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sabato 15 ottobre 2016

La trasuta di li miricani
Mini storia racalmutese
di CALOGERO TAVERNA
Enzo Macaluso di REGALPETRA VIAGGI editore
Calen di maggio; maggio mese dei fiori; maggio mese del mio compleanno. Siamo nel maggio del 1943. Il 10 di quel mese compio nove anni; frequento la terza elementare e pare che sia bravo a scuola: il primo della classe, dicono. Mio cugino, Giacomo Saccomando, non brilla molto a scuola, ma è davvero bravo con la "fileccia". Colpisce le colombe anche lassù nelle feritoie di "LU CANNUNI". Svelto coi pugni, si fa rispettare da quelli che vengono su a lu CHIANU CASTIEDDU da SANTA NICOLA o da la FUNTANA. Io dovrei essere un funtanaru, ma sto con mia nonna in una sorta di catoio DARRIERI SAN GNISEPPI, sopra la discesa di San Francesco. Mio cugino sta nelle CAMMARI di SUSU; il padre è militare in Grecia. Pur anzianotto è dovuto partire per soldato per il fatto che si era dovuto arruolare nella Milizia dopo un alterco con un milite protetto da Carminu Burruano. Credo che allora mi invidiasse avendo io oltre che la madre anche il padre a casa. Da fanciullo mio cugino era piuttosto manesco e forse cattivo: con gli animali era piuttosto crudele. Io ero fragilino, tanto pio e volevo farmi parrino. A giocare al dottore con le bambine non andavo: non sapevo neppure cosa facessero. Ed Angila la figlia di Rita mi ebbe per superbo e ce l'ebbe con me persino a tardissima età. Era bruttarella, oltretutto, e semmai io arrossivo ed abbassavo gli occhi per una biondina di San Giuliano. A vederla dopo, piccoletta e rachitella, ebbi a dubitare delle mie capacità discernitrici.
In quel maggio, con mia nonna e con la sorella di mia nonna - la zza Turidduzza, spirlungona rispetto alla sorella, ma col lo stesso jppuni, egualmente e totalmente in nero, meno il candido fazzoletto in testa - andai alla Curma a mettere la ticchiara a li ficàri. Poi io, mia nonna e sua sorella, ci inerpicammo per lu Castidduzzu ove la zza Turidduzza aveva una robba bella grande in una proprietà vasta e ben alberata. Anche là mettemmo la ticchiara. Laggiù, a Porto Empedocle sparavano i cannoni in risposta alle cannonate delle navi americane, ma non ce ne curavamo. Eravamo abbastanza lontani e non era sera: allora sì che era uno spettacolo sembrava un grandioso castieddu fuocu.
Mia nonna e sua sorella avevano i figli emigrati in America: a Buffalo la prima; a New York la zza Turidduzza. Entrambe prima dello scoppio della guerra erano state fornite abbondantemente di zucchero e caffè. Mia nonna teneva sopra lu cantaranu una fila di burnie piene di quel ben di Dio, che era merce preziosa ora durante il conflitto. Mio cugino, scendeva spesso di soppiatto e salendo su una siggiteddra, che mia nonna non alta di statura prediligeva, riusciva a scoperchiare la burnia dello zucchero e trangugiare pugni pieni di quella prelibatezza. A me sembrava che commettesse peccato mortale ed ero convinto che non si confessasse neppure anche se si faceva la comunione. La prima comunione ce l'eravamo fatta insieme tre anni prima. Io avevo un completo di giacca e pantaloni lunghi che bianchi com'erano mi facevano apparire come un buffo angioletto: con libricino bianco in mano frammezzato da una coroncina pur essa bianca - mio padre ne faceva commercio - mi fecero la fotografia appoggiato ad una colonnetta piuttosto alta con sopra un vaso di fiori finti. La posseggo ancora.
In quel maggio lì, in Africa era avvenuto quello che è avvenuto; per l'Italia la guerra era ormai irrimediabilmente persa. Toccava a noi subire l'urto della strabocchevole potenza alleata; all'America, all'amica America, alla terra promessa di tanti emigranti, a tanti nostri compaesani là emigrati, ai loro figli il compito di conquistarci. Fu liberazione? fu aggressione? Dopo le aspre polemiche dell'immediato dopoguerra, ecco riproporsi il quesito. Non credo che la parola sia davvero passata agli storici, alla ricerca obiettiva, anche se la querelle attuale mi sa troppo di pruriti eruditi, di voglia di contraddire, di correggere, di sapere, di potere apparire più intelligenti. L'America ci è amica, la Germania ci protegge, i fascisti sono patetici ed innocui nostri consanguinei, la Sicilia non ebbe guerre partigiane (e se ciò è un male per la crescita culturale, è un bene per il relativismo che bisogna avere nelle militanze politiche).
