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domenica 29 gennaio 2023

 Introduzione. L’erba e le rocce racalmutesi.


Questa storia di Racalmuto, questa mia microstoria l’ho scritta e riscritta e poi riscritta e quindi di nuovo scritta. Quando un quarto di secolo fa ho trovato tra le carte segrete del Vaticano note e notizie vetuste sul mio paese, ebbi come una folgorazione. Ne nacque una passione direi smodata. Le mie radici che credevo decomposte nelle latebre del mio sotterraneo esistenziale si sono risvegliate come vitigni americani. Da allora ricerche e congetture, vuoti ricolmati con supposizioni magari subito svanite ma anche con scintillii documentari, con transunti, con diplomi con trascrizioni di processi feudali. Di volta in volta una nuova Racalmuto nasceva eppure spesso subito appassiva.
Mi accingo a divulgare una microstoria racalmutese evenienziale, alla francese. So che non ci riuscirò. Per Racalmuto non vi sono molti fatti narrabili, secondo i crismi del Castro, come li avrebbe voluti Leonardo Sciascia: Ed anch’io finirei con l’incappare nella sorniona ironia del grande scrittore. Ricordate? 1982: Mulé assessore ai Beni Culturali; non ricordo chi fosse il sindaco (non si firmò); si riuscì a far stilare all’eminente scrittore una sapidissima prefazione alle memorie e tradizioni racalmutesi scritte da un acerbo ventiduenne alla fine del XIX secolo. Sciascia esordisce con una monca bibliografia: sarebbero stati scritti solo tre libri “sulla storia di Racalmuto”. Per uno di questi tre scritti parla di “una storia … voluminosa, fitta di notizie”. Eppure quel libro non fu prescelto per la riedizione commemorativa dei lustri racalmutesi.   Non contraddittoriamente, ma con la solita arguzia ed in definitiva bonomia però non compiacente, questa l’amara conclusione: «limitato è il numero delle notizie che si possono estrarre da libri e manoscritti» E dire che: «moltissime e di sottili e lunghi tentacoli sono quelle che si possono estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria.» Già con le Parrocchie di Regalpetra, e poi con  La morte dell’Inquisitore, e poi, qua e là, con il Mare colore del vino, e soprattutto con Occhio di Capra ed infine, per tacer d’altro, con Fuoco all’Anima, il nostro Compaesano munse quei succhi gastrici della memoria racalmutese.  Avvinto da Américo Castro, dalla sua storiografia,  per Sciascia Racalmuto “emerge [solo] nella prima metà del XVII secolo a una vita ‘narrabile’, da ‘descrivibile’ che appena e soltanto era.» Di solito, tutto si racchiude in una vita, pur sempre “tenace e rigogliosa” ma dimessamente “abbarbicata al dolore ed alla fame come erbe alle rocce”. In quella visione desolata, il vivere locale fu «per secoli vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara povertà di Catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava» E con empiti ancora più disperati il Genio racalmutese sillabò che il senso di quella vita era una lontananza “dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione”. Una Racalmuto né libera né giusta; una Racalmuto nel grembo della follia, dunque. Altro che paese della ragione; sbagliano certi disattenti quando vorrebbero far credere che Sciascia credesse in una Regalpetra dimora di chissà quale dea loica.

Né ammaliati da sopraffine galassie delle paesane rimembranze e neppure inceppati da voglie campanilistiche di vicenduole congetturate a maggior gloria del paese del sale e dello zolfo abbiamo voglia di cogliere davvero molti di quegli sprazzi di inconsueta intelligenza di cui (lo affermiamo senza tema di smentita) è ricca Racalmuto e non abbiamo pudori nel far riaffiorare le propensioni al crimine, al delitto, all’omicidio, alle perversioni, all’usura, agli illeciti arricchimenti, alla pravità insomma di un paese solfifero, atto a trasformare quella bionda materia prima in micidiale polvere da sparo; perché ciò si addice ad una comunità di uomini né angeli né demoni, ma un po’ dell’una un po’ dell’altra natura; di un popolo che non avendo mai avuto bisogno di eroi (per non avere guai) di guai ne ha avuti tanti per non avere mai avuto bisogno di eroi.

