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sabato 4 febbraio 2023

Unde et usque ad � undecim aevo brevi subjugata sibi alligat, quorum ista sunt � nomina: Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, [1]Rasel[1], Bifar, � Muclofe, Naru, Calatenixet, quod, nostra lingua interpretatum, � resolvitur Castrum foeminarum, Licata, Remunisce.¯ [Le lezioni � dei nomi sono molte e spesso fortemente differenziate. Chi � volesse averne completa conoscenza, deve consultare l'edizione � del PONTIERI, varie volte citata, pag. 88 e ss. A parte RASEL, � che ovviamente abbiamo seguito con puntigliosa attenzione, per � il resto abbiamo scelto alquanto liberamente, intendendo � privilegiare le lezioni che maggiormente si avvicinassero ai � toponimi di Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera, Racalmuto, � Bifara, [1]Milocca[1] (?!), Naro, Caltanissetta, Lic

venerdì 3 febbraio 2023

All'attenzione del grande studioso CALOGERO MESSANA di Montedoro ********************** Credo che non vi dovrebbero esserci dubbi: RACALMUTO quale Stazione di Chamut. l'emiro di Naro. Ciò per le ragioni dispiegate sotto. >>>>>>>>>>>>>>> Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammùd. Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città , batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconciò fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera,[1]Rahl[1], (su tale toponimo [1]RAHL[1] abbiamo appuntato tutta la nostra attenzione ritenendo che potesse essere quello del nostro paese. AMARI riduce in RAHL un [1]RACEL[1] che trovavasi nel manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA e pubblicato a Saragozza nel 1578. Quel manoscritto è andato perduto. La pubblicazione che resta ancora l'edizione principe fu recepita nella colossale opera di Ludovico Antonio MURATORI, [1]RERUM ITALICARUM SCRIPTORES[1] nel vol. V con il sintetico titolo �HISTORIA SICULA, Gaufredi MALATERRAE[1]. Il Muratori dà la lezione [1]RACEL[1] e in calce annota [1]RASEL-BIFAR[1] ad indicazione di altre lezioni da lui tenute presenti. L'Amari non si produce in ulteriori ricerche paleografiche: distingue RACEL da BIFAR; per lui arabista, RACEL equivale a RAHL [casale]; si confessa incapace di individuare un RAHL nelle pertinenze agrigentine, che ne sono piene. Il PICONE segue la pista dell'AMARI e nelle sue MEMORIE (cfr. pag. 401) reputa incompleto il toponimo e segna [1]RAHAL...[1], distinguendolo comunque da [1]BIFAR[1], una località piuttosto nota tra Campobello di Licata e Licata. Si sa che la raccolta di 'scriptores rerum italicarum' è stata, a cavallo di secolo, oggetto di pregevolissime riedizioni con interventi di personalità della cultura del calibro del CARDUCCI. Il testo del �monaco benedettino dell'XI secolo ha avuto nel 1927 una diligentissima riedizione con una illuminante introduzione da parte di Ernesto [1]PONTIERI[1]. Questi venne in Sicilia; trovò altri codici (A=Cod. X. A 16 della Biblioteca Nazionale di Palermo; � B=Cod.II.F 12 della Società Siciliana per la storia patria; �C=Cod. 97 della Biblioteca universitaria di Catania e D=Cod. QqE 165 della Biblioteca comunale di Palermo) che, comunque, mutili e scorretti e pur sempre derivanti dalla fonte dell'edizione principe del 1578, non gli furono di molto aiuto. Il PONTIERI adottò la lezione [1]RASELFIFAR[1], legando insieme Racel e Bifar, e in nota fornì la versione della Biblioteca universitaria di Catania (C): [1]RACEL GIFAR[1]. Nel 1937, Carlo Alfonso NALLINO, nell’integrare le note della [1]STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA[1] di M. AMARI controbatteva al PONTIERI e reinterpretava il passo malaterrano con questa dissertazione [aggiunta a nota n. 1 di pag. 177 op. cit.]: In realtà i castelli sono 10 e non 11. L'ed. princeps del Malaterra (Saragozza 1578), e le prime cinque che la seguirono pedissequamente, hanno 'Ravel, Bifara', come se si trattasse di due luoghi diversi; ciò ingannò V.D'Amico, Diz. topogr. trad. Dimarzo (Palermo 1855-56, l'ed. latina è del 1757-1760), che nel vol. I, pag. 143-144 tratta di Bifara e nel II, p. 398 di RACEL (dal solo Malaterra), e quindi l'Amari. Nessuno dei due pose mente all'attenzione del Diz. stesso, I, p. 143, che Bifara 'dicesi anche RAGAL BIFARA' (evidentemente nell'uso locale siciliano). Il traduttore Dimarzo, I p. 144, n. � 1, osserva che Bifara ' è un sottocomune aggregato a Campobello di Licata , in provincia di Girgenti (Agrigento), circondario di Ravanusa'. Campobello dista 50 Km. da Girgenti (Agrigento) e 9 da Ravanusa. E. Pontieri, ultimo editore del Malaterra (1928), trovò nei mss. anche le varianti Raselbifar e Raselgifar e scelse a torto la prima nel testo (p. 88) e nell'indice (p. 153), mentre è certo che il primo componente e [1]rahl[1] (racel, racal, ragal), come ben vide l'A. [cfr. pag. 178 op. cit.] Quel che sorprende in entrambi quest'ultimi due studiosi è il fatto che con la loro lezione i casali conquistati da Ruggiero il Normanno diventano dieci in aperto contrasto con la premessa del MALATERRA che parla di ben undici castelli �agrigentini presi all'arabo CHAMUTH: una contraddizione che andava per lo meno giustificata. Come si vede un gran pasticcio e ci scusiamo se l'averlo qui accennato può essere apparso pedante e tedioso. Ma è l'unico proba‑bile appiglio ad una fonte storica delle origini del toponimo RACALMUTO. Alla fine della fatica, vien però da domandarsi se sia proprio importante trovare un antico toponimo da assegnare alla storia della nostra terra. [ed ora aggiungiamo che alla luce di atre nostre ricerche questa è una lezione che abbamo del tutto abbandonata. Noi ne siam certi, Racalmuto sorde e viene denominata alla fine dell’XII secolo. Invero il oponimo già esisteva. Era attribuito ad una località di Sottana , ad un locale convento di Basiliano). Che questi si siano insediatia nache a Racalmuto, magari presso i convento di an Benedetto e si siano partati dietro quel toponimo ben documentato dal Cusa? Noi pensiamo di s, ma esta nostra singola non autorevole congettura. Ai migliori di noi l’ardua sentenza). � Il Malaterra quindi completa l’elenco con Biifara, Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravaenusa. A completamento del discorso sui toponimi svolto prima, riportiamo il commento dell'AMARI nella sua STORIA (pag. 177, n. 1): I nomi delle castella prese nella provincia di Girgenti, sono tolti dal Malaterra, correggendo alcun evidente errore del testo. Rimane dubbio il suo [1]Racel[1], che ho trascritto sicuramente in Rahl (stazione), ma vi manca il nome che dee seguire per determinare quella appellazione generica, il qual nome io non saprei indovinare tra i moltissimi Rahl di quella provincia. Credo avere bene letto Ravanusa il Remise (variante Remunisse) del testo, poichè‚ MICOLUFA sorgea presso Ravanusa. Del resto Simone da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò