[Contra Omnia Racalmuto] Il 1862 a Racalmuto
secondo una nostra ricognizione di una diecina di anni fa
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dom 13/01/2013, 12:39
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Il Falconcini, dopo, in piena irritazione
per l’umiliante defenestramento, sui misfatti di Racalmuto torna ed ora con
accenti più caustici e più offensivi. Scrive (cfr. il capitolo di pag. 55
intitolato: “Vandalici fatti consumati in Racalmuto”): «Da Canicattì si appiccò l’incendio ad un tempo a sette
paesi della provincia; nei quali sotto
colore di provare scontento contro il governo vincitore ad Aspromonte, si dette
sfogo a quelle covate ire di famiglie alle quali sogliono le passioni politiche
servire di comodo manto in Sicilia: a Racalmuto fu il disordine molto più grave
che altrove. Due casate da lungo tempo in Racalmuto rivaleggiavano per il
dominio nella propria terra e per il possesso delle cariche municipali, le
quali in provincia, eccettuato le primarie città, si ritengono mirabile mezzo
per quello a proprio piacere esercitare nel comune. I Matrona ed i Farrauto
rinnovellando in fondo alla Sicilia le lotte cittadine che nel medio evo
mandarono fino a noi la memoria dei Donati e dei Bondelmonti, fanno
odiernamente rivivere nello sventurato loro paese la inciviltà dei secoli di
mezzo, senza trarne neppure il vanto di storica celebrità. Le campagne di quel
comune erano piene di renitenti alla leva, frutto questi della retrograda
amministrazione tenuta dagli adepti dei Farrauto: la quale gestione delle cose
municipali non era valso a togliere ad essi lo scioglimento del consiglio
comunale, di recente avvenuto per decreto del re a savia proposta del mio
predecessore; l’autorità municipale essendosi ricostituita quale si trovava
prima di essere stata disfatta da quel regio decreto, perché il fatto stava
nella [pag. 57] formazione delle liste elettorali e queste non possono per
legge da un regio commissario venire rivedute. Già da qualche giorno si
mormorava che il partito dei Farrauto, il qual sembra che vesta in calzon corto
ed in coda per differire da quel dei Matrona che ama indossare la camicia
rossa, pensasse a profittare dell’abbattimento che dal fatto d’Aspromonte
veniva alla parte sua rivale, per correre alle case dei Matrona ed appiccare
con questi una volta di più accanita zuffa, e si diceva che a tal rei fine
tenesse quel partito continui e segreti accordi con la banda dei renitenti: si
mandavano consigli e minacce dalla prefettura per ritardare, se possibile, tali
avvenimenti tanto che la truppa giungesse da Palermo; non avendo senza questa
modo di far altra cosa, fuor di consigliare e minacciare. Ma vedendosi a
Racalmuto che il disordine di Canicattì non si puniva e deducendosene, secondo
la logica dei Siciliani, che il governo non avesse forza per punire, si
ridussero ad atto i meditati piani e il di 6 settembre 1862 si facevano entrare
in paese i renitenti, si bruciavano gli archivi comunali, mandamentali, [pag.
58] e si saccheggiava la caserma dei
carabinieri, si devastava il casino di conversazione, si svaligiava il corriere
e si ardevano le corrispondenze, si poneva l’assedio alle case dei Matrona che
validamente si difendevano. Le notizie di queste vandaliche azioni giungevano a
me da più parti ...la mattina del 7 settembre fra le undici e le dodici. [...]
«[pag. 60] Mezz’ora dopo mezzogiorno del di
7 settembre l’ordine era dato da me alla poca truppa di marciare tutta con
veloce passo verso Racalmuto ... [pag. 64] La truppa partì all’imbrunire, e sul
fare del giorno era a Racalmuto. [ ...] Quasi insieme alla truppa partirono per
Racalmuto il procuratore del re ed il giudice istruttore, ed io affidai
pienamente ad essi l’investigazione dei fatti avvenuti e le misure da prendersi
[...], limitandomi a sospendere la guardia nazionale racalmutese che
evidentemente aveva mancato al proprio mandato. Ma avendo poi saputo per un
espresso, speditomi dall’autorità locale, che per ordine del comandante la
colonna militare, i Matrona erano stati posti in carcere, e parendomi che non
potessero essere rei poiché erano stati assaliti fino nelle loro case dai
ricoltosi, spedii un delegato di Sicurezza da Girgenti ad informarsi della
verità di quel rapporto ed a sollecitare in mio nome presso il giudice
istruttore l’esame dei Matrona: io non poteva né doveva far di più, e questo
bastò allo scopo; perché esaminati subito [pag. 65] i Matrona, furono dal
giudice stimati degni di libertà e scarcerati. Essi, infatti, a mia insaputa,
lealmente dichiararono tutto questo in un giornale, quando altri fogli si
dilettavano di svisare ciò che io disposi in questa circostanza; ma così non fu
impedito ad altri onesti diarii ed all’onestissimo Diritto di asserire, quando
piacque al partito al quale tali periodici appartengono da Falaride, che io
avevo lasciato premeditatamente avvenire i disordini vandalici di Racalmuto,
per dare a me stesso il sollazzo d’esercitare severità contro i liberali,
precisamente ordinando l’arresto inopportuno dei Matrona.
«[...] [pag. 64] L’ordine fu immediatamente
ristabilito a Racalmuto, in grazia della presenza della truppa, la quale
arrivata in quei giorni andò a ripristinarlo ovunque era stato manomess; gli
arresti fatti nel primo momento dai comandi militari e dai delegati locali
furono corretti dall’autorità giudiciaria, e regolare processo fu iniziato onde
scoprire e punire i rei di tali odiosi misfatti.»
Il Falconcini aveva premesso tutto un
racconto sui prodromi degli eventi racalmutesi. La scintilla scoccò a
Canicattì: grande fu lo sgomento per i fatti d’Aspromonte e nel vicino centro
canicattinese il “ceto civile il 30 agosto si vestì pubblicamente a lutto con
l’animo di fare una dimostrazione puramente garibaldina.” [1] Il sindaco di
Canicattì Giuseppe Caramazza, si premurava di telegrafare al prefetto queste
note datate primo settembre 1862: «ieri sera una dimostrazione pacifica popolo
tutto, alle grida via Garibaldi, viva Vittorio Emanuele, abbasso Rattazzi,
abbasso il ministero. Appresso fornirò dettagli.»
Ma gli eventi presero subito una brutta
piega: “un atroce ferimento di
carabinieri fu avvenuto ad una delle barriere della città”; “in conseguenza di
un rapporto del regio procuratore - annota nel suo libro, a pag. 54, il
Falconcini - io riattivai la guardia nazionale e lasciai riaprire il casino”:
il prefetto aveva fatto chiudere il casino di società di Canicattì perché
lì si era organizzata la rivolta; ne
scrisse la Gazzetta di Torino del 28 ottobre 1862.
Da Canicattì l’insurrezione si propagò
subito a Racalmuto, a quel tempo già ben collegato dalla strada statale che poi
raggiungeva Grotte e quindi Aragona; dal bivio di Aragona si poteva andare
comodamente ad Agrigento oppure - dall’altro versante - a Comitini,
Casteltermini, S. Giovanni, Castronovo fino a Palermo. La tesi del Ganci a dir
poco non si attaglia a Racalmuto: secondo questo storico [2]
“per le cattive di viabilità e la mancanza
di strade, scarsi erano i rapporti culturali e commerciali tra i vari comuni.”
Ma allo studioso bisogna credere quando analizza la crisi del ’62: «una crisi
anche morale - chiosa a pag. 120 - determinata da diffidenza reciproca, dei
“continentali” verso la Sicilia e della
popolazione siciliana verso la politica fino allora seguita dal governo
luogotenenziale, emanazione di quello di Torino, non senza uno strascico di
recriminazioni che non potevano non acuire maggiormente il contrasto tra il
Nord e il Sud. Questo provano anche le misure di sicurezza adottate (nomina di
un commissario straordinario con poteri civili e militari, stato d’assedio,
disarmo generale, fucilazioni eseguite ad Alcamo, a Racalmuto, a Siculiana, a
Grotte, a Casteltermini, a Bagheria ...)
misure che non mirarono soltanto a colpire i “ribelli” che si ostinavano a non
volere deporre le armi, ma anche e soprattutto ad arrestare, come si era fatto
dopo il plebiscito, il movimento rivoluzionario popolare, che per la presenza
di Garibaldi, s’era rinnovato con lo stesso ardore che nel ’60. “In presenza di
Garibaldi - scriveva a L’Indipendente di Napoli il corrispondente di Sicilia
subito dopo i fatti di Aspromonte - egli è che i malumori che covavano da tempo
si sono scatenati alla prima occasione; ma lo stendardo di tutti è uno, la
guerra civile, la guerra del povero contro il ricco”. Ciò non sfuggiva ai
moderati e a tutta la classe dell’alta borghesia terriera, la quale si schierò
ancora una volta, come nel ’60, da parte del governo di Torino e tollerò anche
di buon grado, pur di vedere rimesso in “ordine” il paese, lo stato eccezionale
in cui venne posta la Sicilia, essendole stato applicato anche il blocco di cui
fu data comunicazione a tutti i governi delle Potenze estere. Allorché anzi si
cominciò a parlare di togliere lo stato d’assedio, da parte dei benestanti si
levarono reclami perché fosse ancora conservato, come rimedio fondamentale per
“purgare” l’isola di tutti i “tristi” che la infestavano.»
