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giovedì 2 novembre 2017


la donna del Mossad IIparte



Dopo Asti, il dottore Aurelio La Matina Calello imboccò una prestigiosa stagione ispettiva; pur con grado gramo fu capo-missione in quasi tutte le quattro o cinque ispezioni punitive permessesi dalla Banca Centrale. A volere il Calello era lo scorbutico vice direttore generale dell’epoca, gran massone ma puritano, inflessibile, napoletano e calvinista. L’apprezzamento per il giovane ispettore derivava dal fatto che non si era lasciato infinocchiare in una verifica ad una banca di Terzigno, decotta ed ammanigliatissima.







Non aveva conclusa l’ispezione ad Asti il dottore La Matina: sul finire era stato incluso in un viaggio-premio nell’allora misteriosa Unione Sovietica. Di là degli steccati ideologici, le banche centrali dialogavano fraternamente fra di loro, anche quella sovietica. Dall’Italia partì uno stuolo di giovani e rampanti dirigenti. Da Via Nazionale a Mosca. Da poco introdotta la centrale dei rischi, sembrava un miracolo di efficienza bancaria. Cicciu Ciciru, volle interrogare il funzionario bancario russo dai ponti metallici sgangheratamente in risalto tra intartarati denti propri. «Avete anche voi la centrale dei rischi?» Il funzionario non capì ma con orientale furbizia aggirò brillantemente l’ostacolo. I colleghi di Ciccio ne trassero altri spunti per la usuale derisione del Ciciro.







Al ritorno dalla Russia, trovò il capo missione malconcio a Roma, in via dell’Acqua Bullicante, a casa sua, oltremodo gessato, il suo giovane collega. Andati a gozzovigliare a Cocconato, dopo abbondanti libagioni (carne cruda e barolo, insomma, ed altro), rimessisi in viaggio per il mero rito dei lavori ispettivi del pomeriggio, si addormentarono sulla pur robusta vettura “Lancia”, sbatterono contro un piliere sul ciglio della strada. Medicatosi appena, il capo raccolse le carte e tornò a Roma. L’ispezione fu chiusa. Ma non v’era “FAI” decente, i fogli di analisi ispettivi avevano sì e no i dati del Mod. 81 Vig. Un disastro. La questura tentò di indagare sull’incidente. Il direttore generale ricambiò la cortesia ed il caso fu archiviato, senza denunce alle superiori autorità (la magistratura penale).







Irridevano quelle tre o quattro paginette di “penna d’oro”.  Eppure “Penna d’oro” non volle o seppe vendicarsi: prese il FAI e vi scrisse sopra, a lungo, doviziosamente, pungentemente. Ne trasse un ponderoso “rapporto”. Il capo firmò felice e sollevato. Non pensava che “Penna d’oro” potesse avere tanta proficua fantasia. Quel rapporto passò in Vigilanza come un modello da imitare. La vicenda dell’intreccio di assegni a vuoto e la sottesa grande speculazione edilizia dell’ex federale e del sussiegoso piemontese finì eclissata.







Dopo Asti, un paio di pause di riflessione: in subordine a Fabriano e Morciano in ispezioni di poco conto. Poi gli scottanti incarichi che un qualche strascico nella storia dei crack bancari del dopoguerra l’hanno avuto. Si pensi: echi persino in parlamento ed a S. Macuto. Sono vicende su cui forse dovrò tornare, al momento vediamo di svelare il mistero della morte del mio ormai diletto Aurelio. Già, quasi dimenticavo di dirvi che il povero Aurelio defunse per cianuro, ma un cianuro strano, non in commercio: pare posseduto solo dai maldestri servizi segreti iracheni. Impressionante: anche Diodona, il banchiere del crack su cui indagò il mio ispettore della Banca d’Italia, cessò di vivere alla Pitrusa con l’identico strano ‘cianuro’. Non pensate a Pisciotta: non c’entra.







Per Diodona si parlò di suicidio: ma nessuno ormai ci crede, come per Sindona, come per Calvi, come per altri banchieri, finanzieri …. di moda ora parlare di “faccendieri”, come se poi vi fosse davvero differenza.







Sia fatta la volontà di Dio: affrontiamo codesto nodo gordiano. Il rag. Giorgio Diodona era nativo di Barcellona Pozzo di Gotto, tra Palermo e Messina ossia nell’entroterra della provincia della città del faro. E non finiscono qui le somiglianze con l’altro celeberrimo banchiere, l’avvocato Sindona. Anche Giorgio Diodona si trasferì piuttosto giovane a Milano e riuscì a far fortuna nel mondo delle banche. V’era pur sempre quel Virgillitto che tra un diadema per la Madonna e qualche brillante per le madonne dei suoi amici politici determinò il salto di qualità degli affari di Cosa Nostra d’oltreoceano o dimorante di qua dello stretto. Navigò con gli inglesi. Amò gli svizzeri. Seppe delle isole Cayman. Non capì gli americani ma facendo grossi affari con loro credette di coglionarli. Ne fu coglionato. Con i russi, affari d’oro con la pesca le armi ed il grano americano. Col Vaticano, preghiere indulgenze opere pie denaro … e sesso per i vogliosi arcivescovi e si disse anche per qualche cardinale. Con il papa … Dio ne scansi e liberi … si sghignazzò di un giovanetto molto bello ed aggraziato … tanto femmineo, fu celebre latin lover del cinema italiano. Non mi va di proseguire: svilirei i fatti del mio giallo.







Col caso Sindona vi fu un’impressionante sinergia. Furono due crack alla carta carbone, una sorta di clonazione anzitempo ed extra moenia. Nel mondo dell’alta finanza può succedere, ogni umana fantasia è impari. Lo disse anche De Martino a S. Marcuto e lui fu sommo maestro, anche di storia del diritto romano. Presiedette indagini parlamentari bancarie, pur ignaro di partite doppie, accrediti, spot, swap, forward, outright, borsa, mercato parallelo, redditività, patrimonializzazione dei conti d’ordine, conti bilanciati, gergo dei ragionieri, quello degli agenti di cambio, quello borsistico.







Va ribadito qui con robusto tono che il dottor Aurelio La Matina Calello nulla ebbe a che fare con il caso Sindona: le sue incombenze, i suoi accertamenti, le sue allucinazioni, i suoi successi, il suo valore e la sua morte riguardano l’analogo e quasi coevo caso Diodona. Se qualcuno continuerà a confondere, io non ne rispondo. Non mi si potrà querelare. Distinzione .. distinzione, sia chiaro!







Il pasticcio della confusione s’origina forse dal fatto che, beffardo ed ironico, il dottore Aurelio La Matina Calello, sicuramente per invidia, si intromise negli sviluppi del crack Sindona prima aizzando Lotta Continua nel semestre finale del 1979 e poi cooperando – una cooperazione quasi integrale, tota ed ampla – nella stesura del pamphlet anonimo “Goodwill”  a firma di un improbabile Colbert.







Detto fra noi, è scritta quasi tutta di suo pugno, di Aurelio cioè, la parte da pag. 37 a pag. 187. Le pagine di ‘premessa’, e quelle dell’«antefatto», e poi quelle sugli artefici del sacco immobiliare di Roma sono rimasticature della truculenta letteratura giornalistica di quei giorni, un giornalismo ruffiano, pronto a traghettare sulla palude dell’incombente compromesso storico di Berlinguer. Scritte benissimo quelle pagine spurie – e non originali – risentono della bravura di un editorialista sommo come Dellacipolla, di un mistico come ci appare l’eterno ed immacolato parlamentare Beato Minutolo e di un ignoto – ai più – “alto esponente del mondo bancario”, abile e pungente, rimasto indisturbato dentro quel mondo, sino ai nostri dì.