Malaterra nel suo libro 'La conquista di Sicilia' recentemente uscito alla �luce (Collezione d'opere inedite e rare, Bologna 1865, in -8),�dà otto soli nomi degli undici, dicendo non avere ritrovato gli altri ne' testi; ed un ms. della stessa opera, appartenente alla Bibliothéque de l'Arsenal in Parigi (Ital. N. 68) ne dà sette soltanto: Platani, Musan, Guastanella, Catalanixetta, Bosolbi, Mocofe, Ciaxo 'e li altri, aggiunge, non so chi si fusseru e non si canuxirianu, ect.). Intorno i nomi non si trovano nella lista odierna de' Comuni di Sicilia, vi vegga il Dizionario Topografico dell'Amico e l'Indice che io ho messo in fine della 'Carteomparée de la Sicile, [1859], Notice'. L’Amari così continua la sua storia dei Musulmani: Ruggero “talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammudita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli accordi, con �servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.” ( Cfr. Michele [1] AMARI[1] - STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA, Catania 1937, Vol. III, parte prima, pagg. 174, ss. Nel trascrivere il CHAMUTH del MALATERRA in HAMMUD, l'AMARI annota [nota 1 di pag. 175]: la [1]h[1], sesta lettera � dell'alfabeto arabico, fu resa per lo più, sino ad uno o due secoli addietro, con le lettere latine [1]ch[1]; e il [1]d[1], ottava lettera, più spesso con una [1]t[1] che con una [1]d[1]. L'anonimo ha HAMUS [cioè ANONIMO, presso Caruso, Bibl. Sic. pag. 855]. Sapendosi dalla storia che Chamuth, fatto cristiano con tutta la famiglia, rimase sotto il dominio del conquistatore, possiamo ben identificare il casato con quello di Ruggiero HAMUTUS, già proprietario di certi beni che Federico II concedea nel 1216 alla chiesa di Palermo (Diploma presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 142) e dell'Ibn Hammud, ricchissimo signore che Ibn GUBAYR vide in Sicilia nel 1185. Questo nobil uomo poteva essere nipote o bisnipote del regolo di Castrogiovanni. Sapendosi ch'ei portasse il soprannome d'Abù al Qàsim, sembra anco il Bucassimus, celebre per brighe alla corte di Palermo, ne' primordi del regno di Guglielmo il Buono. Ancor oggi, alcune nobili famiglie siciliane vantano discendenze da quel ceppo Hammùdita. Trattasi dei nobili NICASIO di BURGIO. Impietoso l'Amari contro il libello di Nicasio Burgio, conte palatino XXIII intitolato “La�discendenza di Achmet” ultimo potente ammiraglio fra i Saraceni dominanti in Sicilia, rappresentato in questo medesimo luogo dalla chiarissima famiglia Burgio. pubblicato a Trapani nel 1786. Indulgente il NALLINO che nella stessa nota si dilunga accogliendo le precisazione di una nobildonna di quella famiglia. Costei segnala che i primogeniti della casata Burgio continuano a chiamarsi ACHMET, ( ad. es. ACHMET RUGIERO NICASIO BURGIO, principe di Aragona e di Villafiorita, di Palermo). Per quel che ci riguarda, un'ipotesi potrebbe avere qualche fondamento. Tra i beni del citato Ruggiero HAMUTUS poteva esserci qualche signoria sul diruto castello di Racalmuto, un tempo appartenuto al nonno, o bisnonno, CHAMUTO. Ma trattasi di congettura che lascia il tempo che trova [e che noi abbiamo del tutto abbandonato come una delle tante cervellotiche congetture che si continuano a contrabbandare per questo paese che essendo di Sciascia dovrebbe essere rigoroso nella ricostruzione delle proprie origini.] Il racconto del MALATERRA ([1]l*@4pD?3[1]l*@4H 3 Trascriviamo � qui per eventuali cultori delle fonti l'intero passo latino � della cronaca del Malaterra: ® Comes ergo Rogerius, omnes � potentiores Siciliae a se debellatos gaudens, et nemine, excepto � CHAMUTO, seper‑stite, ad hoc assidua deliberatione intendit, ut � ipso circumveniendo debellato, omnem sibi de caetero Sici‑liam � subdat. Unde, exercitu admoto, ipso apud Castrum-Joannis � immorante, uxorem eius ac liberos apud Agri‑gentinam urbem � obsessum vadit, anno Dominicae Incarnationis millesimo � octogesimo sexto [l'AMARI corregge in 1087], prima die Aprilis, � quam undique exercitu vallans, diutina oppressione lacessivit; � studioque machina‑mentis ad urbem capiendam apparatis, tandem � vicesimaquinta die Julii viribus exahusta, imminentibus hosti‑� bus, patuit: uxor Chamuthi, cum liberis, Comitis inventa est � captione. Comes itaque, pro libitu suo positus, uxorem Chamuti, � omni dehonestatione prohibita, suis custodiendam deliberata, � sciens Chamutum sibi facilius reconciliari, si eam absque � dehonestatione cognoverit tractari. - Urbem itaque pro velle suo � ordinans, castello firmissimo munit, vallo girat, turribus et � propugnaculis ad defensionem aptat, finitima castra � incursionibus lacessens ad deditionem cogit. Unde et usque ad � undecim aevo brevi subjugata sibi alligat, quorum ista sunt � nomina: Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, [1]Rasel[1], Bifar, � Muclofe, Naru, Calatenixet, quod, nostra lingua interpretatum, � resolvitur Castrum foeminarum, Licata, Remunisce.¯ [Le lezioni � dei nomi sono molte e spesso fortemente differenziate. Chi � volesse averne completa conoscenza, deve consultare l'edizione � del PONTIERI, varie volte citata, pag. 88 e ss. A parte RASEL, � che ovviamente abbiamo seguito con puntigliosa attenzione, per � il resto abbiamo scelto alquanto liberamente, intendendo � privilegiare le lezioni che maggiormente si avvicinassero ai � toponimi di Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera, Racalmuto, � Bifara, [1]Milocca[1] (?!), Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa.] .CW12 ?[1]4pDl*@)fornisce altri dettagli sulla sorte 3[1]P(p della � famiglia di CHAMUTO che credo non abbiano nulla a che spartire � con le vicende del nostro paese. Caduto in un tranello � dell'astuto Ruggeri, per salvare moglie e figli, si arrende e si � fa cristiano. ® Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et � liberis christianus efficitur, hoc solo conventioni inperposito, � quod uxor sua, quae sibi quadam consanguinitatis linea conjunge‑� batur, in posterum sibi non interdicetur¯ . In altri termini, � CHAMUTO si fa cristiano con moglie e figli alla sola condizione � che non gli fosse tolta la moglie, alla quale peraltro era � legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far � fagotto per MILETO in Calabria. Un indice di come quei rudi � normanni, guer‑rieri e bigotti, imponessero gi… la conversione � agli arabi vinti. E qui siano in presenza di quelli nobili. � Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere i paesani � dei castelli agrigen‑tini conquistati, poterono forse � risparmiarsi l'onta di una abiura religiosa. Ma restando � musulmani furono ridotti ad una sorta di schiavit— , tartassata � ed angariata. E tale sorte pianse‑ro per secoli gli antenati � nostri di Racalmuto. ® DIMMA, GESIA [o GIZIA], AGOSTALE, ALIAMA, � ALGOZIRIO, JOCULARIA, ANGARIA, CABELLA, SECRETO, BAJULO, � CATAPANO, CENSO, TERRAGGIO, TERRAGGIOLO etc.