Sciascia, per dirla con Camilleri, non ebbe ‘testa di storico’: celiando con la ‘tentazione alla visionarietà’  dello storico locale Tinebra Martorana (dopo averlo accreditato quale autore di una buona storia del paese) un po’ si assolve ma un po’ si rammarica per non essersi «privato del piacere di riportare [un] documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra». E ci pare – ma forse ci sbagliamo sonoramente – che ancora nel 1985 il preteso documento lo sussume al rango di fonte storica quando, nel presentare una mostra di Pietro d’Asaro, ribatte che Racalmuto era «antico paese che esisteva già, un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese oggi prende nome (l’altipiano di Racalmuto, l’altipiano zolfifero).» Non stiamo qui a sottilizzare sulle licenze poetiche d’indole geologica, visto che di zolfo nell’altipiano vero e proprio non ce n’è, non avendo avuto modo il vibrio desulfurecans di sciamarvi in epoca del primo terziario. Saremmo leziosi e supponenti e chissà a quante rampogne andremmo incontro. Ma almeno non può negarsi l’eco delle statistiche propinate dall’abate Vella all’Airoldi – tutte notoriamente false e bugiarde – e delle varie dicerie degli storici secenteschi e settecenteschi, improvvisatisi arabisti.
Purtroppo noi siamo tra quelli piccolissimi di per sé e tutti presi dalle angustie della microstoria che non osiamo indulgere né ai falsi storici né alle fantasiose dicerie. Così, cercheremo di scrivere su una Racalmuto né romantica né angelica e neppure malefica sino ed oltre le soglie dell’inferno. Una Racalmuto umana, speriamo, ove sono vissuti uomini talora liberi e talora servi; spesso vittime della giustizia ma anche artefici di iniquità; in definitiva ragionevoli come è consentito ai consorzi umani cui una più o meno divina provvidenza ha assegnato un territorio a metà insalubre e pieno di calanchi ed a metà ferace come l’humus del Pleistocene sa essere. Ed al di là degli allettanti sofismi di Américo Castro ha tessuto una vicenda umana ‘narrabile’ in misura notevole se si ha l’uzzolo (e l’umiltà) di scovare e sviscerare la sconfinata documentazione che giace (spesso polverosa ed inconsulta) in archivi persino di alto prestigio planetario quali quelli segreti del Vaticano o quelli di Simancas (magari nelle diramazioni di Madrid e Barcellona), per scendere agli altri relativamente meno prestigiosi di Palermo, Vienna, Torino, solo per lata elencazione.


Sfogliamo un bel libro: Manuel Vázquez MontalbánLo scriba seduto, Frassinelli 1994. Vi baluginano sprazzi di storia paesana, racalmutese, ma attraverso una duplice e forse triplice lente deformante (Sciascia, Domenico Porzio e forse il figlio di questi). Il Vázquez  traduce alcuni passaggi di un volume controverso che accreditato in un primo tempo a Leonardo Sciascia, per opposizione dei familiari, è persino scomparso dai cataloghi di Mondatori e cioè Fuoco all’anima. A pagina 178 ci viene segnalato, senza velami, che Sciascia avrebbe riferito «che dopo la guerra, quando era impiegato al Consorzio agrario di Racalmuto, venne chiamato a testimoniare in una causa per una sottrazione di grano commessa da un arciprete e un contadino. Il contadino aveva frodato meno dell’arciprete, ma lui venne condannato a due anni di galera e l’arciprete assolto.». Noi racalmutesi di una certa età conosciamo bene l’incidente, i protagonisti e la vera genesi del processo. Naturalmente non ci ritroviamo in quella letteraria versione. La magia della memoria, ci pare, abbia portato lontano, di sicuro oltre la banalità dell’accadimento storico. L’arciprete, che dopo certe esecrazioni più di riflesso della impopolarità politica ed amministrativa dei parenti che per iniquità sua - ed oggi è sacerdote sempre più rimpianto - subì maliziose perquisizioni di potenti che risorti, dopo l’incubazione per l’intero periodo fascista, erano ostili al prete per propensione massonica, per tacere del sospetto di una loro propinquità alle locali aree mafiose. Quanto al contadino – che vero contadino non era, ma come si diceva allora burgisi, ed era piuttosto benestante – se la volle per bizzarria di carattere. I suoi figlioli, notevoli professionisti fra gli ottimati di Racalmuto, seppero poi rendere pan per focaccia. E, per la precisione, Sciascia non fu allora impiegato di nessun Consorzio agrario – solo di un precario organismo postbellico, l’UCSEA, se non andiamo errati.

