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venerdì 16 settembre 2016

sono stato sempre attratto da codesta incandescente donna: Medea.

sono stato sempre attratto da codesta  incandescente donna: Medea. Forse perché adoro Euripide. La cultura della Magna Grecia ce l'ho nel mio DNA. Se chiamo un'amica Meda vuol dire che l'adoro, laicamente  sia pure con venature maschiliste che non rinnego. Odio il matriarcato imperante in Sicilia. Come sapidamente tuonò Sciascia attirandosi le stupide ire della Maraini. Non vado oltre nel chiosare questa bella pagina colta di Wikipedia.

Medea (Euripide)

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Scene dal mito di Medea: invio dei doni a Creusa, morte di Creusa, partenza di Medea con le salme dei figli. Sarcofago greco di marmo, 150-170 d.C.
Medea
Tragedia
Herkulaneischer Meister 001.jpg
Ritratto di Medea
AutoreEuripide
Titolo originaleΜήδεια
Lingua originaleGreco antico
GenereTragedia
AmbientazioneCorinto, Grecia
Prima assoluta431 a.C.
Teatro di Dioniso, Atene
Personaggi
Riduzioni cinematografiche* Medea, di Pier Paolo Pasolini (1969)
Medea (Μήδεια, Médeia) è una tragedia di Euripide, andata in scena per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 431 a.C. La tetralogia tragica di cui faceva parte comprendeva anche le tragedie perdute Filottete e Ditti, ed il dramma satiresco I mietitori. Benché l'opera sia considerata uno dei capolavori di Euripide, si classificò soltanto al terzo posto, dietro un'opera di Sofocle, vincitore, e di Euforione (figlio di Eschilo), secondo classificato, i cui titoli non ci sono stati tramandati.[2]


Trama[modifica | modifica wikitesto]

Dopo aver aiutato il marito Giasone e gli Argonauti a conquistare il vello d’oro, Medea si è trasferita a vivere a Corinto, insieme al consorte ed ai due figli, abbandonando il padre per seguire il marito. Dopo alcuni anni però Giasone decide di ripudiare Medea per sposare Glauce la figlia[3] di Creonte, re di Corinto.[1] Questo infatti gli darebbe diritto di successione al trono.
La donna si lamenta col coro delle donne corinzie in modo disperato e furioso, scagliando maledizioni sulla casa reale, tanto che il re Creonte, sospettando una possibile vendetta, le intima di lasciare la città. Nascondendo con abilità i propri sentimenti, però, Medea resta ancora un giorno, che le servirà per attuare il proprio piano. Giasone si reca da Medea, che gli rinfaccia tutta la sua ipocrisia e la mancanza di coraggio, ma Giasone sa opporre solo banali ragioni di convenienza. Di fronte all'indifferenza del marito, la donna attua la sua vendetta.
Innanzitutto ottiene dal re di Atene Egeo (di passaggio per Corinto) la promessa di ospitarla nella propria città, offrendo di mettere al suo servizio le proprie arti magiche per dargli un figlio[4], poi, fingendosi rassegnata, manda in dono alla futura sposa di Giasone una ghirlanda e una veste avvelenata. La ragazza, indossatele, muore tra atroci tormenti poiché la veste prende fuoco e la stessa sorte tocca a Creonte, accorso per aiutarla. Tale scena è raccontata da un messaggero. A quel punto Giasone accorre per salvare almeno la sua prole, ma appare Medea sul carro alato del dio Sole,[5] che gli mostra i cadaveri dei figli che ella, pur straziata nel cuore, ha ucciso, privando così Giasone di una discendenza. Alla fine la donna vola[6] verso Atene lasciando il marito a maledirla, distrutto dal dolore.