Tutti pensano che il caso Sindona narrato in quel libro abbia travolto come ispettore il nostro Aurelio. Errore. Ma che vi abbia messo la mano sua beffarda ed ingannatrice è evidente sin dalle (sue) prime pagine. Leggiamole insieme.







«Racalmuto è il paese di Sciascia, ma – diversamente da come lo scrittore ama presentarlo – non è avvolto da nessun velo di onirica malinconia; umidiccio, con case disfatte intonacate di bianco, esso è disseminato lungo un declivio che si sperde tra calanchi e fiancate di colli minerari.







«A Michele Sindona questo squallido scenario apparve, improvvisamente, all’uscita di un’ennesima curva davanti al muso del suo traballante “dodge”.







«Proveniva da Patti. Affari arditi spingevano il giovane nell’entroterra agrigentino: approvvigionarsi di frumento in tempi di proibizionismo granario, compiacente il governo militare alleato, l’Amgot, per poi rivenderlo, a prezzi lucrosi, alla stessa Amgot. Era il 1944.







«Se nella vita dei santi, i segni precorritori si colgono in tenera età, i segni precoci della valentia affaristica del futuro finanziere si hanno evidenti ed avvincenti fino dalla prima giovinezza. Giunto a Racalmuto, Sindona aveva un personaggio preciso da incontrare: Baldassare Tinebra. Costui era sindaco imposto nel 1943 dalle truppe americane, su segnalazione di don Calogero Vizzini.







«Don Calogero Vizzini, di Villalba, accreditato – fino dal fascismo – come capo carismatico della mafia, ebbe a ritirarsi a Racalmuto, dopo il 1926. Si associò al Tinebra nella gestione della miniera di zolfo, la “Gibillini”, al confine con Montedoro, il luogo natale dell’onorevole Calogero Volpe, altro rispettato “notabile”. Labbro enfiato e pendulo, sempre seduto al sole con neghittosità e trascuratezza, don Calogero Vizzini s’industriava ad apparire insignificante – almeno agli occhi dei racalmutesi.







«In realtà, don Calò godeva di molta considerazione negli ambienti italo-americani tanto da essere prescelto come interlocutore privilegiato, i primi giorni del luglio ’43, quando le truppe alleate iniziarono la loro conquista rapida ed indolore della Sicilia.,







«Dimostrazione affettuosa fu quella elargita al vecchio socio d’affari, il Tinebra. Il quale, grassoccio, piccolo e volgaruccio di parola, fu il primo sindaco di Racalmuto, scacciato il predecessore dell’epoca fascista che medievalmente s’indicava come “podestà”.







«Baldassare Tinebra – insediatosi al Comune – un compito lo svolse bene: quello di dare protezione agli affaristi locali e no, che commerciavano al mercato “nero” della principale risorsa del paese, il grano. Protezione non del tutto disinteressata, a dire dei malevoli. Vi fu atto di corruzione da parte del Sindona nei confronti del neo-sindaco degli “alleati”? Non può più chiedersi ad alcuno. Sindona è oggi esule negli Stati Uniti [eravamo nel gennaio del 1980, ndr.]. Il Tinebra è finito morto ammazzato, un anno dopo la vicenda che si narra [o forse pochi mesi, ndr], in pieno centro, fra la gente. Ne fu incolpato un tipo del paese, conosciuto con la”’ngiuria” (nomignolo) di “Centeddeci”. Indiziariamente, fu condannato. Il figlio lavorava presso la miniera “Gibillini” [pare però che solo vi cercasse lavoro, ndr,] che sappiamo essere stata di Tinebra e Vizzini. Cercò di far luce sul delitto, convinto dell’innocenza del padre. Finì in un forno “Gill”, liquefatto tra lo zolfo. “Disgrazia grande fu” – si disse in paese.»















Non possono negarsi efficacia e sintesi. Aurelio non fu scrittore ma cercò di esserlo. Or non è molto, è uscito un libretto di un giovane narratore che riesuma quella vicenda, senza, però, la suggestiva venuta di Sindona. S’intitola: «Il silenzio dei congiurati». Ho dovuto prefazionarlo. Non so se mi è piaciuto o no. Ho scritto: «queste sono le cose che ho notato e che mi sono molto piaciute in quella che è la progettazione del romanzo.»  Poiché voler narrare non significa saper narrare, retoricamente mi sono domandato se il giovane fosse riuscito nell’intento. Non sapendo che rispondere, me la son cavata da gesuita smaliziato: «”amicu miu ora ti cuntu un fatto”». Il fatto è stato narrato. Come? Ho parlato del mio leggere ad alta voce i “cunti mia e chiddi di l’antri”.







Sfogliando, tra sbadigli reiterati, in crescendo, giungo a pagina 67: i caratteri si rimpiccioliscono; c’è da faticare ancor di più. Ora Aurelio ha voglia di cuntari lu cuntu: ci mette della fantasia, vediamo un po’. Non comincia con il classico e racalmutese «s’arraccunta e s’arrapprisenta». No, vuol fare persino lo sceneggiatore: «Interno di un palazzo umbertino in Roma» Oh! La presunzione dei dilettanti. Smette però subito: comincia ad essere accattivante.







«vi si aggira una signora di vetusta avvenenza, amante ormai dismessa del banchiere. Egli è lì, tra fascicoli e bilanci, ieratico e dai toni ironici ma nel fondo dello sguardo mediterraneamente malinconico. Trilla il telefono: è Londra. Dagli Hambro viene l’assenso al prestito per l’acquisto della grande Immobiliare romana, messa in vendita dall’IOR per timore della cedolare.







V’è, dopo, un moto liberatorio ed il banchiere si concede un attimo di umana effusione.







Spaccato della vita economica e politica romana.







La corsa in via Nazionale per l’incontro nella sala del San Sebastianino con il governatore della banca centrale. Penombra schizofrenica attorno al grand-commis della finanza nazionale che ascolta la versione del banchiere sull’operazione dell’Immobiliare con barbagli di raggelante distacco.







Poi d’imperio: “L’estero acquisti dal Vaticano ma con holding controllate dall’Italia: non voglio stranieri in Roma … in mezzo all’edilizia della capitale.”







“Ho due banche agenti in Milano che son pure abilitate alle operazioni con l’estero; potranno svolgere il ruolo da lei indicato nel flusso dei capitali valutari.”







Ciò è demandato alla fantasia dell’imprenditore privato … Il nostro indirizzo verte su obiettivi globali e nazionali.”







Sillaba a mo’ di maestoso imporre, il governatore; annuisce senza umiliazione il banchiere.







L’incontro con il primo ministro – che, gobbo, sarcastico, è partecipe palese della soddisfazione del banchiere – ha toni distesi, amichevoli come un socio d’affari, sia pure occulto. Dallo studio del ministro, la chiamata telefonica oltre Tevere. All’IOR quel grosso prete americano ascolta, rintuzza … quasi tentenna. Ci si vede alla villa dei Castelli. Il banchiere si rivolge alla bionda amica per agganciare la valletta televisiva, la minorenne quasi impubere all’acqua e sapone. Del resto è una stipendiata delle sue banche proprio per curare le relazioni sociali. Tutti alla villa per accogliere il grosso prete americano.







