Profilo

domenica 23 aprile 2017

Canicattì (Racalmuto contro Roma (Racalmuto)

.... ne vorrei discutere ardentemente burrascosamente insolentemente pubblicamente sornionamente indecentemente.....

Un cu clinico illustre > un banchiere in disuso!

Racalmuto (Canicattì) contro Racalmuto (Roma)

Volerebbero persino le parolacce! Che scialo per la platea.

Apriamo il Regina Margherita per la bisogna?

C. Taverna




                                                                               avverso



 
di Silvano Messina
L’era Obama con tutte le sue lacune ed inadempienze nella politica interna ed estera si inseriva nel solco della tradizione politica degli Stati Uniti denominata “Liberal”, tesa ad affermare i diritti umani ed il primato degli USA quali custodi e diffusori della democrazia nel mondo. L’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America sembra avere fermato questa tendenza. Il programma politico del neo eletto si fonda su due dogmi centrali: “America First” ( America a tutti i costi ) e “Make America Great Again” (“Rendere l’America di Nuovo Grande”). Esso prevede un anacronistico protezionismo, la chiusura del mondo del lavoro agli stranieri, il disimpegno dell’America dalle vicende del mondo onde evitare lo sciupìo di ricchezza per salvaguardare gli interessi altrui. L’America deve rinascere dallo stato di sofferenza nel quale l’aveva ridotta tutto l’Establishment, democratico e repubblicano, che lo aveva preceduto nei decenni precedenti.
Per ottenere il risultato prefisso Trump si è impegnato a destinare ogni investimento all’interno del suo paese, a sfruttare al massimo le risorse naturali, eliminando la predilizione di Obama, per le energie alternative. In tal modo egli potrebbe ridare ricchezza a quel ceto medio, suo elettorato, che era stato depredato dalle precedenti amministrazioni. Così esordiva retoricamente al momento del giuramento:
“Oggi non si celebra il passaggio di poteri da un presidente all’altro, ma il passaggio di poteri da Washington al popolo”
Era il trionfo del Populismo nell’accezione corrente che lo identifica quale legittimazione per l’esercizio del potere derivante dal consenso popolare (di ispirazione Peronista o Giacobino-Roussoniana), o della demagogia tradizionale operata da capi carismatici, oppure trattavasi dell’elucubrazione di un outsider della politica? Ognuno può fare le proprie valutazioni considerando che il nuovo Presidente si accingeva a governare, non circondato da intellettuali del ceto medio, a cui faceva riferimento, ma da tanti miliardari, come lui, il cui insieme assomigliava ad un consiglio di amministrazione della Goldmann Sachs; peraltro firmava, come primo provvedimento, l’annullamento della monca riforma sanitaria di Obama. Il suo secondo provvedimento appariva ancora più muscolare: negava l’ingresso negli USA ai cittadini provenienti dalla Libia, Siria, Iraq, Iran, Somalia, Yemen e Sudan, Paesi additati come esportatori del terrorismo Jihadista, dimenticando, o facendo finta di dimenticare, l’Arabia Saudita dove impera il Wahabismo, un’ideologia a cui si rifanno le frange salafite più estremiste. La dottrina di Trump porge un endorsement alle destre-populiste europee sostenitrici dei nazionalismi e contrari ad ogni forma di unione europea. All’indomani della nomina dell’investitura si riunivano a Coblenza il tedesco Frauke Petry di Alternative fur Deutschland, la francese Marine Le Pen e la nipote Marion, gli austriaci della Fpo, l’olandese Geert Wilders del Partito Olandese per la Libertà e Matteo Salvini della Lega, tutti galvanizzati dall’idea che ormai avrebbero potuto affermare il loro antieuropeismo. Anche Grillo si entusiasmava sostenendo l’accordo Trump-Putin, in quanto entrambi rappresentavano due giganti che avrebbero ricostituito l’ordine mondiale. Il loro ottimismo derivava dalle simpatie di Trump per la Brexit, la quale avrebbe dovuto essere il primo passo dello scardinamento dell’Unione Europea. Tanta ammirazione ha indotto Trump ad un asse preferenziale con l’Inghilterra di Teresa May, ma anche con Putin, insieme al quale potrebbe ipoteticamente risolvere