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mercoledì 10 agosto 2016

domenica 12 gennaio 2014

La Racalmuto carrettesca: Donna Aldonza del Carretto


Tra le altre sventure Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere pronipote della terribile donna Aldonza del Carretto, proprio quella che passa per benefattrice di Racalmuto per avervi voluto il chiostro femminile della Badia.
Donna Aldonza era figlia, come si disse, di Girolamo I del Carretto, il primo conte di Racalmuto che lasciò ben sei figlie femmine (la stessa Aldonza, Diana, Ippolita, Giovanna, Eumilia e Margherita)  e tre figli maschi (Giovanni IV, Aleramo e Giuseppe). Sull’erede Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto “paragio” - una cospicua dote per ogni fratello e per ogni sorella.  Pare che il violento conte non se ne desse eccessivo pensiero. Snobbò principalmente di dotare le sorelle specie quella zitellona che fu donna Aldonza. Questa non glielo perdonò mai, specie sul letto di morte. Redasse un testamento, tanto pio quanto subdolo verso l’inviso fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali,[1] che invece limitò alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis  et infrascriptis».
Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver  dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini: «..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia  leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano  et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Ma non tutte le sorelle erano eguali per la terribile donna Aldonza. E solo dopo un paio di nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo un legato di 200 once così condizionato:
«Item ipsa tetatrix legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori, uncias ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes universales infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis] ipsius testatricis et hoc pro bono amore».
Uguale trattamento per il fratello Aleramo: «Item essa testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di Gagliano, onzi ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori di essa testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem D. Aleramo competenti et competituro.
«Item essa testatrice declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi pagando onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».
Il testamento venne redatto l’8 marzo del 1605. Punto importante per Racalmuto era il lascito per la fabbrica del convento femminile. Vi era detto che “essa testatrice volle ed espressamente ordina ed ordina ai sopraddetti eredi universali che subito ed in contanti, appena giunta la morte della medesima testatrice sopraddetta, i suoi eredi hanno da assegnare e debbono e sono tenute a versare cento onze di reddito, alla medesima testatrice dovute per il detto Don Ottavio Lanza principe di Trabia, quota parte della maggior somma dovutale in virtù e per forza di contratto, affinché si doti un monastero di nuova fondazione, con il favore di Dio, e lo si costruisca e lo si edifichi nella predetta terra di Racalmuto. Con codeste cento once annuali si faccia fabbricare il detto Monastero ed allorché il detto Monastero sarà completo nel fabbricato ed in ciò che occorrerà”, allora «habbiano da  pigliarsi dudici poveri di detta terra et preditti redditi di onzi cento saranno pro dicto Monasterio videlicet uncias duodecim (12 onze) per l’elemosina del cappellano, lo quale Monasterio et per esso li soi officiali et detto cappellano siano tenuti ogni giorno celebrare una messa allu Venniri, (e) si dica la messa delli cinque piaghi del Signore et un’altra delli Angeli et la colletta a Santo Micheli Arcangelo et onze 88 pro vitto et vestito di detti dudici Monachi poveri da monacarsi per nenti ma per l’amor di Dio. E tutto per remissione di suoi peccati, La electione delli quali monachi si facci per l’arcipreti et Guardiano di Santa Maria di Jesu di detta terra di Racalmuto ...»
Il chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del 1649. Ad Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce il “Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa terra di Racalmuto dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è del 24 agosto 1649. Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione dell’opera passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere spesi 4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre Euro. Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento, ha dell’inspiegabile; ma alla fin fine le sorelle superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi) rispettarono la volontà testamentaria della terribile virago. Nel chiostro, però, non andarono solo giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli condizioni economiche. Verso la fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto. L’omonimo arciprete annota nei libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO  e della quondam Melchiora, entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.»
Nel 1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per esigenze di bilancio familiare. Lo prova questa sorta di organico monacale:
 