All’aeroporto arriva, giovanile ma composto, il delfino dell’ebraica famiglia di banchieri inglesi.







Nell’occiduo chiarore collinare, tra ulivi e merli dal mellifluo richiamo, il concitato dialogare tra il prete gigante, il gelido inglese ed il banchiere del sud. Medie delle quotazioni del titolo, “goodwill” dell’azienda, redditualità, prezzi, pacchetti azionari di controllo, la holding Idera, Trinico, Liechtenstein o Nassau: il folklore dell’alta finanza, insomma e la difficoltà a concludere. Si arriva a tarda sera, infruttuosamente. Il rito della sontuosa cena a lume di candela. Accanto al prete, tanto scorbutico nelle trattative, è la valletta in audacissimo décolleté. Ora il prete si ammansisce e diviene persino galante. La valletta sorride con delizia e adesca l’orco americano. Nelle grandi terrazze della villa, nella camera riservata di lui, lei abbozza discorsi sull’esistenza di Dio, sulle sue crisi, sulle sue angosce. E’ notte!







All’indomani l’orco americano – dopo avere celebrato messa nella cappella gentilizia – è arrendevole negli affari. Viene ceduto il quaranta per cento dell’Immobiliare al banchiere del sud o meglio alle sue finanziarie estere a loro volta sovvenzionate dagli Hambro.







Il nostro banchiere chiede ed ottiene dal monsignore dell’IOR l’amministrazione dei capitali in dollari conseguiti dalla vendita dell’immobiliare romana. Unica condizione al perfezionamento dell’investimento ideato è il consenso all’acquisto di una banca americana che il banchiere sta trattando da tempo. L’amor patrio del monsignore è quasi solleticato e l’accordo immediatamente siglato.







Le trattative a New York con padrini di riguardo: alcuni consulenti del presidente degli Stati Uniti alla cui campagna elettorale l’uomo del sud aveva contribuito con consistenti elargizioni.







E l’iniziativa ha felice esito.







A Milano, nell’attico a ridotto della Scala, il banchiere è al culmine del suo successo. Giù, telescriventi intrecciano messaggi in inglese con banche di mezzo mondo: da New York a Tokio, da Londra a Parigi e a Francoforte. Pacchetti azionari passano di mano, la borsa impazzisce, gli gnomi della finanza abbondano. Pavidi speculatori soccombono e le loro piccole immobiliari vengono fagocitate dal finanziere siculo con strascichi giudiziari che compiacenti giudici riescono ad archiviare. Lui: quasi triste, ormai brizzolato, persino mistico.







Fabbriche e palazzi si vendono o si addossano scompostamente con vorticoso giro di cambiali portate allo sconto nelle sue banche. Idee anche bizzarre quali l’acquisto di brevetti per la costruzione di macchine capaci di trasformare miscugli alimentari in gelati! Finanziamenti ai colonnelli greci e poi a quelli (meglio generali di casa nostra). Fondi alla Nova Scotia, camuffati da intrecci perdenti di outright, per finanziare il Mossad. Intanto dalla banca americana prestiti in dollari vengono convogliati in Italia e da qui all’estero per consentire la fuga dei capitali dei nostri industrialotti. Abile il banchiere nello sfruttare la loro insipienza. Si fa pagare da loro dollari del mercato nero a lire 750 e poi glieli acquista sotto forma di finanziamenti di holding estere a lire 650. Il banchiere si espande: compra banche in Svizzera, in Germania, in Francia e ne inventa a Nassau o a Cayman Islands o a Panama City. E’ un impero finanziario con stuoli di brokers e tecnici dal gergo per iniziati (outright; spot; swap; forward rate; time deposits, stand-by …)







All’EUR, nel solito palazzo a vetri, si susseguono i consigli di amministrazione dell’Immobiliare il cui capitale sociale passa da 30 a 40 a 60 a 100 a 120 a 160 miliardi. Le azioni inondano la borsa, il “parco buoi” abbocca. V’è sempre il banchiere con le sue finanziarie a partecipazione estera a far quotare oltre le lire 1000 le azioni inflazionate da lire 240 di valore nominale.







Dalle sue banche il sostegno finanziario, sempre più intenso, sempre più ambiguo, sempre più illecito. Dagli istituti previdenziali depositi alle banche. Di conseguenza, interessi neri o provvigioni ai dirigenti “politici” degli enti previdenziali. Il banchiere è munifico; l’onda della corruzione monta, senza argini, ammaliante, impetuosa.







Nel consiglio di amministrazione dell’Immobiliare siedono i probi presidenti delle banche pubbliche del sud. Vi siedono perché favoriscono l’aggiotaggio del banchiere. Dalle sue banche partono depositi fittizi presso le banche pubbliche che li destinano, sotto forma di riporto, alle finanziarie del banchiere detentrici del capitale azionario di controllo dell’Immobiliare. Una baraonda simboleggiata dall’atmosfera orgiastica delle serate distensive nella villa dei Castelli, dopo le riunioni del consiglio di amministrazione. I pingui e frustrati burocrati – assurti a strateghi della finanza per voto democristiano – si divertono chiassosamente, scompostamente con le ragazze approntate dal banchiere. In controluce, lui, dignitoso, parco, come in religiosa estasi.»















 - Oddio! … Oddio! …. Oddio, ma ecco qui tutto l’arcano, la vita e la morte, gli affari e gli intrighi, le connivenze ed i rinvii …. Eccetera, eccetera.. si sussurrava Meluccio Cavalieri di Giorgenti.







Strano, nessun accenno a fatti di mafia. Compiacente il siciliano e racalmutese Aurelio La Matina Calello. Si sussurrò una volta ma era panzana. Aurelio odiava la mafia. Nessuno della sua famiglia aveva avuto mai a che fare con l’onorata società. Ne provava disgusto. La considerava un’accolta di imbecilli … ed anche sanguinari. Un mafioso artefice di volpini intrecci affaristici, era idiozia, per Aurelio da sghignazzarci solo sopra. Le vicende delle banche siciliane di Milano degli anni sessanta, settanta ed ottanta era un baluginare di accecante intelligenza: altro che un ragliare di mafia.







“Lu sciccareddu” della dirimpettaia “Vecchia Maniera”, ragliando con la solita simpatica sconcezza, gli rammentò la succulenta e conviviale “mangiata a la racarmutisa” cui era invitato. Ebbe voglia di chiudere per quel giorno. Rimise ordine nelle carte del villino di Aurelio a Bovo. Ma ancora una sorpresa: sulla foderina color senape del carteggio con Melissa Cohen stava scritto, a matita,:







la donna







del Mossad







in un miscuglio di rosso e di blu che il suo grave daltonismo non consentiva di miscelare passabilmente.







- E qui un’altra fottuta! Altro che vendetta della mafia per come si ostinò a pensare sino alla morte la dottoressa Evelina Adelaide Mangoni Mistretta. Se ci stanno di mezzo i servizi segreti (oddio! quelli israeliani, no. Sono sanguinari) sono proprio fottuto. Allora? … scendiamo giù alla Vecchia Maniera. Vediamo se sono riusciti a capirmi, nelle mie ricette culinarie. In quelle eccello … sono imbattibile.































































Capitolo III































Cavatieddi cu sucu di cuniggliu sirbaggiu, ficatieddi e sanzizza agliannariata ed antri cosi bboni















Scinniennu scinniennu Meluzzo Cavalieri di Giorgenti – consentiteci qui di pigliar noi la penna in mano, ma per poco: promesso – passò in rassegna i suoi prossimi commensali: era il gotha dell’intelligenza paesana. Racalmuto, patria di Sciascia, era da tempo che mancava di cultura elitaria. I suoi prossimi commensali, colti di certo non lo erano. Arguti, birbanti, scoppiavano d’intelligenza, ma sterile, caustica, neghittosa, stracolma d’accidia.







