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mercoledì 4 ottobre 2017

Mafia. Così 40 anni fa Sciascia svelò lo stato delle cosche

  di Piero Melati, Venerdì 22 febbraio 2013
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Riemerge un saggio del 1972 nel quale lo scrittore di Racalmuto raccontava i rapporti tra i poteri pubblici e poteri illegali, quasi una preistoria della fantomatica “trattativa”, oggi al centro delle polemiche.
Palermo. La storia della mafia di Leonardo Sciascia fu pubblicata nel 1972 nella mondadoriana rivista Storia illustrata. Da allora era dispersa. Appena 35 pagine, che diventano 65 con l’intervista di Giancarlo Macaluso a Stefano Vilardo (amico di Sciascia dal ’36) e un’analisi di Salvatore Ferlita. L’operazione di recupero la si deve alla casa editrice Barion, resuscitata dalla “pancia” della storica Mursia. È un tesoro nascosto. Sciascia, anzitutto, scopre nel suo studio che la parola mafia già appare nel primo vocabolario siciliano di Traina (1868) come importata dal Piemonte, sulle ali della spedizione dei Mille di Garibaldi. Tuttavia, spiega lo scrittore, per lo studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè era solo “una ipertrofia” dell’ego ribellista. Poi arriva Giuseppe Rizzotto. Nel 1862 scrive I mafiosi di la Vicaria (una prigione di Palermo) e la mafia diventa “associazione”. Ma, annota Sciascia, sarà un procuratore, Alessandro Mirabile, che nelle sue requisitorie parlerà di “setta”.
Sciascia, a questo punto, sottolinea: “Alcuni, anche in buona fede, credono che applicando la parola alla cosa si tenda a creare un pregiudizio”. È ingiusto, affermano costoro, che a Milano una banda di rapinatori sia una semplice banda, mentre in Sicilia diventa cosca (“la cosca” ricorda “è la corona di foglie del carciofo”). Sciascia, su questo, è netto: “La parola mafia è stata applicata alla cosa, o la cosa ha preso quel nome, in forza di una distinzione qualitativa… questa distinzione già vien fuori nel 1838 da una relazione di don Pietro Ulloa, allora procuratore generale a Trapani”. E cosa scrive Ulloa nel 1838? Parla di “oscure fratellanze”, “sette segrete che diconsi partiti”, un popolo che le fiancheggia, magistrati che le proteggono. E “al centro di tale dissoluzione c’è una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX”. Commenta Sciascia: “Leggeremo mai, negli archivi della commissione parlamentare antimafia, una relazione acuta e spregiudicata come questa di don Pietro Ulloa?”.
Sciascia sposa la tesi dello storico inglese Eric Hobsbawm: in Sicilia la “rivoluzione francese” l’ha fatta la mafia. I feudi passano di mano, dai baroni ai borghesi. I contadini promossi campieri ne diventano l’esercito. E rilegge (altro punto importante) Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa in chiave “antimafia”. Il passaggio epocale, spiega, è chiaro nel personaggio di Calogero Sedara e nella famosa frase del principe di Salina: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno le iene e gli sciacalli”. Iene e sciacalli, per Sciascia, si annidarono tanto nella spedizione dei Mille quanto nella “neutralità” verso il fascismo. Anzi, vista la presenza del prefetto Mori, inviato dal Duce in Sicilia a combattere la mafia, se ci fosse stata una Resistenza nell’Isola, “i boss sarebbero stati partigiani”. Sempre iene e sciacalli si alleeranno con gli americani per favorirne lo sbarco in Sicilia, ancora loro faranno sparire nel ’70 il cronista dell’Ora Mauro De Mauro e uccideranno il procuratore Pietro Scaglione nel ’71. Non mutano mai pelle, i picciotti di Cosa Nostra. Per farli vedere bene agli italiani, lo scrittore li paragona ai bravi dei Promessi Sposi di Manzoni. Infine, la famosa “equazione” di Sciascia su Cosa Nostra: “La mafia è una associazione per delinquere con fini di illecito arricchimento… che si pone come intermediazione parassitaria, con mezzi di violenza, tra proprietà e lavoro, produzione e consumo, cittadino e Stato”.