Sfogliando una raccolta ben rilegata di un settimanale dell'epoca IL MATTINO ILLUSTRATO che il suocero di mio fratello teneva ben custodito, mi soffermo sull'ultimo numero della Sicilia fascista, l'anno XXI (ovverossia il 1943), mese di maggio.
Mi colpisce l'assenza di immagini di Mussolini; ma quel periodico mai mostra Mussolini; forse era questione di censura di guerra. Sembra ormai che la guerra non ci sia più. Almeno per la Sicilia. Sono amori ancillari che hanno spazio; voli aerei dell'epoca, romantici, vagamente sensuali. Sono le cene dei ricchi che affiorano, in tempi credo (e ricordo) di grandi privazioni. Vestigia dell'ancora imperante regime col VOI al posto del Lei ed una periodizzazione cara a Starace.
Dopo l'ultimo numero di maggio 1943, il periodico non arriva più a Racalmuto, nella casa dei solerti benestanti della famiglia Palermo. Neppure le innocue rievocazioni storiche di un papa pur discutibile per il fascismo come PIO XI ci saranno più. Sparisce il settimanale con l'ultima pagina disegnata con scene soprattutto irridenti all'America.
A giugno sostenni gli esami di terza elementare; terrore di fanciullo il mio; soddisfazione paterna per il brillante risultato, il primo invero di tant'altri che hanno costellato la mia vita e che hanno riempito di orgoglio mio padre, che non lo celava al Mutuo Soccorso incassandone malcelate invidie. Io mi irritavo tanto; ma pover'uomo non faceva nulla di male. Ovunque tu sia, padre mio, questo tuo figlio, ora quasi ottantenne, ti ricorda con molto melanconico affetto e ti vuol bene come se tu fossi ancora fra noi.
Ombre fluttuanti, ai miei occhi appariste .... eccovi ancora.
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Riprendo il racconto con una precisazione: nel 1943 nessun MATTINO ILLUSTRATO giunse a Racalmuto. Mi sembrava strano: ora so che varie annate del MATTINO ILLUSTRATO tutte e belle e rilegate pervennero a Racalmuto ma da una bancarella di Palermo e quando eravamo negli anni ‘60. Nel 1943 a Racalmuto era solo cessato ascoltare a mezzogiorno il comunicato radio, dopo il celebre cinguettare, a capo scoperto. Con il 13 maggio anche il residuo patriottismo dei più grintosi fascisti si era afflosciato. Solo Giuggiu Agrò poté credere alla retorica del bagnasciuga dell’ormai spento Mussolini. Certo i baldi cadetti vi facevano coro, ma con quanta convinzione non sappiamo dire. L. M., L. di M., G.C., Leopoldo, tutti i cugini di M., il non cresciuto P. F. ed altri ed altri ligi al duce, poco al re, si dichiaravano pronti alla morte ma nel calduccio delle case racalmutesi; ad ammirare il martire fascista e a credere, ubbidire e combattere, ma solo nelle colonie elioterapiche del Serrone. A sbirciare magari le piccole donne in camicetta bianca ed in gonnellino nero. Quando insomma fiorirono i primi amori. E mi pare che non andarono a buon fine. Amori che se si consumarono, come dicono i preti, non portarono al matrimonio. Il matrimonio magari dopo vi fu, ma tra parenti stretti, Alcuni di loro spinnarono fino al decomporsi della non più giovane vita.
Sciascia odiava il “giummo”: quando l’ho scritto, un fanatico per poco non va a comprarsi una lupara per scaricarmela addosso. Sciascia giovane col fascismo vi bazzicò. Aveva zio quasi federale ed il primo impiego glielo diede nelle odiose trappole fasciste della requisizione del grano superfluo o intercettato al mercato nero. Si chiamava Consorzio Agrario. Un galantuomo di vecchia data ebbe ad adontarsene e se lo segnò a dito. Venuti gli americani, quel galantuomo, che pur aveva avuto alti incarichi nelle ragnatele paramilitari fasciste, divenne persino capo della inventata sezione partigiana racalmutese. Subito se la intese con Guarino Amella di Canicattì. Quando ancora forse il celeberrimo Tony, questo strano yenkee americano che signoreggiò su Racalmuto e ne taglieggiò qualche ricattabile farmacista, non era sbarcato; il galantuomo, dottore per antonomasia, riuscì a far spedire in Africa per un paio di anni di internamento Giuggiu Agrò l’ex gerarca fascista (che aveva osato requisirgli qualche stanza del suo palazzo in via Matrona per darlo ad ufficiali tedeschi ed anche italiani), l’evanescente maresciallo Craveri (cui i tre americani conquistatori di Racalmuto, avevano tolto la pistola d’ordinanza in piena piazza, che è poi il Corso Garibaldi dinnanzi la putia di Ticchitì) e tale don Bardiddu (finito vice podestà per la insostituibilità del podestà Matina chiamato alle armi e per la indisponibilità degli altri gerarchi anzianotti, Grillo o Farrauto, riluttanti a coprire tale ormai scottante carica). Uomo vendicativo, quel galantuomo, passato dalla sera alla mattina da gerarca fascista a capo della sezione partigiana di Racalmuto, non fu contento di avere fatto tre vittime – per il paese tutti e tre innocenti, ma più innocente di tutti viene ancora ritenuto ed era don Bardiddu.