Avrebbe troneggiato il sindaco Pitruottu, ma l’onorevole Lasagne, ripiccatissimo, avrebbe tentato di disarcionarlo. Non vi sarebbe riuscito: il Pitruotto, beccato alle ultime elezioni, era più abile: qualche libro almeno in gioventù l’aveva letto. L’onorevole Lasagne, no. Aveva inventato i caffè letterari, finanziati dall’industriale Illy che pur doveva essergli avversario politico, ma ignavo nel leggere si faceva sunteggiare il fatterello del letterario parto dal proprio figliolo. Introduceva quella variante nel suo dire ormai  stereotipato; una qualche bella figura, invero, riusciva a farla. La  voce sensuale ed il petto latteo in generosa mostra della subrettina avevano già ammansito il rado pubblico maschile, ancora assatanato di sguardi coitali.







Poi Popò, evanescente in tutto, e l’aragonese tutto preso di sé e decisamente diafano. Anche l’arciprete, materialone e loquace. Immancabile il “riddilio di la chiazza”, un ex minatore mai stato in miniera ma con pensione di invalidità cospicua e irridentemente ostensa. Ed anche “lu cammaratisi” sempre pronto a vantare l’inesauribilità del suo attributo, a suo dire debordante ogni umano confine. Era il cuciniere e qui davvero ci sapeva fare. Poi i suoi amici cacciatori: tutti, da Giacumino Bedduocchiu a Gnaziu Aviluortu a Chardonnay , a Miserere ed altri. Un bel po’ di gente insomma. Lu Parrinieddu, no: era ‘arrusu ed a Meluzzo, bando a tutta la sua intelletualitudine,  gli invertiti maschi (per le lesbiche faceva eccezione) risultavano indigesti … specie a tavola.







A tavola, invero, “li ‘arrusii” si potevano dire, era però preferibile “la futtuta cu li fimmini”. Meluzzo – che le parrocchie di Regalpetra le sapeva a memoria – rimuginava:







«Le mani si muovono a plasmare nell’aria grandi corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come mongolfiere. Non è più uno scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente ascolta le confidenze del giudice di corte d’appello in pensione, il vecchio dottor Presti racconta a un amico di suo figlio di quando nudo scappò sui tetti, e un marito gli scaricava dietro due colpi. …»







I suoi commensali si professano grandi amatori …. Meluzzo sa che non è vero … solo qualche attricetta dopo il variété. (Ora, però, si sussurra di un prete tenutario e di un napoletano prosseneta e sedicente regista che spingerebbero giovanissime al sesso compiacente per un miraggio artistico …. malelingue! … male lingue!). Fa eccezione, di sicuro, l’onorevole Lasagne. Bell’uomo, suadente, non ha difficoltà a portarsi a letto giovani donne, moglie ribelli e pare qualche amica delle figlie. A Montecitorio, a palazzo Marini per la verità, ha trangugiato le grazie di tante procasissime commesse. Chi le pagava è rimasto però subito deluso per l’inconsistenza delle rivelazioni che l’onorevole era subdolamente spinto a confidare e le conquiste romane subito scemarono per il Lasagne.







Con la sua vecchia 131 Fiat giunse sulla radura della Vecchia Maniera. L’asinello, di taglia piccola ma non sardignola, riprese a ragliare. Meluzzo vi voltò a guardarlo. Sotto sciabolava sull’addome. Era spettacolo sconcio eppure non seppe girare lo sguardo. Un lungo fiotto bianchiccio fu al culmine della foia solitaria. «Che anche lui soffra di complesso di castrazione?» si disse con celia Meluzzo, in fondo per reprimere il senso di vergogna di cui si vergognava.







Erano tempi in cui leggeva di psicanalisi specie per approfondire la sessualità femminile, della  cui conoscenza si sentiva a digiuno e che voleva sondare per non essere superficiale nel parlare di donne nei suoi romanzi.







Si era sciroppati i testi di Janine Chasseguet-Smirgel, di Janine Lamp-de-Groot, di Helene Deutsch, di Ruth McBrunswich, di Marie Bonaparte, di Melanie Klein, di Ernest Jones etc. Nomi prestigiosi, letture noiose. “Complesso di edipo” nelle donne, “monismo sessuale”, “invidia del pene”, “pene castrato”, “preedipico”, “fase fallica”, “femminilità assimilata alla passività, mascolinità all’attività”, “bambino anale”, “anfimixi delle componenti anali e uretrali”, “mater dolorosa”, e via di questo passo. Per Meluzzo aveva senso solo l’aforisma: «l’orgasmo è maschile. La donna femminile non ha un acme orgiastico. La vagina è l’organo della riproduzione, il clitoride l’organo del piacere. »







Fin lì, la sua esperienza – ed era stata tanta – non confliggeva. Per il resto? O non aveva capito niente delle donne o era mistificazione. Forse la donna sino a metà del secolo scorso aveva tutte quelle turbe sessuali. Ma ora, era il contrario. Erano i maschietti a ritrarsi nel loro sesso, castrati di vagina. Bah! Meglio le prossime sortite oscene con i suoi simpatici commensali …- senza problemi erotici … almeno a tavola, alla “vecchia maniera”.







Il genio mittel-europeo aveva lanciato una sfida al mondo della cultura: Marx e Freud, in contesa, pensarono a strutture di base con sovraccarico di complicazioni esistenziali. Il momento economico per Marx, primigenio rispetto a tutte le sovrastrutture pensabili, l’eros per Freud e da lì il travagliato vivere moderno (dell’uomo e della donna, afflitti in diverso modo a seconda della diversa età): chi dei due ha ragione? Meglio, più ragione. Meluzzo, un tempo, avrebbe detto Marx: ora è in bilico. Ma Freud – certo non terapeuta, ma filosofo sì - la spunta sempre più su Marx se si investiga  in tante latebre del cuore umano o se si ha voglia di capire il moderno riconformarsi degli assetti sociali. La spenta voglia procreativa – ed in contrasto, le irrefrenabili pulsioni (sadico anali, vaginali, castranti tanto per esemplificare) – devia e deforma irriconoscibilmente l’umano genere del 2000, tanto più alto, tanto più erculeo, tanto più mirabile: si rende così flebile il “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, motivo di preghiera per Cristo e demoniaca forza conflittuale fra le classi per Marx.







Marx morto e sepolto, dunque? Manco per niente. Va riletto, riconsiderato, aggiornato. Occorre “Marx oltre Marx”. E fino a quando la sinistra – cessata l’onda idiota, riassunti i valori della critica – non s’induce in Italia a sdoganare Tony Negri, a rispolverare i suoi appunti, a vivificarli e ad aggredire gli idiomatismi telematici di una rincitrullita cultura avversa, blaterata da nicodemi,  notturni amici  di un rinnegato cristo socialista, il destino di partiti non più di massa e neppure di idee è miseramente segnato.