A noi quelle fucilazioni di racalmutesi
danno raccapriccio; ed è fuor di dubbio che ci fosse lo zampino di Falconcini.
Non riusciamo quindi a capacitarci come Sciascia, preso dalla “amara
esperienza” di quel prefetto, lo accrediti di una patita “ingiustizia”. Il
prefetto fu, come si disse, un continentale, un burocrate come tanti altri
funzionari mandati in Sicilia ad occuparvi gli uffici di maggiore
responsabilità; uno come gli altri: «duri e pieni di boria - secondo il profilo
tracciato dal Ganci, op. cit. pag. 118 - coscienti di rappresentare una civiltà
più progredita», burocrati che «arrivando in Sicilia non sapevano neppure
rinunziare a tutte quelle formalità e cerimonie che si solevano praticare,
specie dall’alta burocrazia piemontese, nei riguardi di un’alta autorità, nel
momento di entrare in carica.» Per noi, vada un’infamia perenne a siffatto
Falconcini. Evviva S. Spaventa che l’11 gennaio 1863 gli inviava una lettera che gli giunse la sera
del 16 gennaio ove a “nome del ministro dell’interno gli annunziava avere il re
fino dal dì 11 dello stesso mese firmato il decreto che lo dispensava dall’ufficio
di prefetto di Girgenti”.
L’argomento Falconcini tenne banco nelle
dispute serotine del circolo di compagnia. Ma bisognava stare attenti: non si
potevano urtare le suscettibilità delle due contrapposte fazioni, quella dei
Matrona e quella dei Farrauto, entrambe massicciamente presente tra le file dei
soci. In un punto si era unanimemente concordi: gratitudine al polso di ferro
del prefetto, capace di sgominare con arresti e qualche scarica di fucili la
masnada sanculotta che aveva osato profanare il rispettabilissimo circolo dei
galantuomini racalmutesi.
Il Falconcini è proprio un fanatico del
Nord, venuto a Racalmuto ‘a miracol mostrare’ della prepotenza piemontese:
attorno all’autunno del 1862 sua altezza prefettizia non può tollerare che nel piccolo paese dell’Est
agrigentino due famiglie continuino a fare sceneggiate da Capuleti e Montecchi.
Contatta il sindaco di Agrigento, Giuseppe Mirabile; lo sa amico dei Matrona e
dei Farrauto; gli fa sapere che se costoro non mettono la testa a posto, lui
all’isola li manda; ne i poteri; ne ha la voglia - forse più verso i Farrauto
che verso gli ora prediletti Matrona. Il Nostro grafomane lo dovette essere:
prende carta e penna e così indirizza una missiva al disorientato sinfaco agrigentino: « Al signor
avvocato Mirabile sindaco della città di Girgenti ... Il paese di Racalmuto
... è diviso in due partiti ... l’uno
capitanato dai signori Matrona, ed assume l’apparenza di liberali; l’altro è
qui dato [da chi? Dall’avv. Picone?, n.d.r] dai signori Ferrauto e Mantione e
fa sembianza di rimpiangere il dominio dei borbonici. [...] Io son risoluto far
cessare il più presto e per sempre le gare delle famiglie Matrona e Ferrauto.
[...] Ella signor sindaco tiene rapporti di amicizia con i membri delle due
famiglie Matrona e Ferrauto. [Dato che è bene] non mantengano esagerate
passioni politiche, [è bene si sappia che] potranno facilmente essere forzati a
vivere lontani dal paese.
«In pari tempo provo il bisogno di notiziare
V.S. Ill.ma che l’arresto avvenuto del sacerdote Mantione, e ciò che ad esso
terrà dietro, fu cagionato solo da speciali motivi d’ordine pubblico e di
superiore gravità, e non derivò per nulla dalla sua inimicizia personale coi
Matrona [...] Girgenti 3 ottobre 1862. Il prefetto Falconcini.»
La nota ci svela il connubio tra i Farrauto
ed i Mantione: i Mantione erano pur sempre gli eredi di quel bizzarro - ed
impropriamente osannato - canonico Mantione. Ancora nell’Ottocento erano
potenti e (se crediamo al Falconcini) prepotenti. Certo non era cosa da poco
carcerare un sacerdote solo per la prevenzione di un prefetto nordista,
all’improvviso convertitosi alla causa dei Matrona. Excusatio non petita, ci
pare quella giustificazione della carcerazione del sac. Mantione solo “per
speciali motivi d’ordine pubblico e di superiore gravità”; noi siamo certi che
alla base c’era solo la vendetta dei Matrona, il loro odio verso chi ritenevano
reo di insolente “inimicizia personale”. Alla faccia del perseguitato
Falconcini, qui fanatico estimatore dei Matrona così come il suo postumo -
oltre un secolo dopo - Sciascia.
Il sac. Mantione, così anonimamente
infangato dal nordico prefetto, resta d’incerta individuazione - salvi gli
apporti di ulteriori ricerche d’archivio - essendo due i sacerdori con quel
cognome operanti in quel tempo a Racalmuto: Annibale e Giuseppe. Nei nostri
archivi informatici ritroviamo:
DIACONI E CHIERICI
1
1851
ANNIBALE
MANTIONE
13
1851
GIUSEPPE
MANTIONE
A.26 PALERMO CAPP. OSPEDALE
ANNO 1873
17
1873
GIUSEPPE
MANTIONE
A.49
19
1873
ANNIBALE
MANTIONE
A.45
ANNO 1878
3
1878
GIUSEPPE
MANTIONE
Nel
“liber in quo adnotantur ... nomina sacerdotum “ della Matrice sono così
contrassegnati:
n.° 420: D. Annibale Mantione, Mansionario,
obiit 27 Maji 1882;
n.° 429: D. Giuseppe Mantione, obiit 4 Aug.
1888.
Si è certi che entrambi i preti Mantione si
godevano ora i frutti della parsimonia del loro zio canonico. Contro costui noi
non siamo nuovi nello scriverne contro corrente. Citiamo questo passo.
Il can Mantione, però, una imperdonabile colpa
ce l’ha: per mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima
testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa
Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo
della terra, che hoggi è servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr.
Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un
rilievo ed una sacralità superiori allo
stesso interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non
doveva permettere quello scempio. Era da
quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi
occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi.
Ai miei occhi, il comportamento di quell’Arciprete appare incomprensibile. Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la
dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella
gli riverbera una poco esaltante ombra.
A voler sintetizzare, abbiamo dunque
un’antichissima chiesetta che risale, a seconda delle varie versioni delle
fonti, al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al
1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri).
Forse realisticamente quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle
visite pastorali agrigentine).
Nel 1628, ad opera della Confraternita delle
Anime del Purgatorio viene riadatta, o edificata (o riedificata) la novella
chiesa di S. Rosalia che resiste sino al
3 giugno 1793 quando viene ceduta al sac. Salvadore Grillo essendo stata
barattata dal can. Mantione per un altare con statua alla Matrice.
Ma già nel 1758 quella chiesetta era in
cattivo stato. Il vero culto della Santa si era trasferito alla Matrice come
attesta l’arc. Algozzini nella visita
pastorale del 1732. Vi si riferisce il §
IX ove è inclusa nell’elenco “delle processioni” quella di “S. ROSALIA”.
*
* *
Ma ritorniamo a quell’insolito quadrilatero:
il prefetto Falconcini, il sindaco di Girgenti Mirabile, i Matrona ed i
Farrauto. Data: ottobre 1862.
Il sindaco Mirabile entra in fibrillazione:
convoca i nostri Matrona e Farrauto: non si poteva scherzare; quello - il
pefetto - aveva davvero brutte intenzioni. Prosternazioni, costernazioni,
intenti ultrapacifici, promesse, retorica. Il 5 ottobre il sindaco scrive al
«signor Prefetto, ... la pacificazione dei signori Matrona e Ferrauto è
riuscita nel modo il più soddisfacente ..... concorse moltissimo l’ottimo
giudice di Racalmuto sig. Vaccaro .... » Firmato: il sindaco Giuseppe Mirabile.