Il nostro galantuomo compila una lista di duecento nomi – tutti quelli che odiava o di cui si voleva vendicare o per un motivo o per un altro - e lo porta a Canicattì per il confino in Africa. Tra questi vi era Nardu Sciascia e don Pino Matina; vi era pure un altro giovane che mi pare fosse Fofu la Gadda. Ne ebbe sentore il neo sindaco, il celeberrimo – per i racalmutesi, e celebrato da Tanu Savatteri – don Ballassaru Tinebra. Questi si precipitò a Canicattì e bloccò arrabbiatissimo il provvedimento. Sarà stato quello che si dice (e si scrive), sarà stato ammazzato da ignoti, o da C. come credo, il mandante sarà stato ignoto oppure - e pare – certo, sarà stato l’ex affittuario di Gibillini, sarà stato quel che volete, ma Sciascia, don Pino Matina ed altre centinaia di Racalmutesi si risparmiarono un paio di anni di confino in Africa per la solerzia e l’umanità di questo primo sindaco imposto dagli americani, tramite il solito Guarino Amella di Canicattì. Questa era allora mafia; questa era allora infiltrazione mafiosa, ma non risulta che si avesse voglia di inviare a Racalmuto prefette in gonnella per sbaragliare le nostre cosche mafiose.
Sciascia non si era ancora diplomato. Credo che avesse solo voglia, fumando già molte sigarette, di starsene a leggere in continuazione tutto quello che gli capitava, comodamente seduto nella terrazzina ad angolo tra lo spiazzale del monte e la discesa che ora porta il suo nome, e leggere nella terrazzina di fronte all’ambizioso palazzo dei Nalbone. Veramente il palazzo era stato dei Savatteri. Ma uno scriteriato rampollo, innamoratosi di Donna Marietta, tutto scialacquò per regalare scintillanti diamanti e i soliti ori e propiziarsi l’amore. Non vi riuscì, neppure quando, per aggirare gli ostacoli, tutto un patrimonio consegnò a prezzi stracciatissimi agli astuti genitori. Ma questo era avvenuto in un tardo secolo del passato millennio. E non son cose appurabili, narrabili solo per enigmi. Qualcuno dice che la concupita morì intatta e pia, forse ammaliata da un sacro sacerdote, ma non consunto fu il sacrilego amore.
Sciascia a quindici anni era fascista ammaliato dalle adunate del sabato fascista; lo testimoniano talune cartoline postali inviate a don Pidduzzu. Il figlio me le ha fatto consultare: erano acerbe, inceppate, ignare di regole grammaticali. Tutt’altra solfa, insomma rispetto all’impareggiabile grafia del futuro scrittore. Le missive grondavano solo appetiti per “minne” smisurate che alcuni di noi maligni riuscimmo a individuare. Il vizio solitario dei giovanetti era qui abituale come in ogni parte di questo mondo, così come in ogni tipo di maschio uscito dalla pubertà, fosse pure un futuro grande scrittore.
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”La trasuta di li miricani” a Racalmuto, Sciascia ce la racconta, molto sapidamente, in Kermesse. In quel tempo avevo pur io età per ricordare qualcosa. In tante parti del racconto del Racalmutese i ricordi combaciano, in altre no. Per il seguito credo di sapere ciò che Sciascia non volle confessare. L’esordio è frutto di erudita ricerca storica. Sfracella il generale Roatta; un tempo mi era sembrato eccessivo, ma un bel giorno del marzo 2012 Enzo Macaluso mi trascina nel museo di Catania e lì quel proclama ironizzato da Sciascia c’è esposto e mostra davvero la marronata di quel generale: davvero – ho pensato – la guerra è una cosa molto seria per farla fare ai generali.
Dopo, lo scrittore fa una cronaca di guerra diversa dai miei ricordi e dalle versioni che pur bambino riuscivo a decriptare. Io racconto la mia versione.