Sciascia e la mafia (racalmutese); Sciascia e la liberazione americana di Racalmuto; Sciascia e la locale Democrazia cristiana; Sciascia e comunisti e socialisti; Sciascia che acquista i campi della Noce; Sciascia che vi coltiva viti e ulivi «da cui ricava qualche bottiglia di vino e poche damigiane di olio, in proprio, a guisa di fluidi vitali che lo legano alla patria genetica»; sono noticine del libro, deliziose ma molto incongrue per abbozzi storici o meglio microstorici. Avremmo tanto a che ridire.

Nell’agosto del 1990 Domenico Porzio moriva improvvisamente; “stava lavorando alla stesura definitiva del testo delle sue conversazioni con Leonardo Sciascia”, scrive il figlio Michele Porzio nell’introdurre Fuoco all’anima. Soggiunge di essere stato proprio lui ad “impegnarsi nella revisione definitiva del testo”. Non mancò peraltro di «ringraziare la signora Maria, moglie di Leonardo Sciascia, per il suo interessamento a questo lavoro e per i preziosi consigli e chiarimenti profusi durante la realizzazione». Perché poi quel libro – edito da Mondatori – sia stato ritirato dalle librerie e non più ripubblicato, magari con rettifica dell’autore in autori e con Sciascia in veste di semplice intervistato, resta un dilemma. Il libro è quanto di più bello, semplice, melanconico possa attribuirsi a Sciascia. Racalmuto ne possiede due copie: una sta in biblioteca; l’altra è in dotazione al Circolo Unione.

Da lì traiamo spunti, guizzi e verosimiglianze di una Racalmuto rievocata, nel punto estremo dell’occaso da Sciascia: se quanto Michele Porzio mette in bocca al grande Racalmutese non è vero, è però molto verosimile. E tanto basta al microstorico che qui scrive.