¯ , sono termini che � sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, anghe‑rie, iattanze, � arroganza del potere. Sono la lingua degli uomini del potere � che parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri � locali, ammessi nella loro congrega. E si fanno da padrini nei � battesimi, da compari nei matrimoni, in certa familiarit… a � danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e � villano. Sono i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfrut‑� tamento perduranti sino ai giorni nostri. E l'impareggiabile � Sciascia ne coglie gli umori e i malumori quali si aggrumavano � al CIRCOLO della CONCORDIA [rectius, UNIONE] negli anni � cinquanta. Chi non ha letto 'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. � p. 60 e 61 e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17). Il tremendo passaggio dalla libert… araba allo stato servile � alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti loro � eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e � del canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si pu• � ricostruire ma non Š documentabile se non con le poche righe del � MALATERRA ([1]l*@4pD‑[1]3[1]l*@4H 3 Sul MALATERRA poche e scarne sono � le notizie. Goffredo MALATERRA fu dunque un cronista normanno � del esca. XI. Monaco benedettino a Sanie-Evreul-Ouche, pass• � nell'Italia meridionale e si stabil� in Sicilia. Qui fu � incaricato dal gran conte RUGGIERO a scrivere la cronaca delle � gesta del Normanno. Il racconto si estende per quattro libri. La � sua opera Š variamente intitolata. La riedizione del Pontieri � (Bologna 1927), sopra ricordata, titola: ® De rebus gestis � Rogerii ..... et Roberti Guiscardi¯ . [V. Enciclopedia � Treccani, o, per puntuali riferimenti, la prefazione dello � stesso E. PONTIERI]. A corto di notizie, TINEBRA MARTORANA ricorre alle imposture � dell'Abate VELLA - e SCIASCIA vi indulge con un benevolo sorriso � p+30 - e alle frottole di un signorotto della fine del secolo � scorso, Serafino MESSANA.[v.pag. 40 n.18] Son dunque fandonie � quelle di un governatore di RAHAL-ALMUT a nome AABD-ALUHAR, � servo dell'emi‑ro Elihir, diligente nel censimento del nostro � fantomatico Racal‑muto nell'anno 998; di una popolazione di 2095 � anime [si pensi che nella seconda met… del XIV il solerte � arcivescovo Du Mazel contava per la curia papale di Avignone non � più di seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran parte � in case di paglia 'pale‑arum']; e tutte quelle altre amenit… del � capitolo III e dintorni. Non sapremo mai dove don Serafino � MESSANA abbia preso l'aire per le bubbole dei due giovani � saraceni messisi a strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione � del gran conte Ruggeri, e del seguito che li vuole, dopo avere � inflitto gravi danni al nemico, notturni fuggitivi alla volta di � Licata. Ma invano, perchŠ furono l� rag‑giunti ed uccisi dallo � stesso gran conte, nel frattempo imposses‑satosi e divenuto � signore di Rahal-Maut [v. p. 40]. Nulla di storico in quelle � pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigola‑ture sulle tasse e � sulla 'dsimmi' prese dal lavoro dell'avvocato agrigentino � Picone.([1] Evidente il supino recepimento di � quanto PICONE scrive a pag. 405 e ss. sulla 'dsimma' e sulla � 'gezia'. I gravami, le violenze, le soggezioni, la morte, il pianto, la � paura, l'ignominia dell'invasione di Racalmuto nell'XI secolo vi � furono, ma solo l'immaginazione pu• ricostruire quelle scene di � panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito � di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di � Ruggiero il Normanno, o erano poeti arabi di altri luoghi che � non ebbero occasione di tramandare echi, rimpianti o cenni sulla � devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome � antico. Solo il [1]RACEL[1] del Malaterra, incerto e controverso. Eppure, furono giorni funesti: i normanni - cavalieri nordici, � possenti e biondi - erano famelici di vergini e di prede. La � Racalmuto contadina poco bottino potŠ farsi levare; ma le � vergini o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei � predatori dagli occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto � di razze, di figli nerissimi e saraceni e di figli longilinei e � di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per durare fino ai � nostri giorni, inevitabilmente. Michele AMARI non ebbe in simpatia il nostro CHAMUTH - quello a � cui ci sembra debba ascriversi il toponimo di Racalmuto - e lo � descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Mala‑� terra, ma ne stravolge senso e giudizi: [1]l*@4pD® E veramente - scrive l'A. a pag. 178 della sua Storia dei � Mussulmani - [1]Ibn Hammud[1] si vedea chiuso d'ogni banda in � Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorch‚ � Noto e Butera; potersi differire, non evitar la caduta; n‚ egli � ambiva il martirio, n‚ i pericoli della guerra, n‚ pure i disagi � della gloriosa povert… . Ruggiero fattosi un giorno con cento � lance presso la r“ cca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea � volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che � conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi � cristiano. Dubbi• solo intorno il modo di compiere il tradimento � e l'apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, � trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne � p33pP[1] tornava tutto lieto a Girgenti. N‚ and• guari che il � Normanno con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta � di Castrogiovanni; nascondeasi in luogo appostato gi… con � musulmano; e questi fatti montar in sella i suoi cavalieri, � traendosi dietro su per i muli quanta altra gente potŠ , quasi a � tentar impresa di gran momento, usc� di Castrogiovanni, li men• � diritto all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a � braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della � citt… ; la quale priva dei difensori pi— forti, si arrende a � parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn � HAMMUD poi si battezz• , impetrato da' teologi del Conte di � ritenere la moglie ch'era sua parente, n‚ gradi permessi dal � Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi � sicuro de' Mussulmani in Sicilia, n‚ volendo che Ruggiero pur � sospet‑tasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e � vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da � Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse � vita irreprensibile, dice lo storiogra‑fo normanno.