Note sull'Ispettorato Speciale di PS (Banda Collotti)
L’ISPETTORATO SPECIALE DI PUBBLICA SICUREZZA.
È in fase di pubblicazione uno studio sull’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, curato dalla responsabile di questo sito, Claudia Cernigoi. In questo articolo presentiamo un breve sunto sull’attività di questo corpo speciale che si macchiò di orrendi delitti, rimandandovi alle gallerie fotografiche dove troverete alcune immagini relative all’Ispettorato.
Nell’aprile del 1942 il Ministero degli Interni costituì a Trieste un Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, il cui scopo era la repressione dell’attività antifascista con particolare riguardo a quella slava. Bisogna precisare che nessun’altra provincia italiana conobbe un’istituzione del genere.
Non fu certo l’arrivo dei nazisti a rendere particolarmente efferati i metodi repressivi dell’Ispettorato Speciale, difatti la maggior parte delle testimonianze raccolte nel corso dei processi, celebrati nel dopoguerra, contro i suoi appartenenti risale a periodi antecedenti il 25 luglio 1943 (destituzione di Mussolini).
All’8 settembre 1943 l’Ispettorato aveva sede a Trieste in via Bellosguardo 8 in quella che era già nota come la famigerata “Villa Triste”; era comandato dall’ispettore generale Giuseppe Gueli e comprendeva 180 uomini. La villa, che era stata requisita ad una famiglia ebraica, fu demolita nel dopoguerra ed al suo posto fu edificata una palazzina residenziale. È stata quindi in tal modo eliminata la possibilità di utilizzarla quale “memento” di un passato che non dovrebbe più ritornare. Troverete nella “galleria” foto e piantine della villa.
Dopo l’8 settembre l’Ispettorato fu temporaneamente sciolto dal governo repubblichino, ma fu presto ricostituito come Ispettorato Speciale al cui comando rimase sempre Gueli, che però si teneva in disparte lasciando che si facesse notare pubblicamente il giovane ed ambizioso vicecommissario Gaetano Collotti. Va qui ricordato che Gueli s’era trovato a fare parte del corpo di sorveglianza di Mussolini quand’era prigioniero al Gran Sasso: lo sorvegliò così bene che, com’è noto, il “duce” fu liberato da un commando tedesco e portato al Nord. In seguito diversi agenti che avevano fatto parte del corpo di sorveglianza seguirono Gueli a Trieste quando questi fu rimesso a capo del ricostituito Ispettorato. Il corpo era alle dirette dipendenze del Ministero dell’Interno della Repubblica di Salò, ma era posto sotto il controllo del comando SS di Trieste.
Nel febbraio del 1944 il prefetto di Trieste Tamburini nominò maresciallo lo squadrista Sigfrido Mazzuccato, incaricandolo di costituire un reparto di polizia ausiliaria (la squadra politica che avrà sede nella via San Michele, nota anche come “squadra Olivares”, dal nome della sede del gruppo fascista rionale, intitolata ad Alfredo Olivares, fascista morto nel corso di scontri nel 1921) all’interno dell’Ispettorato stesso. Di questo corpo fecero parte circa 200 ausiliari, per lo più squadristi locali; di essi 170 erano pregiudicati per reati comuni. Il reparto fu sciolto nel settembre del ‘44 per ordine delle autorità germaniche e lo stesso Mazzuccato fu spedito in Germania. Così scrive lo storico Galliano Fogar: “Mazzuccato finisce deportato dagli stessi tedeschi venuti a conoscenza di alcune malversazioni da lui compiute” (“Sotto l’occupazione nazista nelle province orientali”, Del Bianco 1968).
Leggiamo ora alcune testimonianze tratte dagli atti del processo Gueli, conservate presso l’archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste (all’epoca del processo Gueli, Ercole Miani, il dirigente del CLN triestino e fondatore della Deputazione di Storia del Movimento di Liberazione, poi diventata Istituto Regionale, trascrisse una parte delle testimonianze e le raccolse in un dattiloscritto denominato “carteggio processuale Gueli”, n. d’archivio XIII 915).
