuto a Racalmuto, a capo di una miniera di zolfo che, stante il luogo del ritrovamento della “tegula” o “tabula” sulphuris, poteva essere vicina alla pirrera di la Ciaula che mastro Liddu Casuccio seppe ben coltivare nella seconda metà del XIX secolo.

Ma, se fu assente Commodiano, certo vissero nei dintorni di Racalmuto, tra il Castello Chiaramontano e la Piana di la Cursa  minatori romani - schiavi, salariati e di certo damnati ad sulpurariam, come dire una specie di galeotti – le cui condizioni di vita furono molto simili alla ottocentesca sorte dei minatori che ci hanno descritta Franchetti e Sonnino nella loro Inchiesta in Sicilia. ([9])

Che le “gàvite” fossero fabbricate lungi dalla miniera, sembra comprovato dalle «tegulae» che sono state rinvenute nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. E qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([10]), si trattava di un deposito di cocci di una figlina (officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.

 

I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO (Secc. II-IV d.c.)


 

Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas e dal Salmeri si colloca negli ultimi decenni del secondo  secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. ([11]). In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina ([12]). Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta ancor valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968, in base al quale([13]): «Il Castello, fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La coincidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. e l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi di reperti ceramici databili ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in una relazione pubblicata in Kokalos: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei [...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([14]) Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI ([15]).

I dati archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la produzione - annota il De Miro ([16]) - pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»

Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina, dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.» Successivamente appare «il manceps, figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes. [...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([17])

In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.

Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo. Ma i resti archeologici, che ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato – che per padre Salvo è il Gardutah dell’Edrisi – sotto la grotta di fra Diego, come già si è avuto modo di accennare.

 

L’OCCUPAZIONE BARARICA


 

 

Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Di sicuro una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti significativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolasamente quello che casualmente affiora.

 

 

Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73) ([18]), ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito serie e chiarificatrici indagini archeologiche. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto potevano pur bene far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui ancora si ignora il toponimo antico.

 

Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più generale storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica portata.

Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo difficilmente potevano colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino  - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare ([19]), Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si ebbe prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.

I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.

La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma anche archeologicche.

Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).

 

RACALMUTO BIZANTINO


 

Dal VI al IX secolo Racalmuto - ci è ignoto il nome greco del periodo - divenne palesemente bizantino. Secoli fervidi di opere e di umane presenze che le future campagne di scavi redimeranno dall’oblio dei tempi. La locale comunità fu di certo grecofona e, quanto al rito religioso, essa ebbe ad optare per quello ortodosso. Infuriava ad Agrigento la lotta tra vescovo greco e quello latino. Le vicende di tal Gregorio ci sono state tramandate ma con tali obnubilamenti  che neppure il grandissimo mons. De Gregorio è riuscito sinora a dipanare. Misterioso dunque l’atteggiamento della periferica chiesa racalmutese in tal frangente.

 

 


 

Confesso di avere avuto un sobbalzo quando mi sono imbattuto in un passo di Biagio Pace che accenna ad un ipogeo cristiano in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto» ( [20]): una presenza cristiana del quinto o sesto secolo nel nostro paese con tanto di chiesetta cimiteriale era notizia di acuto interesse storico.

Con una punta di disillusione ho però subito dovuto convincermi che l'eclatante affermazione poggiava su un malcerto passo del nostro Tinebra Martorana, il seguente: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di ossa». Da qui all'ipogeo cristiano del V secolo ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti archeologici nei dintorni vanno sempre meglio precisando.

Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Confinavano con le contrade di Bigini  e Cometi e tutte tre le contrade  risultano feudi nei capibrevi minori di Luca Barberi e tali appaiono nel primo abbozzo di una mappa catastale di Racalmuto custodita presso l'Archivio di Stato di Agrigento. Per contro vi sono i feudi maggiori di Gibellini e del castello chiaramontano di Racalmuto.

Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie  o pertinenze di 'massae'  soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di Bisanzio.  Sulla scia di autorevoli storici  ([21]) oggi  è pur congetturabile una sorta di continuità  tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena  a Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.