tanti problemi, tra i quali quello tra Ebrei e Palestinesi. In tal modo però l’Europa si troverebbe schiacciata tra due poli negativi. I timori di coloro i quali ancora sostengono l’Europa Unita scaturiscono dal sospetto che Trump assecondi il progetto di Putin di indebolire l’Unione Europea e che lo stesso consideri la NATO desueta e ormai inutile. D’altronde l’isolazionismo americano, prevedendo che ogni nazione dovrebbe risolvere i propri problemi da sola, , decreta di già la fine della NATO e quindi dell’Europa. Trump pronosticando la prossima fine europea non lesinava, ancor prima di essere eletto, gli accenti anti-tedeschi. Lasciata al suo destino l’Europa, egli si può rivolgere, con piena intenzionalità ostica, alla Cina, ritenuta la vera minaccia sul piano economico e militare per l’America, e all’Iran riannoverato, decaduto Obama, tra gli “Stati canaglia”. Qualora i propositi di Trump si dovessero realizzare, il mondo, uscito dalla seconda guerra mondiale, basato sul libero scambio e sulla sicurezza, subirebbe una radicale trasformazione.
Gli USA hanno avuto l’esclusiva di essere il primo impero universale nella storia. Coloro i quali hanno ostinatamente negato tale funzione lo fanno o in malafede o perchè non riconoscono che i mezzi dell’imperialismo moderno sono gli stessi di quelli usati nel XIX secolo. L’imperialismo dei mercati è stato sostituito dall’imperialismo dei capitali, per il quale è stato realizzato un sistema ad hoc che si chiama globalizzazione. Tale sistema economico si è spinto così avanti che non occorre più l’intervento delle cannoniere. Ciò nonostante i governanti americani hanno diviso il pianeta in cinque comandi regionali: uno per l’America latina, uno per l’Europa, uno per il Medio-Oriente, uno per l’area del Pacifico e uno per l’America settentrionale. Una disposizione del tutto simile ai proconsolati dell’antica Roma. Il periodo imperialista, iniziato con la dottrina di Monroe, continuato con la politica espansionistica nell’America meridionale e poi nel pacifico, si è chiusa con la guerra del Vietnam. Da quel momento è iniziata la politica imperiale, volta, prima a contrastare l’altro impero, quello Russo, e poi a mantenere coesa la periferia col centro dell’impero. Tale coesione si è mantenuta attraverso interessi economici comuni, favorendo il libero scambio, la legalità, la competizione tra gli Stati membri, la promozione di innovazioni tecnologiche che garantivano la superiorità dello spazio imperiale e la sicurezza internazionale contro eventuali aggressioni interne, ma soprattutto esterne. In tal modo, dopo l’uscita dalla scena internazionale della Gran Bretagna, gli USA sono diventati, con la piena volontà, i continuatori e garanti della civiltà occidentale inclusa nell’ampio spazio che ingloba le Americhe, l’Europa Unita, zone d’influenza nell’Africa settentrionale e in quella meridionale e l’Asia orientale. Per gli USA, come è avvenuto per l’impero romano-ma anche per gli altri di grandi dimesioni-il problema non è stato costruire l’impero, per il quale è bastata una Elite che ha avuto la volontà di farlo, ma la possibilità di mantenerlo. Per non ripetere l’errore di Roma, cioè di dare eccessivo potere ai governatori e ai generali dislocati nella periferia, iniziativa che ha prodotto le guerre civili del II e III secolo che hanno indebolito l’impero, gli USA, mantenendo un forte potere centrale, hanno sprecato le loro energie sia per mantenere il predominio economico, sia per comporre antichi e nuovi conflitti territoriali, ma anche extraterritoriali, specie se c’erano in gioco diritti umani. Per assolvere ai suoi compiti imperiali l’America ha dovuto sostenere un impegno economico e di vite umane non indifferente. Fin tanto che i cittadini percepivano che la guerra apportava loro ricchezza e prestigio, andavano al fronte senza alcuna titubanza. Dopo le tragiche vicende della guerra in Vietnam, coincisa con il risveglio culturale del 68, si è sviluppata in USA un’angoscia collettiva contro la guerra, al punto che lo Stato ha abbandonato la leva per istituire un esercito di professionisti e di