Da San Giuliano, nel primo pomeriggio del 14 o 15 o 16 luglio del 1943 affacciato nell’ “astracu” della mia vecchia casa natia di Via Fontis dei documenti (divenuta poi via Fontana ed ora Via Gramsci), vedo scendere una ronda di tre soldatoni, marziale il passo. Martellante l’incedere, armatissimi, casco in testa. Fucili in pugno. “ I tedeschi .. i tedeschi” gridavano alcuni. A Racalmuto i tedeschi non c’erano. Soldati italiani tanti, a lu cannuni, davanti a “ma mamma Cuncittì”. A frotte. Mangiavano nelle loro gavette. Molti seduti sul marciapiede lungo tutta la facciata del fortilizio; altri appoggiati alle inferriate di “lu Cannuni”. Un pacioso in divisa grigio-verde prese in braccio mio fratello Luigi, allora belloccio e biondiccio, e cominciò a baciarlo. Mia nonna terrorizzata voleva levaglielo di mano ma quel pacioso militare gli disse in dialetto nordico: me lo lasci baciare un po’: ho un bambino come questo che non vedo da mesi. E’ bello come questo qui. Mio fratello aveva manco tre anni.
“ Che tedeschi e tedeschi” risposero altri. “Questi, americani sono”. Sgomento, prima, perplessità, dopo. Infine come una folgorazione: “viva gli americani”. Figli di taliani sunnu. Abbasso il duce, stu’ gran curnutazzu, ca nni rruvinà. E giù battimano , tutti a batter le mani. La ronda si rasserenò, sorrise persino. Gli americani “eranu trasuti a Racalmuto”.
Sciascia sapidamente irride al noto proclama Roatta. Come ho precisato, lo ebbi a leggere in una gita fatta con Enzo Macaluso visitando il museo sullo sbarco di Catania, un museo molto agghindato. Ne vale la pena visitarlo, anche se forse molto esuberante per una sola decina di giorni di storia siciliana. Ma trattasi di inquietanti vicende a raggio planetario. Altre priorità della tanto incalzante Sicilia, se aspettano, non è poi malanno esiziale.
A leggere le invocazioni roattiane non si può non dare ragione a Sciascia. Quando Sciascia scriveva, non credo che si soppesasse ancora a pieno il movimento di Bossi, considerato a torto o a ragione antisiciliano. Poi quel movimento crebbe e per reazione il sentire siciliano divenne nazionalista e gli empiti separatisti del primo dopoguerra si afflosciarono. Un tantinello anche i miei. Solo che ora mi sento cittadino del mondo nato a Racalmuto. Se ho bisogno di una patria fisica, mi rifugio a Racalmuto, se mi si parla di valori nazionali ne rifuggo reputandomi uomo alla pari di quei sei o sette miliardi di esseri umani sparsi per l’intero mondo. Ce l’ho con l’Italia intera dopo che ho ben capito che cosa significò l’essere stato mio nonno disperso di guerra. Della guerra del 15-18, per intenderci. Mio nonno aveva soltanto 37 anni nel ’17. La strategia militare dei generali del tempo rimase terribilmente nota per usare gli esseri umani in grigio-verde come muraglia all’avanzare del nemico: che avanzava e sparava e falcidiava. Mio nonno aveva comprato una mula; stava salendo di grado nella scala sociale dell’era giolittiana: da mezzadro a coltivatore diretto. Aveva già cinque figli. La moglie ancor più giovane divenne subito vedova per la faccenda di Caporetto. Mio nonno sparì e nella burocrazia militare fu segnato come disperso. Ancor oggi non si sa ove fu sepolto. Sinceramente non gliene importava nulla a mio nonno di liberare Trento e Trieste. Non capiva neppure una parola di quel dialetto veneto, lui analfabeta che le lettere alla moglie se le faceva scrivere da qualcuno lì al fronte che lu cuocciu di la littra ce l’aveva.
Dal fronte mio nonno urgeva: che si recasse mia nonna a supplicare la suocera. Mio nonno padre di cinque figli era; ben tre altri suoi fratelli erano sotto le armi. Lui aveva diritto a venire congedato, gli avevano detto. Bastava che la madre ne facesse istanza. Mia bisnonna, mamma Pippina – matriarca vera e dispotica e tutta la famiglia, maschi e femmine teneva sotto di sé – non se ne dava per intesa: “sì, fazzu turnari Caliddu .. e cchi bbeni intra nni mia; intra nni tia ssi nni va … va … va, vattinni va” . Mia nonna la odiò per tutta la vita. A noi nipoti, ci fuorviava con quelle invettive contro la suocera. Noi nipoti finimmo col crederle … e la bisnonna divenne una odiosa “mamma Pippina” come se non fossimo sangue del suo sangue.
