*
* *
Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea
II Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il
duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano
dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.
Gli eventi precipitano: il 22 marzo 1392
approdava la spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a
nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara
per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed
altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e
dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la
popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto
liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea
II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a
Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo
ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il
giovane. Il duca si irritava a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3
aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il
Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed
ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a
Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte si asserragliava a Palermo. Il 17
maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo
Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico
Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte),
chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il
vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea
Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando venne decapitato
nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il
Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed avrebbe incolpato,
per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle passate vicende. Il
1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di
essere un feudo chiaramontano.
I Martino e la regina Maria riescono a divenire
gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di
anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non
impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche
tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può
armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità
siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una
riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove
per far valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a
pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole
del trattato del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae.
Approfittando di uno scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e
ribadì il proprio diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la
potestà di nominare vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397
e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di
Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino
testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò
una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgici e perché
applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.
Martino I rimase fortemente sotto l’influenza
di suo padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio
continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fin nei più minuti
aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne
danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith
«Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in
qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese
siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» [11] Martino
il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finì in successione
insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di Aragona
e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente
riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare
che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di
minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o
di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese.
Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata
direttamente dalla Spagna.» [12]
I DEL CARRETTO
BARONI DI RACALMUTO
Quando il 22 marzo 1392 la
spedizione spagnola approdò a Favignana, dalla lontana Genova i Del Carretto si
decisero a veleggiare verso la Sicilia per riprendersi le terre racalmutesi cui
pensavano di avere diritto per successione diretta e per lascito di Matteo
Doria. Racalmuto si presentava tripartita: a sud-est il Castelluccio, munito
già della sua fortezza, e dintorni era feudo denominato Gibillini e di
pertinenza dei signori di Favara; a nord il castello chiaramontano era coronato
da case coperte di paglia e con il suo toponimo arabo costituiva la terra
abitata di un feudo ampio che meglio definiremo dopo; ed a
sud-ovest le ampie pianure della Menta della Noce del Rovetto erano
considerate terre burgensatiche, di personale proprietà del feudatario.
Le terre dello stato di Racalmuto, soggette a
vincolo feudale, non si estendevano dunque per tutto il territorio extraurbano:
un qualche rilievo di autonomia mostrava la contrada della Menta (sempre dei
del Carretto) che talora è stata denominata ‘feudo’. Sono dei del Carretto i
fertili fondi di Garamoli, ma appaiono come terre allodiali.
Lo stato di Racalmuto parte dalla contrada
di Cannatuni (come ai giorni nostri) e da quel versante
nord va verso ponente: coinvolge Santa Margaritella e Santa
Maria di Gesù, arriva alle porte di Grotte (Rina o Scavo
Morto); si diffonde nella fertile piana di Fico Amara o Fontanella
della Fico; sale sulla Montagna; gira per Rocca Russa e
per Bovo; include una parte del Serrone (un altro
versante è detto appartenere al feudo di Gibbillini); scende
per Judio, Malati, Casalvecchio e Saracino,
annettendo le contrade di San Giuliano, Baruna[13] e Difisa;
e chiude quindi l’irregolare circonferenza inerpicandosi per le contrade
della Pernice fino a Quattro Finaiti.
Menta, Noce, Garamoli Roveto e Zaccanello sono pertinenze
del feudo dei Del Carretto, ma hanno una loro distinta configurazione.
Negli atti notarili non sempre è chiara la
peculiarità feudale di queste terre dei del Carretto che talora vengono segnate
come un distinto ‘feudo’ (fego della Menta o della Nuci), talaltra no, e
comunque restano talora attratte nell’intreccio delle doti di ‘paragio’ dei
cadetti e delle figlie di quella famiglia.