mercenari. A quel punto le spese per mantenere la leadership hanno lievitato i costi ed abbassato i benefici. La successiva crisi economica e l’indebolimento politico interno hanno ridotto la capacità degli Usa di reggere l’egemonia. Di converso c’è stata una risposta negativa della società americana -disgregata nel suo contesto ed impoverita- ad assecondare il ruolo svolto dalla nazione fino a qualche anno fa nello scacchiere internazionale. Già lo stesso Obama, nonostante fosse incanalato nel solco della tradizionale politica imperiale, aveva messo in discussione la ratio dell’interventismo americano, mantenendosi lontano da vecchi e nuovi conflitti.
Trump sembra che si sia reso conto della difficoltà a reggere il sovraccarico morale della missione di “impero buono” nel mondo. Per potere continuare a farlo deve rinnovare le sue energie. Tuttavia l’isolazionismo e il protezionismo avranno importanti conseguenze: la globalizzazione scomparirà o, al più, avrà altre caratteristiche, poiché se il maggior garante del libero scambio si ritrae a riccio, lo stesso faranno altri paesi dentro e fuori l’Occidente; gli Stati inclusi nell’impero si riapproprieranno dei vecchi confini che diverranno rigidi, per lo svincolo dall’influenza americana ed il sorgere dei protezionismi, mentre nel contempo nasceranno altri Stati, le Nation Bulding, altrettanto famelici. La difficoltà degli scambi faciliterà l’attuale tendenza al sorgere di governi autoritari e di nazionalismi. La storia insegna che quando manca un forte potere imperiale i vari Stati facilmente entrano in contrasto tra di loro per affermare la propria egemonia; è facile allora che scoppieranno tra di loro guerre che alla lunga daranno origine ad un imperialismo multipolare, il quale configurerà un assetto geo-politico simile a quello che precedette la prima guerra mondiale. In questa dissennata corsa alla nuova supremazia non resteranno estranei gli Stati Europei, riacquistata ognuno la propria autonomia, dopo il plausibile crollo dell’Unione Europea, auspicato da Trump, e concretizzato dai polulismi e nazionalismi dilaganti. La Germania, unica potenza economica non indifferente, stretta tra la proverbiale intraprendenza britannica e la vocazione imperiale Russa, sarebbe costretta a riarmarsi. Già sta riemergendo l’impero Russo. E cosa farà la Cina che in atto supera economicamente la potenza americana? E la Corea del nord che, tra l’altro, è alleata alla Cina? E nell’Africa settentrionale potrà nascere un Sultanato a guida turca, iraniana o wahabita? Potenzialmente c’è già un imperialismo multipolare; non lo diventa in atto fino a quando l’America manterrà il più alto potenziale militare. Tuttavia il recente intervento militare di Trump in Siria, con la solita scusa delle armi di sterminio di massa, sembra mettere in discussione il suo programma politico: il vecchio Establishment ha riportato Trump a più miti consigli, riaffermando la vecchia politica imperialista; si è trattato di un monito verso le potenze che vogliono emergere, un atto di un uomo imprevedibile, oppure semplicemente un vigoroso messaggio per riacquistare la posizione di rilievo, persa con Obama, nella guerra civile siriana e nello scacchiere internazionale? Che dire poi dell’invio di una flotta con armi non convenzionali davanti le coste della Corea del nord per indurre alla desistenza l’imprevedibile Kim Jong-un? L’intransigenza dell’una e dell’altra parte ha fatto tremare il mondo; ma la vicenda non si chiude qui. Protezionismo ed isolazionismo che fine hanno fatto? Dunque le premesse della futura politica di Trump potrebbero rivelarsi infondate. Gli ultimi avvenimenti internazionali riaffermano il ruolo dell’America di gendarme del mondo e l’antica veste di impero cattivo. In effetti ci risulta difficile capire come possa svincolarsi il libero mercato dalla rete globalizzata e come i grandi monopoli possano adeguarsi ad una strategia economica che potrebbe apportare loro solo perdite. Tali apparenti contraddizioni sfuggono ad una deduzione logica. L’incertezza ci mantiene confusi e rende più insicuro il futuro di tutto il mondo.
 