Racalmuto e la mafia

L’eloquio di don Mariano Arena, la sua pentacoli umana – rimasta proverbiale – i contorni persino folclorici delimitano un marchio di origine: Racalmuto, la mafia quale a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nel paese si raffigurava o la si arzigogolava. Il Giorno della Civetta esordisce, icasticamente, con un brumoso paesaggio racalmutese:  «La piazza era silenziosa nel grigiore dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice», è codesta descrizione familiare del paese natio, uno squarcio d’autunno quale dalla finestra appannata dello zio acquisito Sciascia chissà quante volte vide. Tra lo spiazzo della Matrice e lu Chianucastieddu, appunto. E nel romanzo echeggiano i luoghi comuni del Circolo Unione: «Noi due siciliani, alla mafia non ci crediamo  [voi]… non siete siciliano e i pregiudizi sono duri a morire. Col tempo vi convincerete che è tutta una montatura. » Mafia uguale pregiudizio, mafia uguale montatura. Si può anche indulgere alla macchietta. «C’era anche, nel fascicolo, un rapporto relativo a un comizio dell’onorevole Livigni: che circondato dal fiore della mafia locale, alla sua destra il decano don Calogero Guicciardo, alla sua sinistra il Marchica, era apparso al balcone centrale di casa Alvarez; e ad un cero punto del suo discorso aveva testualmente detto “mi si accusa di tenere rapporti coi mafiosi, e quindi con la mafia: ma io vi dico che non sono finora riuscito a capire che cosa è la mafia, e se esiste; e posso in perfetta coscienza di cattolico e di cittadino giurarvi che in vita mia non ho mai conosciuto un mafioso” al che dalla parte di via La Lumia, al limite della piazza, dove di solito i comunisti si addensavano quando i loro avversari tenevano comizio, venne chiarissima la domanda “e questi che stanno con lei che sono, seminaristi?” e una risata serpeggiò tra la folla mentre l’onorevole, come non avesse sentito la domanda, si lanciava a esporre un suo programma per il risanamento dell’agricoltura.» E tanto non è forse la prosecuzione delle Parrocchie di Regalpetra, come dire Racalmuto?
Don Mariano Arena è una silloge di personaggi racalmutesi, specie quelli del primo Novecento (e i figli di costoro non son oggi in gran dispitto presso il gotha anche culturale del paese). Don Mariano è personaggio negativo, fustigato dal moralismo di Sciascia, ma a partire dal Montanelli (ammirato dal Nostro ed anche ricambiato) si è propensi a vedere un fiotto di simpatia da parte del romanziere per il suo personaggio. Giganteggia, se non fosse quello che è sarebbe stimabile. Il suo linguaggio talora è scurrile, ma solo se parla con il picciouttu, feroce e traditore (noi a Racalmuto ne conosciamo tanti): «”Il popolo, la democrazia” disse il vecchio rassettandosi a sedere, un po’ ansante per la dimostrazione che aveva dato del suo saper camminare sulle corna della gente “sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità, con rispetto parlando … Dico con rispetto parlando per l’umanità … Un bosco di corna, l’umanità, più fitto del bosco della Ficuzza quando era bosco davvero. E sai chi se la spassa a passeggiare sulle corna? Primo, tienilo bene a mente: i preti, secondo i politici, e tanto più dicono di essere col popolo, di volere il bene del popolo, tanto più gli calpestano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me e come te … E’ vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare infilzati, tanto per me quanto per i preti e per i politici: ma anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno: e chi lo porta in testa è un cornuto … » Quando lasciai Racalmuto, il mio paese, il 31 gennaio 1960 linguaggi del genere in bocca a rispettabilissimi e rispettati galantuomini erano ricorrenti. Invero, sfrondata la parte mafiosa, quel linguaggio qualunquista spesso lo riodo ed addirittura in circoli bene (di paese s’intende) quando ritorno al dolce suolo natio.

Ma don Mariano, se deve incontrare il capitano, l’intellettuale e l’uomo del Nord – anche se sbirro – reclama il barbiere, un carabiniere gli dà “una passata di rasoio” che è un vero refrigerio; ha voglia ed estro di passarsi “la mano sulla faccia godendo di non trovare la barba che, aspra come carta vetrata, gli aveva dato negli ultimi due giorni più fastidio di quanto gliene dessero i pensieri”. Quando il capitano gli dice “si accomodi” don Mariano si siede “guardandolo fermamente attraverso le palpebre grevi: uno sguardo inespressivo che subito si spegne in un movimento della testa, come se le pupille fossero andate in su, e in dentro, per uno scatto meccanico.» L’inquisizione del capitano sui suoi rapporti mafiosi non lo sconvolge, può ironizzare, catoneggiare ed infine motteggiare, salomonicamente, da “filosofo” avrebbe detto il “picciuottu” Diego Marchica.  («Diventa filosofo, a volte, pensava il giovane: ritenendo la filosofia una specie di giuoco di specchi in cui la lunga memoria e il breve futuro si rimandassero crepuscolare luce di pensieri e distorte incerte immagini della realtà», e a noi pare sofisma incongruo in un giovane killer della mafia). Ed ecco la pentacoli umana di don Mariano, la iattante ripartizione «L’umanità … la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezzi uomini, gli uominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà» Manca per il gergo mafioso racalmutese la categoria, tra gli invertiti e gli insignificanti, degli scassapagliara.
Dobbiamo aggiungere la coda di don Mariano?: «Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.» Certo al tempo in cui Sciascia scriveva Il giorno della civetta non erano cadute scorte e magistrati e quelle sublimazioni di genti mafiose erano venialità perdonabili. Oggi non più.
E nel Fuoco all’anima  il discorso diventa grifagno, acido, senza indulgenza, lontano da ogni epos e da ogni  pietas. Ma non è più il romanziere che parla, ora è un morente intervistato (da uno intelligente, uno della sua razza); peccato che il libro sia stato censurato.