¯ [1]4pDl*@ Di quei cento lancieri al seguito di Ruggiero per la consunzione � di una resa proditoria e vile, quanti erano stati prima a Racal‑� muto (la RACEL del Malaterra) a seminare terrore, violenza e � morte? A RACEL vi era certo un castello (o entrambi i due � castel‑li: il Castelluccio e quello di piazza Castello); vi era � una guarnigione di arabi sognatori e disattenti; non erano � eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i cento � lancieri di Ruggiero da Girgenti, li soppressero e si sparsero � per il casale e per le campagne a razziare e violentare. I � lancieri erano soprattutto predoni. L'Amari Š aspro nei giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH. � Ma costui aveva gi… moglie e figli in mano dei Cristiani a Gir‑� genti. Il Malaterra, monaco benedettino, intorbidisce ancor pi— � la sua non chiara prosa per mettere un velo pudico alle insane � voglie dei predatori suoi compaesani. Costa fatica al Conte Rug‑� gieri non far violare la sua eccellente prigioniera. E noi qual‑� che dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del � Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del � resto si era gi… macchiato di molte ignominie, specie in � giuvent— . Il suo biografo ufficiale che pure Š chiamato � all'osanna del suo committente, ne sente tante a corte da � inorridire, fors'anche per la sua mentalit… claustrale. Ed � allora la sua settaria cronaca si lascia andare a pesanti � giudizi morali contro i suoi. Quando, per• , si tratta di cose militari, il candido monaco � crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del Conte. Le forze � del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a dismisura; � quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica � ed attendibilit… . L'AMARI, tutto preso dalla simpatia per i � musulma‑ni, sbotta e sentenzia che nelle cronache del monaco � Malaterra, le cifre sulle forze musulmane vanno divise per otto � ed, invece, vanno moltiplicate per otto le cifre che riguardano � le forze normanne, quando vincono. Eppure il Malaterra resta sempre cronista piuttosto attendibile, � come dimostra il PONTIERI nell'opera citata. I tanti episodi � cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde nor‑� manne, tra i quali quelli relativi all'assalto della fortezza di � Racalmuto (o Racel), hanno una sola fonte storica che Š la � crona‑ca del Malaterra. Questo monaco non sempre Š stato � testimone oculare. Ormai avanti negli anni, Š onorato ospite � della corte di p73 Ruggiero il quale ormai si ammanta dei fregi � regali, anche se non dismette il suo nomadismo ereditato dagli � avi vichinghi. Ascolta le fanfaronate dei decrepiti Veterani del � Conte. Vantano ora i galloni di generali, si fanno chiamare � baroni, si sono arricchi‑ti, hanno possedimenti in Sicilia, ma � restano i rudi vandali, incolti ed immorali della loro � avventuriera giovinezza. Il Malaterra ode nefandezze che gli mettono il disagio morale. � E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica. Scrive, � esalta il Conte; indulge, per• , al suo moralismo ed ama moraleg‑� giare chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose. Abbiamo visto l'AMARI irridere a CHAMUTH. Lo ha fatto alla luce � degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il giudizio sul padre � del toponimo - almeno secondo noi - di Racalmuto va corretto � leggendo pi— spassionatamente la cronaca del benedettino. Questi dice che il Conte Ruggiero aveva gi… debellato tutti i � potenti di Sicilia, eccetto Chamuto. La voglia di annientarlo � era tanta ma l'impresa non era agevole e ci• costituiva un � cruccio per il Normanno. Ruggiero ne fa un suo pensiero fisso; � sa per• che non Š sul campo che pu• avere ragione del musulmano. � Pensa, quindi, a batterlo con l'astuzia e l'inganno. L'ablativo � assoluto adoperato dal Malaterra Š efficace: ® ipso � circumveniendo debella‑to¯ . Lo si pu• debellare solo circuendolo. � Chamuth allora non Š l'imbelle che ama descrivere M. Amari. Per � vincere il Saraceno, il conte Ruggiero assalta l'impreparata � Girgenti ove sa che dimorano moglie e figli di Chamuth. Prende � la citt… , la fortifi‑ca. Principalmente si preoccupa della sorte � della moglie di Chamuth. Questa viene sottratta da ogni � ® dehonestatione¯ e viene messa sotto diretta tutela del conte � normanno, il quale Š consa‑pevole che in tal modo il Saraceno pu• � venire ricattato ed essere facile preda del nemico. Il conte � Ruggiero Š proprio ® sciens Chamutum sibi facilius reconciliari¯ , � afferma il Malaterra; ci• equivale a dire che cos� sarebbe stato � più facilmente soggiogabi‑le. Per fare terra bruciata attorno al nostro Chamuto, tocca ad 11 � castelli l'ignominia delle scorribande dei lancieri di Ruggieri. � Alla nostra Racalmuto Š dato assaggiare le moleste attenzioni � dei normanni, come ai citati e sicuri Platani, Naro, � Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli � incerti Missar, Muclofe e Remise. Se poi il Chamuto si arrese, non ci sembra proprio che tutto sia � da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi. E se anche � fosse stato, questo non ci pare un grande demerito. Lo stesso Amari nella nota di pag. 179 della sua Storia dei 13 � Musulmani in Sicilia integra, e corregge, le sue impressioni � (33[1]l*@4H 3 L'Amari cita prima le fonti: ® Malaterra, lib. � IV, cap. 6; Anomimo, presso Caruso, Biblioteca Siciliana, p. � 855.¯ e quindi aggiunge: ® Secondo fra Corrado, op. cit., pag. � 48, Castrogiovanni e Girgenti furono occu‑pate nello stesso anno. � Ma ci• non Š detto precisamente dal Malaterra; n‚ citato l'anno � dell'avvenimento, il quale, secondo la serie dei fatti narrati � dallo stesso cronista, tornerebbe al 1087, ovvero ai primi mesi � del 1088. Gli ARABI pongono la resa di Castrogiovanni nel 484, � tre anni dopo quella di Girgenti (1088-89) e le fecero cedere � entrambe agli orrori della fame: [1]Ibn al-ATIR, Ab– al-FIDA, � an-NUWAYRI e Ibn AbŒ DINAR,[1] nella 'Biblioteca Araba-Sicula', � pag. 278, 414, 448, 534 [trad. I, 499, e II, 99, 145, 287
martedì 3 ottobre 2017 LA VERA STORIA DI RACALMUTO. UNA GRANDE MEMORIA DA RECUPERARE Antichissima è la storia di Racalmuto. Essa è appassionante, piena di intrighi, tutta narrabile. La conformazione del suolo, quale oggi ammiriamo, risale a sette milioni di anni fa: in pieno Pliocene. Sorsero allora dalle acque il Castelluccio, il Serrone, la Montagna, le colline del Nord, e si definirono le valli, i valloni, i declivi. L’altopiano di Racalmuto concluse il suo splendido maquillage che è la gioia dei nostri occhi. Nel ventre racchiuse gesso ed alabastro, zolfo e salgemma, e giù nello sprofondo i sali potassici. Lo stillicidio delle acque formò splendidi cristalli solforosi e salini che noi racalmutesi da sempre chiamiamo “brillanti”. Subito vi si sparse una flora mediterranea e sopraggiunse una peculiare fauna. Anche animali preistorici, oggi estinti, vi si adattarono, dopo essere trasmigrati dall’Africa. Archeologi dilettanti ne hanno rinvenuto i resti e le testimonianze specie nella grotta di Fra Diego. In quella grotta trovò ricettacolo il primo uomo, anch’esso venuto dal mare che congiunge con il continente africano. Dopo, circa dieci mila anni addietro, un popolo