Sarà! I miei ricordi stridono. Una mia zia monaca che mi sembrava tanto vecchia ed invece aveva appena 33 anni, aveva dovuto lasciare il convento per i tremendi bombardamenti americani ed era venuta a dimorare a casa nostra. Tutta nera di vestito, destava preoccupazione. Si diceva che gli americani scambiassero chi andava vestito di nero per fascista e lo mitragliavano di colpo. Un carrettiere racalmutese ebbe a morire per le mitraglie americane sol perché – si diceva – aveva la camicia nera per un lutto strettissimo: altrettanto si disse per un contadino racalmutese trucidato dagli anglo-americani. Brava gente si vorrebbe oggi.
A far levare l’abito monacale e farla vestire da cristiana qualunque, non c’era verso e la monaca, provvisoriamente di casa, non si sapeva come nasconderla. Fu così che anzitempo andammo “fori”, nella casettina di la Curma, mia nonna, la figlia monaca, una nipote cresciutella, mio fratello Giacomo, ed anche Giovanni e Luigi.
Questo avvenne nei primissimi di Luglio. Si sussurrava dappertutto che la guerra era persa e francamente questo non interessava ad alcuno: sia pure vagamente si pensava che i disagi potessero diminuire. Va detto che a Racalmuto, fame vera e propria non ve ne fu. Si coltivava la terra e l‘arriconta bastava per tutti; il pane – non quello della tessera che era immangiabile e serviva ai bambini per appallottolare la mollica e farne palline da gioco – che si mangiava veniva accompagnato dalla pasta, dal sugo di pomodoro maturato al sole o dall’astrattu nel periodo invernale. Racalmuto ha sempre prodotto vino, non di eccelsa qualità, ma sempre vino genuino era; nutriente. Favi, ciciri, piseddi, cacuocciuli, puma, piruna, ficu, e fucudinii, in abbondanza. Chi non aveva terra comprava al mercato nero da chi ce l’aveva. V’era l’obbligo dell’ammasso. Sciascia, che per via dello zio gerarca era privilegiato, ebbe subito un posticino negli uffici comunali dell’ammasso. Credo che dopo se ne vergognasse un po’. In FUOCO ALL’ANIMA qualcosa dice, molto nasconde.
Quella storiellina del contadino e dell’arciprete va un tantinello rettificata: a Racalmuto tutti in quel tempo facevano il mercato nero con il grano, cercando di non darlo per nulla all’ammasso, ove bivaccavano due baldi giovanotti raccomandati. Sciascia dice di non essere andato militare perché gracilino. Se non avesse avuto un paio di zii quasi federali, ci sarebbe andato e come. I due – il contadino e l’arciprete – finirono nei guai il primo per testardaggine, il secondo per astiosa vendetta. La storia del contadino, che contadino non era ma un buon burgisi con figlie femmine che non tutte sposarono e con tre figli maschi divenuti professionisti di tutto rilievo, quando me la raccontarono molto mi son divertito. Ora non la ricordo più bene. Aveva un figlio ufficiale il contadino e si credeva una parte dello stato; come potevano molestarlo per una sciocchezza che, se reato era, tutti i racalmutesi erano colpevoli, anche l’arciprete. L’arciprete subì anch’egli l’onta del processo, ma più accorto ne uscì assolto, l’altro, invece, cominciò a sbraitare, ad insolentire e forse aveva ragione: appunto per questo indispettì oltre misura i giudici, che la coscienza pulita al riguardo non ce l’avevano neppure loro, ed ecco una bella condanna a dispetto.
I due giovanottoni, per essersi acquistata una buona dose di malevolenza da parte di un dottore non medico, alquanto irritabile, dovevano finire dopo tra i berberi in Africa. Il famiglio del grande mafioso Calogero Vizzini – già quando come dice Sciascia in fuoco all’anima, “la mafia era la mafia” ed è frase se non elogiativa almeno lievemente ammiccante – evitò a Canicattì presso il comando alleato la deportazione, come si disse, e così Sciascia poté dopo persino vincere il concorso a maestro elementare. Insegnò a Racalmuto, svogliatamente, se vogliamo esser sinceri. I suoi meriti sono letterari, non didattici, né storici (almeno nel campo della microstoria locale) e per quel che mi riguarda nemmeno politici. Né con lo Stato né con le Brigate rosse non fu frase molto felice. La cena con Berlinguer, Guttuso e lo scrittore finì in tribunale ma ancora non ha sentenza. Io sono per Berlinguer e per Guttuso. Il giornalista racalmutese, molto bravo, Macaluso è rissosamente per Sciascia: si vede che ne sa più di me.