MARIA AGNESE              FARRAUTO                   SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA ANGELICA          PICONE                          SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA ANTONIA            AMELLA                        SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA ARCANGELA      GRILLO                          SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA CARMELA           CAVALLARO                 SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA CATERINA          TIRONE                          SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA CROCIFISSA       FARRAUTO                   SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA EMANUELA        GRILLO                          SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA FRANCESCA      SAVITTERI                    SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA GABRIELLA        GRILLO                          SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA GRAZIA               SCIBETTA                      SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA MADDALENA     AVARELLO                    SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA NICOLETTA        GRILLO                          SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA RAFFAELLA       CAVALLARO                 SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA ROSARIA            TULUMELLO                 SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA SALESIA              VINCI                              SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA SERAFINA          ALFANO                         SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA VENERANDA     GRILLO                          SUORA MONASTERO S. CHIARA
PETRA ANTONIA            MATRONA                     SUORA MONASTERO S. CHIARA
PETRA MARGHERITA    CAMPANELLA              SUORA MONASTERO S. CHIARA
VINCENZA PAOLO          MATTINA                      SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA CHERUBINA       GRILLO                          SUORA MONASTERO S. CHIAIRA
MARIA GIACINTA           GRILLO                          SUORA MONASTERO S .CHIARA
FRANCESCA                    CASTELLO                     CONVERSA MONASTERO S. CHIARA
IGNAZIA                           SERRAVILLO                 CONVERSA MONASTERO S. CHIARA
VINCENZA                        BERTOLINO                  CONVERSA MONASTERO S. CHIARA


 

Dovevano bene ricordarsene i Matrona, i Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello, i Tirone, quando con le leggi Siccardi, dopo l’Unità d’Italia, non parve loro vero di arraffare i beni della chiesa e di trasformare quel convento secolare in una fabbrica di San Pietro per sperperare soldi pubblici in nome del decoro della costruenda casa comunale. Ed oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle “poverette” è luogo di raduno pubblico e vi si vanno concerti profani, sopra le obliate ceneri di quelle monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe scorrere i libri di morte della Matrice per farne una doverosa ricognizione). Neppure un fiore. Neanche un segno esteriore, un monito. I soldi di donna Aldonza sono stati rapinati dai governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine, risultarono stregati, come la sua non molto pia donatrice testamentaria. 

 

Ritornando ai fatti di famiglia dei del Carretto, in quel testamento non troviamo alcunché che ricordi anche il fratello di donna Aldonza, Giuseppe. Forse perché già morto?

Ma non basta. Se ci si addentra nei processi per investitura dei Del Carretto, sbuca fuori un’altra sorella: Beatrice del Carretto,[2] morta nel settembre del 1592. Tirando le somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di ‘paragio’ di otto sorelle[3] e due fratelli. Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legittimo, il conte di Racalmuto per antonomasia, Girolamo del Carretto. Su quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’. Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto, all’età di ventitre anni si spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.

Il fatto poi è che il testamento di donna Aldonza, per una sorta di ricorso perverso, viene riesumato a danno  sul nostro Giovanni V del Carretto. Un documento del Fondo Palagonia ci svela l’arcano. [4] E’ il 10 ottobre del 1645: Giovanni V del Carretto ha ora 36 anni, sta a Palermo, non crediamo che avesse voglia di fare dei colpi di stato per far nominare re di Sicilia il cognato, il conte di Mazarino. E’ costretto a stipulare un contratto (in effetti una transazione) con il dottore in utroque Giuseppe Bonafante. Su questa figura di prelato vedasi il Nalbone. ([5]) Si trattava in effeti del “procuratore generale e protettore del venerabile convento di Santa Rosalia” in Palermo.

Costui aveva ottenuto dal consultore Don Diego de Uzeda una “provvisionale” datata 5 luglio 1643. L’ingiunzione seguiva ad una sentenza del 5 maggio 1643 che investiva in pieno il conte di Racalmuto. Questi veniva condannato  a pagare entro un mese al monastero di Santa Rosalia di Palermo «dotes de paragio D. Aldonzae, d. Margaritae, d. Eumiliae et d. Joannae de Carretto», le doti di paragio (quelle abbiamo prima citate) di quattro delle otto sorelle del trucidato conte Giovanni IV del Carretto. E non era una bazzecola: si trattava di once 7.687, diciassette tarì e tre grani. Un calcolo in moneta attuale? era la cospicua cifra di quasi quattro miliardi e mezzo.

Ma che diavolo era avvenuto?