nuovo, i sicani, decisamente indigeno prosperò nelle contrade racalmutesi. A Gargilata, sotto la grotta di Fra Diego, vi fu il maggiore insediamento, come attestano le superbe tombe a forno di una necropoli oggi negletta per incuria delle Autorità. Ma altri insediamenti, più piccoli, si sparsero dappertutto: al Castelluccio, a Vircico, a S. Bartolomeo, a Garamuli, e persino giù nel vallone del Pantano. Fu una civiltà di cui sappiamo ben poco: argille, ceramica, tombe a forno e tholoi ci attestano però che fu civiltà meravigliosa, evoluta, che va studiata. Critichiamo aspramente le Autorità locali, provinciali, regionali, nazionali ed ora comunitarie per l’incuria che dimostrano. Attorno al VI secolo avanti Cristo, i greci giunsero a Racalmuto e soppiantarono la civiltà sicana. Era stata gente rodia che si era trasferita a Gela; da lì una colonia si era attestata ad Agrigento (Agragas) e da Agrigento il dominio si era esteso a Racalmuto. Monete greche – in particolari monete di Agragas con il caratteristico granchio – sono state rinvenute a Racalmuto, a testimonianze di quella grande presenza. La mancanza di scavi scientifici ci impedisce di conoscere come quella sublime civiltà abbia trasformato il nostro paese. La lingua greca vi si diffuse e vi restò per quasi mille e tre cento anni, fino al dominio arabo. Noi pensiamo a quei greci di Racalmuto che potevano godersi lo spettacolo delle tragedie di Sofocle, Euripide, Eschilo, etc. nella madre lingua. Potevano ascoltare le intraducibili dolcezze delle odi di Pindaro. Fu gettato un seme del bello e dell’arte che tutti noi racalmutesi, ovunque oggi noi stiamo, portiamo nel sangue nel nostro DNA. Roma vi portò invece i mali dello sfruttamento coloniale. Non si parlava latino. Si pagavano tasse in natura ed in denaro alla lontana Roma. Fummo stranieri e vessati. L’odio per la capitale vi dovette essere allora; continua adesso. Almeno c’è comprensibile distacco. Subentrarono i bizantini. Parlavano greco come i racalmutesi. Vi fu affinità almeno linguistica. Monete di Eracleone e Tiberio II, rinvenute nel 1940 in contrada Montagna, attestano vivacità economica e laboriosità dei nuclei bizantini del nostro paese. Poi la parentesi araba (dall’880 d.C. circa sino al 1087 d.C.). Si tende ad esagerare l’importanza della presenza araba a Racalmuto. Era poi una presenza berbera. Sparuti nuclei di contadini, dunque, che seppero soprattutto far crescere le verdure in orti sotto fontane perenni. Le verdure di Racalmuto sono ancora ineguagliabili. Per il resto, nessuna traccia archeologica, nessun documento scritto, nessuna teoria seria ci induce a credere in influenze significative degli arabi nel nostro centro. Può darsi che future ricerche archeologiche – in particolare sotto le torri del castello – ci restituiscano ceramiche e segni di una civiltà che oggi ignoriamo. Qualche sintomo, a dire il vero, va emergendo. Arrivano i normanni. Sono predatori. Ma sono pochi e tutto sommato ininfluenti. Ormai nel territorio si parla arabo. I cosiddetti arabo-normanni sono disseminati in varie parti a Racalmuto. Soprattutto a Gargilata, allo Zaccanello ed a Garamuli. Affiorano a profusione ceramiche tipiche dell’epoca a testimoniarlo. Quei nostri antenati sono operosi, coltivano la terra, impiano vigneti, costruiscono palmenti, sanno convogliare le rade acque in gebbie. I vescovi di Agrigento, in nome di un preteso lascito di Ruggero il Normanno, li vessano. Esigono tasse, impongono balzelli, li costringono ad estranei riti cattolici. Si distingue su tutti il vescovo Ursone. Gli arabo-normanni si ribellano. Quelli di Racalmuto si uniscono a quelli del vicinato. In tutto il territorio agrigentino abbiamo una rivolta che arriva ad imprigionare il vescovo. A Palermo si è insediato Federico II. L’imperatore siculo-tedesco non tollera rivolte, neppure quelle contro i vescovi che in cuor suo ha in odio. Disperde i rivoltosi, anche quelli di Racalmuto. Il nostro paese langue. L’agricoltura si deteriora. Fame, peste, malattie, spopolamento sono lo squallido retaggio di un altipiano, prima fiorente e prospero. Non può durare. Il provvido Federico II consente a Federico Musca, un nobile di Modica, di insediarsi là dove ora sorge Racalmuto. Siamo attorno al 1250. Federico Musca porta con sé una ventina di famiglie contadine. Esse trovano alloggio nelle grotte sotto il Carmine e la Centrale, anche in quelle attorno alla Madonna della Rocca. Nasce un nuovo paese. La vite ed il grano, i mandorli e gli ulivi, le tradizionali verdure, una agricoltura ferace, insomma, torna a fiorire nelle lande racalmutesi. Sorge la nostra nuova civiltà che oggi ha residua sede nel paese dell’agrigentino ma che si è mirabilmente irradiata a Buffalo come a New York, negli Stati Uniti come in Canada, in Francia, in Germania, in tutta Italia, ad Hamilton come in America Latina. Un romanziere di fama mondiale, Leonardo Sciascia, esalta quella civiltà con echi planetari. Sotto Federico Musca Racalmuto diviene una “universitas”, un comune libero. E’ naturalmente assoggettato a tasse e balzelli vari, ma ha cariche elettive, uno statuto comunale e nomina propri “sindici” (amministratori comunali) democraticamente. Il comune ha così modo di prosperare, godendo di una sorta di libertà politica. Ma giunge in Sicilia dalla Francia Carlo d’Angiò: suo fratello è re di Francia e sarà santo per la Chiesa. Tanto signore non è gradito a Federico Musca. Questi si ribella e Carlò d’Angiò lo priva della signoria di Racalmuto affidandola ad un napoletano: il milite Pietro Negrello di Belmonte. Era il 1271 come attesta un diploma che si custodiva a Napoli, nell’archivio angioino, prima che i tedeschi lo distruggessero nel 1943. Il signorotto partenopeo forse non mise mai piede a Racalmuto. Ebbe, comunque, poco tempo perché nel 1282, con i famosi Vespri Siciliani, i francesi con Carlo d’Angiò furono cacciati via dalla Sicilia. Ma con i nuovi padroni spagnoli, per i racalmutesi le cose non andarono meglio. Tante imposte, sopraffazioni e soprattutto la perdita delle libertà comunali resero la cittadina terra di conquista da parte di un insorgente feudalesimo. Diversamente da quello che si dice – e si scrive – i primi signori di Racalmuto, dopo il Vespro, non furono i Del Carretto ma i Chiaramonte. Costoro erano insediati ad Agrigento. Si erano impossessati del feudo attraverso un cadetto della famiglia – Federico Chiaramonte - e questo appare strano: non era legale ma in tempo di ribellioni ciò potè agevolmente verificarsi. Un religioso – alquanto pruriginoso -, l’Inveges, racconta ben tre secoli dopo che Federico II Chiaramonte aveva una figlia di nome Costanza. Giunge ad Agrigento un ligure, un uomo di mare che si fa chiamare Antonino del Carretto. Dice di essere il marchese di Finale e di Savona. Federico II Chiaramonte abbocca e gli dà in moglie la figlia Costanza, bellissima e molto giovane. Appena