In tale contesto pensiamo che, se non tutti e due i nostri castelli medievali, almeno il Castelluccio (nella vecchia contrada di Gibellini) può sorgere su un antico nucleo bizantino: il «frourion». A convincerci in tal senso, sono le tesi di Rodolfo Santoro sulle «fortificazioni siciliane dall'ultima amministrazione imperiale bizantina al consolidamento del Regno di Sicilia» ([22]) e più specificatamente sulla «architettura castellana della feudalità siciliana» ( [23]).  Secondo Santoro, il  «Frourion, parola greca che designa la fortificazione in generale, ... è riferibile al piccolo fortilizio di età bizantina dotato di una torre e di un breve circuito murario..» ([24]). Il Castelluccio, ingrandito e meglio fortificato in età post-normanna, ha invero l'aria di una derivazione bizantina che precede dunque la conquista araba.

Ma l'ultimo atto relativo a Racalmuto pre-arabo resta per il momento la presenza di un ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto, ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; rinvenimento del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite nel Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou ( [25]).  Nell'illustrare l'industria e il commercio dei bizantini di Sicilia, quell'autore  colloca nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola» e mette a capofila le monete di Racalmuto.  Secondo quel che possiamo leggere in un altro suo  studio di quell'Autore ([26]) trattasi di un tesoro di «205 pezzi, riferentisi a Tiberio  II - Héracleonas».

 Quell'importante testimonianza di Racalmuto bizantino è oggi nascosta in una sala sempre chiusa del  Museo di Agrigento,  quasi a simbolo del pubblico oscuramento della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le nostre ultime vicende sarebbero finite nell'oblio o inficiate da errori di datazione come mi è capitato di constatare in testi per altri versi pregevoli ([27]).

 

PASSAGGIO SOTTO GLI ARABI


 

Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu inglobato dai berberi. Identica sorte per l’agglomerato – se vi fu – nel ripiano di Gargilata a ridosso del costone di fra Diego.  Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo flebili barlumi.

Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove, oppure, come a Gargilata, finire per convivere.

E che può dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi di credere in quel che vogliamo e propendere per tesi di eclissi della religione cattolica o di sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna, se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.

 

Consolidatasi la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita  e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.

Quanti erano i berberi e quanti i dhimmi a Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli infedeli (i dhimmi) che per avventura avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi le donne, i vecchi ed i bambini.

Dopo neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del calibro di Rizzitano ([28]) per tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto per le vicende arabe racalmutesi.

«In entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia, e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo vii, quando l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, gente di antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore agricolo.

«Per quanto concerneva invece i dhimmi, questi erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante; oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è chiaro che erano i dhimmi a dovere «pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.

«Pertanto al nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari, avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya ([29]

Non è questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono - scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »

Elementi arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «paese morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità la dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»

Amari ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che possa riferirsi alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? E al limite – perché no? – al sito di Gargilata, ove affiorano ceramiche arabe, secondo quello che il Palumbo mi mostrava nell’estate del ’99? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.

 Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940 riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame. Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.

Nell’estate del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia del Kalbiti.  Con lui ebbe inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme dell’investitura califfale - protrattosi per circa un secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole congiuntura.

Ma attorno al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania s’indussero ad  appoggiare i contrattacchi cristiani nel 1060-61. Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.

Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare  che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluc­cio, vuoi  'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorrere” – poteva pur essere una fortezza sotto il domi­nio di Chamuth, donde l’attuale nome.

Conosciamo le gesta di Chamuth perché un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli eventi nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso, investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predo­ni normanni.

«Il cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto Michele Amari - mentre i marinai italiani si appa­recchiavano tuttavolta all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regna­to un tempo nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027) indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia, passato in Sicilia, non sappiamo appun­to in qual anno, abbia preso lo stato in quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm; portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.

«Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor macchi­ne; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl,([30]) Bifara, Micolufa, Naro, Caltanis­setta, Licata, Ravenusa; ([31]) di talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.» ([32])

 

 

E’ agevole intravedere nel racconto dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al riguardo una mera traduzione dal latino ([33]). Credo che Chamuth abbia avuto un qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi su questo personaggio. Costui,  caduto in un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam consanguinitatis linea conjunge­batur, in posterum sibi non interdicetur».  In altri termini, egli si fa cristiano con moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guer­rieri e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere i paesani dei castelli agrigen­tini conquistati - poterono forse risparmiarsi l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte pianse­ro per secoli gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma, gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella, secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, anghe­rie, iattanza, arroganza del potere. Sono la lingua  degli uomini egemoni  che parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma a danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfrut­tamento perduranti sino ai giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di  'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61 e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).