In NERO SU NERO di Sciascia, a pag. 118, trovo questa chicca: «Ho vivo il ricordo di quel che è successo quando, nel ’43, l’amministrazione militare alleata nei territori occupati AMGOT: ne ripeto la sigla assaporando l’amarezza di un tempo, (più che perduto, deluso) mostrò di avercela coi fascisti e di gradire denuncie contro i più pericolosi e disonesti. Non uno ne fu denunciato e subì deportazione in Algeria che non fosse degli onesti, degli innocui, dei ‘fessi’ (e cioè di quelli che dal regime in articulomortis avevano accettato quelle cariche da cui i furbi ormai si defilavano). I facinorosi , i profittatori, i ladri furono non solo risparmiati, con una selezione a rovescio che si può dire senz’altro perfetta, ma furono segnalati alla fiducia degli ufficiali americani ed inglesi, che gliene accordarono.»
Certo quella ‘i’ in più nelle denunce, lascia un po’ stupiti. Il quadro è dilettevole. A voler fare le pulci al grandissimo Sciascia, diciamo che tra quei “fessi” vi fu a Racalmuto solo don Bardiddu, che maresciallo e segretario politico, chi per devozione fanatica e chi per il pane quotidiano che insieme al companatico elargiva la benemerita, non potevano passare tra i “furbi” tra i quali Sciascia qualche suo parente stretto (meglio affine, forse) sapeva vi annidasse. E meno male che tra i “facinorosi, i profittatori e i ladri”, vi fu qualcuno che, dopo, impedì la deportazione in Africa del Nostro. Il quale, ora lassù, mentre col profittatore (fulminato dalla lupara davanti Danieli) sta a rimembrare “questo pianeta”, un qualche “ingrato” se lo becca. Queste vicende mi sono state narrate dal don Pinu Matina, per me un gran signore, un “galantuomo”, uno di quelli di cui si sono perse le tracce al Circolo Unione. Anche lui prossimo alla deportazione. Lui sempre grato ed obiettivo anche. D’altronde poteva urtare la suscettibilità di chi talora gli stava vicino impettito nella signorile poltrona del Circolo.
Nella sua primavera letteraria Sciascia scrisse KERMESSE. Quattro o cinque pagine sapide, deliziose, ironiche, veritiere. Solo un po’ pudiche nella parte finale.
Prende subito di mira ROATTA e il suo proclama: lo lessi al museo dello sbarco di Gela a Catania. I generali, non solo non sanno fare la guerra ma se si cimentano nelle cose della storia, sanno anche, loro malgrado, divertire. A Roatta attribuisce il merito di essere stato il «primo ad avvertire i siciliani che italiani proprio non potevano considerarsi e che gli italiani si proponevano di difendere i siciliani allo stesso modo e nello stesso sentimento dei “camerati” tedeschi.»
Che i miei compaesani di Racalmuto avessero il complesso del “cambiar bandiera” non ha riscontro nella mia memoria. Preoccupazione, invece, tanta, perché non si sapeva che fine potessero fare i loro cari che – poco raccomandati – erano finiti in Grecia; quelli d’Algeria, come mio zio Luigi, presi prigionieri dagli inglesi, abbiamo saputo dopo, finirono in Inghilterra, stivati per giorni in navi, sotto tiro di aerei e a rischio di siluramento dai sottomarini tedeschi, quando non italiani. Mio zio Luigi, classe ’14, nel 1939 parte per la leva; non fa tempo a concluderla e su un trabiccolo sorvola il Mediterraneo per finire in Africa a fare il meccanico. Preso prigioniero dagli inglesi approda nella grande isola britannica, si rifiuta di collaborare e viene sfruttato come uomo della terra: un ritorno coatto al mestiere del padre. Ritornerà in Italia il 29 giugno 1945. Parte ventunenne, ritorna trentunenne: non ebbe giovinezza. Era un grande affabulatore, ma appena settantaquattrenne muore di cancro, dopo ampie metastasi alla gola e per quasi dieci anni non poté parlare, privo dell’unico suo piacere, quello della loquacità. Che strano mondo questo qui! A mio nonno non importava nulla di Trento e Trieste e lo spogliano della vita a 37 anni. A mio zio gli piaceva tanto vivere e parlare e per un quinquennio lo costringono a coltivar patate in terra di Albione, terra a lui del tutto estranea e che non amava di certo. Mia nonna paterna, sempre vestita di nero, col fazzoletto bianco in testa non so se a trent’anni piangesse il marito che per cinque volte l’aveva resa madre in manco nove anni; sembrò uscir di mente per il figlio disperso, per oltre un anno. Poi tramite vaticano ebbe notizia della prigionia in Inghilterra. In quell’anno, mia nonna andava dalle cartomanti che pullularono a Racalmuto. Maria la Billizza la più rinomata. Mia nonna però preferiva quella della straduzza di ‘gnura Annidda. Non era facoltosa, eppure i soldi per sapere se il figlio era vivo dall’arcano linguaggio delle carte della “maga” se li faceva uscire. Per la chiesa faceva peccato; mia nonna non se ne dava per inteso; credo che non ne parlasse nel confessionale e si faceva egualmente la comunione. Subito dopo magari passava per la “maga” che sempre buone notizie aveva.