il tempo di generare Antonio II del Carretto ed il sedicente marchese di Savona muore. Il suocero in dote aveva però assegnato il feudo di Racalmuto. Il feudo passa allora al figlioletto Antonio II che resterebbe poco in Sicilia: si sarebbe trasferito a Genova (si badi bene: non a Savona) e là avrebbe fatto fortuna. Ha diversi figli. Si distinguono Gerardo, primogenito, e Matteo. Questi torna in Sicilia, si allea con i Chiaramonte, lotta contro i Martino venuti dalla Spagna. Siamo alla fine del XIV secolo. I Chiaramonte soccombono nella lotta contro i Martino: Matteo cambia casacca, si allea con i vincenti spagnoli e diviene “barone di Racalmuto”. A partire dal 1396 non v’è più dubbio che il nostro paese sia diventato una melanconica baronia dei Del Carretto. E prima? Dopo il Vespro il paese era sotto il dominio dei Chiaramonte – e questo si è già detto. Quella signoria durò sino a qualche anno prima dell’avvento di Matteo del Carretto e cioè sino al 1392. Documenti dell’Archivio Vaticano Segreto – ricercati, trovati e studiati dal dottore Calogero Taverna – lo comprovano. Si parla e si scrive della signoria dei Malconvenant che sarebbero stati padroni di Racalmuto ed avrebbero eretto la chiesa di Santa Maria nel 1108. Si scrive su una dominazione degli Abrignano. Si afferma pure che i Barresi sarebbero stati i feudatari del nostro paese – non si precisa però il periodo, arbitrariamente qualcuno fornisce la data del periodo immediatamente prima del Vespro (1282). Sono tutte tesi care agli storici locali. Ricerche e studi critici degli ultimi tempi dissolvono tutto ciò definendolo “una serie di cervellotiche congetture”. Tra gli eruditi locali è la guerra. Nel 1282 (data del Vespro) a Racalmuto non c’erano più di quattrocento abitanti. Nel 1404 la popolazione era raddoppiata: stavamo però al di sotto della media dei grossi borghi del circondario. Peste e fame non erano mancate nel XIV secolo: per scongiurare la peste del 1375 il signore di Racalmuto, Manfredi Chiaramonte, chiede al papa perdono per le passate ribellioni politiche e per ottenere l’indulto tassa i suoi feudi in favore del papa. Arriva a Racalmuto, il 29 marzo del 1375, l’arcidiacono Bertand du Mazel: viene da Avignone, conta i casolari del nostro paese ed applica una tassazione tripartita: tre tarì per i ricchi, due per la classe media ed uno per i poveri. Si giunge alla cifra di 7 onze e 28 tarì: si erano contati 136 nuclei familiari (fuochi); molte case erano coperte da paglia; la popolazione non superava le 700 persone. Il documento, che si trova in Vaticano, ci fornisce una preziosissima descrizione della Racalmuto del tempo, diversamente del tutto ignota. Il Vaticano altra volta aveva tassato il paese nel secolo XIV: veramente erano stati due religiosi e si chiamavano Martuzio de Sifolono ed il presbiter Angelo de Monte Caveoso. Per le decime del 1308 e del 1310 avevano corrisposto, il primo un’oncia ed il secondo nove tarì. Il Sifolono godeva delle prebende della chiesa di Santa Maria: ricerche recenti inducono a pensare che si trattasse del convento carmelitano. In un affresco del Convento di S. Angelo di Licata, nell’orbita di un tondo a modo di frutto di un grande albero raffigurante l’intera famiglia dei conventi carmelitani, sta scritto: «conventus Recalmuti, anno 1270». Se l’indicazione è esatta, il Carmine è la più antica chiesa di Racalmuto ed il relativo convento carmelitano risale appunto al 1270, agli albori dunque della fondazione del paese da parte di Federico Musca, sotto gli auspici di Federico II (†1250). L’altra chiesa, retta dal presbiter Angelo de Monte Caveoso è rimasta anonima. Il testo in latino recita: «presbiter Angelus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro utraque tt. ix», cioè: il sacerdote Angelo de Monte Caveoso pagò per il suo ufficio sacerdotale che svolge nel casale di Racalmuti, per entrambe le decime, tarì 9. Tutto fa pensare, dunque, che si trattasse di un monaco venuto da Monte Caveoso, l’odierno Montescaglioso in provincia di Matera (Basilicata). Noi pensiamo ad un monaco del convento fondato dalla contessa Emma verso la fine del XII secolo. Piccolo, specie se adottiamo i parametri dei nostri giorni, Racalmuto era diventato comunque un “casale” capace di attirare dalla lontana Basilicata un monaco che riusciva a viverci bene. Da notare però che chi aveva le prebende del Carmine viveva ancora meglio, se era costretto a pagare più tasse al pontefice di Roma. Nell’uno e nell’altro caso, era sulle magre spalle dei racalmutesi che papa e preti si appoggiavano per avere soldi ed oboli.

mercoledì 1 febbraio 2023

martedì 31 gennaio 2023

Lillo Taverna 36 m · Contenuto condiviso con: I tuoi amici Dite se non sono un gonzo babbeo credulone;: terremoto le mie amicizie. conoscenze. connivenze per far presentare un mio romanzo, La donna del Mossad, da un guru del giornalismo mondiale. Lo faccio contattare da un demiurgo di una nota casa regalpetrese. E che succede? Si presenterà non più il mio romanzo mas un grasde libro che martella sul caso Messana-Denaro, un libro sublime, magistrale, degnissimo di lode, ma che contiene tesi da me a suo tempo non condivise perché affette di nordico subliminale antimedionalismo e sempre volto as demonizzare presunte onnipotenze trapanesi, mentre si oscurano le proiezioni massoniche di un noto generale, in fin dei conti ingenuo.. Commenti: 0 Lillo Taverna 1 h · Contenuto condiviso con: I tuoi amici "Diffamazione", Cutaia su Petrotto: "Nessuna assoluzione piena" "La Corte ha pronunciato assoluzione per due soli dei numerosi episodi diffamatori, mentre ha dichiarato la prescrizione per tutti quanti i gravi fatti commessi" Redazione 08 aprile 2018 15:52… Altro... Commenti: 1 Lillo Taverna Noi che siamo dei poveri gonzi avremmo voluto sapere quali sono i due episodi che non sono stati considerati diffamatori. Cosa ci pare di particolare interesse adesso che per volontà di Maniglia veniamo messi all' autorevole governo del rispettabilissimo ingegnere.. Rispondi1 h Lillo Taverna 1 h · Contenuto condiviso con: I tuoi amici CRONACA RACALMUTO "Diffamazione", assolto in Appello l'ex sindaco di Racalmuto Lo ha reso noto lo stesso Salvatore Petrotto, che era stato condannato, il 20 marzo 2017, a 2 mila euro di multa Redazione… Altro... Commenti: 0 Lillo Taverna 1 h · Contenuto condiviso con: I tuoi amici
IL PERIODO ROMANO Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per Roma. Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche. Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle Autorità. E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe: C* PP. ILI* F* FUSCI RMUS. FEC.       Il Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota ed eludendo ogni commento prosopografico. Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita. Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di Cicerone. Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto Commodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede. Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario. Il primo ad averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti ed il Ministero, che risale al 3 novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denoma: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella saccentemente il Picone, segnala e pretende di sapere:

domenica 29 gennaio 2023

La rete viaria nella Sicilia Greca di Rosa Casano Del Puglia Introduzione “Dove c’è una trazzera di lì passa la storia” Recuperare la memoria storica degli antichi percorsi viari e con essi tutte le testimonianze come città, fondaci, abbeveratoi, stazioni di posta, ponti che si avvicendavano via via lungo le strade significa restituire identità storico -culturale ad un paese. Se dovessimo rispondere alla domanda cos ‘è una strada, potremmo dire che essa è un contenitore culturale o, meglio, una costruzione umana, voluta da un gruppo sociale, per soddisfare necessità militari, economiche, sociali, religiose e di trasporto. La storia degli insediamenti umani e quella degli scambi, col loro fluttuare nel tempo, sono all’origine della molteplicità di percorsi che costituiscono la rete viaria di un paese. La morfologia di un territorio ha avuto un peso determinante nella realizzazione della “viabilità costruita” che, è certo, si avvaleva della “viabilità naturale” privilegiando tracciati che evitavano i fondovalle, aggirando ostacoli, valorizzando percorsi di crinali e fluviali. Un’analisi del sistema viario non può prescindere dal considerare i caratteri morfologici del territorio, che nell’antichità, sono stati determinanti nella realizzazione delle vie di comunicazione. Monti, fiumi, pianure, valli hanno condizionato la scelta dei luoghi ove realizzare i tracciati. Per comunicare, l’uomo ha dovuto sempre superare limiti, ostacoli; i monti, le argille rappresentavano, appunto, un limite fisico, materiale. Nel buio dei millenni la storia delle vie di comunicazione si identifica con la sfida lanciata dall’uomo alla natura, sfida mirata a superare quanto di essa si opponeva al suo disegno- bisogno di liberarsi da ogni forma di isolamento, di superare ogni barriera, ogni limite materiale che la natura gli opponeva. La storia delle comunicazioni è lastricata dalle misure del limite e dalla capacità creativa dell'uomo che è stato in grado di superarli. Sicilia Occidentale, reperto L'etimologia ed altro Alcuni esperti di linguistica fanno derivare il termine "trazzera" dal latino "tractus" (tracciato), altri dall'antico francese drecière (via dritta) e "drecier" (drizzare). Introdotto probabilmente nel periodo normanno, ma comparso nei documenti solo nel XV secolo, il termine non indicava strade in senso odierno, ma tracciati battuti che si adattavano alla morfologia del territorio, sistemati alla meno peggio mediante ciottoli o qualche lastra di pietra. L'immenso patrimonio delle trazzere, formatosi nel corso dei millenni, andò sviluppandosi in epoca preistorica per la transumanza degli animali e per collegare tra loro i primi centri abitati che si andavano costituendo nell'isola, subì ulteriori incrementi quando tra il II e il I millennio aumentarono le necessità legate ai collegamenti e agli scambi. L'importanza delle trazzere era strettamente legata all'importanza dei centri che esse collegavano. Gli antichissimi tracciati dovevano fondarsi sul sistema delle trazzere; l'archeologo Paolo Orsi l'aveva intuito in occasione del rinvenimento a Siracusa di un tratto di una "antichissima arteria stradale", tenuta in attività fino a circa la metà dell'800, e a suo giudizio certamente greca, infatti osservava: "Chi ponesse mano all'attraente e nuovissimo studio della viabilità antica [...] arriverebbe alla singolare conclusione, che quasi tutte le vecchie trazzere non erano in ultima analisi che le pessime e grandi strade dell’antichità greca e romana, e talune, forse, rimontano ancora più indietro". Col termine Regie trazzere, in uso nel XIX secolo si denominarono, poi le trazzere del Demanio Regio che si collegavano tra loro. La costruzione delle strade carrozzabili avvenne, in Sicilia, solo attorno al 1778. Gela, Museo Archeologico. Bronzetto di atleta del retroterra geloo (fine V secolo a.C.): altezza al capo cm. 26,3, altezza massima alla mano destra cm. 29,3 Le fonti Per un’indagine sulla viabilità della Sicilia greca, una puntuale ricognizione è ostacolata dalla scarsità delle informazioni ricavabili e dalle fonti letterarie e da quelle archeologiche. Le notizie che ci forniscono Diodoro Siculo e Tucidide, si riferiscono, quasi esclusivamente agli spostamenti degli eserciti da una città all’altra dell’Isola, tuttavia permettono la ricostruzione di alcune direttrici viarie. Altrettanto poche sono le informazioni disponibili per le età che precedettero l’arrivo dei coloni greci in Sicilia e l’instaurarsi di relazioni economiche tra le poleis siceliote della costa e i centri dell’interno abitati da popolazioni indigene. Gli archeologi B. Pace e P. Orsi suppongono che la struttura del sistema viario, in Sicilia, non abbia subito grandi modificazioni dalla preistoria all’età greca. Adamesteanu sottolineava come è importante mettere in relazione le considerazioni circa il ruolo delle trazzere con le considerazioni di carattere ambientale e la precisa ubicazione delle fattorie, cioè quei siti archeologici posti in aree privilegiate per lo sfruttamento di un comprensorio agricolo e per gli scambi commerciali; in tal modo il problema della viabilità si collega direttamente al problema fondamentale, nella storia delle colonie greche, del rapporto tra città e territorio, inteso come area di espansione e di influenza e dunque dell’instaurarsi delle relazioni economiche, politiche, culturali tra sicelioti e popolazioni indigene dell’interno. 1. Trazzera delle vacche e trazzera dei Jenchi La cartina, sotto riportata riproduce una lunga direttrice, usata per la transumanza, tra III e I millennio a. C. È la trazzera delle vacche che parte da Cesarò, si dirige su Catenanuova, segue il corso del Dittaino, punta su Calascibetta e Caltanissetta dirigendosi poi verso ovest ove tra Catronovo e Cammarata si ricongiunge alla Via De' Jenchi, questa percorre la strada per Prizzi punta su Corleone, il Castello Calatrasi e Salemi e poi perdersi nel trapanese. Viabilità della Sicilia tra il I ed il III millennio a.C. 2. Agrigento - Palermo / Agrigento - Catania Un percorso con diramazioni: Akragas - Favara - Castrofilippo – Vassallaggi - Valle Di Catania Akragas - Favara - Castrofilippo – Vassallaggi - Palermo Il percorso che, in età greca, collegava Akragas con la piana di Catania ad Est, e con la zona prossima a Solunto, Termini e Palermo ad Ovest, è stato ricostruito dall'archeologo Adamasteu; partiva da Agrigento si indirizzava a Nord-Est attraversando Favara prima e Castrofilippo dopo, toccava l'attuale raccordo ferroviario Agrigento - Caltanissetta e quindi Vassallaggi, qui il tracciato subiva una diramazione consentendo di raggiungere ad Est, attraverso Morgantina, la piana di Catania; ad Ovest le valli dei fiumi Torto, San Leonardo e Eleuterio, dopo aver attraversato Polizzello, Castronuovo, Lercara. 