L’importanza dei possedimenti di Garamoli si
coglie da una pagina della ‘Fabrica’ [14] della
Matrice del 1658. La fiumara di Garamoli doveva essere contornata da un
bosco fitto con alberi ad alto fusto. Da lì si ricavava il legname per
costruzione, fonte di grossi affari. La famiglia Napoli, quella degli Alcello e
l’altra dei Gueli fornivano maestranze specializzate, ben pagate per l’epoca.
Per coprire il tetto della Matrice occorrevano
“burduna” di enormi proporzioni. Si trovavano nel mezzo della fiumara di
Garamoli. Per trarli fuori provvide la maestranza ma soprattutto un
nugolo di nerboruti facchini che furono pagati in modo inconsueto: con salsicce
e vino. La pagina della “fabrica” del dicembre 1658 appare degna di essere
riportata qui diffusamente:
«.. al d. di Napoli con dui figli et
m.° Alcello tarì 11; ...
1.
alli d. di Napoli,
Alcello et dui altri mastri tt. 12.10;
2.
alli d. di Gueli et Napoli et
un giovane per pulire travetta et intravettare tt. 12;
3.
alli d. di Gueli et Napoli et
suo figlio per havere andato in Garamoli per sbarrare li travetti et li burduna
n.° tre che mancano al complimento della nave tt. 11.10;
4.
per havere fatto portare dui
carichi di travetti di Garamoli tt. 5;
5.
alli d. di Gueli et Napoli
con dui figli tt. 14. per havere comprato deci lignami da Vincenzo Pitrozzella
per mancanza di forbici onze 3.10;
6.
più per havere fatto venire
dui burduna da Garamoli tt. 20;
7.
e più per pani
salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna dentro la
fiumana e ni portaro uno tt. 15.8.»
Piena autonomia ha sempre invece il feudo di
Gibbillini. Feudi dei dintorni di Racalmuto sono - stando a certi atti notarili
- quelli Di Grotte, del Chiuppo, di Scintilia e del Nadore.
*
* *
Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una
pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori
del Duca di Montblanc. [15]
Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto,
Marchese di Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, nella
nota guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli
archivi aragonesi, di certo, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state
le cronache cinquecentesche, specie quelle del Fazello. Se attendibili, queste
note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si
faceva passare per marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia
di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, sarebbe stato
Gerardo a darsi da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei
Martino. Sarebbe sempre Gerardo a mettersi a guerreggiare in difesa dei
catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si
possa concedere è questione ardua, non risolvibile allo stato delle attuali
conoscenze.
Una documentazione probante della titolarità su
Racalmuto i del Carretto sono costretti, comunque, a darla alla fine del
secolo, quando la cancelleria dei Martino diviene intransigente e vuole prove
certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma
Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu
presentato alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per
l’investitura della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni
tra i due fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze
genovesi al primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e
burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto
Matteo Del Carretto? Interrogativi cui non siamo in grado di dare risposte
certe.
I DEL
CARRETTO VERSO LA SIGNORIA DI RACALMUTO
Il quattordicesimo secolo vede i del Carretto
impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, sulla Terra di Racalmuto. Come
questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto,
facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non
dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del
secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in
parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di
una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di
Racalmuto in capo a quella famiglia proveniente da Genova. In un atto -
mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i titoli
per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo agli araldici ed agli
storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle sue
più antiche fonti, difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Quel
che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu
scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di
Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale
di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla
causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la
triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere
legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza
palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a
metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per
quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia
Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa
aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa
in forza della quale il legato del Pontefice anche in materia religiosa
in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare
canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio
di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce
bene la vicenda un documento: esso fu ben presente a Giovan Luca Barberi che
gli tornava acconcio per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di
Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il
Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di
Agrigento. Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de
Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive
attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa
dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia.
Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in
Racalmuto di una chiesetta del canonicato di dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti collegano quella chiesa ad un diploma del
1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il
beneficio può benissimo essere sorto a metà del XIV secolo per accordo tra la
curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi
Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed
a suggello del concordato col Papa.