Nel 1943 mio zio l’aveva scampata per miracolo in Africa sotto un bombardamento a tappeto: volle che si portassero due buchè alla Madonna del Monte, due buchè con fiori, erano alti filiformi vitrei. Nicu Lu Sardu, il barbiere fotografo, venne a casa mia, a tutti i nipoti ci fece mettere a scala per altezza e ci fece la fotografia con avanti i due buchè. Non erano ancora nati mio fratello Angelo e Lina la figlia di mio zio paterno Calogero. Non eravamo allegri, non sorridevamo, specie io che assumevo l’area pretesca ad appena nove anni. Questo non significa che eravamo tristi, solo compunti, dignitosi come possono essere sette bambini il più anziano di soli nove anni. Non capivamo che stavamo vivendo un periodo tragico della storia d’Italia, stavamo perdendo la guerra che aveva voluto Mussolini.
Ricordo il giorno in cui quello lì di Roma, da Piazza Venezia sfidò le maggiori potenze del mondo. Scesi con mia nonna materna a San Franciscu: vi era il raduno delle cinque sorelle (i cinque fratelli, uno faceva il “dirigibile”, l’altro stava accanto a mia nonna in un dammusu tentando impossibile fortuna da “scarparu” ed era sordastro, l’altro ancora stava facendo invece fortuna con una salumeria avviatissima a Palermo - dopo dovette scappare per i bombardamenti, e finì a Racalmuto con una bellissima figlia e due masculi non disprezzabili, ma finì, se non in miseria, col disperdere i suoi risparmi); due fratelli in America. Erano in dieci figli.
A San Franciscu, donne e giovinette (la zza Lillina, Teresina, etc.) si trasformarono nelle ancestrali prefiche e piansero, e imprecarono, e chiamavano Mussolini con improperi che non ricordo, forse oltre la decenza. Disertò per prima la ‘zza Mariù: aveva il figlio cadetto ed era fanatico. Sembrava che avesse il fascismo nel sangue; aveva però appena diciassette o diciotto anni e sotto Giuggiu Agrò e con a lato l’autoritario ingegnere Falletti i calci nel culo che ebbe a dare nel raduno fascista del sabato alle scuole nuove restarono proverbiali. Balilla e avanguardisti, militarescamente bardati e con fucili di legno, dovevano marciare impeccabilmente . Di statura meschinella, mal nutriti, per natura ribelli, non erano uno spettacolo, finivano fuori schiera e il calcio nel culo se lo meritavano. Con tanti di loro ho parlato, tutti a parlar bene del cadetto Luigi Di M. Arrivava tronfio Giuggiuù Agrò e sembrava l’avvento del Duce a Racalmuto.
Sciascia, pare, non partecipasse perché aveva in odio il “giummo” della divisa fascista: forse lo zio il prof. Farrauto sapeva ben proteggerlo ed esonerarlo. Ex avanguardista se non erano in età di leva, potevano benissimo servire lo Stato fascista con l’arruolamento volontario: se ne guardarono bene. La retorica tanta, i fatti pochi. Tartufescamente, tra il dire (in sproloqui patriottardi) ed il fare ( al fonte si moriva) si disse ma non si andò al fronte. Armiamoci e partite, si ironizzava a Racalmuto. Le piccole italiane, ora giovincelle appetite dai guerreschi in calore, le addestrava la maestra Taibi, maschia ma non insensibile.
Il “cadetto” aveva una sorella che si affacciava alla giovinezza: longilinea, soave, alquanto francesizzante. Se dò adito ai miei molto tardivi vagheggiamenti cinematografici, dovrei dichiararla emula di Anouk Aimée. La ormai ineludibile entrata degli americani, metteva in apprensione. Non per i baldi yenkee ché quelli composti ne dovevano stare vuoi per i figli militari dei nostri vuoi perché si sapeva che risorta era la vecchia mafia (quella vera) e già accordi c’erano per una tranquilla conquista della Sicilia, vigilata, indirizzata e protetta dai tanti rispettabilissimi capimafia di ogni centro abitato siciliano. Si vociferava che potessero seguirli i marocchini e costoro si diceva essere famelici di giovani donne, specie se minorenni o meglio vergini. Era propaganda fascista, d’accordo. E Moravia on la sua “ciociara” era molto di là a venire. Un po’ si sapeva un po’ no: un accordo di ferro era stato concertato: niente squadre marocchine in Sicilia. La diffidenza sicula in materia di salvaguardia della giovinezza intemerata delle proprie figlie in età da marito era acuminata ed angosciante. Già di giovani in paese c’erano pochi per via della guerra voluta da quel “cornutazzu” di Mussolini.