Commento[modifica | modifica wikitesto]

Euripide fu uno dei primi a mettere in scena la parte del mito di Medea riguardante il suo soggiorno a Corinto. Lo aveva già fatto, probabilmente pochi anni prima, il tragediografo Neofrone, anch'egli autore di una Medea, ma gli studiosi tendono a negare (anche in base ai frammenti conosciuti) che l'opera di Euripide sia direttamente ispirata ad essa, nonostante vi siano affinità.
La tragedia è essenzialmente incentrata sugli uomini, lasciando da parte gli dèi, i quali non intervengono mai, tanto da spingere Giasone, verso la fine della vicenda, ad inveire contro di essi, accusandoli, ma senza risposta, di non aver impedito la triste sorte dei suoi figli. Euripide giudica colpevole non solo Medea, esecutrice materiale dei delitti (in particolare quelli dei figli), ma anche Giasone, reo di aver ingannato la protagonista per un "letto migliore".

I personaggi[modifica | modifica wikitesto]

Medea[modifica | modifica wikitesto]

Domina l'opera la straripante, incontrastata personalità di Medea, indubbiamente uno dei più grandi personaggi di Euripide. Fortemente emotiva e passionale, la donna esibisce un'ampia gamma di stati d'animo, che culminano negli omicidi della giovane sposa di Giasone e dei propri figli: atti caratterizzati sì da grande ferocia, ma non privi di dubbi e di tentazioni di desistere, talvolta manifestati nell'ambito della stessa scena, in un continuo alternarsi di propositi omicidi e di pentimenti.[7]
Le sfaccettature del personaggio sono insomma tante e tali che Medea può essere vista, di volta in volta, come feroce e vendicativa assassina, come vittima di pulsioni interne incontrollabili, o anche come moglie così addolorata per l'abbandono del marito da arrivare a perdere ogni raziocinio. La grandezza del personaggio sta proprio nell'essere assai complesso, in una continua lotta tra la razionalità e le passioni. È la prima volta nel teatro greco (almeno per le opere note) in cui protagonista è la passione di una donna, una passione violenta e feroce che rende Medea una donna debole e forte allo stesso tempo. Forte perché padrona della sua vita e non disposta a piegarsi davanti a nessuno, e al tempo stesso debole perché sola, disperata ed intenzionata a distruggere tutto quello che rappresenta il suo passato.
Medea e Giasone (di Girolamo Macchietti, 1570-1573, Palazzo Vecchio, Firenze)
Se, di solito, la tragedia classica presenta due personaggi in conflitto (per esempio Creonte e Antigone, oppure Oreste e Clitennestra), ciascuno portatore di un ben preciso ordine di vedute, Medea contiene, dentro di sé, quasi due figure contrastanti: una vorrebbe uccidere i figli, l'altra li vorrebbe risparmiare. La sua è una mente scissa e conflittuale. Alla fine dell'opera, però, la donna appare convinta di ciò che ha fatto e in atteggiamento vittorioso, tanto da volare addirittura via su un carro divino.[6]

Giàsone[modifica | modifica wikitesto]

Giàsone, al contrario, è una figura decisamente sminuita nella tragedia, tanto da fargli ottenere la fama di seduttore che spingerà Dante a collocarlo nell'Inferno della Divina Commedia.[8] Egoista e meschino, pare che per lui l'amore rappresenti soltanto un mezzo per la conquista del potere, oltretutto nella convinzione di poter giustificare il proprio operato solo per mezzo della sua capacità oratoria. Pagherà comunque un prezzo molto alto per il suo comportamento: la vita della promessa sposa e dei figli.

Altri personaggi[modifica | modifica wikitesto]

È interessante notare come due personaggi molto importanti all'interno dell'opera, i figli di Medea, siano sempre muti, ad eccezione di due brevi frasi pronunciate fuori scena quando si accorgono di essere in pericolo di vita. Euripide intendeva evidentemente sottolineare la loro condizione di bambini inermi e, di conseguenza, destinati a subire la sorte tragica senza poter né reagire né opporvisi. Anche la promessa sposa di Giasone, benché non appaia mai in scena, è un personaggio di non secondaria importanza, destinata a subire senza alcuna colpa una sorte atroce.
Si può insomma concludere che se in quest'opera tutti i personaggi perdono le persone care o la loro stessa vita (compresa Medea, che pur uscendo vittoriosa dalla vicenda ha sterminato la propria stessa famiglia), sono però soprattutto i più deboli ed innocenti a pagare il prezzo più alto: i figli di Medea e la sposa di Giasone, che muoiono per una vicenda nella quale non hanno avuto alcun ruolo.