LA
CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO
Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano
a Giovanni del Carretto, figlio di Matteo, di quell’avventuriero, cioè che si
era arrabattato alla fine del secolo precedente. Henri Bresc vorrebbe
questo Giovanni del Carretto come un disastrato, finito in mano degli Isfar di
Siculiana. A noi risulta il contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano
locale. Appare come creditore dei Martino, acquirente di quote di feudi in quel
di Mussomeli, ma lo storico francese è perentorio: «La baisse du prix de la
terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la
noblesse oblige à un endettement toujours plus grave
et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine
vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans
l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del
Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en
curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.»
Di questa espoliazione della baronia di
Racalmuto a favore di Gispert d’Isfar, non trovasi riscontro alcuno nell’altra
pubblicistica di nostra conoscenza. Il Barone (o Baronio) che scrive nel 1630 ([16]) sembra
escludere del tutto una sì infausta cessione. Ma quel non spregevole latinista,
addentro di sicuro alle segrete cose dei del Carretto, è smaccatamente
elogiativo per dargli eccessivo credito. Comunque, l’interruzione della baronia
dal 1422 al 1453 non viene neppure sospettata. Così è anche in una lunga
comparsa giudiziale della fine del seicento, presentata dall’ultimo Girolamo
del Carretto.
Gibert Isfar avrebbe sposato una figlia di
Giovanni I del Carretto nel 1418 ([17]); il
personaggio è arrogante, intraprendente, si dà all’usura, sa farsi nominare
mastro portolano. Il Bresc è prodigo di notizie sul suo conto. Tra l’altro,
compra per 10.000 fiorini la castellanìa e la “secrezia” di Sciacca (Bresc, op.
cit. pag. 857); opera a tassi usurari del 7% (ibidem pag. 859); è bene
insediato a Siculiana (ibidem pag. 887). Soprattutto riesce a farsi nominare
feudatario di tale centro dell’agrigentino nel 1430 per ripopolarlo (ibidem
pag. 895; ASO Canc. 65, f. 42).
Attorno alla metà del secolo, subentra nella
baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene
ratificata l’investitura stando agli atti del protonotaro del Regno in
Palermo. Un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui
però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate
adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474.
Il Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della
Madonna del Monte. Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto.
Ebbe costui il suo bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere
venuto proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della
potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul
concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero barone Ercole
Del Carretto. Gli contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto
è costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso
la corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe:
traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa.
In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di
religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della
Madonna fu certamente fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla
scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un altare, maestosa, della
chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva. Ai parrocchiani, questo
non può di sicuro venire predicato. Se ne scandalizzerebbero oltre misura. Ma
qui, in un orecchio, può venire sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi
ha orecchie da intendere, intenda.
PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO
Astrette in un paio di pagine
sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([18]) su tutta la storia racalmutese. Desolato il quadro: per lo
scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse
una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto
nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge,
nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile'
.... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e
vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un
eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile',
nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia,
venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di
Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte
accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a
trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre
tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle
rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle
araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi ci accingiamo
ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo
rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio
segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo
rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce
nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare
sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora
narrato dagli eruditi locali con topiche ed errori, spesso con “visionarietà
romantica”: correggerli alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore
dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed
abbagli: consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più
proficuo dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale
al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i
cattolici.
*
* *
Sui Del Carretto di Racalmuto
è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento;
ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte
dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli
amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si
sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici
dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a
vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche
piuttosto gravi:
1.
Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di
una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([19]) è
inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo
era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello
che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui
il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V,
la contea viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo III. Costui, finché
subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte
di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu
prossimo ai cinquant'anni, forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro
il clero di Racalmuto, denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo
barone Giovanni III Del Carretto ed intentando contro di lui, presso il
Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una scottante
scomunica.
Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo
III del Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai
creditori, facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre
e pertanto il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua
morte, con la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto.
Un Girolamo IV ([20]),
dunque, non è mai esistito.