Si diceva di Meluzzo che quando passava agli argomenti politici diveniva dannunziano, vago, passionale, enunciatore astratto di incomprensibili principi, vacuo di fatti, contumelioso. Si rifaceva con i suoi “gialli”, fattuali e leggeri, spesso gassose ghiacciate, gradevolissime nelle arsure delle estati siciliane.







Sesso e consorzio umano, economia e società quali interconnessioni? C’era circolazione sanguigna, magari extra-corporea? Marx e Freud andavano rifusi, interconnessi, sussunti in amalgama. Dov’era però il genio? Dove il partito? La novella chiesa del 2000? Non c’era, non c’erano, diamine!























*   *   *















Al simposio andava come convitato d’eccellenza e, soprattutto, quale sommo sacerdote di un rito pagano; andava a dare sacralità laica ad una crapula di cibi fatti risorgere dagli smarriti usi del vivere contadino di Racalmuto.







Idea maiuscola, partorita dal genio liso ma non consunto dei racalmutesi, quelli che si stavano ora adunando per l’intellettualissima abbuffata alla “Vecchia maniera”. Il primo germe l’aveva avuto Aurelio, purtroppo assente per misteriosa ammazzatina.  Ricercatore di antiche cose locali, s’imbattè in un rollo della Matrice. L’arciprete dell’epoca era con lui benevolo e compiacente: quello attuale faceva il mistico in chiesa, il materialone con qualche beghina ancora elastica in basso, ed il ciarlatano sui pulpiti e nei banchetti, specie se prodighi di libagioni. Quanto a cultura e quanto a sensibilità per la storia religiosa degli antichi padri, il nulla. “Rolli”, registri, pergamene, sediole, “altaretti”, baldacchini, “sedie gestatorie”, ed anche piviali e cingoli, amitti e patene, calici ed ostensori, mozzette e balaustre lignee, come gli smantellati stalli del coro settecentesco per i mansionari voluti dall’arciprete Lo Brutto, resero molto in euro e figurano mal registrate nelle denunce di furto presso la caserma dei carabinieri a S. Grigoli.







Aurelio era riuscito a decifrare il primo volume della «FRABRICA DELLA MATRICE CHIESA DI RACALMUTO», ovverosia: «LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della frabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra» per mano di D. Lucio Sferrazza» e nel dettaglio Introito di denari per conto della frabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto pervenuti in potere del dr. D. Salvatore Petrozzella Depositario di detta frabrica conforme alle constituzioni di Mons. Ill.mo R.mo frà Ferdinando Sancèz de Cuellar vescovo di Giorgenti - Date in Racalmuto in discorso di visita a 28 novembre 8a Ind. 1654».







Il bel volume, rogato con grafia davvero bella, finì nel sottoscala della Galleria Colonna, fra i libri vecchi poco richiesti.  Un’inchiesta vi fu; per pronta giustificazione si concluse che il manoscritto si era smarrito quando l’intera raccolta della matrice era stata traslata ad Agrigento per il restauro dei BB.CC.AA.







L’Aurelio aveva però trascritto con il vecchio excel  l’intero volume (altri). Il passo che qui ci incuriosisce recita: «per havere fatto venire dui burduna da Garamoli tt. 20. e più per pani salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna dentro la fiumana» Era il mese di dicembre 1658.







Com’era la salsiccia racalmutese del 1658? Ancora migliore di quella che si gustava dopo la guerra del 1940. Poi erano venuti i porci del nord, e poi quelli esteri dalla Jugoslavia e poi quelli con il venefico mangime e poi quelli clonati … il gusto disperso, smarrito. Ne parlò Aurelio con Giovanni Salvo: dentista per vivere, animalista e botanico sommo (come dilettante, s’intende). Bisognava riprodurre gli antichi maiali nel sottobosco degli Agliannari al Castelluccio. Ignari gliAvareddi vendettero a giusto prezzo. Anni per il ripopolamento dei lecci e dei verri. Il tentativo riuscì. Aurelio non gustò quella salsiccia: il veleno fu più sollecito. La degustazione sarebbe avvenuta adesso, al simposio.







Vini antichi – si sperava simili a quelli che nelle olle venivano da Racalmuto inviate a Roma per le decumane delle verrine memorie – si produssero con vitigni che l’accorto padre di Cicciu Marchisi seppe ricordare: biancugiovanni, ‘nzolia, lacrima di madonna, ed anche zibbibbo e malvasia. Nucciu Principi - occhialuto latinista e giudice in pensione – citava Marziale:







-        mescesi … il Massico vino al miele ibleo.







Il miele decantato era invero attico. Ma Nucciu Principi seguiva la versione di Alberto Gabrieli. Altrove del resto non si parlava di favi siciliani? «Quando regalerai miel di Sicilia/ stillato sugli Iblèi, di’ pur che viene/ dalla cecropia Atene». Ne era nata vasta ed inestinguibile disputa. Tre mirabili parti: un vino che Chandonnay seppe vacare (ed un po’ manipolare) dalle prime acerbe uve dei vitigni messi su da Cicciu Marchisi sul pendio dei Romano a Piedi di Zichi dopo l’esproprio per il pericolo di valanghe da  nubifragi.







Non si volle mischiare il vino col miele: era come profanarlo, violentarlo. Stavolta il mondo romano era da considerare balzano, non raffinato nel trattare il liquore di Bacco. Miele speciale però si ottenne con arnie a “li balati” stracolmi di “satareddi” (“thimus capitatus”, non senza sussiego precisava il dentista-botanico). E con mandorle “muddisi” – qualità locale – si era fatta una “cubaita” (come quella insegnata a Federico II dagli arabi) che bene si coniugava con un vinello che Chandonnay aveva ricavato dal biancogiovanni, ‘nzolia, zibibbo e taluni altri vitigni che si teneva per sé, «pi nun farisi arrubbari la rizetta».







Tardi si accodò Benny Alaimo Alosa: appena laureato alla facoltà di agraria di Palermo, ove era pupillo dell’entomologo di fama mondiale, il racalmutese Giuggiu Liotta. Venne con una sua idea: coniugare “saperi e sapori” del paese. Peccato che s’intignò nel dare fattualità al titolo di un epigramma di Marziale sugli “oli odorosi”. Fingendo di confondere i profumi oleosi dell’epoca con oli odorosi di rosmarino, menta e citrosella, cercò di sperimentarli ed anche produrli: fu disastro economico: l’olio sapeva di afrore erbaceo, il selvatico delle piante si caramellava e dava appiccicaticcio sapore. Ancora un’insistenza e l’avrebbero espulso dalla combriccola. Si preferiva ed si usava l’olio tratto con macine antiche dalle olive portate da Di Marco, eccellente produttore e convinto assertore che i suoi uliveti sulle pendici settentrionali di Villa Petrone andavano salvaguardati solo con la carta moschicida, appesa agli alberi a tempo debito. Solo lui conosceva modalità e sistemi: un altro fanatico con la mania dell’omertà bucolica.







Pitruottu, ricco di esperienze ereditarie, seppe risuscitare tipi di verdure introdotte dagli arabi. Pregevolissima, la “bastunaca” di cui si era perso persino il ricordo. Giacuminu Beddocchiu e compagni venatori rintracciarono – almeno così dicevano – il coniglio autoctono a li  “Pantaneddi”: nella voragine prodotta dall’insipiente sfruttamento del salgemma poté annidarsi una coppia di leporidi nostrani, farla franca dagli accoppiamenti dei blenorrogici animaletti che incauti cacciatori avevano senza difese sanitarie introdotto dalla Jugoslavia ed avevano figliato a iosa, sani e gustosissimi. Questo dicevano Giacuminu e compagni e stavolta non erano contraddetti dal solito Miserere. Il cronista riferisce e non commenta.