Se crediamo a Michele Porzio, ad una domanda del padre sulla disciplina mafiosa , Sciascia avrebbe risposto: «non esiste più. Il mafioso ha una vita insicura perché è in lotta con i rivali che lo vogliono sovrastare». Lo Scrittore ha ora sotto gli occhi quello che proprio a Racalmuto l’evolversi delle cosche ha prodotto: sangue, morte, faide, conflitti a fuoco come in certi film western americani. E muoiono persino estranei ed innocenti negretti la cui unica colpa è quella di starsene in  Piazza Castello, tentando di vendere qualche cianfrusaglia ai racalmutesi. Le traiettorie incontrollabili delle sofisticate pistole dei mafiosi della nuova generazione  - li chiamano stiddara – sibilano tra codesti modesti mercanti ed apportano morte. La mafia è ora crudeltà, è presente ovunque, non ha più alcun codice di onore; i figli naturali eseguono condanne a morte verso i loro genitori illegittimi, che pur li adorano; anche codesti padri sono mafiosi, addirittura capi-mafia; finiscono stecchiti nelle loro campagne sotto il fuoco di lupare per commissione di altri sedicenti capi-mafia concorrenti. Don Mariano è davvero patetica invenzione letteraria: non esiste più; non è neppure pensabile. I suoi sofismi nessun Diego Marchica li ascolterebbe più; i suoi filosofemi ridevoli affabulazioni di vecchi senza ascolto.
«Ma tra questi capi-cosca in lotta non potrà avvenire mai una pacificazione?» chiede Domenico Porzio, e Sciascia – pensiamo annoiato e ripiccato, con la flebile voce di un malato terminale – rintuzza: «Non avviene perché, contrariamente a quanto ritiene il giudice Falcone, non è una organizzazione centralizzata. Sono diverse cupole, insomma che si fronteggiano. E’ difficile che trovino un accordo tra loro. La cupola delle cupole non esiste.» Ma a Racalmuto non c’erano né cupole né organizzazione e neppure quindi cupole di cupole. Eppure a Canicattì qualcuno ancora soprintendeva. Intuì chi in certe segrete e ribelli conventicole era stato il mandante dell’esecuzione di un capomafia tradizionale. Ne sancì la morte. E la morte venne spietata, disumana, senza precauzione atta a salvare la vita di innocenti, di donne di bambini, che un don Mariano non avrebbe giammai consentito. Ma don Mariano era personaggio letterario; il vecchio col bastone, sporco fetido per i denti putrefatti, che attorno al feretro in casa del morto ammazzato racalmutese, uomo d’onore di antica schiatta, tutti scrutò e subito comprese chi, pur presente ora in veste di amico inconsolabile, aveva deciso lo strappo micidiale, quel vecchio era invece vivo e reale, nel suo criminale e tragico strapotere. Erano gli affari della droga che ormai comportavano mari di valute pregiate e la vecchia organizzazione era palesemente impari: i giovani se ne fregavano dei limiti, dei canoni, delle regole dei vecchi: ammazzavano (anche i loro padri illegittimi) se occorreva, se erano di impaccio; bastava che il capobastone del nuovo flusso affaristico l’avesse ordinato. Ed i politici, fiutando voti, promettevano assoluzioni (e magistrati d’alto rango che si reputavano sapienti vanificavano condanne appena discrepanti da sottigliezze pandettistiche, s’intende se annusavano accessi ad incarichi vieppiù prestigiosi e vantaggiosi). A noi pare che al morente Sciascia questo nuovo scenario (in cui anche Racalmuto era andata ad immergersi) sfuggisse e la sua ‘intelligenza’ vedesse annebbiatamene, anche per gli infortuni in cui i nuovi amici o i vecchi compagni di scuola elementare l’avevano coinvolto.