Cominciamo dalla testimonianza del dottor Paul Messiner, austriaco, che nel 1944 ricopriva la carica di capo-sezione Giustizia del Supremo Commissariato della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico:
“Mi è stato riferito che nell’anno 1944 l’Ispettorato di PS di via Bellosguardo, trasferitosi dopo in via Cologna, procedette all’arresto dei fratelli Antonio e Augusto Cosulich (armatori che avevano finanziato il CLN, n.d.a.). Il barone Economo si rivolse al Supremo Commissario dott. Rainer per ottenere l’immediato trasferimento dei detenuti dall’Ispettorato alla sede delle SS di piazza Oberdan, a causa dei noti sistemi di tortura dei detti agenti italiani, usati contro patrioti. Il Supremo Commissario accolse subito la richiesta e disse che la polizia tedesca non usava i metodi crudeli e le sevizie escogitati dall’Ispettorato. Ho saputo da diverse persone e tra queste dall’avv. Toncic, che la polizia italiana usava metodi barbari e sadici contro i detenuti. Ho parlato e fatto rapporto scritto al dott. Rainer... Mi sono state date assicurazioni in merito. (...) Il giudice Anasipoli sa che ho fatto arrestare due agenti dell’Ispettorato pur non rientrando nelle mie attribuzioni. (...) Ho dato ordine che i tribunali provinciali italiani non potessero giudicare antifascisti e che se avessero violato tale ordine sarebbero stati arrestati”.
Ecco la testimonianza del giudice Anasipoli, allora giudice di collegamento tra la Corte di Appello, Procura Generale, e la sezione giudiziaria retta dal dott. Messiner:
“Ricordo che un giorno il dott. Messiner ebbe casualmente a comunicarmi di essere stato costretto a far arrestare due funzionari di PS dei quali ricordo il nome del Mazzuccato Sigfrido (l’altro era Miano Domenico, n.d.a.). E ciò in seguito a numerose lagnanze presentategli relativamente a maltrattamenti violenze, percosse usate da detti agenti contro persone arrestate”.
Qui potrebbe addirittura sembrare che i nazisti tutelassero i diritti civili a Trieste, ma in realtà, se proseguiamo nella lettura delle testimonianze contenute nel “Carteggio processuale Gueli”, come quella dell’avvocato Toncic, vediamo che la situazione era ben diversa:
“Slavik mi disse di aver fatto un esposto al capo della sezione giustizia dell’ex-Commissariato dott. Paul Messiner e me lo mostrò. In tale esposto oltre a narrare quanto contro di lui era stato commesso dagli agenti (dell’Ispettorato, n.d.a.), espose anche i maltrattamenti e le violenze carnali commesse ai danni di una ragazza diciassettenne e di una signora di Trieste. Il dott. Slavik fu arrestato poco tempo dopo dalle SS germaniche e deportato a Mauthausen dove purtroppo trovò la morte”.
Racconta invece Pietro Prodan, che fu arrestato sedicenne, nel 1944, assieme alle sorelle Nives e Nerina: “Tra i poliziotti che procedettero al nostro arresto c’era anche Sigfrido Mazzuccato”. Dopo un mese e mezzo di sequestro in via Bellosguardo, dove furono picchiati tutti e tre, anche da Collotti in persona, “mi hanno portato in Germania al campo di Buchenwald dove sono stato liberato dagli alleati. Nello stesso campo di concentramento è venuto nel novembre del 1944 anche il maresciallo Mazzuccato che la vigilia di Natale è stato, verso mezzanotte, trasportato nel forno crematorio e gettato in esso. Ho visto coi miei occhi la cartella scritta dai tedeschi in cui si diceva: “Mazzuccato, deceduto per catarro intestinale il 24 dicembre 1944”.
Così dunque morì Mazzuccato, in un finale quasi biblico. Quanto a Miano, fu arrestato dalla Gestapo di Verona il 10/5/44 e dopo cinque mesi nelle celle sotterranee (pare sia anche stato torturato), fu deportato a Flossenburg, da dove fu liberato il 23/4/45.