E qui mi fermo, altrimenti continuerei per tomi interi.







Giunsi con qualche ritardo, per quel dannato caso della morte del dottore Aurelio La Matina Calello: non ne feci cenno, altrimenti il pranzo andava a male, ché il morbo della curiosità, intrisa di malignità e sospetto e dispetto, chissà dove ci avrebbe portato. Trovai l’arciprete sorridente, ma nell’intimo contrariato. Non pensava più alla gola come uno dei peccati capitali: i ghiotti spettacoli erano tentazione irresistibile. Non tanto però da non costringere la frotta dei commensali, farli tutti segnare, recitare il pater, invocare la benedizione celeste sul cibo che poco parco certo non era, e quindi «gloria patri et filio et spiritu sancto» (il latino approssimativo era il massimo che l’arciprete potesse concedersi dopo l’imbarbarimento della riforma ecclesiastica di Paolo VI». «Et in secula seculorum» non potei fare a meno di celiare.







Esordimmo con antipasti ‘poveri’. Tutte le verdurelle commestibili delle contrade racalmutesi trovarono sapiente miscuglio, saltate in padella con aglio di Castrofilippo ed olio di Alaimo Alosa (abbiamo dovuto fare qui uno strappo ed accettare gli intrugli di Benny … e per quell’uso condimentale il rosmarino frammisto a succo di olive smunte dalle presse in basalto di Cefalù non era poi spregevole). Le focaccette (memoria di li cudduruna di gnura Annidda) erano fatte con la “tumminia”. Cipolle e lattughe degli orti di Pitruotto e spizzichi ditumazzu che Sintini ci aveva dispensato, una volta tanto senz’astio. Sintini, a vederlo, metteva paura: barba incolta da sempre, incedere caprigno, capelli irsuti, tarchiato ma non corto, bacino ardimentoso … ed occhi spaventosamente belli e neri… lupigni. Giacuminu Beddocchio lo chiamava «l’uomo selvatico», ed era l’unica volta che si concedeva letterari toscanismi. Aurelio aveva scritto che quelli (i Sintini e gli altricrapara del paese) erano i racalmutesi prischi, d’intatto DNA. Erano i residui dei sicani, spintisi fra le montagne con gli armenti, per non subire sudditanze e sfruttamento che il nuovo barbaro popolo dei geloistava imponendo nelle lande sotto il Castelluccio già verso la fine del VI secolo a. C.







Il primo piatto impregnò la tavola dell’odore del sugo del coniglio selvatico. Spettò a Nucciu Principi preparare “li cavatieddi” come usava una volta, per devozione all’antico mestiere di pastaro della sua famiglia. E dopo, lo stesso coniglio a sugo e – prelibatezza delle prelibatezze – i fegatelli di porco indigeno e le salsicce del maiale allevato tra gli agliannari del Castelluccio ed altre specialità del luogo (non essendo però questo l’Artusi, le ometto tutte quante. Il mio apporto è consistito nel dosare sapori, odori, tempi di cottura, scelta della legna per ogni tipo di pietanza; insomma il tocco dell’intellettuale con vocazioni culinarie).







Sublime la granita di Parisi a mezzo del pranzo, per spezzare l’aggravio intestinale. L’abbuffata finale di dolci, amaretti, alle mandorle, alla ricotta, con liquori, con miele di sataredda, eccellenti i taralli che non erano di Piuzzu ma ormai la Taibbi li sapeva fare meglio, e deliziosi gli amaretti di Capitano. Compiacenti robuste libagioni,  ora rideva a squarciagola Bisteccone: pur sempre meno rosso, a tavola era eccellente commensale. Provammo l’antico rosolio: ma non riuscì. Si imitarono i “marsala”  e si superò il porto ed anche le celsitudini dei Whitaker . Finì ubriaco persino l’arciprete e così ci risparmiò il Deo gratias.















*   *   *















Appisolato ma con inframmittenze lunghe, sostenuto, diciamo che ero immerso in una bolsina per affaticamento delle frattaglie che si annidavano nel mio ventre: sbracato in una poltrona-letto, quelle da spiaggia per intendersi, venivo piano piano acciuffato da mal di testa (non dico emicrania per odio alle donne). L’esofago, il fegato e quegli altri arnesi della digestione chiedevano vendetta per il sovraccarico di lavoro, ed in cuor mio maledicevo Chandonnay cui davo debito di insolenze chimiche nel maneggiare i valenti ma scabri vini racalmutesi: non era enologo, era dilettante ed esagerava.







Mi apostrofò nel peggiore momento di quel giorno Cicciu Vitacchia, figlio del nostro cuoco «lu cammaratisi». Lo conosceva, ma in confidenza ero solo con il padre. Il figlio ebbe certezze di eredità necessitata.







-        Sapissi, chiddu chi sacciu io sull’ammazzatina del dottore Agrelio Matina e la commissaria, nun lu sapi nuddu.







-        Beato te, mi venne di rintuzzare, indispettito e scocciato.







-        Fu la giudea, fu la giudea.







-         Ma quale giudea?







-        Chidda ca vinni di Sraeli.







-        Perché è venuta una da Israele?







-        Sissì e ddu voti.







-        Andiamo con ordine, fui pedante ad arte.







-        Chidda vinni orallannu. Cu nn’amicu. Ma li masculi nun ci piacivano. Fici fotografie na jurnata di ‘nviernu. Duoppu si nni partì. E mi mannà chisti fotografie.







Mi porse un plico con foto veramente abili. Scattate da un professionista di grande valore. Vitacchia era confusionario, io era avvinazzato. Optai per un rinvio.







-        Senti, vieni domani su nella “roba” del dottor La Matina a Bovo. Sai dov’è.







-        E dda ssusu, dda ‘mpacci.







-        Bravo. A domani dunque.







Non v’era ombra di dubbio, la sicula e racalmutese fantasia, la voglia di darsi importanza, la lusinga di venire considerato da me (chi si contenta, gode) spingevano il Vitacchia a quegli sproloqui là. Quella che indicava come esecutrice di un duplice omicidio (ma la commissaria era morta per un incidente stradale) era una brava e caruccia giornalista d’Irsraele. Sì, la conoscete già:  Melissa Cohen (sopra descritta, direbbero i burocrati). Sospettare di lei era peccato sommo. Giudizio temerario da buscarsi sette inferni in una sola volta. Vitacchia, paura dell’inferno non ne aveva, però. Sua nonna era stata la celebre Carmena l’acqualora. Donna bellissima, maliarda nella vita, soave nel canto. Tutta la mascolinità racalmutese – se capace di andare a puttane – l’aveva posseduta. A pagamento. Il marito sussiegoso chiedeva «Picciuò, v’addivirtistivu?». Il prezzo del meretricio doveva essere “scuttatu”. Carmena appagava, valeva, le cinque lire erano “scuttati”. Poi, mai in disuso ma rarefatte le richieste, ebbe mistici trasporti, religiosità quasi bigotta. Come cantava lei “Maria passa” il venerdì santo, nessuno, neppure Mulè. Ora erano le picciutteddi che sfacciatissime amoreggiavano nelle macchine, quasi alla vista degli occhi. Carmena guatava, scuoteva la testa, aspettava il passante e segnando a dito catoneggiava: «E po’ dicunu ca la buttana sugnu iu!»