Il tremendo passaggio dalla libertà araba allo stato servile, alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è documentabile se non con le poche righe del Malaterra.

A corto di notizie, Tinebra-Martorana ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un accondiscendente  sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantuomo’ della fine del secolo scorso, Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza hanno le dicerie di un governatore di Rahal-Almut  a nome Aabd-Aluhar, servo dell'emi­ro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racal­muto nell'anno 998;  di una popolazione di 2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcivescovo Du Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'pale­arum']; e di tutte quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigola­ture sulle tasse e sui 'dsimmi’, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino, ma di ascendenze racalmutesi, Giuseppe Picone.

I gravami, le violenze, le soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno, o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome antico. Solo il Racel del Malaterra, incerto e controverso.

Eppure, furono giorni funesti: i normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per durare fino ai nostri giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.

Michele Amari non ebbe in simpatia l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Mala­terra, ma ne stravolge senso e giudizi:

«E veramente - scrive l'A. a pag. 178 della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera; potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in luogo appostato già con musulmano; e questi fatti montar in sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta altra gente potè, quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospet­tasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice lo storiogra­fo normanno.»

 





[1] ) Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..".,  pag. 237
[2] ) Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denomina: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella seccamente il Picone:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
La risposta è datata 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) ed in termini dimessi precisa che furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :
 
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
 
Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
 
EX. OF. (ex officina)
 
come si rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.
 
Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei.
Cfr. A.C.S. di Roma - Fondo:  ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.3.4 - (annotazioni interne: 1877 - 64-1-1 - Girgenti - Mattoni antichi con bolli, miniere solfuree).
[2]) C.I.L. [CORPUS INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X,2 p. 857 - TEGULAE MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9
[3]) C.I.L. [CORPUS INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X,2 p. 857 - TEGULAE MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9).
[4]) NOTIZIE DEGLI SCAVI - Anno 1900, pagg. 659-60.
[5] ) Giovanni Salmeri, Sicilia Romana. Storia e storiografia, G. Maimone Editore, Catania 1992, pp. 29-43.
[6] ) M. Colonna, L’industria zolfifera siciliana. Origini, sviluppo, declino. Catania 1971, pp. 14-15.
[7] ) Così giustamente R.J.A. Wilson, Sicily under the Roman Empire, Warminster 1990,  p. 238 e p. 395 n. 8.
[8] ) Tavole di flessione: sulphuraria, sost.; sulpuraria, sost. sulphuraria, ae, f., solfatara, ULP. – Dig. XLVIII, 19, 8, 10; F.G.B. Millar, Condemnation to Hard Labour in the Roman Empire, «PBSR» 39 (1984), pp. 124-147.
[9] ) Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, Inchiesta in Sicilia, edizione fiorentina del 1974, pp. 269-279 del II volume.
[10]) KOKALOS 1963, pp. 163-184.
[11]) L’accenno al MANCEPS  conduce a quella datazione, se si accettano le argomentazioni in proposito di E. De Miro, quali si leggono nella sua relazione pubblicata in Kokalos XXVIII-XXIX, 1982-1982, pag.  324.
[12]) Oggi custodito nell’androne del Comune, da tempo immemorabile giaceva prima al Castello.
[13]) Guida d’Italia del Touring Club Italiano - Sicilia - ed. 1968, pag. 303.
[14]) Ernesto De Miro: Città e contado nella Sicilia Centro-Meridionale, nel iii e iv sec. d.C.  - in Kokalos pag.  320. In quella relazione, spunti riguardanti specificatamente Racalmuto si colgono nella Tav. XLIV [la Tegula di cui alla Fig. 1d - CIL X 8044, 1 - MANCIPU[M] - [S]ULFORIS - SICILI[AE] - ST, se non è proprio quella del Picone, è del tutto analoga.]
[15]) E. De Miro, op. cit. pag. 321.
[16]) E. De Miro, op. cit. pag. 320.
 [16]) B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica I, 1935, p. 393 ss.
[17]) E. De Miro, op. cit. passim.
[18]) M.R. LA LOMIA, in Kokalos, VII, 1961; E. DE MIRO, in Encicopledia Arte Antica, VII, 1966, p. 276, ID, in Kokalos, XVIII-XIX, 1972-73, pp.247.
[19]) Sidonio Apollinare - Carm. II - Panegirico recitato in Roma all’imperatore Artemio (ediz. di Parigi 1599). Di risalto i versi 362-372. Si celebra la vittoria di Ricimero del 456 con questi encomiastici tratti:
Agrigentini recolit dispendia campi,    
Inde furit, quod se docuit satis iste nepotem
illius esse viri, quo viso, Vandale, semper
Terga dabas, nam non siculis illustrior arvis,
Tu, Marcelle, redis per quem tellure, marique
Nostra syracusios texerunt arma penates.
(Da G. Picone: Memorie Agrigentine, pag. 283).
[20] ) cfr. B. Pace, Arte e Civiltà, vol IV, pag. 174
[21] ) cfr. V. D'Alessandro, per una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in Archiv. Storico Siracusano, n.s. V, 1981.
[22] ) Archivio Storico Siciliano, 1976, p. 27 ss.
[23] ) Arch. Stor. Sic., 1981, p. 59 ss.
[24] ) Ibidem pag. 65.
[25] ) L'Italia bizantina dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna,  Vol. I, Torino 1980, pag. 316
[26] ) Arch. Stor. Sirac., n. s. IV. 1975-76, pag. 74, n. 149.
[27] ) P. Griffo, Il Museo Archeologico Regionale di Agrigento, 1987,  pag.192.
[28]) Umberto Rizzitano,  Gli Arabi di Sicilia, in Storia d’Italia diretta da G. Galasso, UTET 1983, Vol. III, pagg. 384 e ss.
[29]) «Khafagia ibn Sufyàn era indubbiamente una personalità di primo piano; si era già distinto in Ifrìqiya all’epoca della rivolta dei giùnd, dando prova di grande fedeltà alla dinastia aghlabita. Quando arrivò in Sicilia non mancava quindi né di esperienza né di prestigio personale. Il primo anno della sua permanenza a Palermo lo trascorse, secondo Ibn al-Athìr, più che in operazioni militari proprio nel delicato compito di ristabilire ordine e disciplina fra gli elementi musulmani, e di armonizzare conquistatori e conquistati: condizioni indispensabili alla ripresa delle operazioni militari. Cfr. Ibn al-Athìr, Al-Kàmil, pag. 312. Cfr. anche SMS, I, 482.