di Silvano Messina
L’era Obama con tutte le sue lacune ed inadempienze nella politica interna ed estera si inseriva nel solco della tradizione politica degli Stati Uniti denominata “Liberal”, tesa ad affermare i diritti umani ed il primato degli USA quali custodi e diffusori della democrazia nel mondo. L’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America sembra avere fermato questa tendenza. Il programma politico del neo eletto si fonda su due dogmi centrali: “America First” ( America a tutti i costi ) e “Make America Great Again” (“Rendere l’America di Nuovo Grande”). Esso prevede un anacronistico protezionismo, la chiusura del mondo del lavoro agli stranieri, il disimpegno dell’America dalle vicende del mondo onde evitare lo sciupìo di ricchezza per salvaguardare gli interessi altrui. L’America deve rinascere dallo stato di sofferenza nel quale l’aveva ridotta tutto l’Establishment, democratico e repubblicano, che lo aveva preceduto nei decenni precedenti.
Per ottenere il risultato prefisso Trump si è impegnato a destinare ogni investimento all’interno del suo paese, a sfruttare al massimo le risorse naturali, eliminando la predilizione di Obama, per le energie alternative. In tal modo egli potrebbe ridare ricchezza a quel ceto medio, suo elettorato, che era stato depredato dalle precedenti amministrazioni. Così esordiva retoricamente al momento del giuramento:
“Oggi non si celebra il passaggio di poteri da un presidente all’altro, ma il passaggio di poteri da Washington al popolo”
Era il trionfo del Populismo nell’accezione corrente che lo identifica quale legittimazione per l’esercizio del potere derivante dal consenso popolare (di ispirazione Peronista o Giacobino-Roussoniana), o della demagogia tradizionale operata da capi carismatici, oppure trattavasi dell’elucubrazione di un outsider della politica? Ognuno può fare le proprie valutazioni considerando che il nuovo Presidente si accingeva a governare, non circondato da intellettuali del ceto medio, a cui faceva riferimento, ma da tanti miliardari, come lui, il cui insieme assomigliava ad un consiglio di amministrazione della Goldmann Sachs; peraltro firmava, come primo provvedimento, l’annullamento della monca riforma sanitaria di Obama. Il suo secondo provvedimento appariva ancora più muscolare: negava l’ingresso negli USA ai cittadini provenienti dalla Libia, Siria, Iraq, Iran, Somalia, Yemen e Sudan, Paesi additati come esportatori del terrorismo Jihadista, dimenticando, o facendo finta di dimenticare, l’Arabia Saudita dove impera il Wahabismo, un’ideologia a cui si rifanno le frange salafite più estremiste. La dottrina di Trump porge un endorsement alle destre-populiste europee sostenitrici dei nazionalismi e contrari ad ogni forma di unione europea. All’indomani della nomina dell’investitura si riunivano a Coblenza il tedesco Frauke Petry di Alternative fur Deutschland, la francese Marine Le Pen e la nipote Marion, gli austriaci della Fpo, l’olandese Geert Wilders del Partito Olandese per la Libertà e Matteo Salvini della Lega, tutti galvanizzati dall’idea che ormai avrebbero potuto affermare il loro antieuropeismo. Anche Grillo si entusiasmava sostenendo l’accordo Trump-Putin, in quanto entrambi rappresentavano due giganti che avrebbero ricostituito l’ordine mondiale. Il loro ottimismo derivava dalle simpatie di Trump per la Brexit, la quale avrebbe dovuto essere il primo passo dello scardinamento dell’Unione Europea. Tanta ammirazione ha indotto Trump ad un asse preferenziale con l’Inghilterra di Teresa May, ma anche con Putin, insieme al quale potrebbe ipoteticamente risolvere tanti problemi, tra i quali quello tra Ebrei e Palestinesi. In tal modo però l’Europa si troverebbe schiacciata tra due poli negativi. I timori di coloro i quali ancora sostengono l’Europa Unita scaturiscono dal sospetto che Trump assecondi il progetto di Putin di indebolire l’Unione Europea e che lo stesso consideri la NATO desueta e ormai