E non basta, viene redatto addirittura un
“processo verbale della pace fatta fra i Matrona e Ferrauto”. Confidiamolo: i
galantuomini di Racalmuto hanno fama - almeno tra il popolino al quale
apparteniamo - di essere “falsi e burgiardi”, sommamente ipocriti. A leggere
quel verbale se ne ha una prova lampante. «L’anno 1862 il giorno 5 ottobre nel
Municipio di Girgenti. Innanzi noi Giuseppe Mirabile sindaco della città di
Girgenti,
«Vista la riverita officiale del sig.
prefetto di questa provincia del tre andante ... dietro invito ... si sono a me
presentati i sigg. D. D. Giuseppe e D. Gasperino Matrona, non che il sig. D. Alfonso Ferrauto, e D. Baldassare Grillo.
«I suddetti .... scancellarono ogni
malinteso, suscitato da tristi e malvolenti ... e profondamente inteneriti
scambievolmente abbracciandosi protestarono di non aver mai nutrito odio o
rancore ... Vennero a santificarle con solenne giuramento pronunziato sul
proprio onore.
« Firmato: Giuseppe Matrona; Alfonso
Farrauto; Gaspare Matrona; Baldassare Grillo - Giuseppe Mirabile, sindaco.»
Giuseppe Matrona era figlio di Pietro
Matrona ed era nato il 15 settembre 1828; gli era fratello Gaspare, nato l’11
settembre 1835; Alfonso Farrauto fu Francesci era nato il 9 agosto 1829.
Il Falconcini ci regala anche alcune note di
cronaca che vogliamo qui risportare. «Mandamento di Grotte - v. pag. 94 - Fu
sequestrato il giovane Isidoro Selvaggio da Grotte e condotto in una grotta nel
territorio di Racalmuto e vi rimase per oltre una settimana in mani di 4
malviventi [per la datazione: prima del 20 agosto 1862, n.d.r.] »
«Tutto il territorio fu seriamente
minacciato nel 6 settembre dopo i fatti seguiti in Racalmuto, e quegli abitanti
stettero due giorni e due notti in sull’avviso temendo da un momento all’altro
un assalto dalla banda che si era costituita in numero di circa 200 e a suon di
corno sfidava la truppa convenuta in Racalmuto.
« Mandamento di Racalmuto - v. pag. 104 -
Appena partito da questo luogo un distaccamento di truppa verso metà di agosto
sorsero voci di ribellione ed attacco contro i carabinieri di quella stazione.
Nel 18 agosto prestandosi dalla guardia nazionale ricostituita il giuramento fu
fatta una dimostrazione colle grida abbasso V.E., abbasso la leva. Dopo rimase
gravemente ferito il sacerdote Felice Carmeci, che aveva fatto un discorso alla
guardia nazionale riunita in senso liberale. Nel territorio avvenivano ai primi
di settembre molti delitti di sangue e di rapina.»
Vi furono oltre 50 arresti. Quel sacerdote
ferito non era racalmutese; era di Cammarata e così viene segnato nel “Liber”:
n.° 432 D. Felice Carmeci da Cammarata: obiit 21 Martii 1873. Nel libro del
Falconci fa capolino anche il noto sacerdote garibaldino don Calogero
Chiarenza. Incontriamo a pag. 76 la “nota dei volontari di Garibaldi, dai quali
fu domandata notizia al prefetto di reggio con telegramma appena ricevuta la
nuova del fatto d’Aspromonte”; al n.° 3 è segnato «Sacerdote Calogero
Chiarenza». Mons. Domenico De Gregorio, il pacato storico contemporaneo, dedica
al sacerdote racalmutese queste note: «benché svolgesse la sua attività in
Palermo, il sacerdote Calogero Chiarenza da Racalmuto, dove era nato nel 1823,
fu in “relazione con tutti i liberali specialmente dell’aristocrazia ed era un intermediario preziosissimo tra la
capitale della Sicilia e i cospiratori agrigentini Domenico Bartoli, Pietro
Gullo, Vincenzo e Rocco Ricci-Gramitto, anime buone ed entusiaste - Rocco in
particolar modo che arrischiando la vita, recavasi spesso in Palermo per
conferire coi capi del movimento, principalmente con Salvatore Cappello ... Il
Chiarenza, cappellano dell’ospedale civico, grazie alla sua veste poteva molti
segreti conoscere, cospirare, scrivere, senza attirarsi, come altri i sospetti
del governo” [Pipitone-Federico G. - Francesco Crispi e la spedizione dei
Mille, Palermo 1910, pag. 67]» [3]
*
* *
Il Falconcini fu irrequieto fino alla fine
dei suoi giorni di permanenza a capo della prefettura agrigentina. Aveva un
conto in sospeso con Racalmuto; pensò di saldarlo nel gennaio del 1863.
Limitiamoci al suo racconto. «I tre arresti veramente politici - ammette a pag.
90 - furono fatti nell’ultima settimana della mia autorità di prefetto; furono
tre cospicui cittadini di Racalmuto, accusati di volere per amore de’ Borboni
disturbare la tranquillità di tutta la provincia, facendo rinnovare in quel
paese i vandalici fatti del di 6 settembre.
Io pensai lungamente prima di procedere a tale severa misura, ma
ripetendosi e moltiplicandosi gli avvisi di prossimi moti borbonici in
Racalmuto, e la voce pubblica chiedendo come indispensabile una misura
preventiva, per salvarmi da enorme responsabilità mi dovei risolvere ad
ordinare l’arresto di coloro che erano evidentemente supposti fautori di tali
possibili disordini: arrestandoli però provvidi al loro convenevole
custodimento, e la volontà di passarli al potere giudiciario annunziai subito
al procuratore del re, il quale trovò subito la misura del loro arresto
saviamente presa..»
Il Falconcini si premura anche di
ragguagliare il ministro dell’interno: «Sin dal giorno 9 corrente [9 gennaio
1863] - vedasi documento riportato a pag. 128 della seconda parte del libro del
Falconcini - circolavano strane voci di combinate trame in Racalmuto che
dicevansi di colore borbonico. [...] [si aveva] la conoscenza di mantenersi
quel paese ... sotto il dominio di un partito retrivo ed ostile ad ogni
disposizione governativa. Una prova certissima poteva ritrarsi dal non essersi
presentati di Racalmuto nessuno alla leva, perché quei giovani erano indotti a
scegliere piuttosto l’emigrazione per Malta che presentarsi alle richieste del
governo del re. Frattanto nel sabato 10 corrente accrescevasi molta consistenza
a quelle voci di possibili disordini in Racalmuto. [In particolare] l’essere il
giorno 12 anniversario della rivoluzione della rivoluzione in Sicilia. Riferivasi
di nascoste bandiere borboniche e si designavano siccome principali autori del
tutto alcuni cittadini i nomi dei quali erano già condannati dalla pubblica
opinione, vorrei dire dell’intera provincia. Egli è per questo che lo scrivente
credé doversi d’accordo col comando militare perché fosse tosto accresciuta
d’altra compagnia la truppa colà stanziata e diede appositi ordini all’autorità
locali per eseguire alcune perquisizioni tenute indispensabili ad assicurarsi
del fatto e procedere a qualche arresto delle persone credute maggiormente
influenti e dannose, colla sola idea di mostrare a Racalmuto che il governo non
solo sorveglia e previene ma ha la forza di agire, ciò che vale assai più pei
molti che stimavansi liberi di ogni vincolo e quasi padroni di operare a posta
loro dopo cessato lo stato d’assedio.
«Un
singolare esempio della reale esistenza delle trame di quel partito si ha in
questo, che per quanto fosse ordinato l’arresto all’impensata ed eseguito di
notte, tre altri individui, dei quali appunto andavasi in traccia, fuggirono
non appena ebbero il sospetto della loro ricerca, segno manifesto del non
trovarsi essi scevri di cole. D’altra parte il processo ... porterà lume alla
cosa.
«Frattanto può assicurarsi d’essersi
disposto in modo che i tre arrestati avessero stanza il più possibilmente
propria e fossero trattati con ispecial riguardo, non dovendo confondersi, con
rei di delitti comuni chi può essere spinto anche a degli eccessi per fanatismo
politico.
«Girgenti, 15 gennaio 1863. Il prefetto:
Falconcini.»
Curiosa coda di perbenismo borghese: vadano
pure in carcere i galantuomini, ma con i dovuti riguardi. Per il resto, altro
che politica del sospetto! E Sciascia poteva davvero avere simpatia con un
simile campione del sopruso di stato? Un sopraffattore vittima dell’ingiustizia
di Silvio Spaventa [4] - ci dispiace dirlo - è una bubbola sciasciana. E i
commenti al circolo? Ora blandi, ora astiosi a seconda di chi si trattava.