Sui crimini e misfatti commessi dall’Ispettorato fin dall’inizio della sua “attività” (violenze e torture, ma anche rastrellamenti ed esecuzioni di partigiani, come pure rapine e furti ai danni degli arrestati), esistono moltissime testimonianze, trascritte in più libri e facenti parte, come quelle da noi riportate nelle righe precedenti, degli atti dei processi Gueli e Ribaudo ed anche di quello della Risiera di S. Sabba. Le violenze e le torture erano pratica comune e notoria, al punto che lo stesso vescovo Santin, già nel 1942, aveva cercato di intervenire per far cessare le vessazioni, pur sostenendo che all’inizio non aveva preso sul serio le testimonianze che parlavano delle sevizie inflitte agli arrestati.
Inoltre l’ispettore Umberto De Giorgi, della Polizia Scientifica, firmò in data 18/1/46 una “perizia sui metodi di tortura dell’Ispettorato Speciale”. Tale perizia, richiesta dal Procuratore Generale Colonna per conto della Corte d’Assise Straordinaria di Trieste (istituita dal Governo Militare Alleato che amministrò la città nell’immediato dopoguerra per punire i crimini nazifascisti) descrive, tra le altre cose, i metodi di tortura della “cassetta” e della “sedia elettrica”. Leggiamone le descrizioni: “stando alle deposizioni testimoniali, allorquando la vittima non confessava (nonostante il dolore provocato dalla distensione forzata di tutto il corpo mediante trazione delle corde fissate agli arti e fatte scorrere negli anelli infissi al pavimento, che spesso provocavano la lussazione delle spalle), era costretta a subire l’introduzione nell’esofago del tubo dell’acqua, che le veniva fatta ingoiare fino a riempimento totale dello stomaco; indi per azione di compressione esercitata da un segugio sul torace, le veniva fatta rigurgitare a mo’ di fontana, che, stante la posizione supina, spesso doveva minacciare di soffocamento la vittima stessa; ed allorquando entrambe le azioni combinate non bastavano a farli confessare, gli interrogati vi venivano costretti, mediante l’azione termica di un fornello elettrico collocato sotto la pianta dei piedi denudati (…) la sedia elettrica consisteva in una sedia-poltrona, a spalliera alta, con leggera imbottitura in cuoio, a bracciuoli, su cui venivano legati gli avambracci della vittima ad uno dei quali veniva fissato un bracciale metallico unito al polo negativo di un apparecchio conduttore elettrico regolabile, a reostato. Al polo positivo era collegato una specie di pennello con manico isolato, e frangia metallica che serviva per chiudere il circuito su qualsiasi parte non isolata del corpo della vittima il quale veniva così attraversato dagli impulsi della frequenza della corrente elettrica. Questo metodo, apparentemente molto impressionante, non poteva produrre lesioni organiche o conseguenze dannose sul corpo umano. Tuttavia è noto che anche volgarissimi pregiudicati rotti a tutte le astuzie e raffinatezze per sfuggire agli interrogatori, si abbandonarono ad esaurientissime confessioni, che trovarono conferma nei fatti, alla sola visione dell’apparato, senza essere stati sottoposti alla sua azione” (relazione conservata nell’Archivio IRSMLT n. 913).
Probabilmente lo stesso estensore del rapporto si sarebbe “abbandonato ad esaurientissime confessioni” se messo nella prospettiva di dover subire la tortura della “sedia elettrica”. D’altra parte è per noi una novità che un corpo umano sottoposto a continue e potenti scariche elettriche non subisca alcuna conseguenza da questo trattamento: basterebbe chiedere a qualcuno che è stato torturato in questo modo.
Ma sempre a proposito di questo metodo di tortura, l’agente di PS Giuseppe Giacomini dichiarò, nel corso del processo contro Gueli: “L’apparecchio di tortura elettrico è stato portato nella sede dell’Ispettorato da Collotti al quale venne regalato dalle SS secondo quanto sentivo dire dagli agenti” (Archivio IRSMLT XIII 915).