inutile. D’altronde l’isolazionismo americano, prevedendo che ogni nazione dovrebbe risolvere i propri problemi da sola, , decreta di già la fine della NATO e quindi dell’Europa. Trump pronosticando la prossima fine europea non lesinava, ancor prima di essere eletto, gli accenti anti-tedeschi. Lasciata al suo destino l’Europa, egli si può rivolgere, con piena intenzionalità ostica, alla Cina, ritenuta la vera minaccia sul piano economico e militare per l’America, e all’Iran riannoverato, decaduto Obama, tra gli “Stati canaglia”. Qualora i propositi di Trump si dovessero realizzare, il mondo, uscito dalla seconda guerra mondiale, basato sul libero scambio e sulla sicurezza, subirebbe una radicale trasformazione.
Gli USA hanno avuto l’esclusiva di essere il primo impero universale nella storia. Coloro i quali hanno ostinatamente negato tale funzione lo fanno o in malafede o perchè non riconoscono che i mezzi dell’imperialismo moderno sono gli stessi di quelli usati nel XIX secolo. L’imperialismo dei mercati è stato sostituito dall’imperialismo dei capitali, per il quale è stato realizzato un sistema ad hoc che si chiama globalizzazione. Tale sistema economico si è spinto così avanti che non occorre più l’intervento delle cannoniere. Ciò nonostante i governanti americani hanno diviso il pianeta in cinque comandi regionali: uno per l’America latina, uno per l’Europa, uno per il Medio-Oriente, uno per l’area del Pacifico e uno per l’America settentrionale. Una disposizione del tutto simile ai proconsolati dell’antica Roma. Il periodo imperialista, iniziato con la dottrina di Monroe, continuato con la politica espansionistica nell’America meridionale e poi nel pacifico, si è chiusa con la guerra del Vietnam. Da quel momento è iniziata la politica imperiale, volta, prima a contrastare l’altro impero, quello Russo, e poi a mantenere coesa la periferia col centro dell’impero. Tale coesione si è mantenuta attraverso interessi economici comuni, favorendo il libero scambio, la legalità, la competizione tra gli Stati membri, la promozione di innovazioni tecnologiche che garantivano la superiorità dello spazio imperiale e la sicurezza internazionale contro eventuali aggressioni interne, ma soprattutto esterne. In tal modo, dopo l’uscita dalla scena internazionale della Gran Bretagna, gli USA sono diventati, con la piena volontà, i continuatori e garanti della civiltà occidentale inclusa nell’ampio spazio che ingloba le Americhe, l’Europa Unita, zone d’influenza nell’Africa settentrionale e in quella meridionale e l’Asia orientale. Per gli USA, come è avvenuto per l’impero romano-ma anche per gli altri di grandi dimesioni-il problema non è stato costruire l’impero, per il quale è bastata una Elite che ha avuto la volontà di farlo, ma la possibilità di mantenerlo. Per non ripetere l’errore di Roma, cioè di dare eccessivo potere ai governatori e ai generali dislocati nella periferia, iniziativa che ha prodotto le guerre civili del II e III secolo che hanno indebolito l’impero, gli USA, mantenendo un forte potere centrale, hanno sprecato le loro energie sia per mantenere il predominio economico, sia per comporre antichi e nuovi conflitti territoriali, ma anche extraterritoriali, specie se c’erano in gioco diritti umani. Per assolvere ai suoi compiti imperiali l’America ha dovuto sostenere un impegno economico e di vite umane non indifferente. Fin tanto che i cittadini percepivano che la guerra apportava loro ricchezza e prestigio, andavano al fronte senza alcuna titubanza. Dopo le tragiche vicende della guerra in Vietnam, coincisa con il risveglio culturale del 68, si è sviluppata in USA un’angoscia collettiva contro la guerra, al punto che lo Stato ha abbandonato la leva per istituire un esercito di professionisti e di mercenari. A quel punto le spese per mantenere la leadership hanno lievitato i costi ed abbassato i benefici. La successiva crisi economica e l’indebolimento politico interno hanno ridotto la capacità degli Usa di reggere l’egemonia. Di converso c’è stata una risposta negativa della società americana -disgregata nel suo contesto ed impoverita- ad assecondare il ruolo svolto dalla nazione fino a qualche anno fa nello scacchiere internazionale. Già lo stesso Obama, nonostante fosse incanalato nel solco della tradizionale politica imperiale, aveva messo in discussione la ratio dell’interventismo americano, mantenendosi lontano da vecchi e nuovi conflitti.