Anche allora - come ancora nei nostri giorni - il “casino” vezzi massonici ed
anticlericali ha costantemente avuto. Blandi si doveva essere verso influenti
soci, anche borbonici; spietati, dissacranti, velenosissimi contro preti vecchi
e nuovi, più o meno coinvolti nelle bufere politiche del momento.
In siffatti frangenti - e non
nell’improbbile 1860 - dovette essere consumata quella agghiacciante
fucilazione narrata da Sciascia: «Passarono i garibaldini da Regalpetra, misero
un uomo contro il muro di una chiesa e lo fucilarono, un povero ladro di
campagna fucilato contro il muro della chiesa di San Francesco; se ne ricordava
il nonno di un mio amico, aveva otto anni quando i garibaldini passarono, i
cavalli li avevano lasciati nella piazza del castello, il tempo di fucilare
quell’uomo e via, l’ufficiale era biondo come un tedesco.» [5]
Falconcini non svela ora i nome di quei tre
- tutto sommato - perseguitati politici. Sfogliando carte d’archivio
successive, emergono echi di schedati eccellenti racalmutesi. Significativa la
schedatura della pubblica sicurezza di Girgenti di don Vincenzo Grillo e don
Giuseppe Matrona:
Grillo d. Vincenzo,
figlio del fu Girolamo, nato il .... 1823
nel Comune di Racalmuto, proprietario.-
Statura 1.60; corporatura giusta; capelli
castani; fronte media; ciglia castani; occhi cilestri; naso regolare; bocca
giusta; mento ovale; barba castana; faccia ovale; carnagione naturale.-
Luogo di abitazione: Racalmuto.-
Partito politico: Borbonico - clericale.-
Candanne: - ==
Cenni biografici: Capo partito
borbonico-clericale. Nel 1863 in Girgenti ebbe sequestrata una corrispondenza
in sensi borbonici proveniente da Malta.
Nelle evenienze è capace ed ha influenza
bastante per sommuovere masse, ma non lo si crede atto a capitanarle
Matrona Giuseppe
del fu Pietro nato ... 1827 [rectius 1828]
in Racalmuto, proprietario; m. 1,65, snello, nero ovale, abitante a Racalmuto.
Partito Borbonico - Non condannato.
Figura liberale e lo affetta onde farsi
maggior credito, ma in fondo è stato sempre di principi borbonici, Uomo
ambizioso e vendicativo: influente coi tristi e capacissimo nelle evenienze di
sommuovere le masse e commettere disordini. Vuolsi che nel 1862, egli abbia
spinte le turbe dei renitenti alla leva latitanti i quali, armata mano,
turbavano l’ordine pubblico, bruciando l’Archivio Comunale e quello della
Pretura.
[In altra scheda: Abbenché in apparenza
conserva regolare condotta e mena vita ritirata, pur tuttavia dirige /Racalmuto
17 settembre 1869/ tutti gli intrighi che si ordiscono in Paese.]
Mons. De Gregorio rintraccia nell’Arcivio di
Stato di Agrigento [ASA - Gabinetto Prefettura; non cita la busta che dovrebbe
essere prossima al n.° 26] il sacerdote Calogero Lo Giudice di Giacomo,
schedato tra i “preti borbonici”. [6]
Nel “liber” il sacerdote risulta al «n.° 426: D. Calogero Giudice,
mansionario fidecommisso della chiesa Monte, organista; obiit 19 Junii 1886.»
Nato attorno al 1824, non sembra di nobili natali. Nel censimento del 1822, il
padre del sacerdore è ancora ‘schetto’ e fa parte del nucleo paterno come dalla
seguente scheda:
1894
LO GIUDICE
NICOLO'
1895
LO GIUDICE
GIUSEPPA
MOGLIE
1896
LO GIUDICE
GIACOMO
F.O
anni: 24
1897
LO GIUDICE
GIUSEPPE
F.O
17
1898
LO GIUDICE
CALOGERO
F.O
9
1899
LO GIUDICE
CARMELO
F.O
7
1900
LO GIUDICE
GIOVANNA
F.A
5
*
* *
Quanto ai Farauto, pare che nel gennaio del
1863 qualcuno di loro sia finito in gattabuia. Richiamiamo quello che abbiamo
sopra riportato:
[...] il Comandante della truppa, che venne
spedito in Racalmuto, per quella circostanza, fece eseguire l'arresto dei
fratelli Matrona, come ritenuti complici nei fatti del Settembre 1862.- Ma
chiarita presto la loro innocenza, vennero quasi subito lasciati liberi. In
proseguo poi vennero arrestati taluni della famiglia Farrauto, e qualche
aderente di quella, per lo stesso titolo pel quale furono arrestati i Matrona
[...].
Allo stato delle nostre ricerche non
sappiamo aggiungere altro: ma i ricchi archivi agrigentini - e forse quelli
appena riesumati di Racalmuto - chissà quali sorprese si riserveranno. Siamo
certi che quello che va dicendo - pag. 248-256 - Eugenio Napoleone Messana su
questa congiuntura storica avrà una drastica rettifica: per onestà bisogna però
ammettere che qui lo storico locale scrive pagine di notevole pregio
documentario.
*
* *
Il Falconcini ci ragguaglia fra l’altro
sulla consistenza delle opere pie racalmutesi:
1.
Monte frumentario di Pantalone: opere di pietà - rendita lire 264 e 82
cent.;
2.
Eredità Spinola - spese generali di culto e maritaggio - rendita L.
562,32;
3.
Fidecomm. Busuito - L. 391,57;
4.
Cong. S. Anna - L. 1329,21;
5.
Comp. Agonizzanti - L. 650,76;
6.
Congreg. Purgatorio - L. 223,46;
7.
Congreg. S. Maria di Gesù - L. 669,78;
8.
Congreg. Monte - L. 599,52;
9.
Legato del canonico Franco - L. 727,64;
10.
Legato degli Orfani del Crocifisso - L. 127,50;
11. Eredità Signorino - L. 1.396,87;
12. Legato del Rev. Carini - messe - L.
127,50.
*
* *
L’agricoltura andava in quegli anni a fasi
alterne: l’anno 1856, l’anno 1858, l’anno 1862 erano stati catastrofici stando
alle statistiche desumibili dalla contabilità del Convento dei Minori
Osservanti sotto titolo di Maria di Gesù di Racalmuto
Vino prodotto dalle vigne del Convento di
Santa Maria
Misure in "botti" e
"langelle"
anno
produz.
1824
5,00
1825
3,05
1826
4,07
1827
3,00
1828
3,01
1829
3,02
1830
3,03
1831
5,54
1832
3,28
1833
3,40
1834
4,00
1835
3,00
1836
4,00
1837
4,18
1838
3,08
1839
3,07
1840
5,00
1841
3,24
1842
4,14
1843
2,30
1844
2,08
1845
3,56
1846
5,30
1847
4,32
1848
6,00
1849
5,00
1850
3,56
1851
5,10
1852
4,32
1853
1,32
1854
3,24
1855
0,00
1856
2,32
1857
3,00
1858
3,00
1859
1,08
1860
3,00
1861
3
1862
1,08
1863
3
1864
2,40
1865
4,24
1866
2,00
Possiamo essere sicuri che da settembre a
novembre l’argomento delle rese vinarie erano d’obbligo tra i galantuomini del
circolo unione: discussioni animate, irate, con contumelie sino alle rotture
personale, qualcosa di simili con quello che ora avviene con i contributi
dell’AIMA.
Ma era la scena politica che si andava
arroventando e gli echi giungevano alle sale del circolo con sempre maggiore
animosità. Del resto le cose erano davvero diventate roventi.