[30]) Su tale toponimo RAHL abbiamo appuntato tutta la nostra attenzione ritenendo che potesse essere quello del nostro paese. AMARI riduce in RAHL un RACEL che trovavasi nel manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA e pubblicato a Saragozza nel 1578. Quel manoscritto è andato perduto. La pubblicazione che resta ancora l'edizione principe fu recepita nella colossale opera di Ludovico Antonio MURATORI RERUM ITALICARUM SCRIPTORES nel vol. V con il sintetico titolo HISTORIA SICULA, Gaufredi MALATER­RAE. Il Muratori dà la lezione RACEL e in calce annota RASEL-BISAR ad indicazione di altre lezioni da lui tenute presenti. L'Amari non si produce in ulteriori ricerche paleografiche: distingue RACEL da BIFAR; per lui arabista, RACEL equivale a RAHL [casale]; si confessa incapace di individuare un RAHL nelle pertinenze agrigentine, che ne sono piene. Il PICONE segue la pista dell'AMARI e nelle sue MEMORIE (cfr. pag. 401) reputa incompleto il toponimo e segna RAHAL..., distinguendolo comunque da BIFAR, una località piuttosto nota tra Campobello di Licata e Licata. Si sa che la raccolta di 'scriptores rerum italicarum' è stata, a cavallo di secolo, oggetto di pregevolissime riedizioni con interventi di personalità della cultura del calibro del CARDUCCI. Il testo del monaco benedettino dell'XI secolo ha avuto nel 1927 una diligentissima riedizione con una illuminante introduzione da parte di Ernesto PONTIERI. Questi venne in Sicilia; trovò altri codici (A=Cod. X. A 16 della Biblioteca Nazionale di Palermo; B=Cod.II.F 12 della Società Siciliana per la storia patria; C=Cod. 97 della Biblioteca universitaria di Catania e D=Cod. QqE 165 della Biblioteca comunale di Palermo) che, comunque, mutili e scorretti e pur sempre derivanti dalla fonte dell'edizione principe del 1578, non gli furono di molto aiuto. Il PONTIERI adottò la lezione RASELBIFAR, legando insieme Racel e Bifar, e in nota fornì la versione della Biblioteca universitaria di Catania (C): RACEL GIFAR. Nel 1937, Carlo Alfonso NALLINO, nel integrare le note della STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA di M. AMARI contro­batteva al PONTIERI e reinterpretava il passo malaterrano con questa dissertazione [aggiunta a nota n. 1 di pag. 177 op. cit.]: «In realtà i castelli sono 10 e non 11. L'ed. princeps del Malaterra (Saragozza 1578), e le prime cinque che la seguirono pedissequamente, hanno 'Ravel, Bifara', come se si trattasse di due luoghi diversi; ció ingannó V.D'Amico, Diz. topogr. trad. Dimarzo (Palermo 1855-56, l'ed. latina è del 1757-1760), che nel vol. I, pag. 143-144 tratta di Bifara e nel II, p. 398 di RACEL (dal solo Malaterra), e quindi l'Amari. Nessuno dei due pose mente all'attenzione del Diz. stesso, I, p. 143, che Bifara 'dicesi anche RAGAL BIFARA' (evidentemente nell'uso locale siciliano). Il traduttore Dimarzo, I p. 144, n. 1, osserva che Bifara ' è un sottocomune aggregato a Campobello di Licata ..., in provincia di Girgenti (Agrigento) ..., circondario di Ravanusa'. Campobello dista 50 Km. da Girgenti (Agrigento) e 9 da Ravanusa. E. Pontieri, ultimo editore del Malaterra (1928), trovò nei mss. anche le varianti Raselbifar e Raselgifar e scelse a torto la prima nel testo (p. 88) e nell'indice (p. 153), mentre è certo che il primo componente e rahl (racel, racal, ragal), come ben vide l'A.» [cfr. pag. 178 op. cit.]  Quel che sorprende in entrambi quest'ultimi due studiosi è il fatto che con la loro lezione i casali conquistati da Ruggiero il Normanno diventano dieci in aperto contrasto con la premessa del MALATERRA che parla di ben undici castelli agrigen­tini presi all'arabo CHAMUTH: una contraddizione che andava per lo meno giustificata. Come si vede un gran pasticcio e ci scusiamo se l'averlo qui accennato può essere apparso pedante e tedioso. Ma è l'unico proba­bile appiglio ad una fonte storica delle origini del toponimo RACALMUTO. Alla fine della fatica, vien però da domandarsi se è proprio importante trovare un antico toponimo da assegnare alla storia della nostra terra.  
[31]) A completamento del discorso sui toponimi svolto nella precedente nota, riportiamo il commento dell'AMARI nella sua STORIA (pag. 177, n. 1): «I nomi delle castella prese nella provincia di Girgenti, sono tolti dal Malaterra, correggendo alcun evidente errore del testo. Rimane dubbio il suo Racel, che ho trascritto sicu­ramente in Rahl (stazione), ma vi manca il nome che dee seguire per determinare quella appellazione generi­ca, il qual nome io non saprei indovinare tra i moltissimi Rahl di quella provincia. Credo avere bene letto Ravanusa il Remise (variante Remunisse) del testo, poiché MICOLUFA sorgea presso Ravanusa. Del resto Simone da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò Malaterra nel suo libro 'La conquista di Sicilia' recente­mente uscito alla luce (Collezione d'opere inedite e rare, Bologna 1865, in -8), dà otto soli nomi degli undici, dicendo non avere ritrovato gli altri ne' testi; ed un ms. della stessa opera, appartenente alla Bibliothèque de l'Arsenal in Parigi (Ital. N. 68) ne dà sette soltanto: Platani, Musan, Guastanella, Catala­nixetta, Bosolbi, Mocofe, Ciaxo 'e li altri, aggiunge, non so chi si fusseru e non si canuxirianu, ect.). Intorno i nomi non si trovano nella lista odierna de' Comuni di Sicilia, vi vegga il Dizionario Topografico dell'Amico e l'Indice che io ho messo in fine della 'Carte comparée de la Sicile, [1859], Notice'.»
