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mercoledì 26 ottobre 2016

Il Dubbio di Sansonetti pubblica stamane l'articolo di Francesco D'Amato, che rilancio in FB per una lettura, credo anche questa molto interessante.
Pensavo di sentire Calogero Mannino furente quando l'ho chiamato per parlargli dell'anno trascorso inutilmente dal 4 novembre del 2015, quando la giudice dell'udienza preliminare Marina Petruzzella l'assolse con formula piena, e rito abbreviato da lui richiesto, dalle accuse di cui stanno rispondendo da più di tre anni e mezzo gli altri undici imputati, eccellenti nel bene e nel male, al processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia della stagione stragista del 1992-93. Trattativa che sarebbe stata sollecitata proprio da Mannino perché minacciato di morte e interessato, secondo l'accusa, all'accoglimento delle condizioni poste dalla mafia per rinunciare alle stragi.
​La sentenza di assoluzione di Mannino, alla quale i pubblici ministeri di Palermo preannunciarono ricorso in appello prima ancora di conoscerne le motivazioni, diversamente dalla cautela responsabilmente mostrata dal capo del loro ufficio, non è stata ancora depositata, almeno fino al momento in cui scrivo. E, non potendo essere stata perciò impugnata e tanto meno confermata nè in secondo grado ne' in terzo, dove le abitudini degli inquirenti di Palermo lasciano pensare che si arriverebbe, la sentenza è un colpo fortissimo ma non letale per il processo, diciamo così, parallelo in cui rischiano ancora la condanna, oltre a fior di malavitosi, anche fior di generali, come Mario Mori, e di politici, come Nicola Mancino, ministro democristiano dell'Interno all'epoca della presunta trattativa, poi presidente del Senato e infine vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, con Giorgio Napolitano presidente. Cui lui si rivolse per telefono durante le indagini trascinando anche il capo dello Stato nelle intercettazioni poi distrutte solo con l’intervento della Corte Costituzionale.
​Pensavo, dunque, di trovare Mannino giustamente irritato per i tempi lunghissimi della giustizia italiana, che riescono a rovinarti anche la festa di un'assoluzione. Ma Lillo, come è chiamato dagli amici il tante volte ministro della Dc, passato negli anni della cosiddetta Prima Repubblica dalla Marina Mercantile all'Agricoltura, dai Trasporti al Mezzogiorno, è stato di un laconico e disincantato commento all'estenuante percorso della sua sentenza di assoluzione appena descritto con le solite arguzia e precisione da Giuseppe Sottile sul Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa.
​"Sono passati 25 anni da quando ho cominciato ad avere problemi giudiziari. Aspetterò che passi anche il ventiseiesimo. Pazienza". Mi ha detto Mannino con aria per niente stizzita, e con la rassegnazione suggeritagli, credo, più che dalla stanchezza e dalla sua esperienza di politico e di avvocato, dalla comprensibile prudenza, nel timore di passi falsi.
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​Pur felicemente sposato con la sua carissima Giusi non so da quanti anni, sicuramente più di 25, Mannino ha avuto quindi l'avventura non comune di celebrare le nozze d'argento con un'altra signora che ha avuto in sorte. E che si chiama Giustizia.
​Il primo incontro con questa donna avvenente solo nelle statue che la raffigurano risale al 1991, quando il pentito di mafia Rosario Spatola lo fece mettere sotto indagine, nonostante qualche anno prima, nominato dall'allora segretario della Dc Ciriaco De Mita commissario regionale del partito, egli si fosse distinto per clamorose azioni di bonifica. Era stato lui l’artefice dell'espulsione dell'ex potente sindaco di Palermo Vito Ciancimino dal partito scudocrociato.
​Le presunte rivelazioni di Spatola non ressero alle verifiche della Procura di Sciascia, dove il caso fu archiviato in ottobre, pur tra polemiche fra due magistrati trasferiti entrambi dal Consiglio Superiore. Polemiche che contribuirono a lasciare il caso mediaticamente aperto. Ne feci in qualche modo le spese in una trasmissione televisiva dei primi mesi del 1992 condotta sulle reti dell'allora Fininvest da Gianfranco Funari, che preferì farmi uscire per protesta dallo studio, in diretta, piuttosto che difendermi dall'accusa di "picciotto" rivoltami da un collega che non aveva gradito la difesa che avevo fatto di Mannino di fronte ad una foto che lo ritraeva al matrimonio della figliola di un segretario di sezione democristiana della sua Sicilia con un giovane risultato poi coinvolto in ambienti di mafia.
