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venerdì 3 febbraio 2023
martedì 3 ottobre 2017
LA VERA STORIA DI RACALMUTO.
UNA GRANDE MEMORIA DA RECUPERARE
Antichissima è la storia di Racalmuto. Essa è appassionante, piena di intrighi, tutta narrabile.
La conformazione del suolo, quale oggi ammiriamo, risale a sette milioni di anni fa: in pieno Pliocene. Sorsero allora dalle acque il Castelluccio, il Serrone, la Montagna, le colline del Nord, e si definirono le valli, i valloni, i declivi. L’altopiano di Racalmuto concluse il suo splendido maquillage che è la gioia dei nostri occhi.
Nel ventre racchiuse gesso ed alabastro, zolfo e salgemma, e giù nello sprofondo i sali potassici. Lo stillicidio delle acque formò splendidi cristalli solforosi e salini che noi racalmutesi da sempre chiamiamo “brillanti”.
Subito vi si sparse una flora mediterranea e sopraggiunse una peculiare fauna. Anche animali preistorici, oggi estinti, vi si adattarono, dopo essere trasmigrati dall’Africa. Archeologi dilettanti ne hanno rinvenuto i resti e le testimonianze specie nella grotta di Fra Diego.
In quella grotta trovò ricettacolo il primo uomo, anch’esso venuto dal mare che congiunge con il continente africano. Dopo, circa dieci mila anni addietro, un popolo nuovo, i sicani, decisamente indigeno prosperò nelle contrade racalmutesi. A Gargilata, sotto la grotta di Fra Diego, vi fu il maggiore insediamento, come attestano le superbe tombe a forno di una necropoli oggi negletta per incuria delle Autorità. Ma altri insediamenti, più piccoli, si sparsero dappertutto: al Castelluccio, a Vircico, a S. Bartolomeo, a Garamuli, e persino giù nel vallone del Pantano. Fu una civiltà di cui sappiamo ben poco: argille, ceramica, tombe a forno e tholoi ci attestano però che fu civiltà meravigliosa, evoluta, che va studiata. Critichiamo aspramente le Autorità locali, provinciali, regionali, nazionali ed ora comunitarie per l’incuria che dimostrano.
Attorno al VI secolo avanti Cristo, i greci giunsero a Racalmuto e soppiantarono la civiltà sicana. Era stata gente rodia che si era trasferita a Gela; da lì una colonia si era attestata ad Agrigento (Agragas) e da Agrigento il dominio si era esteso a Racalmuto. Monete greche – in particolari monete di Agragas con il caratteristico granchio – sono state rinvenute a Racalmuto, a testimonianze di quella grande presenza. La mancanza di scavi scientifici ci impedisce di conoscere come quella sublime civiltà abbia trasformato il nostro paese. La lingua greca vi si diffuse e vi restò per quasi mille e tre cento anni, fino al dominio arabo. Noi pensiamo a quei greci di Racalmuto che potevano godersi lo spettacolo delle tragedie di Sofocle, Euripide, Eschilo, etc. nella madre lingua. Potevano ascoltare le intraducibili dolcezze delle odi di Pindaro. Fu gettato un seme del bello e dell’arte che tutti noi racalmutesi, ovunque oggi noi stiamo, portiamo nel sangue nel nostro DNA.
Roma vi portò invece i mali dello sfruttamento coloniale. Non si parlava latino. Si pagavano tasse in natura ed in denaro alla lontana Roma. Fummo stranieri e vessati. L’odio per la capitale vi dovette essere allora; continua adesso. Almeno c’è comprensibile distacco.
Subentrarono i bizantini. Parlavano greco come i racalmutesi. Vi fu affinità almeno linguistica. Monete di Eracleone e Tiberio II, rinvenute nel 1940 in contrada Montagna, attestano vivacità economica e laboriosità dei nuclei bizantini del nostro paese.
Poi la parentesi araba (dall’880 d.C. circa sino al 1087 d.C.). Si tende ad esagerare l’importanza della presenza araba a Racalmuto. Era poi una presenza berbera. Sparuti nuclei di contadini, dunque, che seppero soprattutto far crescere le verdure in orti sotto fontane perenni. Le verdure di Racalmuto sono ancora ineguagliabili. Per il resto, nessuna traccia archeologica, nessun documento scritto, nessuna teoria seria ci induce a credere in influenze significative degli arabi nel nostro centro. Può darsi che future ricerche archeologiche – in particolare sotto le torri del castello – ci restituiscano ceramiche e segni di una civiltà che oggi ignoriamo. Qualche sintomo, a dire il vero, va emergendo.