Approdiamo a momenti storici racalmutesi con
trasporto, trepidamente, con intenti alieni da ogni vezzo sindacatorio. Mi
appassiona l'uomo racalmutese - che reputo una specie a sé; la cronaca recente
e passata di questo luogo in cui sono nato, con le sue bizzarrie, la sua
antierocità, il suo atteggiarsi sempre ironico e dissacrante. Le impurità
presenti in ogni figura di racalmutese, anche in quella dei sommi, forniscono
un quadro di affascinante umanità. 'Guai a quel popolo che ha bisogno di eroi',
si ama dire: Racalmuto di eroi sembra non averne mai avuto bisogno, o non li ha
voluti e, in ogni caso, sempre li ha derisi. Magari con rime anonime in vernacolo,
come di moda negli anni presenti. O con lettere anonime. Ne ho trovate,
infatti, persino negli Archivi Segreti del Vaticano. Con fallace firma di
'LUIGI TULUMELLO fu Ignazio,’ [7] il 18
gennaio del 1875 un racalmutese, che mi sa essere insufflato dall'arciprete
dell'epoca, importunava la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, per
contrapporsi alle pretese espoliatrici della Famiglia MATRONA, quella appunto
osannata da SCIASCIA. Negli ARCHIVI di STATO di Agrigento e Roma si rinvengono
lettere infuocate del gesuita P. NALBONE contro gli stessi MATRONA, con dati di
fatto che hanno sospinto una frangia della Commissione d'inchiesta parlamentare
a venire a Racalmuto per sottoporre i vari Matrona, il cav. Lupo, Giuseppe
Grillo Cavallaro, nonché l'avversario dottor Diego SCIBETTI-TROISE ad
imbarazzanti interrogatori, aleggiando il sospetto di collisione con mafiosi di
Bagheria. Buon per i Matrona che all'epoca il manto protettivo della massoneria
valesse molto. Chissà perché, Sciascia ha voluto stendervi un velo,
storicamente ingannevole, definendo persino 'anonimo' il libello del Nalbone,
quando questi lo aveva apertamente
sottoscritto e rivendicato. Sarebbero false, invece, le firme di Antonio
Licata, Pietro Farrauto, Antonino Falletta e Fantauzzo Calogero, che certamente
non erano in grado di concepire e scrivere le velenosissime accuse contro il
tesoriere comunale Giuseppe Nalbone, Diego Bartolotta, il fratello del
consigliere Provinciale dott. Romano, la guardia Martorelli, un certo Carmelo
Alba zio dell'assessore Busuito, l'inviso doganiere Francesco Orcel, un certo
Tinebra Nicolò ...'mantenuto agli studi ' dal Comune ( e credo trattarsi
appunto dello storico prediletto da Sciascia), Lumia Eugenio 'figlio naturale
dell'assessore Salvatore Alfano cui si danno delle continue sovvenzioni senza
far nulla', Paolo Baeri . etc. Ma il
libello, che viene recapitato il 25 maggio del 1896 a Sua E. CADRONGHI Commissario Civile in
Palermo, ha di mira i TULUMELLO , e ciò la dice lunga sulla provenienza . Sono
oggetto di accuse pesanti i 'consiglieri TULUMELLO LUIGI ed ARCANGELO'. In una reiterata lettera anonima del 27
agosto 1896, il Ministro Commissario Civile per la Sicilia veniva informato che
«l'epoca del terrore ha piantato le sue tende in Racalmuto! La pubblica
amministrazione sorretta da un capo onorario del carcere di S. Vito, è in mano
di una accozzaglia di malviventi! Così data a partito la giustizia, ha preso le
forme piazzaiole, affidata ai Scimé, ai Sciascia, ai Conti e compagnia bella,
avanzo di galera!» E purtroppo debbo continuare citando quest'altro ributtante
passo: «Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto
può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è
fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e
di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi.
Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un
Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto
in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia
- non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati
animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattiva che, sotto
le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente,
soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso
Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti,
Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da
fare il maestro didattico della malavita. Et similia.» Non la fa franca la
potente famiglia dei BUSUITO e francamente mi sembra dello stesso stile delle
denunce di MALGRADOTUTTO la successiva
filippica: «Eccellenza.- Racalmuto presenta lo squallore di un sistema
indefinibile che solo ha riscontro nei paesi africani. Un'amministrazione
dilapidata da pochi furfanti che mangiano a due canasci. Da sette anni che il
paese è piombato in mano di gente volgare, inetti ed insipienti; non si è fatta
un'opera pubblica, necessaria, richiesta dalla civiltà del paese. E più di
tutto l'acqua potabile, mentre il paese è dissetato da acqua inquinata, siccome
risulta da esame fatto eseguire dal Capitano della truppa qui, per ora,
stanziato.» E giù botte contro il dott. Romano ispiratore di 'una spesa
barocca' per distruggere la 'buona ...
acqua detta del Raffo'. E giù botte contro gli approfittatori del lascito
Martini, il «pio testatore che lasciò mezzo milione per costituire un'ospedale.
Intanto quelle rendite si diedero ad un piazzaiolo per amministrarle - anima
del Sindaco - e tra cotto e fritto quelle somme sfumarono con una sola casa
costruita, da potere servire per caserma dei carabinieri. Vi può essere più
desolante situazione?»
Riconosco di avere sempre sospettato che
Sciascia, in possesso di tale documento - per essere il noto ricercatore che
tutti sappiamo, difficilmente poteva sfuggirgli -, abbia voluto censurarlo. In ogni caso mi
riesce incomprensibile il passo della sua
introduzione al testo del Tinebra là dove Sciascia annota: «mio nonno,
... fedelissimo elettore [di don Gasparino Matrona], volle anche lui, da
capomastro di zolfara, avere un pezzetto di terra nella stessa contrada,
edificandovi una casetta: ora è un secolo. »
Nicolò Petrotto - se porrà occhio a questo mio scritto - sicuramente
saprà ancora una volta rintuzzarmi, facendo piena luce sull'intoccabile mito.
Certo, povero lui!, molto ancora dovrà
stizzirsi. Sono sufficientemente documentato sulle topiche di Sciascia in
materia di storia locale. Fa nascere fra Diego La Matina nel 1622, quando una
vaga infarinatura di datazioni indizionarie gli avrebbe fatto leggere meglio il
documento della Matrice di Racalmuto ove l'inequivocabile data del 15 marzo 1621
veniva confermata dalla dizione «4 Ind.» e cioè la quarta indizione che in quel
quindicennio comportava il periodo dal primo settembre 1620 al 31 agosto 1621
(indizione anticipata, in uso negli atti
ecclesiastici dell'agrigentino). Se «il
padre Girolamo Matranga, relatore dell'atto di fede di cui Diego La Matina fu
vittima, ... non seppe trarre brillanti considerazioni ... sui segni
astrologici che avevano presieduto alla nascita ... del
mostro» V. pag. 182 della Morte dell'Inquisitore) era perché il dotto
cronista sapeva esattamente che la Matina era nato nel 1621 e che appunto nel
1658 era «dell'età di 37 anni».
Fra Diego La Matina, poi, non potè essere
battezzato «nella Chiesa dell'Annunziata di Racalmuto» (v. op. cit. p. 180):
questa chiesa era divenuta subalterna a S. Giuliano per tersche episcopali in
favore di don Giuseppe del Carretto dal 27 gennaio 1608 (VI IND.) al 20 giugno
1621 (IV IND.) Sciascia non riuscì a
leggere, per sua stessa ammissione, il nome del padrino di Diego la Matina, ma «iac»
sta per «Iacupo» il nostro Giacomo che era il nome dello Sferrazza, il
racalmutese che tenne a battesimo il
futuro frate agostiniano.
Noi gli imputiamo anche l'avere ignorato che
la madre di Diego la Matina era una
RANDAZZO, racalmutese puro sangue nata il 24 gennaio 1600 e sposatasi
con Vincenzo la Matina il 7 ottobre
1618., che invece per parte del nonno proveniva da Pietraperzia. Vincenza
Randazzo in La Matina , prima di Diego , ebbe GIUSEPPE che il 29 settembre 1651
andò a sposarsi a Canicattì con certa Anna SURRUSCA ed era di condizione
sociale non spregevole venendoci tramandato con il titolo di 'mastro'. La madre
di Diego fu religiosissima. Dopo la morte del figlio , quando era già vedova,
si fece ‘terziaria francescana’. Muore a 65 anni e il primo febbraio del 1666 viene sepolta in
S. Maria di Giesu, dopo avere ricevuto quale 'soror tirtiaria S. Frincisci' i
conforti religiosi da P. Bonaventura da
'Cannigatti'.
Nell'anno 1620 - precedente a quello di
nascita di Fra Diego - era invece nato Don
Federico La Matina figlio di
Francesco di Giacomo e di Caterina La Matina, un ceppo autenticamente
racalmutese, contraddistinto con il nomignolo di “Calello” e divenuto offi un
nucleo di ottimati che frequentano assiduamente le sale del circolo, anche se
talora con intolleranza filosciasciana. Don Federico La Matina fu un 'confessore 'adprobatus' molto attivo e
molto stimato in Racalmuto e la sua figura - alquanto bistrattata da Sciascia a
pag. 197 op. cit. - va riabilitata.
Sciascia ebbe ad equivocare maldestramente
tra l'atto di battesimo di Marc'Antonio Alaimo e quello di Marc'Antonio
Missina. Anzi, confuse la registrazione di quest'ultimo con l’atto di battesimo
del futuro medico, con una annotazione ancora oggi rinvenibile tra i registri della Matrice di Racalmuto. Giuseppe TROISI,
all'epoca solerte fotografo al seguito di Sciascia intento a comporre una versione corredata da fotografie della MORTE
DELL'INQUISITORE che purtroppo non fu mai pubblicata da LATERZA, ne trasse persino una interessante
fotografia. E qui mi duole aggiungere che la stima che SCIASCIA riversò, in un
articolo pubblicato da MALGRADOTUTTO, su
MARC'ANTONIO ALAYMO era mal riposta.