Dopo lo scioglimento della “banda Olivares” di Mazzuccato rimasero in forza all’Ispettorato 415 uomini: 100 effettivi, 209 ausiliari, 35 alle dirette dipendenze di Gaetano Collotti (la “banda Collotti” vera e propria). Nell’autunno del 1944 l’Ispettorato si trasferì da via Bellosguardo in via Cologna, già sede di una tenenza dei Carabinieri. L’edificio di via Cologna è tuttora esistente; nella “galleria” troverete una piantina di esso.
Presso l’archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste è conservata una “foto-ricordo” della “banda Collotti” (n. d’archivio 912, esposta anche al Museo della Risiera di S. Sabba e pubblicata in alcuni libri, e che troverete nella “galleria”). Questa foto è stata scattata a Borst-S. Antonio in Bosco, (comune di Dolina-S. Dorligo della Valle, in provincia di Trieste), dopo un’azione di rastrellamento che costò la vita a tre partigiani nel gennaio del ‘45. Allegata alla foto v’è la testimonianza di un agente di PS che identifica i tredici componenti del gruppo.
I componenti del gruppo sono stati identificati come: Gaetano Collotti e Rado Seliskar (fucilati dai partigiani a Carbonera presso Treviso il 28/4/45 mentre cercavano di fuggire); Mauro Padovan (che risulta ufficialmente morto come Guardia civica presso Monfalcone il 30/4/45, ma altre fonti lo danno o ucciso a Carbonera con Collotti oppure nel palazzo di giustizia di Trieste, che era il quartier generale di Globocnik, durante l’assedio operato dall’Esercito jugoslavo); Bruno Pacossi, Salvatore Giuffrida, Nicola Alessandro (che viene dato per ucciso a Carbonera, ma del fatto non abbiamo riscontri anagrafici); Matteo Greco (fucilato e gettato nella foiba “Plutone”); Dario Andrian (arrestato e disperso in Jugoslavia); Antonio Iadecola, che pare si limitasse a fare da autista; Mirko Simonic, che nel dopoguerra dichiarò di avere fatto parte del CLN; Gustavo Giovannini e Gaetano Romano. Inoltre nella foto appare un SS non identificato.
Oltre alla “lotta antipartigiana” i membri dell’Ispettorato si occupavano anche di andare a prelevare gli Ebrei da deportare in Germania: gli agenti si presentavano in casa delle persone da prelevare, in genere in seguito a denunce di solerti vicini di casa o bottegai della zona (va ricordato che i nazisti ricompensavano con 10.000 lire -dell’epoca!- i delatori per ogni denuncia che portava ad un arresto), i prigionieri venivano poi portati in via Bellosguardo e di lì “smistati” in Risiera. Forse gli Ebrei arrestati venivano prima portati nella sede della “banda” per poterli derubare prima di consegnarli alle SS? Sarebbe interessante sapere di quali “malversazioni” si macchiò Mazzuccato a parere dei nazisti.
Uno dei membri dell’Ispettorato che, secondo le correnti teorie storiche sulle “foibe”, viene considerato “infoibato” in quanto incarcerato a Lubiana e probabilmente fucilato, è l’agente Alessio Mignacca, specializzato nella ley de fuga, come leggiamo in alcuni documenti raccolti nel “carteggio processuale Gueli”. Ad esempio uccise Francesco Potocnik, che “rotto un vetro della finestra saltava dal I piano nel cortile interno e cercava di fuggire. Fatto segno a vari colpi di pistola da parte dell’agente Mignacca e raggiunto da un proiettile cadeva ucciso” (Carteggio processuale Gueli, cit.); e ferì gravemente Roberto Caprini che “tentava di darsi alla fuga saltando da una finestra al primo piano nel sottostante giardino ove veniva raccolto dalla guardia di PS Mignacca Alessio”. Mignacca partecipava anche agli “interrogatori”, come nel caso di Umberta Giacomini, che quando fu arrestata era incinta di quattro mesi: fu “interrogata” da Collotti in persona, che la picchiò selvaggiamente assieme ad altri agenti, tra i quali Mignacca, che la colpì con un calcio ed in seguito a questo la donna abortì.