Leonardo Sciascia, deputato nelle liste radicali tra il 1979 e il 1983, espresse diciannove volte il suo pensiero in Parlamento. Tre volte parlò di mafia e utilizzò la sua Storia della mafia come base per i suoi interventi. Grazie ad Andrea Camilleri, che li ha riordinati di recente, sappiamo che nel primo intervento (20 febbraio ’80) disse che diciotto anni dopo le sue denunce “il fenomeno anziché diminuire” lo avevano visto crescere. Nel secondo (6 febbraio ’80) accusò i colleghi: “Tutti avete detto che la mafia insorge nel vuoto dello Stato. E invece insorge nel pieno dello Stato!”. Nel terzo (27 gennaio ’83), dopo l’omicidio del giudice di Trapani Ciaccio Montalto, tuonò verso il ministro dell’Interno, Virginio Rognoni: “Lei parla della mafia come di un fatto fisiologico. Ritengo invece che bisogna guardarlo come un fatto patologico, e lei che è ministro dell’Interno deve guardarlo da medico internista”.
Che voleva dire? Se cercate la malattia mafia, dovete curare il cuore dello Stato. Il saggio di Leonardo Sciascia, che salta fuori dal lontano 1972, riporta nell’attualità quegli interventi in Parlamento. Il libretto è importante per parecchi motivi. Intanto, è l’unico saggio “organico” sul tema firmato dallo scrittore di Racalmuto. Poi contiene per la prima volta la sua celebre “equazione” sulla mafia, che lui non abiurò fino alla morte e che citerà apertamente nei suoi interventi parlamentari. Non solo. Ne citerà anche altri passi, tra cui la relazione del procuratore di Trapani Pietro Ulloa del 1837, che lo scrittore ritenne sempre attualissima: “Descriveva la mafia come l’abbiamo conosciuta noi, ed era una mafia di procuratori del re, di segretari comunali e di preti”, dirà nella solennità del Parlamento. La sciasciana Storia della mafia ci restituisce un intellettuale per intero, lo scrittore che “contraddisse e si contraddì”, come ebbe a definirsi, non limitandosi a impiccarlo all’articolo sul Corriere della Sera del 10 gennaio dell’87 contro “i professionisti dell’antimafia”. In quell’intervento, come noto, Sciascia criticò (senza nominarlo) il “protagonismo” del sindaco di Palermo (oggi rieletto) Leoluca Orlando, ma soprattutto sparò a zero contro la decisione del Csm di promuovere Paolo Borsellino procuratore di Marsala, in barba ai criteri di anzianità fin lì seguiti. Successivamente spiegò che, quando aveva redatto il suo intervento, non sapeva nulla di Borsellino, ma aveva criticato “l’assenza di regole” da parte del Csm, arma poi usata in senso inverso, per bocciare la candidatura di Giovanni Falcone. Soprattutto, Sciascia chiarì che aveva scritto sull’onda di eventi traumatici. Il primo, pur rimasto sottotraccia, è il caso di Enzo Tortora, il presentatore tv arrestato nell’83 e coinvolto nel processone di Napoli contro la camorra.
Per inciso, Giovanni Falcone pensava che non avere stralciato la posizione di un personaggio così famoso da un processone contemporaneo al maxiprocesso di Palermo contro la mafia fosse “una trappola ben organizzata” a Napoli per scatenare “pretese di impunità” per i boss anche a Palermo. Il secondo trauma, dichiarato invece apertamente: il suicidio del segretario della Dc siciliana Rosario Nicoletti, rimasto un mistero. Quanto a Borsellino, dopo la pubblicazione dell’articolo, i due si riappacificarono e, successivamente, rimasero in contatto. Il giudice si disse certo che qualcuno “che gli voleva male” aveva giocato il ruolo del suggeritore. Tuttavia non replicò mai allo scrittore. “Ho amato troppo i suoi romanzi sulla mafia, ci sono cresciuto”.