Quando e se avrò modo di pubblicare la traduzione del suo DIADEKTIKN,
verrà fuori un medico fattucchiere, superstizioso e bigotto. Il capitolo 'DE
MUMIA' dovette essere orripilante anche nel Seicento.
Se Sciascia lo avesse appena scorso, lo
avrebbe senza dubbio fustigato.
A questo punto, il mio acre censore Nicolò
Petrotto avrà tanta ragione per insolentirmi. Bazzecole? Pedanterie? Grette minchionerie?
Senza dubbio. Ma è appunto per questo che mi
sono diverto a parlar male del nostro locale Garibaldi, proprio in casa di
MALGRADOTUTTO, a dire il vero ho tentato mail nostro faziosissimo giornaletto
locale mi ha impudentemente censurato.
Ma questo Nicolò Petrotto chi è? Se è uno
dei due Petrotto Nicolò (figlio di
Calogero uno, di Carmelo l'altro) che mi ritrovo in un liso foglio a
matita alle prese con le 'giubbe' , i 'cinturoni' ed il 'moschetto' nelle contestate colonie dei 'balilla'
racalmutesi, potrebbe pure informarmi su quelle vicende che pur
contraddistinguono un locale costume dell'Era Fascista.
Non sono di antico lignaggio racalmutese i
PETROTTO e quindi non amano forse questo suonare la 'corda pazza' della Terra
del Sale. Questa famiglia appare nei registri della Matrice solo sul
finire del 1600: in un censimento databile 1664 abbiamo solo un ceppo affine
che si fa chiamare GULPI PITROTTO . Di
un Nicolao Gulpi Pitrotto abbiamo traccia negli atti di morte del l'11/10/1648
ed il primo di maggio del 1656 viene sepolta a S. Giuliano Filippa Gulpi
Pitrotto figlia di Francesco e Giovanna Gulpi Pitrotto. Un Gulpi Pitrotto lo troviamo addirittura quale
teste nel matrimonio tra Chiazza Giovanni e Zimbili Diega, celebratosi il
9/5/1618.
Incomprensibilmente, a partire dal novembre
del 1664 (cfr. atto di morte di Santo Pitrotto di Francesco e di Giovanna di
anni 20 del 16/11/1664) quello ed altri ceppi semplificano il cognome nel solo
PITROTTO e da allora quella famiglia ebbe a svilupparsi considerevolmente e -
sia chiaro - onorevolmente nella Terra di Racalmuto.
Solo che chi scrive, alla stregua degli
Sciascia (che i preti a suo tempo registravano XAXA), può vantare presenze
racalmutesi fin dai primi registri della matrice di Racalmuto che risalgono, a
seconda delle letture, al 1554 o al 1564.
Per converso, se Nicolò Petrotto fosse per linea materna anche un
PALERMO, ebbene allora ci surclasserebbe quanto a sangue locale parlando le
cronache di tal SADIA di PALERMO «lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto»
nel 1474. E siamo dunque a cinque secoli fa.
Questa "querelle" tra me ed il
PETROTTO è allora tipicamente racalmutese. Chi non è di questa terra non può
apprezzare la saggia follia di questi sarcastici scontri. Ma ritorniamo agli
scontro della fine dell’Ottocento.
«Si informa
- scriveva da Racalmuto il 22 giugno 1873 l'Ufficiale di P.S. in
missione Luigi MACALUSO - che in un giorno degli ultimi di maggio p.p.
i fratelli Gerlando e Calogero Damiani e Stanislao D'Amico da
Girgenti, nelle ore del mattino vennero
in questa, ove si riunirono a certo
Gueli Bongiorno Raimondo da Grotte, qui residente qual socio appaltatore dei
Dazi Consumo e poscia nelle ore pomeridiane dell'istesso giorno, insieme al
detto Gueli, si recarono a Grotte, ove si riunirono ai nominati Ferrara
Giuseppe di Ludovico da Sciacca, di anni 29, domiciliato in Grotte, civile, ed INGRAO Francesco di Giuseppe di anni 30 Civile da
Grotte, i quali tutti insieme andarono a desinare nell'osteria di Sciascia Pietro, ove bevereno e parlarono fra di loro
, ignorando i discorsi tenuti, perché a soli. I cennati INGRAO, GUELI, FERRARA
sono ritenuti dalla voce pubblica appartenenti al Partito Repubblicano e gli
stessi furono imputati e sottoposti a mandati di cattura per la rivolta politica avvenuta in Grotte,
nel febbraio 1868, e poscia liberati per manco di prove, ma al presente tengono
una condotta tanto riservata da non farsi colpire dai rigori della legge e da qualunque
possibile vigilanza.»
E a Racalmuto? «In Racalmuto questo partito
[repubblicano] non ha alcuno aderente anzi dalla classe pensante è
beffeggiato».
«Maestà, siamo alle Grotte» - citiamo da
Rerversibilità di Sciascia - «Nelle grotte ci stanno i lupi: tiriamo avanti -
disse all'ufficiale di scorta». A Grotte invece ci sono stati valenti uomini
che hanno sofferto il carcere per le loro idee. E a Racalmuto? Certo, vi
prosperano la letteratura e le sardoniche rime in vernacolo.
Nelle sale del circolo tutte quelle “mene”
ottocentesche - si può essere certi - venivano scandite al tocco delle solatie
ore pomeridiane o al rintocco di quelle melanconiche dell’occaso e della tarda
sera. Una rissa mia, paesana, acidula
con il mio amico prof. Petrotto l’ho voluta qui intrufolare per dare il ritmo,
se non il racconto, delle analoghe beghe dell’Ottocento dei galantuomini
nostrani.
*
* *
Dopo l’Unità d’Italia, Racalmuto ha
sconvolgimenti profondissimi che lì per lì i loquaci galantuomini sicuramente
non colsero; ma basta vede come si chiude il quadro statistico di fine secolo
per capire quale rivoluzione sociale si era determinata. Certo la componente
borghese fu egemone. Chi aveva terre da sfruttare con scavi alla ricerca dello
zolfo lo fece con perseveranza, con protervia persino, con avventure
impensabili in gente atavicamente adusa a lavorare solo il mese della
“riconta”. Ed i buoni borghesi di Racalmuto non si accorsero neppure che
continuando in quel modo avrebbero dovuto poi rammaricarsi del fatto che “un
galantomu un po’ cchiu dari nna masciddata a lu so viddanu”. Quando noi oggi -
nipoti di zolfatai analfabeti che a dire dei notai dell’epoca non sapevano
“scrivere ne(sic) sottoscrivere per non averlo mai appreso” - si divertiamo
nelle serate al circolo a sbeffeggiare qualche malconcio erede di quei
supponenti signori, un gusto sadico, un empito di ancestrale livore, lo
proviamo ancora, con una qualche ingordigia.
Racalmuto si affacia al secolo XX con
connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario generale
del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 -
Popolazione 22.648, Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico
in Girgenti, Ufficio di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e
Agenzia delle imposte a Canicattì - Racalmuto - Collegio elettorale di
Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett. 4.237 - Alt. Su livello
del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla sinistra di un affluente del
Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani. Prodotti: cereali, viti,
olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo greggio e varie miniere di salgemma.
Fiere: ultima Domenica di maggio (bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone
Luigi. Segret. Comunale: Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso
Vincenzo (Venezia), Rao Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti
Giuseppe. Bestiame: (negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia
Giulio - Piazza Gio. E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino;
ved. Licata. Cappelli (negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò.
Cereali: (negoz.) Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta
Nicolò - Scimè Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore -
Scimè Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè
Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi
Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi:
(negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio.
Legnami: (negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo -
Cutaia Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di
salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella Nicolò -
Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento Michelangelo - Argento
Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli - Brucculeri Michelangelo -
Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro Luigi - Cino Calogero -
Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto Francesco - Franco Gaspare
- La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono Vincenzo - Macaluso Stefano
di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco - Mantia Giuseppe - Mantia Michele
- Mantia Salvatore - Martorana Salvatore - Martorana Vincenzo - Matrona comm.
Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona cav. Michele - Matrona Napoleone -
Messana Calogero - Morreale Carmelo - Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore
- Puma Carmelo - Romano Calogero fu Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore
- Salvo Giuseppe - Schillaci Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro -
Schillaci Ventura F.lli - Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv.
Giuseppe e F.lli - Scimè Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi
- Tinebra Salvatore; Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni
Luigi - Tulumello Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe
Calogero. Mode: (negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe -
Falcone Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale -
Scimè Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe -
Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio d’oliva:
Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore - Leone Diego -
Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri: Genova Pietro -
Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari: (fabbric.) Franco Vincenzo -
Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca ved. Carmela - Mattina Salvatore
- Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego.
Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli: Denaro Salvatore - Iovane
Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni - Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele
- Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola Calogero - Pantalone Giosafatte.
Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore - Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma
Gerlando - Romano Calogero - Scibetta Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso)
Mazttina Carmelo - Mendola Santo - Puma Giov. - Puma Michelangelo - Salvo Giuseppe - Taverna
Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi:
Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe.
Farmacisti: Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare
- Romano Giuseppe - Tulumello Salvatore.
Medici-chirurghi: Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito
Luigi - Busuito Giuseppe - Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta
Gaetano - Romano Salvatore - Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego -
Macaluso Luigi. Notai: Alaimo
Michelangelo - Gaglio Ferdinando - Vassallo Giuseppe Antonio.
Il quadro economico che se ne trae è molto
variegato ed esplicativo. Oltre 63
esercenti di miniere di zolfo (per converso solo 4 esercenti di miniere di salgemma) attestano
l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5 grossisti in
cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste alimentari e pane
vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un pastificio a vapore;
7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di sommacco; 7 grossisti di
olio di oliva. Il secondario, in un centro effervescente per occupazione
industriale e per sviluppo agricolo, è congruo: negozi di ferro, di pellami, di
legname, di cordami non mancano; e poi merciai ed empori di mode, di tessuti,
di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri (ben tre). La pastorizia è
discreta: negozi di formaggio e quattro
macelleria lo comprovano. Nutrita la serie dei professionisti: diversi agrimensori
ed agronomi, segno della rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui
solo uno veramente racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci
vengono segnalati; e poi tanti (troppi) medici (ma molti sono fra loro strettisimi parenti ed è
da pensare che la laurea fosse più un orpello che lo studio propedeutico ad una
effettiva professione medica). Il quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo
degli esercenti di miniere di zolfo - che un ruolo avranno nell’avvento del
fascismo a Racalmuto - sono ben delineati a decifrare fra i cognomi delle
famiglie che figurano come esercenti di particolari arti e mestieri. Destinati
ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo titolate: i
Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico prefascista i
vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella, etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine
di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof.
Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una
rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio
finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno
abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’
racalmutesi dell’Ottocento.
Luigi Pirandello ne I vecchi e i
giovani [8] accenna alle condizioni -
avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli
zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda
la vita delle loro donne.
«..s’affollavano storditi i paesani zotici
di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali o di Montaperto, solfaraj e contadini, la
maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei
grevi abiti di festa di panno turchino con berrette di strana foggia: a cono,
di velluto; a calza, di cotone; o padavovane; con cerchietti o cateneccetti
d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per assistere i parenti
carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte pretratte
interjezioni. Il lastricato della strada schizzava faville al cupo fracasso dei
loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti, massicci e scivolosi. E
avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi
spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva, vestite di baracane,
avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere, col fazzoletto dai
vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi lobi degli orecchi
strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a lagrimoni; altre
vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal pianto, parenti di
qualche assassinato. Fra queste, quand’eran sole, s’aggirava occhiuta e obliqua
qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e appariscenti che avvampavano
per l’onta e che pur non di meno tavolta cedevano ed eran condotte, oppresse di
angoscia e tremanti, a fare abbandono del proprio corpo, senz’alcun loro
piacere, per non ritornare al paese a mani vuote, per comperare ai figlioli
lontani, orfani, un pajo di scarpette, una vesticciuola.»
Forse un tantinello oleografica, ma pur
sempre molto pertinente, la raffigarazione che Nino Savarese [9] fa delle
zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto di quella seconda
metà dell’Ottocento. «I fazzoletti di seta sgargiantissimi, i pantaloni a
campana, gli scarpini di pelle lucida con lo
scricchiolìo, il berretto sulle ventitre e il grumoletto giallo dei
semprevivi all’occhiello, sono distintivi della classe zolfilfera, non solo
ignorati, ma ironizzati, dalla gente di campagna. Dopo di essere stati mezzo
nudi come selvaggi, grondanti sudore anche di pieno inverno, nelle gallerie e
nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe nei trasporti, per i quali spesso
non esistono mezzi animali o meccanici, quelle vistose gale sono come una
rivincita, una specie di commemorazione domenicale, di fatto, non tanto
naturale e prevedibile, di essere ancora in vita e con le tasche piene di
danaro ben guadagnato. E fra i
proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una
netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel
linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di
gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi
disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti
al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima
di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si
seguono a brevissima distanza.
«Dalla profondità delle loro viscere esse
hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi si sono
arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro esistenza,
ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che esistono, che
producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di nuove
promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le linee
del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel punto, la
terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno struggimento innaturali:
c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o di un disastro
irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle ciminiere di una
fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma
centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora basse, ora a
larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]
«I molli pascoli, gli orti grassi, le vigne
sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa maledettamente
infeconda. [...]
«Qua e là, tra le distese grigie del tufo e
i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente come
grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto per
essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei
calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo
antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono,
sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura
hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio
cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il
minerale grezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che
non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso,
sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le
operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia
diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!
«Di notte la miniera è appena segnata da
grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si arresta
nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone. Si suda
ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette
campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper
riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui
campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»
Quanto al contrasto contadini-zolfatai che
affiora dalla pagina di Savarese, per Racalmuto dovremmo fare un qualche
distinguo se già nel lontano 1885 il pretore locale così riferiva alla Giunta
per l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola: [10] «Il
contadino di questi luoghi non è un servo della gleba, non è scarsamente pagato
come in altri luoghi: se non gli è ben pagato il suo lavoro sui campi, trova
sicuro lavoro e ben retribuito nelle miniere e perciò non è misero, ha di che
vivere e può mantenere la sua famiglia [...], veri contadini, individui che
attendono esclusivamente alla cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano
alternativamente, ora in miniera di zolfo, ora nei campi.»
L. Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno
dei membri dell’importante famiglia Caico di Montedoro (paese finitimo con
Racalmuto), commentando vicende e costumi di un paese agricolo-minerario
attorno al primo decennio del secolo, in pieno riferimento, quindi, al centro
che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto
corrode e disgrega la sua personalità, fino alla perdita totale di ogni senso
morale. Imbroglia e deruba il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della
miniera; e quando rientra in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo,
sperperando così tutto quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’
rispettoso e sottomesso ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena
ritorna in paese diventa prepotente e litigioso, con un atteggiamento
sprezzantee provocatorio [...]. E i carusi? Le infelici creature vengono
ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e, quando
hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...] questo
genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e, moralmente,
sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono avendo a loro
modello i piconieri, anzi con un più completo e generale disfacimento della
dignità umana [...], mentre nell’animo nascono e crescono istinti violenti di
ribellione e di malvagità, i sensi di un odio inconscio, le tendenze più
perverse.» ([11])
Gli zolfatai di Racalmuto furono politicamente
e sindacalmente vivaci. Saranno i primi a passare al fascismo, ma con un
ribellismo sindacale che fu domato molto tardi dallo stesso nuovo regime.
Ancora, nel 1931, osavano scioperare per contestare la riduzione della paga
unilateralmente decisa dagli esercenti. [12] Prima di tale - sospetta -
conversione al fascismo, erano stati socialisti sotto l’egida di una strana
figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura che illustreremo dopo. Non
crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio moralistico che ebbe a
propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom. Domenico Saieva. Costui,
organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed i primi del ‘900, in un
comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905 redarguiva i locali
zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di dirvi ... che se volete
andare avanti occorre educarvi, abbandonare il vizio, le bettole e dare una
contingente inferiore alla criminalità [...] le statistiche criminali parlano
chiaro e fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete
oggi, vivrete sempre nella più orribile abiezione morale ed economica [..].»
([13])
Quanto alla vexata quaestio dei carusi, il
moralismo era antico, ma in fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che
un sindaco di Racalmuto, Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo
Sciascia, ebbe a pronunciare nel 1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesta sulla
Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione
grave, ci è l’umanità da una parte e l’interesse economico dall’altra. A
domanda: Produce danni fisici e morali?: Risponde: Non quanto si crede. Per le
zolfare credo che ci vorrebbe una specie di consorzio. Qui la proprietà è
divisa. Tutti siamo nella commodità generale. Per togliere l’acqua occorrerebbe
potersi avvalere per costruzione di acquedotto dei terreni sottostanti; una
specie di servitù di acquedotto o meglio consorzio.» [14]
Racalmuto si consegnarà al fascismo dopo una
frenetica corsa allo zolfo. Un indice è quello demografico che è bene qui
segnare:
Abitanti di Racalmuto
Anno
N.ro abit.