Il modello di famiglia e la contrapposizione tra culture[modifica | modifica wikitesto]

La tragedia contiene una forma di critica al modello familiare tradizionale in uso nella Atene del V secolo a.C. Di fronte allo sdegno ed alla disperazione di Medea per le nuove nozze del marito, infatti, Giasone contrappone motivazioni che all'ateniese medio potevano apparire sensate: la necessità di generare nuovi figli per la città,[9], di assicurarsi una posizione sociale adeguata e la convinzione che del resto Giasone avesse fatto già molto per Medea, portandola via dal mondo barbaro in cui viveva prima (la Colchide) e rendendole onore. Avviene un dialogo assai serrato tra i due, in cui la moglie enumera i rischi del matrimonio: " anzitutto [noi donne] dobbiamo versare una robusta dote e prendere un marito che sarà il padrone della nostra persona senza sapere se costui sarà buono o cattivo" lamentando che "separarsi dal marito è una disgrazia, ripudiarlo non si può... L'uomo quando si annoia esce con gli amici e si distrae, mentre noi siamo condannate a vedere una sola persona per tutta la vita" e concludendo amaramente con la celebre invettiva: "[gli uomini] sostengono che, mentre loro rischiano la vita in guerra, noi donne viviamo sicure in casa. Falso! Preferirei combattere tre volte in prima linea piuttosto che partorire una volta!"[10] mentre Giasone l'accusa di essere, come tutte le donne, attaccata solo al letto e non considerare i vantaggi che le sue nozze con la figlia di Creonte porterà ai loro figli.[11]
Elisabetta Pozzi interpreta Medea al Teatro Greco di Siracusa (2009)
La tragedia propone insomma uno scontro tra culture diverse, una considerata più moderna e civile (Corinto), l'altra più barbara e arretrata (la Colchide). Questa contrapposizione doveva apparire evidente dall'uso da parte di Medea della magia, forza inquietante e barbara per eccellenza, e dal fatto che la donna fosse vestita in scena con un abbigliamento di tipo orientale.[12] In tale scontro, però, è la parte ritenuta più barbara ad uscirne vincitrice, con un messaggio finale che è in effetti un non-messaggio, privo di soluzioni.

Variazioni sul mito[modifica | modifica wikitesto]

Nel corso dei secoli molti autori si sono cimentati con il dramma di Euripide, creandone versioni che differivano più o meno ampiamente dal modello originale, a seconda del momento storico e del luogo in cui erano state scritte. Nella letteratura latina, delle numerose versioni scritte solo una è giunta integra ai nostri giorni, la Medea di Seneca. Anche Ovidio, fra il 12 a.C. e l'8 a.C., ne scrisse una versione coronata da un buon successo, ma essa è andata perduta, così come la Medea di Ennio.
Tra le opere moderne, una versione interessante è quella di Franz Grillparzer (1821), che pone maggiormente l'accento sul fato e sulle circostanze avverse che spingono la donna ad agire; mentre nel 1949 Corrado Alvaro, nella sua Lunga notte di Medea, mette in evidenza la condizione di Medea come di una donna estranea in una comunità chiusa, e di conseguenza aggredita e discriminata. Da ricordare infine la Medea di Jean Anouilh (1946), nonché il romanzo Medea. Voci della scrittrice tedesca Christa Wolf, in cui la situazione di Medea a Corinto viene letta come metafora dello spaesamento dei cittadini della Repubblica democratica tedesca dopo la riunificazione.

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