*   *   *















Mi alzai davvero infastidito: Viatazza mi dava ai nervi. La sua saccenteria mi irritava; con presunzione somma (vizio racalmutese, si sa) mi veniva a spiattellare una soluzione semplice, semplice di un mistero tenebroso, intricato ed intrigante. Una valente poliziotta vi aveva speso tante energie e non è che non fosse arrivata ad una soluzione; vi era arrivata ma portava lontanissimo dalla bislacca supponenza di Vitacchia. Era un filone mafioso che vi si snodava. E prove, ed indizi, e riscontri là in effetti conducevano, indefettibilmente. La morte della poliziotta dava esca a qualche sospetto, ma il buon senso portava a concludere che si era trattato di un momento di panico di un frettoloso camionista, che catapultando nel vuoto una fragile peugeot 305 con la sua motrice si era precipitosamente eclissato. Cose d’ordinaria amministrazione. Non si era trovata la motrice; qualcuno diceva che non era targata; Giuggiu Marino sproloquiava. Note di colore paesano. Il mio notorio buon senso mi dice di smetterla con questo tornare e ritornare sul recaltritrante dialetto siciliano del Vitacchia: cacciamolo via, cacciamolo via.







Frattanto guardo le fotografie di Melissa Cohen (o del suo fotografo di Tel Aviv). La tetraggine a Racalmuto in un mattino d’inverno stagna in desolazioni immote. Legni secchi, in filari scheletrici e giù il bianchiccio di nebbia rada solcata da una stradetta serpentina che si diparte da fiancheggianti eucalipti: il simbolismo della prima foto isrealitica mi coglie cupo nel mio dispetto. Il casello ferroviario lo riconosco: la “T” resistente tra lo sbriciolarsi dell’intonaco, il casotto memore dell’antico mettersi al riparo delle intemperie per scorgere meglio il treno in arrivo, inceneriti dal gelo gli arbusti ai fianchi della strada ferrata, file di finestre senza imposte sopra e sotto e due una sull’altra nella fiancata breve. Il casello ha storia, storia fascista, non credo che i superflui dell’Olocausto la sapessero nel fotografare quel triste casello. Vi abitava negli anni trenta una famiglia di casellanti non indigeni, solitari, prolifici, in eccesso di promiscuità. Una giovane figlia, appena ventenne, passò al servizio del podestà. Il padre gridò allo scandalo. Il podestà ne avrebbe senza indugio approfittato. Processo. Manovrava il capo della milizia volontaria, avvocato e fratello del primo fascista locale e fondatore unitamente con don Calogero Vizzini del partito di Mussolini. Il podestà aveva fama di incorruttibile: l’avvocato e la sua famiglia vantavano un padre medico e benefattore ma non eccelsero in spirito filantropico. Tra il podestà e l’avvocato la ruggine era palese; l’avvocato colse il destro per disarcionare l’avversario con un infamante processo. Ebbe a protestare l’imputato la sua idoneità a sverginare la figlia del casellante, peraltro di quasi ventun’anni; portò certificati medici di impotenza congenita, ma il montante moralismo fascista impedì l’assoluzione. Quando vecchio ed ormai sotto il regime democristiano l’ex podestà degnò delle sue confidenze un giovane procuratore legale, continuava a ripetergli che la giovane non era vergine, era stato il padre casellante a consumare la violenza. A sua volta il confidente ebbe vecchiaia isterica: forniva la piccante versione ma la negava rissosamente se dopo giorni gli chiedevi conferma. Il fascismo non era stato solo violenza all’esterno, anche nel suo intimo fu violento. Un podestà onesto soccombette ad un avvocaticchio immorale, usuraio e maldicente. Il casello come simbolo mi affascina: «poiché il paese è pieno di adulteri, / a causa della maledizione tutto il paese è in lutto, / si sono inariditi i pascoli della steppa. Il loro fine è il male / e la loro forza è l’ingiusizia.» La geremiade mi va di ripetermela in latino, altro suono, altra atmosfera: «quia adulteris repleta est terra. Arefacta sunt arva deserti: factus est cursus eorum malus , et fortitudo eorum dissimilis.» (Ieremias 23, 10).







Altra foto: tetti diruti; miserie velate. Altra foto: imprigionato il vecchio carcere con il geometrico campanile del convento francescano che il de Carretto volle nel 1540 e che padre Cipolla non poté finire nel 1930, imperante il fascismo. La scalinata del Monte sa ora acquisire satanica minaccia per l’addossarsi del trasandato palazzetto: tetri a commento i lampioncini di vecchia memoria. Ora è la volta di Vitacchia (assieme al comico Serpia, inanellato basco cappotto e occhio ceruleo e vivo); in fondo, la matrice tra nebbiolina come nell’esordio del Giorno della Civetta di Sciascia.  Ed ora il comico a solo, mentre si appoggia all’ombrello, come se fosse un nobilotto inglese, lui il cui DNA si sperde tra accoppiamenti spurii ed illegali. Infine, la matrice transennata, le violentate case di Piazza Castello appena visibili nel grigiore della nebbia e Vitacchia che vuole l’immagine a solo: manca però di fotogenia.







Ed eccolo che arriva, chiassoso ed indisponente. Dimenticavo: mi sono trasferito nella villetta del dottore La Matina messami gentilmente a disposizione dalla famiglia del defunto. Tutto si può dire dei racalmutesi, ma ospitali lo sono e se ospitano, statene certi, sono disinteressati. Non esagerate nel ringraziarli; però non fategli capire che pensiate ad una qualche loro capziosa gentilezza: diventerebbero subito bruschi ed ostili.















*  *   *















-        Allura, aieri cci diciva ca orallannu …







-        Sì.sì, me lo ricordo: l’anno scorso è giunta qui una israeliana …  che ha fatto fare le fotografie da un suo connazionale, ecco, queste fotografie … ed era una brutta giornata invernale …







-        Ma sapi comu si chiamava?…







-        Lo so -  in effetti avevo consultato le carte della poliziotta.







-        Melissa, chi bieddu nnomi…







Ma qui debbo dare un taglio allo stretto racalmutese del parlare di Vitacchia. Mi prendo la libertà di tradurlo, possibilmente alla lettera, con qualche concessione al “volgare eloquio”.







-        Melissa era  … bedda bedda no … ma a mia mi piaciva assà. Nivuredda, i capelli ricci e neri … senza minni, insomma picciliddi … ma aviva un culu … un culu pisellante?







-        Pise… che?







-        Inzumma, duttu, faciva arrizzari. Addunca, chidda arriva col suo giovanotto. Piccolo, occhialuto, a me sembrò tanticchedda ‘rricchiuni’ – (oh l’influenza del cinema romanesco, mi venne di pensare).







-        Perché, ti adocchiò?







-        Veramente no, si vede che capì subito ca a mia mi piaci sulu la cucchia!







-        Tu sei sboccato, Vitacchia. Con me parla .. latino – e pensavo al termine come Sciascia lo cerebralizza.