Ma di quell’articolo resta la carta e il piombo, per una volta solo tipografico, che avvolge una tragedia siciliana. Si ha un bel dire che Sciascia e Borsellino si chiarirono. Il giudice, nel suo ultimo intervento pubblico prima di sacrificarsi in via D’Amelio, disse che Falcone aveva cominciato a morire il giorno della pubblicazione dell’atto d’accusa di Sciascia. E la tragica fine dei due magistrati avrebbe da sola dovuto scoraggiare chi ha usato in questi anni Sciascia in chiave antigiudici. D’altra parte la vedova di Borsellino, Agnese, ha detto di recente che Sciascia “aveva capito tutto vent’anni prima”. E la figlia dello scrittore, Anna Maria, ha sottolineato che il padre non voleva colpire Borsellino, ma che mal sopportava “una certa retorica dell’antimafia”. Disonesto sarebbe però anche affermare che l’articolo sia stato scritto “sotto dettatura”. O che fosse incoerente. La faccenda, comunque la si giri, resta complicata. E tragica.
La simbiosi. La metastasi. La peste. Resta il fatto che Sciascia vede incubare un’Italia futura “mafizzata”, con quello “sguardo distaccato di un entomologo” che gli attribuisce, a ragione, l’amico Vilardo. A 23 anni aveva assistito all’omicidio del sindaco di Racalmuto, Baldassare Tinebra. Poi aveva visto, a Caltanissetta, il popolo far ressa per baciare la mano al boss don Calò Vizzini. Nel 1965 aveva intervistato Giuseppe Genco Russo, padrino di Mussomeli. E aveva studiato, “osservandolo” mentre si occupava del caso De Mauro, il capo della squadra Mobile, Boris Giuliano, ucciso nel luglio del’79. Freddo non per cuore duro, ma per “osservare” bene. Confidava all’amico Vilardo: “Quando la mafia si arricchisce, e ci vuol poco con la ricchezza che muove, sforna avvocati, medici, imprenditori, professionisti. Colletti bianchi. Cambia la forma del mafioso, ma la sostanza resta sempre quella”.
L’entomologo Sciascia divenne, con timore, quasi un profeta. In Todo Modo descrisse la futura dissoluzione della Dc e il caso Moro. “Ho paura di dire cose che possono avvenire” spiegava. Di più. Nel’72, l’anno in cui scrisse La storia della mafia (aprile), a febbraio aveva licenziato Il contesto. Lo aveva tenuto fermo due anni. Ne aveva paura. L’ispettore del romanzo, Americo Rogas, sembrerà a tutti Boris Giuliano, l’amico poliziotto ucciso. E la trama? Un complotto per occultare omicidi eccellenti, in nome della “ragion di Stato”. Dentro ci sono tutti, anche l’opposizione. Questo valse a Sciascia una raffica di sei articoli di critica sui giornali di area comunista (dall’Unità a Rinascita). Ma era ben peggio il vaticinio finale del suo ispettore: “Il potere in Sicilia, in Italia, nel mondo, sempre più degrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa”. Sembra che si parli delle inchieste sulla trattativa tra Stato e mafia.
Leonardo Sciascia, nel 1986, ascoltò la deposizione del pentito Tommaso Buscetta al maxiprocesso di Palermo. Ne uscì sgomento. Ma poi, dopo la sentenza, scrisse: “Il verdetto cancella l’impressione di allora. Vi si intravede quell’osservanza del diritto, della legge, della Costituzione che i fanatici vorrebbero far cadere in desuetudine”.
Non capì la nuova Cosa Nostra. Non poteva sapere che il mostro che lui aveva avvistato tanti anni prima, quei picciotti sempre uguali, le iene e gli sciacalli di ogni tempo, stavano tornando sotto forme nuove. Dopo la breve parentesi della mafia corleonese di Totò Riina, che dichiarò guerra allo Stato, dalle sue ceneri sono risorte, all’ombra delle grandi corruzioni e di equilibri impenetrabili, le mafie invisibili, aristocrazie più simili a quelle dei primordi. Muovono un fatturato annuo (secondo lo studioso Francesco Barbagallo) di 70 miliardi di euro. E, dopo il tramonto dei corleonesi, hanno ripreso a vivere all’ombra delle istituzioni.

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