Arrivano i normanni. Sono predatori. Ma sono pochi e tutto sommato ininfluenti. Ormai nel territorio si parla arabo. I cosiddetti arabo-normanni sono disseminati in varie parti a Racalmuto. Soprattutto a Gargilata, allo Zaccanello ed a Garamuli. Affiorano a profusione ceramiche tipiche dell’epoca a testimoniarlo. Quei nostri antenati sono operosi, coltivano la terra, impiano vigneti, costruiscono palmenti, sanno convogliare le rade acque in gebbie. I vescovi di Agrigento, in nome di un preteso lascito di Ruggero il Normanno, li vessano. Esigono tasse, impongono balzelli, li costringono ad estranei riti cattolici. Si distingue su tutti il vescovo Ursone. Gli arabo-normanni si ribellano. Quelli di Racalmuto si uniscono a quelli del vicinato. In tutto il territorio agrigentino abbiamo una rivolta che arriva ad imprigionare il vescovo. A Palermo si è insediato Federico II. L’imperatore siculo-tedesco non tollera rivolte, neppure quelle contro i vescovi che in cuor suo ha in odio. Disperde i rivoltosi, anche quelli di Racalmuto.
Il nostro paese langue. L’agricoltura si deteriora. Fame, peste, malattie, spopolamento sono lo squallido retaggio di un altipiano, prima fiorente e prospero. Non può durare. Il provvido Federico II consente a Federico Musca, un nobile di Modica, di insediarsi là dove ora sorge Racalmuto. Siamo attorno al 1250. Federico Musca porta con sé una ventina di famiglie contadine. Esse trovano alloggio nelle grotte sotto il Carmine e la Centrale, anche in quelle attorno alla Madonna della Rocca. Nasce un nuovo paese. La vite ed il grano, i mandorli e gli ulivi, le tradizionali verdure, una agricoltura ferace, insomma, torna a fiorire nelle lande racalmutesi. Sorge la nostra nuova civiltà che oggi ha residua sede nel paese dell’agrigentino ma che si è mirabilmente irradiata a Buffalo come a New York, negli Stati Uniti come in Canada, in Francia, in Germania, in tutta Italia, ad Hamilton come in America Latina. Un romanziere di fama mondiale, Leonardo Sciascia, esalta quella civiltà con echi planetari.
Sotto Federico Musca Racalmuto diviene una “universitas”, un comune libero. E’ naturalmente assoggettato a tasse e balzelli vari, ma ha cariche elettive, uno statuto comunale e nomina propri “sindici” (amministratori comunali) democraticamente. Il comune ha così modo di prosperare, godendo di una sorta di libertà politica.
Ma giunge in Sicilia dalla Francia Carlo d’Angiò: suo fratello è re di Francia e sarà santo per la Chiesa. Tanto signore non è gradito a Federico Musca. Questi si ribella e Carlò d’Angiò lo priva della signoria di Racalmuto affidandola ad un napoletano: il milite Pietro Negrello di Belmonte. Era il 1271 come attesta un diploma che si custodiva a Napoli, nell’archivio angioino, prima che i tedeschi lo distruggessero nel 1943.
Il signorotto partenopeo forse non mise mai piede a Racalmuto. Ebbe, comunque, poco tempo perché nel 1282, con i famosi Vespri Siciliani, i francesi con Carlo d’Angiò furono cacciati via dalla Sicilia.
Ma con i nuovi padroni spagnoli, per i racalmutesi le cose non andarono meglio. Tante imposte, sopraffazioni e soprattutto la perdita delle libertà comunali resero la cittadina terra di conquista da parte di un insorgente feudalesimo. Diversamente da quello che si dice – e si scrive – i primi signori di Racalmuto, dopo il Vespro, non furono i Del Carretto ma i Chiaramonte. Costoro erano insediati ad Agrigento. Si erano impossessati del feudo attraverso un cadetto della famiglia – Federico Chiaramonte - e questo appare strano: non era legale ma in tempo di ribellioni ciò potè agevolmente verificarsi.
Un religioso – alquanto pruriginoso -, l’Inveges, racconta ben tre secoli dopo che Federico II Chiaramonte aveva una figlia di nome Costanza. Giunge ad Agrigento un ligure, un uomo di mare che si fa chiamare Antonino del Carretto. Dice di essere il marchese di Finale e di Savona. Federico II Chiaramonte abbocca e gli dà in moglie la figlia Costanza, bellissima e molto giovane. Appena il tempo di generare Antonio II del Carretto ed il sedicente marchese di Savona muore. Il suocero in dote aveva però assegnato il feudo di Racalmuto. Il feudo passa allora al figlioletto Antonio II che resterebbe poco in Sicilia: si sarebbe trasferito a Genova (si badi bene: non a Savona) e là avrebbe fatto fortuna. Ha diversi figli. Si distinguono Gerardo, primogenito, e Matteo. Questi torna in Sicilia, si allea con i Chiaramonte, lotta contro i Martino venuti dalla Spagna. Siamo alla fine del XIV secolo.