Se ci si domanda com’era la mafia a Racalmuto nei primi anni ’60, è certo che bisogna ricorrere a Sciascia e soprattutto al suo Il giorno della civetta. Quel libro un grande merito lo ebbe: costringere la intellighenzia di sinistra – dal cinema al teatro, dal parlamento alle iniziative governative – ad interessarsi del fenomeno mafioso siciliano per contrastarlo, reprimerlo o almeno indagarlo. La visione sciasciana – diciamola tutta – non è che poi fosse denuncia impegnata; mancava la lezione della prassi, difettava la conoscenza diretta; in una parola era atteggiamento alquanto libresco, se non addirittura giornalistico. A Racalmuto, a quel tempo, la mafia era in quiescenza. Un omicidio efferato aveva coinvolto i padrini locali in un’accusa di favoreggiamento, invero molto indiretto. Subirono umiliante carcerazione. Si eclissarono e sopravvisse solo una delinquenza minore, ladresca, con qualche punta di piccola estorsione nei confronti di pavidi commercianti. Del resto, la politica monetaria di Einaudi e Menichella, il rastrellamento delle am-lire, avevano gettato il piccolo paese nella miseria. Mio padre si lamentava, a ragione pur non sapendo nulla della magia della moneta, “figliu miu semmu consumati: grana nun nni camminanu”. C’era poco da taglieggiare. Non c’erano lavori pubblici; non c’erano imprenditori edili; non c’erano ricchi commercianti e non c’erano possibilità affaristiche. Che mafia poteva mai spuntare? Ed infatti non c’era. Solo qualche rito residuo; magari atteggiamenti più boriosi che criminali. Per il resto, qualche guerricciola tra poveri. L’enfasi sciasciana, non so quale plaga siciliana riguardasse, quale economia di mercato insulare, quale misterioso organizzarsi a scopo di rapina. L’abigeato che un tempo aveva alimentato loschi affari con compiacenze – e cointeressenze – degli ottimati locali era divenuto impraticabile per mancanza della materia prima, il bestiame più o meno allo stato brado, e il mercato presso fiere affollate. I contadini avevano lasciato la terra incolta dei padroni ed erano emigrati. I solfatari guadagnavano benino e quelli, sì, qualche soperchieria la subivano dai capimastri di Gibillini. Ma poteva chiamarsi mafia?