2. Giovanni V Del Carretto non "contrasse
parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di
Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del Villabianca ([21]) - il
Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era
la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che
nel maggio del 1622 sarebbe stato perpetrato insieme "al
priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([22]).
3. Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo
responsabile della «vessatoria pressione fiscale» del terraggio e
del terraggiolo, «canoni e tasse enfiteutiche ... applicati con
pesantezza ed arbitrio» ed «in modo particolarmente crudele e brigantesco» ([23]) dal
conte in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo fu tassa
sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin dai tempi
degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo I,
dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti - quello
di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati
compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo
II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto
una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il terraggiolo con
una donazione una tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti
di Racalmuto. Gli effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per
racalmutesi. I fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un
reddito annuo del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero
o non dovessero il terraggiolo (e cioè due salme di frumento
per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello di Racalmuto).
Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo maggior peso il
sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime sancito nel 1580.
L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento degli agostiniani
'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo
Comite, scrive il Pirro. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a
mutare la doverosa gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi con la
stravagante tradizione riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a
limitare la sua opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a
Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice,
così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre
agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).
Val dunque la pena di tentare una veridica
storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di
vita 'appena descrivibile', si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.
*
* *
Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto,
nulla è reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del
XVI, il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna
stroncatura della legittimità del titolo baronale di Racalmuto in capo alla
rampante famiglia d'origine ligure.
Solo in una circostanza ha ragione da vendere
il Barberi e cioè quando contesta l'ammissibilità della prima investitura
baronale in favore di Matteo del Carretto dopo la cessione da parte del
fratello maggiore Gerardo, primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo, infine, non vi era nei primi anni
del '500 - né vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II
del Carretto né del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne
fa diligente annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi non possiamo discostarci da quello
che scrive, dopo il 1519, quel diligente burocrate sull'origine e sui primi
sviluppi dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo
che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie di una
terra feudale racalmutese in mano a Federico II Chiaramonte, cui succede
la figlia Costanza. Non è storicamente provato che da Costanza Chiaramonte,
sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia passato al
figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi al primogenito Gerardo
Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de communi' in quel di
Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore Matteo (l'altro
fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo per indugiare sui
nostri dubbi.
Prima che l'Inveges - un furbo religioso del
Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine
siciliana (Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai
ha poi avuto la ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui
Chiaramonte (e di striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([24]) aveva
così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo,
l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra con il suo castello di Racalmuto è
sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era un tempo posseduta dal
condam Antonio del Carretto.
Morto costui, doveva succedere nella stessa
terra Gerardo del Carretto, come figlio primogenito, che però
vendette definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su
tutti gli altri beni del cennato suo padre e soprattutto quei diritti
che aveva e poteva avere per ragione di successione e di eredità da
parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli
altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio del Carretto e donna
Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo suo fratello, e
particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del
Carretto, marchese di Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto,
marchese di Savona, acquista i predetti beni e diritti dal fratello
Gerardo, per il prezzo di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento
celebrato e pubblicato per il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo -
VIII^ Indizione - 1399. Il contratto fu accettato e confermato dal signor Re
Martino a vantaggio dello stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e
successori, in perpetuo, come risulta nel privilegio di tale conferma dato in
Catania il 13 aprile del detto anno, annotato nel libro del predetto anno 1399,
VIII^ indizione f. 38. Questo Matteo aveva avuto prima la conferma della detta
terra dal detto signore Re Martino con la seguente clausola «gli cediamo e
concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che
vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto,
ecc. ..», come risulta nel libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché
il cennato Matteo del Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così
devoluti al regio fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine,
nell'obbedienza, ottenne dal detto signor Re Martino la remissione e
l'indulgenza con la restituzione della detta terra e degli altri beni, con
revoca e annullamento di tutti i decreti, sentenze ed atti contro di lui
emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta remissione notato nel
libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.