​Il 24 febbraio 1994 la campagna elettorale per il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica fu contrassegnata anche da un avviso di garanzia a Mannino per reati di mafia, seguito il 13 febbraio dell'anno dopo dall'arresto per concorso esterno in associazione mafiosa. L'imputato rimediò 9 mesi di carcere, il cui ricordo ancora gli pesa, e altri 13 di detenzione domiciliare, ma nel 2001 fu assolto in primo grado perché "il fatto non sussiste". In appello invece fu condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione, ma la sentenza venne strapazzata dalla Cassazione come peggio non si poteva, indicata ad esempio di come non potesse essere steso e motivato un verdetto.
​Eppure a sentenza definitiva di assoluzione, dopo un altro passaggio in appello, non fu concesso a Mannino nessun risarcimento nella presunzione ch'egli avesse voluto correre i rischi derivanti dalla frequentazione di persone in odore di mafia, pur non avendo concorso in alcun reato.
​Neppure con questo tuttavia, e nemmeno col sospetto infondato da cui dovette difendersi di essersi procurato i danni di un attentato a una cantina di vino passito che produce a Pantelleria, i conti di Mannino con la giustizia erano destinati a chiudersi. Doveva ancora arrivare il rinvio a giudizio, il 24 luglio 2012, per la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. E la lunga attesa, adesso, del deposito della sentenza di assoluzione, pur ottenuta col ricorso al rito abbreviato.
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​Disincantato più che avvilito da queste nozze decisamente non riuscite con la signora Giustizia, ciò di cui veramente Mannino non si dà pace è di non essere riuscito ad aiutare sino in fondo l'amico Giovanni Falcone. Di cui egli condivise la tragica intuizione avuta nel 1989, quando al già famosissimo magistrato toccò di interrogare in un carcere il pentito di mafia Giuseppe Pellegriti. Che accusò l'ambiente andreottiano, in particolare Salvo Lima, di alcuni delitti, fra i quali quello di Piersanti Mattarella, il fratello dell'attuale presidente della Repubblica. Governatore della Sicilia, il povero Persanti era stato ucciso sotto casa il giorno della Befana di nove anni prima, davanti agli occhi della moglie.
​Insospettito dalle incongruenze del pentito e ancor più dal registro dove aveva voluto verificare le visite che questi aveva ricevuto in carcere prima di rendersi disponibile a parlare, Falcone decise di denunciarlo per calunnia. Da allora il magistrato più attrezzato nella lotta alla mafia non ebbe più pace, persino fra i colleghi.
​Informato del clima creatosi negli uffici giudiziari di Palermo e dintorni proprio da Mannino, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga in uno slancio di cui solo lui era capace nei momenti migliori si mise a cercare una soluzione che potesse mettere in sicurezza Falcone e continuare ad usarne nello stesso tempo l'esperienza di magistrato antimafia. Fu lui a suggerire all'allora ministro della Giustizia Giuliano Vassalli di chiamare Falcone a Roma a dirigere gli affari penali di via Arenula, dove però bisognava crearne le condizioni trovando un'altra, adeguata destinazione a chi guidava con apprezzata competenza quell'importante ufficio.
​Impostata da Vassalli con una pratica condivisa personalmente anche dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, cui il Guardasigilli riferì dettagliatamente sulle ragioni dell'intervento, l'operazione fu portata a termine da Claudio Martelli, succeduto al giurista socialista nominato nel febbraio del 1991 giudice della Corte Costituzionale.
​Falcone, in verità, oppose qualche imprevista resistenza dopo il cambio della guardia al vertice del Ministero della Giustizia, cedendo solo alle fortissime pressioni del capo dello Stato. Ma il suo fu purtroppo un trasferimento doloroso per le occasioni di polemiche anche aspre che certi colleghi non gli risparmiarono, e soprattutto inutile per la tragica sorte che lo aspettava il 23 maggio 1992. Quando i mafiosi -e spero solo loro- riuscirono ugualmente a ucciderlo con la moglie e quasi tutta la scorta a Capaci, fra l'aeroporto e la città di Palermo, mentre in Parlamento si susseguivano a vuoto le votazioni per la successione del dimissionario Cossiga al vertice dello Stato, e Andreotti cercava di mettersi in pista dopo il fallimento della candidatura dell'allora segretario della Dc Arnaldo Forlani. Candidatura, quella di Forlani, sostenuta da Bettino Craxi, contestata nel Psi da Rino Fornica e boicottata nella Dc dagli andreottiani.
​​​​​​ Francesco Damato

​Trasmesso a Il Dubbio lunedì 24 ottobre 2016
​Pubblicato su Il Dubbio di mercoledì 26 ottobre 2016, a pagina 14 dei commenti con richiamo in prima- Titolo del richiamo: Le nozze d’argento di Mannino e la giustizia- Titolo di pagina 14: Mannino e le nozze d’argento con la giustizia: 25 anni d’attese- Un anno fa l’assoluzione nel processo per la cosiddetta trattativa Stato-Mafia ma ancora non è stata depositata la sentenza

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