Piluccando da “il giorno della civetta” abbiamo: «Ammettiamo che in questa zona [ed aggiungiamo subito, non poteva essere Racalmuto; poteva essere qualche plaga lontana, mettiamo Palermo. Ma allora Sciascia quale conoscenza approfondita poteva averne?] in questa provincia, operino dieci ditte appaltatrici [a Racalmuto non ce n’era nessuna!]: ogni ditta ha le sue macchine [in paese c’era sì e no lo sgangherato autobus dell’esordio del romanzo], i suoi materiali, nafta, catrame, armature, ci vuole poco a farli sparire o a bruciarli sul posto. Vero è che vicino al materiale e alle macchine spesso c’è la baracchetta con uno o due operai che vi dormono: ma gli operai, per l’appunto, dormono; e c’è gente invece, voi mi capite, che non dorme mai. Non è naturale rivolgersi a questa gente che non dorme per avere protezione? Tanto più che la protezione vi è stata subito offerta; e se avete commesso l’imprudenza di rifiutarla, qualche fatto è accaduto che vi ha persuaso ad accettarla … Si capisce che ci sono i testardi: quelli che dicono no, che non la vogliono, e nemmeno con il coltello alla gola si rassegnerebbero ad accettarla.»
Il preambolo del Bellodi sfocia in una definizione esemplare, come dire esemplificativa, aggirante: «Ci sono dunque dieci ditte: e nove accettano o chiedono protezione. Ma sarebbe una associazione ben misera, voi capite di quale associazione parlo, se dovesse limitarsi solo al compito e al guadagno di quella che voi chiamate guardianìa: la protezione che l’associazione offre è molto più vasta. Ottiene per voi, per le ditte che accettano protezione e regolamentazione, gli appalti a licitazione privata; vi dà informazioni preziose per concorrere a quelli con asta pubblica; vi aiuta al momento del collaudo; vi tiene buoni gli operai … Si capisce che se nove ditte hanno accettato protezione, formando una specie di consorzio, la decima che rifiuta è una pecora nera: non riesce a dare molto fastidio, è vero, ma il fatto stesso che esista è già una sfida e un cattivo esempio. E allora bisogna, con le buone o con le brusche, costringerla ad entrare nel giuoco; o ad uscirne per sempre annientandola…»
Quello Sciascia lì, di sicuro, aveva spirito profetico. Se siamo di ingenua cervice, persino il nome, meglio il cognome, aveva azzeccato: Brusca. Eppure, all’epoca, l’ordito descrittivo trascendeva la prassi, l’effettivo svolgersi degli affari, almeno a Racalmuto. Noi vi abitavamo ed in coscienza avremmo ripetuto le parole dell’on. Livigni, e credeteci odiamo profondamente la mafia. Avendo poi, al ministero delle finanze, dovuto interessarci di consorzi e di aste truccate, di cavalieri catanesi et similia, abbiamo avuto modo di appurare che le cose stavano sulla lunghezza d’onda del giorno della civetta, ed in termini ancora più aggrovigliati, più sofisticati, maggiormente perniciosi, in totale evasione di imposte, in concertazioni oltremodo mafiose. E pare che un morto ci sia scappato, nientemeno quello del generale della Chiesa. Lo Stato s’industriò con leggi, provvedimenti, fallimenti, chiusure di banche, intercettazioni, prove appena fruibili, schedari anti mafia, leggi anti trust, discipline degli appalti, divieti dei subappalti ed altro, a correre ai ripari. Non credo che oggi siano possibili gli intrecci mafiosi come quelli descritti da Sciascia. Sennonché la mafia c’è e come; non come prima, peggio di prima. Genesi e cause sono dunque altre; devastanti, incoercibili, laidamente infestanti.

Per Sciascia il fenomeno della mafia è inestirpabile. Se  Domenico Porzio in Fuoco all’Anima gli chiede: Ma non vi riuscì il prefetto Mori?, la risposta è secca: non ci è riuscito. Ha messo in atto delle repressioni notevoli, ma non ci è riuscito. E quindi durante il fascismo la mafia continuò ad esistere ma con limitato potere. E ciò per merito di quel prefetto. Se Porzio domanda: Ma non è strano che il prefetto Mori non sia stato assassinato? La risposta è: Allora c’erano delle regole. Il carabiniere faceva il carabiniere, il giudice il giudice, il mafioso il mafioso. Sembra che lo scrittore qui abbia dei ripensamenti rispetto alla celebre pagina del Bellodi nel Giorno della Civetta. Questa la cantilena delle botte e risposte tra Porzio e Sciascia:
Porzio: Infatti quando c’era don Calogero Vizzini, il capo di una delle cosche, quello sì restò in vita a lungo.
Sciascia: Allora la mafia era la mafia.
Porzio: Era una mafia per bene?
Sciascia: Per bene no, non lo è mai stata.
Porzio: Ma di che cosa viveva allora il mafioso? Faceva pagare le tangenti ai contadini e ai commercianti?
Sciascia: Sì, imponeva le tangenti sull’agricoltura.
Porzio: Ma i ricavati delle tangenti li versava anche ai poveri?
Sciascia: No, no, no.

