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lunedì 7 novembre 2016

GLI EVENTI RACALMUTESI PRIMA DEL 1271



Miocene [8]

(c.a. 25 milioni di anni fa)



Una sconfinata invasione di un particolare vibrione (il desulfovibrio desulsuricans) si spande sull’intero altipiano di Racalmuto; per un singolare processo chimico (nutrendosi il vibrione di petrolio grezzo e rubando ossigeno al solfato di calcio dà luogo ad idrogeno solforato ed attraverso una normale ossidazione si trasforma in zolfo) si hanno le sedimentazioni solfifere racalmutesi.


Pliocene[9]

(c.a. 7 milioni di anno fa)

Si concludono le regressioni di acqua marina e si definisce l’attuale facies del territorio di Racalmuto.


XXX millenio a. C.

Se qualche homo sapiens sapiens (del tipo di Cro-Magnon) ebbe a stanziarsi a Racalmuto, non poté trovare migliore dimora della grotta di Fra Diego.


II millenio a. C.

I sicani si stabiliscono e prosperano in varie plaghe dell’Altipiano. come attestano le tombe a forno attorno alla cennata grotta o quelle disseminate dal Castelluccio sin ad Est, nei pressi della Stazione ferroviaria di Castrofilippo.


XIII a. C.

Decade la civiltà sicana nelle nostre terre, mentre prospera quella d’influsso miceneo di Milena e S. Angelo Muxaro e zone limitrofe.


581 a. C.

I Geloi vanno a fondare Agrigento, ma percorrendo un itinerario del lungo costa con centro Licata ed evitando le impervie zone dell’interno. L’Altipiano racalmutese, desertico ed impraticabile, non viene per vario tempo acquisito alla colonizzazione ellena.


Secc. V, IV e III a. C.

La presenza greca è variamente avvertita, ma non è tale da far pensare a qualche rilevante centro. Abbiamo solo sporadiche testimonianze numismatiche.


210 a.c.

Sotto il console Levino, Agrigento cade definitivamente sotto il dominio di Roma: Racalmuto ne segue le sorti.


70 a.c.

Cicerone fa un viaggio in Sicilia per preparare la sua celeberrima accusa contro Verre: il territorio di Racalmuto non figura visitato. Qui, però, è da tempo che vengono riscosse le decime sul grano, sul vino e su quant’altro. Una diota , rinvenuta nel XVIII secolo, dimostra come un tal Fusco praticasse l’incetta del vino destinato a Roma.


180 d.C.

Un contadino rinviene a S. Maria una “gavita” che secondo il Salinas si riferisce al 180 d.C., al tempo di Commodo: è un’importante testimonianza dello sfruttamento delle miniere solfifere di Racalmuto da parte di Roma imperiale.


Sino al IV sec. d.C

Ferve un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio.




Dopo il IV sec. d.C.

Uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.




V e VI sec. d. C.

Scarse sono le conoscenze che si hanno per questo periodo in tema della più generale storia della Sicilia. Se l’Isola fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.

La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.

Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).






Fine del VI sec.

A Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou.


829

Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.




1087

Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluc­cio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire in arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza - se esistette - era sotto il domi­nio di Chamuth.


Secolo XI

Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.




Sino al 1271

I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva con spirito predatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.









CENNI GEOLOGICI


Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in epoca piuttosto recente. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([10]). Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.


Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan ([11]) Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.


Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A.([12]) - i terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:


1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;


2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;


3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese.


4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).


Completano la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»





Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo» ([13]). Secondo tale affascinante teoria, le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di malefica premonizione.





LA PREISTORIA





Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?


Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni racalmutesi.


Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.


Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.


Il primo insediamento è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che pare angosciasse i nostri antenati. ([14])


Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei ([15]). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.


Il secondo insediamento viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Le pertinenti solite tombe a forno vennero scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. ([16]) I reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le tombe a forno, che si trovavano nei pressi della stazione ferroviaria di Castrofilippo, si sono te del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.


Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle ferrovie ([17]). Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([18]) Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari. [...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([19]) Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un corno”. Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([20]) - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»


Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.


Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.


Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([21]) Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come l’assenza di ogni testimonianza archeologica pare dimostrare.






VERSO L’AVVENTO DEI GRECI.


Cediamo alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno » ([22]).


Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.


A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto preferirono ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.


Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina, per i radi indigeni di Racalmuto fu il momento del loro melanconico dissolversi.


I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.


Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi reperti numismatici con la riconoscibile effigie del granchio akragantino non attestano solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.



IL PERIODO GRECO


Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.


Racalmuto vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre del nostro altopiano. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli indici della loro presenza.


E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandin ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o come quelli degli anni Ottanta guidati dal De Rosa a noi non resta che avventurarci in malcerte congetture.


Nella campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo.


Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo XX.


Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.


Racalmuto continua a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Resta pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia. Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.


A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» erano poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. Ed in quel territorio circolavano anche le monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.


Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo. La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.


Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma attendibili.


Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.

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