Quando nel dopoguerra fu celebrato il processo contro Gueli ed altri membri dell’Ispettorato si discusse anche delle violenze subite da Umberta Giacomini: la sentenza rileva che nella cartella clinica non v’è “nessun cenno al preteso aborto” e che “per questa ragione e per l’altra che non vi è nessuna prova della pretesa gravidanza della Giacomini, non si può dire che esiste la circostanza aggravante”. Inoltre, dato che la donna sostenne di essere stata picchiata da Collotti, Brugnerotto, Sica e Mignacca, ma nel dibattimento “precisò che mentre Mignacca la colpì con un calcio e gli altri con verghe, il Brugnerotto la colpì solo (il corsivo è nostro, n.d.r) con schiaffi (…) manca la prova certa che il Brugnerotto avesse agito con attività associata e con le stesse intenzioni degli altri, i quali, usando le verghe, cagionarono evidentemente le lesioni più gravi”, motivo per cui Brugnerotto fu assolto per insufficienza di prove dal reato di lesioni.
Nei ranghi dell’Ispettorato entrarono molti volontari, persone che lasciarono il proprio lavoro per potersi permettere impunemente violenze e saccheggi, come nel caso di Mario Fabian, che lasciò il suo posto di tranviere, perché come membro dell’Ispettorato aveva maggiori possibilità di guadagno. Fabian fu ucciso nei primi giorni di maggio ‘45 ed è l’unica persona che risulta essere stata gettata nel pozzo della miniera di Basovizza.
Molti furono poi anche i “collaboratori esterni” dell’Ispettorato, delatori e collaborazionisti che conservavano il proprio posto di lavoro e poi riferivano alla “banda Collotti” o direttamente alle SS. Dei delatori triestini uno dei più noti è un certo Giorgio Bacolis, impiegato al Lloyd Triestino di navigazione. Bacolis si spacciava anche per pastore evangelico o valdese per poter raccogliere più facilmente le informazioni da vendere poi ai nazifascisti. Fu pagato 100.000 lire per aver denunciato il capitano Podestà del CLN.
Abbiamo accennato prima che nel dopoguerra furono celebrati alcuni processi contro membri dell’Ispettorato. Quello più importante vide come imputati Giuseppe Gueli, Umberto Perrone, Nicola Cotecchia, Domenico Miano, Antonio Signorelli, Gherardo Brugnerato e Udino Pavan. Gueli fu condannato in seconda istanza ad otto anni ed undici mesi, gli altri a pene minori, salvo Cotecchia e Perrone assolti.
Il processo contro Lucio Ribaudo, imputato di sevizie particolarmente feroci, si concluse con la condanna a ventiquattro anni, poi ridotti in sede di appello.
Quanto a Gaetano Collotti, che scappò da Trieste il 27 aprile 1945 assieme ad altri elementi della sua “banda” e la sua convivente, fu intercettato da una brigata partigiana della quale faceva parte l’avvocato triestino di Giustizia e Libertà Piero Slocovich. Arrestato, fu fucilato assieme ai suoi a Carbonera presso Treviso, ma nel dopoguerra ebbe addirittura l’onore di venire decorato con medaglia di bronzo al valor militare dalla Repubblica Italiana “nata dalla Resistenza” per le azioni antipartigiane da lui compiute prima dell’8 settembre 1943, e nella fattispecie un’azione che ebbe luogo il 10 aprile 1943 nella zona di Tolmino (Gazzetta Ufficiale n° 12 dd. 16/1/54).
Alle proteste elevate da più parti contro questa onorificenza, il Ministero rispose a suo tempo che, una volta data, la medaglia non si poteva revocare.
Con buona pace dei torturati e dei morti.
ottobre 2006
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