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mercoledì 11 gennaio 2017

Sciascia e le accuse di apologia della mafia
Il 20 novembre di ventisette anni fa Leonardo Sciascia ci lascia. Il “Corriere della Sera”, coincidenze che sono - dice Sciascia - “incidenze”, il giorno prima dell'anniversario pubblica una lunga intervista ad Andrea Camilleri, curata da Aldo Cazzullo. Il titolo: “Gli scontri con Sciascia, la mia vita da cieco e il No al referendum”. Ad un certo punto, Camilleri dice: “Nei giorni del sequestro Moro lui e Guttuso andarono da Berlinguer e lo trovarono distrutto: Kgb e Cia, disse, erano d’accordo nel volere la morte del prigioniero. Sciascia lo scrisse. Berlinguer lo smentì, e Guttuso diede ragione a Berlinguer. Io mi schierai con Renato: era nella direzione del Pci, cos’altro poteva fare? Leonardo la prese malissimo: “Tutti uguali voi comunisti, il partito viene prima della verità e dell’amicizia...”.Non ricordo interventi particolari di Camilleri nei giorni della polemica che oppose Sciascia a Enrico Berlinguer e Renato Guttuso. Forse ci sono stati, probabilmente “privati”.
Di pubblici non ne ho trovato traccia. Ma non è questo il punto. Il fatto è che le cose non sono andate come le racconta Camilleri. Di come si siano svolti i fatti posso dare testimonianza diretta, avendo avuto la possibilità di sentire dallo stesso Sciascia cos’era accaduto. In sintesi: nel maggio del 1977, e dunque molto prima dei giorni del sequestro di Aldo Moro, Sciascia si incontra con Berlinguer per parlare di cose che riguardavano la Sicilia; è accompagnato da Guttuso, che era stato tramite per ottenere l’appuntamento. Siccome il giorno prima c’era stato l’incontro di una delegazione democristiana con una delegazione comunista, e secondo i giornali e la televisione in questo incontro si era anche parlato di una potenza o di potenze straniere che potessero avere mano nel terrorismo italiano, ad un certo punto, finito il colloquio sulle cose siciliane con Berlinguer, Guttuso domanda se sia vero che avevano parlato di Paesi stranieri, e se uno di questi Paesi stranieri era la Cecoslovacchia. Berlinguer risponde di sì; e del resto non era una confidenza, non era un segreto, perché tutti ne parlavano. Berlinguer, quindi, non fa altro che riferire un sentito dire, l’aveva sentito dai democristiani, ne era a conoscenza e lo diceva. Lo stesso giorno dell’incontro con Berlinguer, Sciascia viene invitato a colazione dal pittore Bruno Caruso, al quale racconta questo fatto, esprimendo anche un senso di ammirazione per la sincerità di Berlinguer: come un elogio nei riguardi di Berlinguer, che era tanto spregiudicato e tanto libero da ammettere che si fosse parlato di quella cosa. Passati due anni, Sciascia è deputato, membro della Commissione Moro. A un certo punto viene un eminente democristiano, al quale chiede se sa qualcosa di potenze straniere che danno una mano al terrorismo italiano, di sospetti, di indizi. L’eminente democristiano dice di non saperne nulla, al che Sciascia ribatte: “Ma guardi, due anni fa, io ho avuto fortuitamente un incontro con Berlinguer, il quale mi ha raccontato tranquillamente questa cosa: quindi com’è che lei non ne sa nulla?”. Tutto qui, l’intervento di Sciascia in Commissione Moro. Da lì però, esce alquanto deformato, come se Berlinguer avesse fatto delle confidenze su cose che risultavano a lui e non che lui avesse saputo dai democristiani. Questa deformazione provoca la smentita di Berlinguer, e in seguito la querela per diffamazione. Sciascia replica con una denuncia per calunnia. Guttuso è il testimone chiave, ma si allinea con Berlinguer, smentendo Sciascia. Il quale però poteva smentire Guttuso, perché il pittore, in presenza di un’altra persona, nella Pasqua del 1980, aveva ricordato il colloquio avuto con Berlinguer e il fatto che