E morto Matteo, gli successe nella detta
terra Giovanni del Carretto [I], suo figlio ed erede, che ebbe
anche dal Re Martino la conferma della detta terra in un diploma ove
risultano inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al
predetto condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio
del detto re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia
Cancelleria nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto Giovanni, successe Federico del
Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico
ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della detta
terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con
riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re
Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come
risulta nel libro grande dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni
del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare dall'ufficio
della regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della detta terra.
Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole
del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto
Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si
possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo
superiore ad once 700.
E morto il detto Ercole successe nella detta
terra Giovanni del Carretto [III], suo figlio, primogenito,
legittimo e naturale, che prese l'investitura della detta terra tanto per la
morte del detto suo padre quanto per la morte del signore Re Ferdinando in data
31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518 VII^ Indizione f.
462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il padre non avesse
preso l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della morte del proprio
genitore. ([25])
Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo
annotare come questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su
Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno).
Costei, nonna dei fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come
dante causa per ragione di successione e di eredità di
generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si
attiene rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo
anche noi di constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua
ricognizione è quel dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta
chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto,
titolo che la cancelleria di Martino riserba a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo
che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia,
che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia magna sono
preziosi per la ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto
e del loro consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di questa
terra. In un punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in
base ad essa abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi
fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono;
men che meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica
contemporanea (citiamo per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la
regolarità della successione di padre in figlio della baronia di Racalmuto nel
XV secolo. Francesco San Martino de Spucches, nella sua accreditata storia dei
feudi dalle origini al 1925, aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di
Ercole Del Carretto, sempre quello della Madonna del Monte, anziché alla morte
di Giovanni II, a quella di Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo
del tutto fallacemente «suo fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non
risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato,
libro 4°, f. 229).» ([26])
Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti
prima del 1627. Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo,
secondogenito di Giovanni II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'.
Aveva molto correttamente rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi
a cavallo fra XV e XVI secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico
successe Giovanni; a Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno;
ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D.
Giovanni, D. Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([27]) Il Di
Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione
di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il
nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino
De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque,
anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur
eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti documentali sono carenti
in ordine a questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno
è consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette
di seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo
stesso Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del
1519 che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni
II ad Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il
vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche
ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per sentito
dire e Dio sa quanto menzogneri fossero quei nobili, specie se dovevano
rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei Capibrevia. Noi, fino
a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul punto al Barberi vada
prestata totale fede.
Il Fazello, restando nell'ambito della
storiografia feudale del Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli
che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del
Carretto, appunto. Il colto storico è involontario protagonista (in negativo)
nella ricostruzione della storia di Racalmuto per avere ispirato due
tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II
Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire
l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse
accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il
Fazello, però, è del tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda
poggia - responsabili Vito Amico([28]) ed il
Villabianca, quello della Sicilia Nobile([29])
- su un'evidente distorsione di un passo dell'opera dello storico di
Sciacca. ([30])
Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto ([31]):
Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura
di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri
"oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula doveva
includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del
Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici
locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende di
quella famiglia. Ma di ciò a suo tempo e luogo.
Allo spirare di quel secolo, il vescovo di
Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la
potente famiglia dei Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di
vipere, a capo di una conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che
vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i
sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo
Padre - esordisce il prelato - l'Episcopo di Girgente del
Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone
maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha
fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto,
il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana,
il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari, il Baron di Rafadal, il Baron
di San Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la
magior parte delli quali son parenti [.....]
Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto
che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra
facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar
la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso
Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli
vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et
per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao
tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato
seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente
della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con
intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo
regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con tanta pacientia che
la medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse
restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto
pagare quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali
toccanti a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij
promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare
per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme
lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere
et haver giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di
Raxhalmuto et vole che stiano a sua devotione privi della libertà
ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler:
Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in
una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi
anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perché il vicario generale d'esso
exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di
detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto
clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et
excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto
Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso
exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima
volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per
la potentia di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti
civili per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di più don Cesare parente di detto Conte,
per il suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte
episcopale di Girgente, et perché ni fù prosecuto, diventano innimici delli
prelati.» ([32])
Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con
acri rapporti contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli
encomiastici o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari,
testamenti, processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque
rispettose testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).