Trump sembra che si sia reso conto della difficoltà a reggere il sovraccarico morale della missione di “impero buono” nel mondo. Per potere continuare a farlo deve rinnovare le sue energie. Tuttavia l’isolazionismo e il protezionismo avranno importanti conseguenze: la globalizzazione scomparirà o, al più, avrà altre caratteristiche, poiché se il maggior garante del libero scambio si ritrae a riccio, lo stesso faranno altri paesi dentro e fuori l’Occidente; gli Stati inclusi nell’impero si riapproprieranno dei vecchi confini che diverranno rigidi, per lo svincolo dall’influenza americana ed il sorgere dei protezionismi, mentre nel contempo nasceranno altri Stati, le Nation Bulding, altrettanto famelici. La difficoltà degli scambi faciliterà l’attuale tendenza al sorgere di governi autoritari e di nazionalismi. La storia insegna che quando manca un forte potere imperiale i vari Stati facilmente entrano in contrasto tra di loro per affermare la propria egemonia; è facile allora che scoppieranno tra di loro guerre che alla lunga daranno origine ad un imperialismo multipolare, il quale configurerà un assetto geo-politico simile a quello che precedette la prima guerra mondiale. In questa dissennata corsa alla nuova supremazia non resteranno estranei gli Stati Europei, riacquistata ognuno la propria autonomia, dopo il plausibile crollo dell’Unione Europea, auspicato da Trump, e concretizzato dai polulismi e nazionalismi dilaganti. La Germania, unica potenza economica non indifferente, stretta tra la proverbiale intraprendenza britannica e la vocazione imperiale Russa, sarebbe costretta a riarmarsi. Già sta riemergendo l’impero Russo. E cosa farà la Cina che in atto supera economicamente la potenza americana? E la Corea del nord che, tra l’altro, è alleata alla Cina? E nell’Africa settentrionale potrà nascere un Sultanato a guida turca, iraniana o wahabita? Potenzialmente c’è già un imperialismo multipolare; non lo diventa in atto fino a quando l’America manterrà il più alto potenziale militare. Tuttavia il recente intervento militare di Trump in Siria, con la solita scusa delle armi di sterminio di massa, sembra mettere in discussione il suo programma politico: il vecchio Establishment ha riportato Trump a più miti consigli, riaffermando la vecchia politica imperialista; si è trattato di un monito verso le potenze che vogliono emergere, un atto di un uomo imprevedibile, oppure semplicemente un vigoroso messaggio per riacquistare la posizione di rilievo, persa con Obama, nella guerra civile siriana e nello scacchiere internazionale? Che dire poi dell’invio di una flotta con armi non convenzionali davanti le coste della Corea del nord per indurre alla desistenza l’imprevedibile Kim Jong-un? L’intransigenza dell’una e dell’altra parte ha fatto tremare il mondo; ma la vicenda non si chiude qui. Protezionismo ed isolazionismo che fine hanno fatto? Dunque le premesse della futura politica di Trump potrebbero rivelarsi infondate. Gli ultimi avvenimenti internazionali riaffermano il ruolo dell’America di gendarme del mondo e l’antica veste di impero cattivo. In effetti ci risulta difficile capire come possa svincolarsi il libero mercato dalla rete globalizzata e come i grandi monopoli possano adeguarsi ad una strategia economica che potrebbe apportare loro solo perdite. Tali apparenti contraddizioni sfuggono ad una deduzione logica. L’incertezza ci mantiene confusi e rende più insicuro il futuro di tutto il mondo.
 

Nessun commento:

Posta un commento