-        Arriva la sera, li porto nel «trilocale con tre camere da letto e bagno a L. 20.000 a persona per notte» come dice Inforacalmuto, il sito del paese albergo insomma. Mi aveva istruito Rosalia Sinibalda con cui questi di Tel Aviv erano in contatto. Non conosce il sito dottò?  Insomma li portai nella vecchia casetta di Mariano Zuccalà a S. Francesco. Che si presenta bene e per essere casa d’affitto, è comoda. Non c’era riscaldamento, ma le stufe c’erano, elettriche, una per ogni stanza. Si stava bene. Io Rosalia Sinibalda non l’amavo tanto prima, s’immaginassi duoppu chiddu ca vitti. Ma ogni cosa a suo tempo.







-        Già, ogni cosa a suo tempo: non divagare Vità.







-        Sissi, duttù.  Li lasciai a dormire. L’indomani andai a prenderli e fecero quelle fotografie che le ho fatto vedere. Al casello ci andammo con la mia macchina: Scaccia è luntanu, sapi. E poi era una brutta giornata, friddusa, cu la neglia ca nun si nni vuliva jiri. Serpia subito si ungì cu nantri. Sapi, chiddu unni vidi ‘scuru e fudda’ … e non faceva parlare a nessuno .. nun ci faciva arrivari a nuddu, ‘nsumma. Ripeteva sempre la solita storia: che aveva recitato, che era un grande comico, che i battimani erano tutti per lui. Melissa rideva, il compagno non comprendeva. Io mi annoiavo.







In preda a noia galoppante veramente ero io. Non lo seguivo più. Solo a questo punto ebbi un sussulto.







-        A mmia mi piaciva. Accussì cercai di forzare i tempi. Ritornai la sera, era a dire la verità notte. Si era dimenticata di mettere il lucchetto del portoncino. Era aperto, entrai, salii, e restai di stucco. Era nuda, abbracciata con Rosalia pure essa nuda .. e si amavano … come un maschiaccio con una femmina di strada … che schifo!. Non si erano accorte di me … continuarono. All’improvviso un urlo di Rosalia: mi aveva visto. Scappò nuda e si nascose nel bagno. Melissa rimase impassibile, anzi mi sorrise, ma più che un sorriso era un ghigno beffardo. «Non te lo avevo detto che non c’è trippa per gatti» «Nenti rugnuna pi li gatti masculazzi». Non disse propriu accussì, ma chiddu era il senso.»







Mi indignai e lo bloccai. Gli offrivo, liberatorio, uno scifu di caffè e latte, più caffè che latte, però. Gli detti savoiardi, un sacchetto cellofanato di quelli che vende Campanella. Io il mio soavissimo caffè, fatto con la napoletana, come mi aveva insegnato Gennariello al Caffè della Galleria di Napoli, me l’ero già dispensato con il solito rito mattutino. L’istinto pettegolo regredì, quello famelico imperversò. Vitacchia si precitò sulla tazza, ingoiava savoiardi interi, a metà intingendoli nella brodaglia bianconera, a metà divorandoli in un solo boccone. Spruzzava saliva e briciole intrise di caffellatte, in bestiale ingordigia. E questi si permetteva di censurare amori  sublimi di mirabili donne. Puah!







Mi ritirai nell’altra stanza, quella che fungeva da studio. Anche per Aurelio. Vitacchia mi aveva ridestato un ricordo soavissimo. Nella mia vita di sceneggiatore ne avevo viste di cotte e di crude in materia di sesso. Amanti indomabili, bagasce oscene, pederasti, invertiti, trans, e naturalmente lesbiche, quelle attive e quelle passive, omoerotiche e bisex.   Una deliziosa fanciulla, candida, cerbiatto immacolato, armonica nel corpo, dall’occhio terso, incantevole mi aveva amato ed io l’avevo amata, ma nel più puro dei modi, senza sensi, con trepido moto dell’animo, dell’anima sua, del cuore mio: ed intelletto e sentimento e gioia nel rivedersi ed incanto nel sentirsi ed arcano mirarsi negli occhi e silente trasporto si fusero o tessero l’ordito di una relazione ineffabile, durata pochi mesi purtroppo. Ella era lesbica, aveva una carissima amica (né bella né tenera come lei). Mi amò castamente, l’amai teneramente. Ed ora veniva quel laido di Vitacchia ad imbrattarmi tutto. L’avrei scaraventato da una finestra, ma da una finestra altissima, sita all’ultimo piano di un grattacielo newyorchese.







In bell’evidenza stava nella  libreria di Aurelio un testo commentato delle poesie di Saffo (sì, Aurelio era colto, sapeva anche di greco antico e se lo centellinava anche a tarda età. Non per nulla era stato in seminario. Ditegli tutto quello che volete ai preti, ma gli studi classici te li sanno imporre).







-        … passi leggiadri ti guidavano veloci al di sopra della nera terra con fitto battito d’ali giù dal cielo per gli spazi dell’etere …







-        mi piace questa traduzione di Franco Ferrari. E la donna amata dalla donna?«Infatti anche se fugge, presto verrà dietro, / e se non accetta doni, anzi ne offrirà, / e se non ama, ella presto amerà / anche contro il suo volere». Ma io sono greco, sono agrigentino da immemorabili generazioni. Come li avrei letto quei versi? Sentiamo – e ad alta voce declamai:







-        kai gar feughei takheos dioksei, / ai de dora de me deket’alla dosei / ai de me filei, takheos filesi / koiik etheloisa.







-        Decisamente improbabile. Oh grande lingua antica dei nostri primi padri, come ti abbiamo smarrita! Come? Quando? Ancora ai tempi di Verre le donnette pie e fanatiche in greco malmenarono gli scherani del vorace esattore, quando di notte si tentò il furto dell’Ercole bronzeo (ex aere simulacrum .. Herculis». In greco – è certo – gli agragantini cercarono di scherzarci su «in hac re aiebant in lobores Herculis non minus hunc immanissimum Verrem quam illum aprum Erymanthium referri opertere» (dicevano - e la loro lingua veicolare era il greco - che nel novero delle fatiche d’Ercole occorreva includere questo spietato porco d’un Verre non meno del famoso cinghiale d’Erimanno.» Greco ancora si parlò per tutto l’impero romano e greco, dopo, sotto i bizantini. Greco il vescovo Gregorio del III secolo (non certo l’innografo che quella è baggianata di eruditi ma non colti canonici agrigentini). In lettere greche la dedica ad Hermes e ad Eracle nel chiostro di S. Nicola.  Gli arabi furono di passaggio. I berberi erano bravi ma incolti contadini per sopprimere una grande lingua. Poi Gerlando un bretone pio ma predace. Iniziò il seppellimento del greco. Ma i testi dell’archivio capitolare di Agrigento dimostrano che non fu facile. Sopravvive il greco per due o tre secoli ancora.  Il buon Aurelio così scriveva: «Per esser normanno, venne  descritto dalla pur tardiva storiografia  secondo  il consunto stereotipo di uomo  di  nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto.   Tale versione risale al secentesco Pirro. Il personaggio non  è inventato e questo è già molto.   E il vescovo  ebbe subito fama di santità, come può  arguirsi  dal Libellus  custodito nell’Archivio Capitolare ove si  parla dell'anima  benedetta del beato Gerlando che,  discioltasi  dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino». Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di ebrei e musulmani. Nell'agrigentino si parlava un dialetto locale, veicolare che aveva poco di arabo. Forse residuava un uso del greco nei  ceppi più tenaci.  Questo vescovo borgognone, che chissà quale lingua parlasse, dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi e questi, come ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.











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