La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e
si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto
che diviene, nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di
Messina. E' il Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote
di Federico il secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III
Del Carretto. Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel
caso, davvero cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi
di famiglia, è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus,
nihil in eo vel fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca
documentata, senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella
ricerca sia stata la base di un libro scritto poi, nel 1630, proprio dal
Baronio. ([33])
Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il
Di Giovanni che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di
Palermo. Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato. Come
leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v.
nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia
encomiastica della città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva
di Palermo uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872
nella Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia di Gioacchino
Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il
nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di citarla (sia pure con la
piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia
Sacra del Pirro: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le
vicende hanno riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della
iniziativa di Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli
agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito
acriticamente per il rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia
medievale di Racalmuto - tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di
Racalmuto, che nel 1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e
villani purché edificasse la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci
di pietra dal paese, in località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la
dubbia sequenza successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che
avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio del marchese di
Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de
Carretto, personaggio del tutto inesistente nella nostra storia
feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre
nelle cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o
barone di Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le
pagine 237-240 ([34]) alla
famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella
inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra
Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza
di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del
Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione
genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe
spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore (sempreché di
effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo riguardante
il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto: sembrerebbe, a prima
lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto siano figli del secondo
anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio;
vi sarebbe confusione tra nonno e nipote, confusione del resto abbastanza
consueta tra gli storici del ramo siciliano dei Del Carretto anche per
quelle omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli).
Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede
Giovanni I e non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre,
Giovanni I - sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa
incerta successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del
Monte, è Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce
dal passo del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la
precisione e la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del
succedersi dei feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei
confronti della trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma
al "vivente don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno
prima del 1650, data della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a
Palermo per delitto di lesa maestà.
Intervallati da più di un decennio escono a
Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don
Agostino Inveges: il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui
è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il secondo, La Cartagine
Siciliana, è datato 1661 ([35]) e può
dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata
l'inesorabilità del declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova
molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i
feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami
trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non
sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio,
mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal
sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di
piaggeria araldica. ([36]) Si dà
il caso che l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la
indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai
Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli
nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se
le vicende chiaramontane raccontate nella Cartagine Siciliana sono
inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia racalmutese di quel
tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il testamento di Federico
II Chiaramonte ([37]) è il
fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che
sappiamo aliunde essere davvero la nonna di Gerardo e Matteo
Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il lavoro
dell'Inveges ([38]), ma
sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma
noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del
Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro,
di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie,
quando sarebbe tornato molto utile.
Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni
capitali segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del
Carretto. Vi è molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella
particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie
case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della
famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento. ([39])
Valerio Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto
nell’incendio a Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio
Veneziano. ([40])
Eclatante il mortale attentato in cui perse la
vita Giovanni IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo
descrive un anonimo diarista palermitano. ([41])
Quando, ai primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11
gennaio, fu arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto,
l'impressione a Palermo dovette essere enorme. Il conte fu imputato del delitto
di lesa maestà, come uno dei capi principali di una congiura andata del tutto
fallita. Nel suo diario ne fece diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria
([42]) che
poi seguì passo passo lo sviluppo giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per
"affogamento" «privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag.
367) il 26 febbraio di quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI PRIMI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è dubbio che una potente famiglia
denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo
secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi
del magniloquente titolo di Machesi di Savona. A cavallo tra i secoli
tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro
potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli.
Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo
Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo
decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tal marchese,
evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di un
Barone è tale che gli odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo
personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi, sia
pure in corsivo, mostrando di non esserne certi.
Diciamolo subito: un marchese Antonio I
del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad
Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte,
semplicemente non esiste.
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