[32]) Michele AMARI - STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA, Catania 1937, Vol. III, parte prima, pagg. 174, ss. Nel trascrivere il CHAMUTH del MALATERRA in HAMMUD, l'AMARI annota [nota 1 di pag. 175]: «la h, sesta lette­ra dell'alfabeto arabico, fu resa per lo piú, sino ad uno o due secoli addietro, con le lettere latine ch; e il d, ottava lettera, piú spesso con una t che con una d. L'anonimo ha HAMUS [cioè ANONIMO, presso Caruso, Bibl. Sic. pag. 855]. Sapendosi dalla storia che Chamuth, fatto cristiano con tutta la famiglia, rimase sotto il dominio del conquistatore, possiamo ben identificare il casato con quello di Ruggiero HAMUTUS, già proprietario di certi beni che Federico II concedea nel 1216 alla chiesa di Palermo (Diploma presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 142) e dell'Ibn Hammud, ricchissimo signore che Ibn GUBAYR vide in Sicilia nel 1185. Questo nobil uomo poteva essere nipote o bisnipote del regolo di Castrogiovanni. Sapendosi ch'ei portasse il soprannome d'Abû al Qâsim, sembra anco il Bucassimus, celebre per brighe alla corte di Palermo, ne' primordi del regno di Guglielmo il Buono....». Ancor oggi, alcune nobili famiglie siciliane vantano discendenze da quel ceppo Hammûdita. Trattasi dei nobili NICASIO di BURGIO. Impietoso l'Amari contro il libello di Nicasio Burgio, conte palatino XXIII intitolato «La discendenza di Achmet ultimo potente ammira fra i Saraceni dominanti in Sicilia, rappresentato in questo medesimo luogo dalla chiarissima famiglia Burgio», pubblicato a Trapani nel 1786. Indulgente il NALLINO che nella stessa nota si dilunga accogliendo le precisazione di una nobildonna di quella famiglia. Costei segnala che i primogeniti della casata Burgio continuano a chia­marsi ACHMET, ( ad. es. ACHMET RUGIERO NICASIO BURGIO, principe di Aragona e di Villafiorita, di Palermo). Per quel che ci riguarda, un'ipotesi potrebbe avere qualche fondamento. Tra i beni del citato Ruggiero HAMUTUS poteva esserci qualche signoria sul diruto castello di Racalmuto, un tempo appartenuto al nonno, o bisnonno, CHAMUTO. Ma trattasi di congettura che lascia il tempo che trova.
[33])  Trascriviamo qui per eventuali cultori delle fonti l'intero passo latino della cronaca del Malaterra: «Comes ergo Rogerius, omnes potentiores Siciliae a se debellatos gaudens, et nemine, excepto CHAMUTO, seper­stite, ad hoc assidua deliberatione intendit, ut ipso circumveniendo debellato, omnem sibi de caetero Sici­liam subdat. Unde, exercitu admoto, ipso apud Castrum-Joannis immorante, uxorem eius ac liberos apud Agri­gentinam urbem obsessum vadit, anno Dominicae Incarnationis millesimo octogesimo sexto [l'AMARI corregge in 1087], prima die Aprilis, quam undique exercitu vallans, diutina oppressione lacessivit; studioque machina­mentis ad urbem capiendam apparatis, tandem vicesimaquinta die Julii viribus exahusta, imminentibus hosti­bus, patuit: uxor Chamuthi, cum liberis, Comitis inventa est captione. Comes itaque, pro libitu suo positus, uxorem Chamuti, omni dehonestatione prohibita, suis custodiendam deliberata, sciens Chamutum sibi facilius reconciliari, si eam absque dehonestatione cognoverit tractari. - Urbem itaque pro velle suo ordinans, castello firmissimo munit, vallo girat, turribus et propugnaculis ad defensionem aptat, finitima castra incursionibus lacessens ad deditionem cogit. Unde et usque ad undecim aevo brevi subjugata sibi alligat, quorum ista sunt nomina: Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Rasel, Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, quod, nostra lingua interpretatum, resolvitur Castrum foeminarum, Licata, Remunisce.» [Le lezioni dei nomi sono molte e spesso fortemente differenziate. Chi volesse averne completa conoscenza, deve  consultare l'edizione del PONTIERI, varie volte citata, pag. 88 e ss.  A parte RASEL, che ovviamente abbiamo seguito con puntigliosa attenzione, per il resto abbiamo scelto alquanto liberamente, intendendo privilegiare le lezioni che maggiormente si avvicinassero ai toponimi di Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera, Racalmuto, Bifara, Milocca (?!), Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa.

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