Come si disse, anche sul letto di morte presso il pauroso concento di Santa Caterina, donna Aldonza del Carretto non sia acquietò contro il fratello Giovanni per la faccenda del paragio. V’era in corso una causa: la vecchia non voleva che con la sua morte, la lite andasse in nulla a favore del fratello. Stabilì dunque che il paragio, dedotte duecento onze per tacitazione dei diritti del conte del Carretto, andasse alle sorelle che istituiva sue eredi universali. Il passo del testamento è eloquente:

«Et perche a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa donna Aldonza testatrici declara voleri detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli. In vertù di tutti e qualsivoglia leggi et altri raggioni in suo favore dittanti et disponenti non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et disposizione delle quali leggi in suo favore disponenti, essa vole et intendi servirsi et usari in juditiarijs et axtra sempre in suo favore conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene; le quali doti di paraggio una con li frutti di quelle siano et s’intendano insitituti heredi universali per eguale portione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa a Don Giovanni lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem don Joanni quemlibet competenti et competituro et non aliter.

«Item detta testatrice vole e comanda che della lite la quali have fatto di consequitare la sua legittima che non ni possa conseguire più di onze 600 oltra di quelli li quali essa donna Aldonza testatrici si retrova havere havuto, li quali onze 600 essatestatrici lassao e lassa a donna Giovanna e d. Eumilia del Carrettosoi soro oltre della loro portione di cui alla presente heredità modo quo supra fatta pro loro amore et non aliter nec alio modo.

«Item detta testatrice vole e comanda che morendo alcuna delli sopra detti heredi universali senza figli legittimi et naturali nepoti et pronepoti usque in infinitum  che la portione di tali heredità universali et cossì ancora s’intenda morendo alcuna di detti Donna Giovanna et donna Eumilia senza figli pro ut supra tanto la loro portione hereditaria quanto la portione di li supra dette onze 600 si paga allo Monasterio - Deo dante - per essi supra detti heredi universali in questa città di farsi ...»  Con questa ultima clausola il destino del futuro conte Giovanni V del Carretto viene segnato. E siamo nel giorno 31 marzo del 1605.

Nel 1625, sotto l’egida di un sacerdote troppo intraprendente, sorge una sorta di monastero patrocinato e sovvenzionato dalle tante sorelle del Carretto. Sia come sia, le doti di paragio di Donna Aldonza, donna Margherita, e donna Eumilia finisconto negli appetiti del convento. Si sostiene che sarebbero state devolute per volontà testamentaria in dote del chiostro palermitano.

Attorno al 1635, l’indomabile prete Bonafante intenta causa, quale protettore e procuratore del convento di Santa Rosalia in Palermo, contro il sedicenne conte Giovanni V del Carretto. Si nominano periti, si fanno conteggi, si tentano espedienti formali, ma il 15 luglio del 1643 don Diego de Uzeda, consultore di Sua eccellenza, condanna irrimediabilmente il giovane conte ad una cifra enorme. Sulla base delle ricostruzioni contabili di tal gaspare Guarneri, il conte - sui beni di Racalmuto - deve corrispondere a quell’alieno convento di Santa Rosalia 7.687 onze, 17 tarì e 3 grani (abbiamo detto circa quattro miliardi di lire). Il conte soprassiede, ma al 10 ottobre del 1645, la pretesa viene elevata ad onze 7.977.29.9.

A questo punto il conte, un po’ più agguerrito, si rammenta di paragi pagati, di biancheria pregiata fornita in dote, di altri pagamenti a quelle tremende prozie. Sarebbero oltre mille onze da decurtare dalla pretesa conventuale.

Inoltre, chiede che si nominino altri periti di sua fiducia. E’ una corsa ad ostacoli ... giudiziari. Soprattutto si offre la cessione dei diritti di baglia di Racalmuto. Questa offerta viene gradita dagli organi giudicanti. Il padre Bonafante annusa la trappola e si oppone. Le suorine palermitane giammai sarebbero state in grado di conseguire quelle tassazioni sui poveri e riluttanti racalmutesi.

I diritti di baglia su Racalmuto erano ingenti: 823 onze annuali. Lo attestavano persone di fiducia del luogo come dalla seguente dichiarazione:

Noi infrascritte persone di questa terra e contato di Racalmuto facciamo fede a chi spetta vedere la presente qualmente li frutti della gabella nominata della baglìa di questa sudetta terra sono li frutti infrascritti cioè mille cinquecento case quali pagano ogn’anno tt. 12 per ogn’una in detta baglìa importano tutte

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