I Chiaramonte soccombono nella lotta contro i Martino: Matteo cambia casacca, si allea con i vincenti spagnoli e diviene “barone di Racalmuto”. A partire dal 1396 non v’è più dubbio che il nostro paese sia diventato una melanconica baronia dei Del Carretto. E prima?
Dopo il Vespro il paese era sotto il dominio dei Chiaramonte – e questo si è già detto. Quella signoria durò sino a qualche anno prima dell’avvento di Matteo del Carretto e cioè sino al 1392. Documenti dell’Archivio Vaticano Segreto – ricercati, trovati e studiati dal dottore Calogero Taverna – lo comprovano. Si parla e si scrive della signoria dei Malconvenant che sarebbero stati padroni di Racalmuto ed avrebbero eretto la chiesa di Santa Maria nel 1108. Si scrive su una dominazione degli Abrignano. Si afferma pure che i Barresi sarebbero stati i feudatari del nostro paese – non si precisa però il periodo, arbitrariamente qualcuno fornisce la data del periodo immediatamente prima del Vespro (1282). Sono tutte tesi care agli storici locali. Ricerche e studi critici degli ultimi tempi dissolvono tutto ciò definendolo “una serie di cervellotiche congetture”. Tra gli eruditi locali è la guerra.
Nel 1282 (data del Vespro) a Racalmuto non c’erano più di quattrocento abitanti. Nel 1404 la popolazione era raddoppiata: stavamo però al di sotto della media dei grossi borghi del circondario. Peste e fame non erano mancate nel XIV secolo: per scongiurare la peste del 1375 il signore di Racalmuto, Manfredi Chiaramonte, chiede al papa perdono per le passate ribellioni politiche e per ottenere l’indulto tassa i suoi feudi in favore del papa. Arriva a Racalmuto, il 29 marzo del 1375, l’arcidiacono Bertand du Mazel: viene da Avignone, conta i casolari del nostro paese ed applica una tassazione tripartita: tre tarì per i ricchi, due per la classe media ed uno per i poveri. Si giunge alla cifra di 7 onze e 28 tarì: si erano contati 136 nuclei familiari (fuochi); molte case erano coperte da paglia; la popolazione non superava le 700 persone. Il documento, che si trova in Vaticano, ci fornisce una preziosissima descrizione della Racalmuto del tempo, diversamente del tutto ignota.
Il Vaticano altra volta aveva tassato il paese nel secolo XIV: veramente erano stati due religiosi e si chiamavano Martuzio de Sifolono ed il presbiter Angelo de Monte Caveoso. Per le decime del 1308 e del 1310 avevano corrisposto, il primo un’oncia ed il secondo nove tarì. Il Sifolono godeva delle prebende della chiesa di Santa Maria: ricerche recenti inducono a pensare che si trattasse del convento carmelitano. In un affresco del Convento di S. Angelo di Licata, nell’orbita di un tondo a modo di frutto di un grande albero raffigurante l’intera famiglia dei conventi carmelitani, sta scritto: «conventus Recalmuti, anno 1270». Se l’indicazione è esatta, il Carmine è la più antica chiesa di Racalmuto ed il relativo convento carmelitano risale appunto al 1270, agli albori dunque della fondazione del paese da parte di Federico Musca, sotto gli auspici di Federico II (†1250).
L’altra chiesa, retta dal presbiter Angelo de Monte Caveoso è rimasta anonima. Il testo in latino recita: «presbiter Angelus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro utraque tt. ix», cioè: il sacerdote Angelo de Monte Caveoso pagò per il suo ufficio sacerdotale che svolge nel casale di Racalmuti, per entrambe le decime, tarì 9. Tutto fa pensare, dunque, che si trattasse di un monaco venuto da Monte Caveoso, l’odierno Montescaglioso in provincia di Matera (Basilicata). Noi pensiamo ad un monaco del convento fondato dalla contessa Emma verso la fine del XII secolo.
Piccolo, specie se adottiamo i parametri dei nostri giorni, Racalmuto era diventato comunque un “casale” capace di attirare dalla lontana Basilicata un monaco che riusciva a viverci bene. Da notare però che chi aveva le prebende del Carmine viveva ancora meglio, se era costretto a pagare più tasse al pontefice di Roma. Nell’uno e nell’altro caso, era sulle magre spalle dei racalmutesi che papa e preti si appoggiavano per avere soldi ed oboli.
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