Berlinguer aveva parlato della Cecoslovacchia. Peccato che il giudice che ha avuto tra le mani sia la querela di Berlinguer sia la denuncia di Sciascia, si sia limitato ad ascoltare Berlinguer e Guttuso, non ha ascoltato Sciascia e quel che aveva da dire; ed ha archiviato tutta la vicenda. Questi i fatti, molto diversi da come li racconta Camilleri, il quale, poi, ancora una volta (l’aveva già fatto su “il Fatto Quotidiano”), si accoda a una tesi che non definisco perché dovrei far ricorso all’invettiva volgare: quella di aver reso, nei suoi libri, la “mafia simpatica. A teatro gli spettatori applaudivano, quando ne ‘Il giorno della civetta’ don Mariano distingue tra ‘uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaraquà’”. Leonardo mi chiedeva: “Ma perché applaudono?” “Perché hai sbagliato”, gli rispondevo. Altre volte rendeva la mafia affascinante. “Lei è un uomo”, fa dire a don Mariano. Ma la mafia non ti elogia, la mafia ti uccide; per questo di mafia ho scritto pochissimo, perché non voglio darle nobiltà...”. Per restare solo a “Il giorno della civetta”: famosissima la pagina evocata da Camilleri, che però omette dal ricordare che quella davvero importante è quella che viene prima: quando il capitano Bellodi sente che il mafioso - anche grazie alle protezioni politiche di cui gode a Roma - gli sta per sfuggire dalle mani. Lo capisce, e pensa a Cesare Mori, il “prefetto di ferro” che Benito Mussolini aveva mandato in Sicilia, e che aveva stroncato il brigantaggio; quando poi Mori comincia a pestare i piedi alla mafia, che è già entrata nel regime, il prefetto viene nominato senatore e rimosso. I metodi di Mori erano brutali, all’insegna del “fine giustifica i mezzi”, al di là e al di sopra delle leggi. Fare come Mori, pensa per un attimo Bellodi. Una tentazione che scaccia subito: no, dice, bisogna stare nella legge. Piuttosto quello che serve è indagare sui patrimoni, mettere la finanza, mani esperte, come hanno fatto in America con Al Capone, a frugare sulle contabilità, e non solo dei mafiosi come Mariano Arena: annusare le illecite ricchezze degli amministratori pubblici, il loro tenore di vita, quello delle mogli e delle loro amanti, censire le proprietà e comparare il tutto con gli stipendi ufficiali; e poi, come scrive Sciascia: “tirarne il giusto senso”. Quello che anni dopo fanno Beppe Montana, Ninni Cassarà, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: che cercano di “tirare il giusto senso” appunto indagando sulle tracce lasciate dal denaro, che non puzza, ma una scia la lascia sempre, a saperla leggere, a volerla trovare. “Tirare il giusto senso” significa anche anagrafe patrimoniale degli eletti; significa che ministri, parlamentari e amministratori pubblici devono vivere come in una casa di vetro, e devono rendere conto del loro operato agli elettori, che devono essere messi nella condizione di sapere. Se quei suggerimenti fossero stati accolti, probabilmente molte cronache giudiziarie, di ieri e oggi, ce le saremmo risparmiate. L’altra pagina importante e amarissima è l’ultima. Bellodi è tornato a Parma, c’è una festa, e si racconta una storia: quella di un medico del carcere che si mette in testa di cacciare i mafiosi sani dall’infermeria e ricoverarvi i detenuti malati. Il medico una notte è vittima di un’aggressione, un pestaggio all’interno del carcere. Nessuno lo aiuta, tutti gli dicono che è meglio lasciar perdere. Il medico è un comunista, si rivolge al partito. Anche il partito gli dice di lasciar perdere. Il medico allora si rivolge al capomafia, e gli aggressori vengono puniti. Un aneddoto amarissimo, e non ne sfuggirà il senso, il significato. Poi vengono i Camilleri a dirci che “Il giorno della civetta” è un romanzo che fa l’apologia della mafia!
Valter Vecellio

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