Aveva in bel da fare Giuggiu Agrò ad impedire discorsi disfattisti al Circolo del mutuo soccorso tra i sedentari che qualcosa dovevano avere per le loro interminabili discussioni. Qualcuno lo prese e se lo portò in gattabuia. Brav’uomo in definitiva Giuggiu Agrò – lo dice anche Sciascia. Aveva comunque un fanatismo fascista in corpo che se lo portò sino alla tomba. Prematuramente, purtroppo. Quando ritornò dalla deportazione in Algeria, cercò una sistemazione. Tutto il suo servizio come segretario del fascio ora non solo non serviva a niente, ma era da ostacolo ad un impieguccio al municipio. Allora non c’era l’attuale scorciatoia dei LSU o dei posticini a contratto. Bisognava essere di intemerata fede “democratica”. Giuggiu Agrò l’attestato di intemerata fede democratica ovviamente non poteva esibirlo, neanche con carte false. Cercò allora di farsi dare una dichiarazione di civile convivenza dal Mutuo Soccorso. Lì, però insorsero pingui maldicenti, usi al male e l’attestato gli si doveva negare per la faccenda dell’incarcerazione di un socio reo di mormorazioni disfattiste. Giuggiu Agrò altezzosamente prevenne lo smacco, ritirò la richiesta: a dire il ci aveva pensato un astro nascente della politica di sinistra, piissimo e neo comunista per dissidio da un compagno di letto omo. Giuggiu Agrò fu regolarmente assunto. Pensate un po’, da un “comunista”. A Racalmuto sappiamo tutto sommato essere ilari.
La sorella del “cadetto” dunque destava qualche preoccupazione per via degli evanescenti marocchini. Ragazza già donna all’Anouk Aimée (per mia palese mistificazione), era prima cugina di mia madre. Soprattutto era nipote di mia nonna materna, scheletrica per troppa vedovanza. C’era pure mia zia monaca, venuta dal trapanese per sfuggire ai terrificanti bombardamenti americani. La monaca, allora caruccia anche se traccagnotta con i suoi sei o sette cinquine, portava un nero integrale e si diceva che gli americani dove vedevano nero vedevano fascisti e sparavano ed ammazzavano, Ma c’era soprattutto l’apprensione marocchina. Mia zia monaca il saio nero non volle assolutamente levarselo. Quanto all’altra faccenda, non era Claudia Cardinale del Gattopardo per farsi quella sconcia risata. Noi nipotini in fin dei conti la consideravamo asessuata, come asessuate consideravamo tutte quelle vedove di vecchia data che a Racalmuto (ed altrove, penso) brulicavano.
In un primo tempo, alla fine di giugno, ci radunammo tutti in casa mia vecchia casa che mio padre aveva fatto aggiustare dal Mussumulisi sperperando tanti suoi risparmi sudati, letteralmente parlando, con i suoi viaggi a Palermo per rifornirsi di “roba” che poi forniva lucrosamente a tanti venditori ambulanti. Un altro mio zio faceva quel mestiere, aveva la “bardanella” che un aiutante, quando non faceva il facchino, portava a tracollo girovagando per i paesi vicini: Milocca, lu Naduri, Castrufllippu e soprattutto Montedoro. Aveva purtroppo scarsa fortuna. Bellissimo quel mio zio, vestiva “allicchittatu”, lo ricordo in eterno lucidarsi le scarpe. Le donne, sedicenti zie, venivano anche da Palermo per corteggiarlo. Salivano in un terrificante solaio della casa paterna di mia nonna. La quale aveva di che strillare. Lassù figlio e “parente” palermitana facevano i loro comodi. Così pensava mia nonna ed io penso che pensasse giusto. Mio zio giovanissimo cominciò ad avere disturbi di stomaco: Vomitava tanto. Non voleva, però, curarsi; aveva terrore dei ferri. Morì di cancro nel ’50 a soli trent’anni. Era mio “pipino”. Gli volevo un bene dell’anima. Me ne voleva di più. Ave, carissimo zio, ovunque tu sia!

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