Sulla mafia durante il fascismo Sciascia aveva già dissertato e con il solito suo acume e con il solito suo disincanto. Vi sono spunti che attengono anche alla vita di Racalmuto. Un tempo abbiamo avuto modo di dissertare sopra quella dissertazione. Dicevamo.


La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.

Scrive in Occhio di Capra,  Leonardo Sciascia: «Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo  .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad esempio, uno di loro: «Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile. Racalmuto  è solo uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» ([1]) Così, quanto a storia fascista, ci pare che bisogna dar proprio ragione più ai locali ricercatori che a Sciascia.
 Leonardo Sciascia, qualche sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce. Affermatosi come scrittore alla fine degli anni cinquanta, si professa antifascista ed il suo rievocare non è quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna depurare, ma alla fine un nucleo di verità emerge, e a dire il vero molto di più.
Qualche volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi un aggancio a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a frequentare  con devozione quasi filiale la famiglia di una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza anche a se stesso e quindi a Racalmuto, in questo passo molto efficace ([2]): «Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al momento in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è mancata, negli anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, di un fascismo) e quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e giovinezza visse, come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico chiama “gli anni del consenso”: un consenso che, pieno e fervido nella classe borghese (e specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del travet, del questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente in rapporto al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la “carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi, l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i riti. Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E perché un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare quelle parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva insorgesse “una strana quanto benefica mancanza di  rispetto”: verso i padri, le madri, i parenti tutti, le autorità tutte, la scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il guadagnare buona salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una condizione di malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico), la solitudine, l’esilio»

Sui rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo sul Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi non sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico. Commentando un lavoro  di Christopher Duggan ([3]) «L’idea, - scrive Sciascia - e  il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l’istanza  rivoluzionaria degli ex combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo  trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali  e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi “risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno l’immagine di restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri [...]: che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto. [...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del dovere nei riguardi dello stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo, in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.)» ( [4])
Qualche giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriere della Sera), sull’onda della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere: «Respingere quello che con disprezzo viene chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto, alla Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un errore di incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato (e si può anche riconoscere che c’è riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in certe pagine di Brancati ([5]) la rappresentazione del mafioso buono, del mafioso di ragione - e cioè del mafioso antifascista.» ([6])
In altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica - che stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinearsi del pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandiera”! Questo era lo stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria anglo-americana. Così americani ed inglesi erano attesi; magari vagamente, che pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando [...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse. S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e sciocca, dell’invasore. Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a Messina il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la kermesse della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad oggi, ci fa diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventennio di diseducazione, di adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era giusto che la più balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta ad un popolo, venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’  dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14 luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americani arrivavano. Il podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa, tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu tolta di mano a quel prover’uomo che l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare alle insegne della casa del  fascio. Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un segno dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri di odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito predilessero.» ([7])
A voler adattare la lezione sciasciana del fascismo alla storia locale di Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa periodizzazione:
1°) l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni forma di fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla “favola (documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°) in loco l’antidoto al socialismo era costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che pertanto “è già fascismo”;
3°) ma il fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;
4)° “era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che trasmigrano al fascismo “non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici”. (Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese, l’avv. Salvatore Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv. Agostino Puma, s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista, convertendola, però, al fascismo):
5°) ma il fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex nazionalisti)  per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante miniera di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi puri del fascismo, gli ex-nazionalisti;
6°) degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto Matteotti”; “ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però appare lettura affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il segretario della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano e  Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta vittorioso l’on. Abisso che trasformista lo era stato da tempo e che a seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli ex-combattenti;
7°) giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel liberarsi delle sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari ed agli esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete ed appariscenti”. Questa fase, invero, appare così nebulosa per Racalmuto da doverla forse rigettare;
8°) inizia la repressione Mori contro la mafia che incontra il favore delle masse nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche aspetto diverso. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche quieto racalmutese, che in piazza osasse andare  “cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°) l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°) vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è convinto sia perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per aver letto De Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°) è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia, cui la “carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non essere d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12) è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e spiega.

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