Indici 1825 =100
1825
7.170
100
1831
7.806
108,87
1852
9.030
125,94
1869
12.252
170,88
1894
13.384
186,67
1901
16.029
223,56
1911
14.398
200,81
1921
13.045
181,94
1931
14.044
195,87
1936
13.061
182,16
1951
12.623
176,05
1961
11.293
157,50
1980
10.000
139,47
In
quasi un secolo, dal 1861 al 1951, i quozienti medi annui
dell’incremento totale, di quello naturale ed il saldo emigratorio sono stati:
Comune di Racalmuto
Periodi
Incremento totale
incremento naturale
saldo migratorio
1861 -1 871
3,6
8,86
-5,26
1871 - 1881
20
18,43
1,55
1881 - 1901
09,65
13,26
-4,64
1901 - 1911
-10,8
11,32
-22,12
1911 - 1921
-14,6
4,19
-18,79
1921 - 1931
11,4
9,93
1,47
1931 - 1951
-06,72
9,97
-16,69
Nel periodo 1861-1871 l’incremento totale
della popolazione è inferiore a quello naturale, il che comporta una
emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello successivo tra il 1871 ed il
1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una immigrazione netta dell’1,55
per mille; dopo l’emigrazione prende il sopravvento e nel periodo 1881-1901 è
del 4,64 per mille, nel decennio successivo di ben il 22,12 per mille e tra il
1911 ed il 1921 è ancora del 18,79 per mille; dopo - nel primo decennio
fascista - abbiamo un’inversione di tendenza: il flusso diviene immigratorio
per l’1,47 per mille; quindi il flusso emigratorio riprende il sopravvento (
16,69 per mille nel ventennio 1931-1951). [15]
Rispetto alla provincia di Agrigento, lo
sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il seguente andamento:
Anno
abit. Racalmuto (A)
N.ro ind.
(B).
abitanti prov. Ag. (C)
N.ro ind.
(D)
Rapporto %
A/C
Rapporto % B/D
1901
16.029
100
371.638
100
4,313
100
1911
14.398
89,825
393.804
105,96
3,656
84,77
1921
13.045
90,603
369.856
93,92
3,527
96,47
1931
14.044
107,658
398.886
107,85
3,521
99,82
1936
13.061
93,001
407.759
102,22
3,203
90,98
1951
12.623
96,647
461.660
113,22
2,734
85,36
1961
11.293
89,464
447.458
96,92
2,524
92,30
1980
10.000
88,550
449.699
100,50
2,224
88,11
Rispetto al territorio dell’intera provincia
di Agrigento, la popolazione di Racalmuto scema sempre più d’importanza
passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi d’oggi: un vero dimezzamento
d’importanza. Eugenio Napoleone Messana
[16], lo storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è
alquanto malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di
statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al
1961». Quasi si trattasse di un fenomeno iniziato in pieno fascismo. Era
invece, come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine
dell’Ottocento.
*
* *
Si è visto come per desiderio di Garibaldi
sia salito al parlamento di Torino il deputato La Porta: un personaggio
battagliero, talora equivoco, protagonista comunque di non poche battaglie
parlamentari. I fatti del 1862 ebbero risonanza e risonanza arroventata in
parlamento. Nella torna del 7 aprile del 1962 s’incardina la discussione
sull’interpellanza del La Porta. [17] Si tratta dell’ «andamento amministrativo
nella Sicilia». Il focoso giovane deputato siciliano è dispersivo, logorroico e
non riesce a mordere come vorrebbe.
Molti prolissi periodi gli occorrono prima di introdurre l’oggetto della sua
interpellanza: «noi deplorammo il favoritismo, la protezione governativa, la
preferenza che il Governo accordava all’elemento della scacciata dinastia in
tutti gli uffizi» finalmente inizia ad accusare per riprendere le fila del
discorso sull’onda del ricordo «noi rimproverammo gli abusi, le violenze che
alcuni agenti del potere esecutivo in Sicilia perpetravano a danno
dell’elemento liberale, a danno di quell’elemento che godeva e gode la simpatia
delle popolazioni.» Il riferimento al prefetto Falconcini è palpabile; l’eco
della persecuzione del racalmutese Matrona, evidente. Ma abbiamo visto che il
Matrona opportunisticamente ebbe invece ad accordarsi con il prefetto,
scagionandolo da ogni accusa: la convenienza fece aggio sulla verità, segno non
proprio di grande elevatezza morale dei conclamati Matrona.
Per l’on. La Porta, era stato vessato
proprio quell’elemento che «rappresentò in Sicilia la iniziativa della
rivoluzione del 1860, la capitanò, guidò il popolo al plebiscito del 21 ottobre
e, qualunque volta la causa dell’unità nazionale o dall’opera dei retrivi o dagli errori del Governo sia compromessa
nell’isola, malgrado i torti ricevuti, non mancò mai al suo dovere.»
Il Laporta infierisce. «noi abbiamo accusato
la lentezza, la trascuratezza governativa in materia di opere pubbliche; le
strade, i ponti, i porti, o non iniziati, o lentamente o deplorevolmente
avviati; il denaro pubblico con poca utilità speso; le leggi votate dal
Parlamento per quelle provincie, sterile e derisoria parola.» Un ritornello,
una posta del rosario che spesse volte, fino alla noia, verrà dopo ripetuta, in
tutte le epoche, sotto i vari governi, persino fino ai nostri giorni. Dopo un
anno e mezzo, francamente era solo retorica esigere chissà quali miracoli
governativi. Ma dopo, col tempo, quel rosario amaro verrà recitato con ben più
solida fondatezza.
Certo ha ragione La Porta ad ironizzare sui
«rapporti dei prefetti che descrivevano l’isola beata e tranquilla e quasi
inneggiante un cantico di benedizione ai ministri costituzionali.» In effetti
c’era da fare una «requisitoria dello stato d’assedio, per dimostrare alla
Camera quale fu specialmente il terreno, ove quel Ministero [il dimissionario
Governo Rattazzi, n.d.r.] esercitò le
sue violenze, le doportazioni in massa, le fucilazioni senza giudizio, ogni
atto, non dirò di Governo assoluto, ma dirò un’altra parola, dirò di despotismo
...» Qualche esagerazione, senza dubbio; ma un quadro nella sostanza
terribilmente rispondente al vero. Altro che Falconcini, vittima di chissà
quali ingiustizie!
Il La Porta scende a dettagli: «Il tenente
dei carabinieri in Naro, provincia di Girgenti, annunziò pubblicamente che
aveva bisogno di un esempio durante lo stato d’ssaedio in quella città;
manifestò volere la fucilazione di un infelice Puleri Manto, e quella fucilazione
fu eseguita. [...] Il maresciallo dei carabinieri in Marsala è quello stesso
che arrestava il signor Andrea Danna, il primo cittadino di quel paese. [...]
Il maresciallo dei carabinieri in Misilmeri [procedeva a ] 37 arresti che fece
per pure ire personali. ... Gli arrestati dopo pochi giorni, riconosciuti
innocenti, furono messi in libertà.»
Ma il quadro dell’ordine pubblico era in
ogni caso desolante. «La sicurezza pubblica in Sicilia è ridotta ad un’amara
delusione. Migliaia di renitenti alla leva, migliaia di evasi dalle prigioni
battono la campagna; e già alcune bande si sono organizzate e specialmnete
nelle provincie di Palermo, di Siracusa, di Girgenti, alcune bande che spargono
il terrore in tutti i proprietari, che rubano, assassinano ad ogni momento.» E
quanto ad Agrigento, «i proprietari stanno rinchiusi in casa; nemmeno si
attentano di uscire in città. E’ raro che uno dei grossi proprietari di quel
circondario non abbia già ricevuto un biglietto di scrocco, e non tema di
uscire dalla casa per non incorrere nella vendetta di coloro che hanno
richiesto una somma di danaro e che essi non si trovano in grado di pagare. Il
barone Genoardi è stato tassato per cento mila lire. Il signor Vincenzo
Mendolia è stato tassato per duecento mila lire, e così molti altri. [...] Il
numero dei renitenti alla leva in quel circondario ascende a 600 per la leva
del 1842, oltre poi quelli del 1840,1841 ed oltre 900 altri. In tutto tra
renitenti alla leva ed evasi dalle prigioni sono 1650 nel solo circondario di
Girgenti. [...] A pochi passi dalla città di Girgenti vi è un ladroneggio organizzato colla sua burocrazia: coloro che
trasportano zolfo appena usciti dalla città trovano cinque o sei ladri che ne
notano il nome e impongono loro una taglia; al ritorno la taglia è esatta e il
nome cancellato.»
Prende quindi la parola il deputato Ricciardi per ragguagliare su talune
amenità: « Ho avvicinato ed interrogato ogni ceto di persone, cominciando dal
principe e terminando all’artigiano, non ho udito mai voce che lodasse l’opera
del Governo. [..] Quest’isola godeva sotto i Borboni di alcuni privilegi, i
quali naturalmente doveva perdere all’apparire della libertà e dell’unità
nazionale.
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