3. Trazzere Lungo il corso dei fiumi Dittaino e Gornalunga La viabilità greca, come una ragnatela copriva l'intera superficie dell'isola, sviluppandosi sia nelle zone costiere. sia raccordando i centri abitati dell'interno dell'Isola. Tra le vie di comunicazione trasversali, un'importante arteria di comunicazione doveva congiungere la Piana di Catania a Enna attraverso le due direttrici rappresentate dalla Valle del Dittaino e da quella del Gornalunga, che transitando tra il monte Iudica e la Montagna di Ramacca si collegava a Morgantina. 4. Tracciati viari nella Sicilia Sud-Orientale Da Siracusa a Gela Da Siracusa si dipartivano due grandi arterie, che assicuravano la comunicazione con l’ovest e con la costa meridionale della Sicilia. Rete viaria da Siracusa a Gela Il primo tracciato, più breve, era controllato da Akrai. Partiva da Siracusa, costeggiava il fiume Ciane, e dopo aver toccato Canicattini, perveniva ad Akrai, fondata con scopi militari. Dopo aver superato l’Irminio si indirizzava verso Chiaramonte, evitando l’altopiano ragusano, scendeva lungo la valle del fiume Dirillo fino all’odierna Acate per raggiungere poi Gela, colonia rodio-cretese. Questo primo tratto, tra Akrai e Chiaramonte, presentava una biforcazione che correva lungo il fiume Irminio, toccava Ragusa e giungeva poi a Camarina, molto probabilmente fu questa la via seguita da Dionisio quando nel (Diodoro Siculo, XIV, 47, 4-6) 397. a. C. mosse contro Mothia, dal momento che egli ricevette come alleati i soldati di Camarina, poi quelli di Gela e di Akragas. È interessante notare, che da Akrai, risalendo lungo le sorgenti dell’Anapo era possibile raggiungere Kasmene, odierna Comiso, posta in posizione strategica a controllo dello spartiacque tra i fiumi Tellaro ed Irminio. Il secondo tracciato, controllato da Eloro, nei pressi della foce del fiume Tellaro, era la cosiddetta "Elosine odòs", menzionata da Tucidide; congiungeva Siracusa con Camarina e, aggirando lungo la costa i monti Iblei, si collegava con la via Selenuntina che correva lungo la costa meridionale dell’Isola passando per Gela, Licata, Palma di Montechiaro, Agrigento, Eraclea Minoa, probabilmente con un tracciato non molto diverso dall’attuale S.S. 115; peraltro questa via, nel tratto tra Agrigento e Palma di Montechiaro, è stata puntualmente ricostruita da Adamesteau. Tracciati viari nell’entroterra di Gela Tracciato viario nord-sud lungo l'asse del fiume Imera Area degli insediamenti rodio-cretesi Nell’entroterra di Gela, dalla fine del VII sec. a.. C. e nel corso del Vi sec., i coloni della polis rodio-cretese si stanziarono nel bacino di Gela e del Maroglio, occupando i centri di Butera, monte Bubbonia e monte San Mauro di Caltagirone. Un’unica arteria di comunicazione si snodava parallela al corso dell’Imera meridionale toccando Ravanusa prima e Sabucina dopo. Superata la collina del Redentore di Caltanissetta, punto di transito obbligato, si accedeva alla gola tra Sabucina e Capodarso, che dominava l’alta valle del Salso –Imera meridionale, da qui si dipartivano due tracciati uno verso Enna e la Valle del Dittaino a Nord-Est, un altro verso Nord –Ovest, dove la via di transito era costituita dallo spartiacque tra il Platani e l’Imera settentrionale. 5. Viabilità greca nella Sicilia Occidentale Sicilia Occidentale, Teatro Selinunte - Segesta - Golfo di Castellammare La viabilità greca nella Sicilia occidentale, presentava due tracciati che partivano da Selinunte, uno collegava la città a Castellammare del Golfo, l'altro, un po' più ad est, la raccordava con Castellaccio di Sagana, nei pressi di Palermo. Sicilia Occidentale Selinunte occupava un terrazzo lambito dal fiume Modione, che dirigendosi verso Nord, metteva in comunicazione la città con la zona di Salemi e da qui, attraverso la valle del fiume Freddo, con Segesta e il Golfo di Castellammare. Gli archeologi Adamestau e Tusa hanno individuato un'altra importante arteria di penetrazione in area di interesse segestano; partiva da Selinunte attraversava Castellazzo di Poggioreale (Halikyai), proseguiva, lungo la riva destra del fiume Belice, in direzione del Golfo di Castellammare. Proprio il Belice, che sfocia pochi chilometri ad est della città, era la principale via di collegamento con l'entroterra. Infatti attraverso i due rami Belice destro e Belice sinistro ci si collegava con gli insediamenti di Monte Maranfusa, Monte Iato, Monte d'Oro di Montelepre, Castellaccio di Sagana e la costa settentrionale e con i centri di Rocca Entella, Pizzo Nicolosi, (all’estremità di Roccabusambra) e da qui col fiume Eleuterio e alcuni torrenti tributari del San Leonardo. Quest'arteria doveva verosimilmente raccordarsi con il sistema stradale di comunicazione della costa settentrionale: tra Imera la Sicilia centrale, Centuripe e Siracusa, ricordato da Tucidide. Selinunte era, inoltre, collegata a Siracusa dalla cosiddetta via Selenuntina. Arteria di collegamento est–ovest nella Sicilia Greca. Il tracciato radiale che collegava l’Est con l’Ovest dell’Isola, escludeva Enna in quanto il capoluogo rappresentava la punta settentrionale di un percorso da sud unendo tra loro le valli del Salso –Imera meridionale, del Dittaino e del Gornalunga. Tale esclusione trova anche giustificazioni storiche legate alla spedizione di Nicia. L’attuale SS 121 si discosta pochissimo dal tracciato di questa trazzera. Conclusioni In sede mitologica i viaggi di Minosse, Eracle, Dedalo confermano che la Sicilia era conosciuta e frequentata dai greci fin dal tempo della civiltà micenea e che i rapporti tra l Sicilia e mondo egeo e miceneo erano già intensi fin dal XVIII sec a.C., cioè prima dell’arrivo dei Sicani, dei Siculi e ancor prima della guerra di Troia. Al momento della colonizzazione dell’VIII secolo, dunque, i Greci conoscevano molto bene la Sicilia, e una volta stanziatisi nell’Isola, otre ad utilizzare i percorsi viari costruiti ad opera degli indigeni, fu necessario realizzarne altri sia per motivi legati alla difesa delle colonie stesse, sia per soddisfare necessità di ordine commerciale. L’irruente moto colonizzatore dell’VIII secolo si protrasse nell’arco dei secoli VIII, VII, VI, e interessò soprattutto le coste della Sicilia sud-orientale, portando, inevitabilmente, a scontri con le popolazioni indigene. Le sue cause di tale avvenimento, che segnò la nostra storia, vanno ricercate in Grecia. La Grecia era un paese povero, non in grado di soddisfare la crescente pressione demografica; le pianure erano rare, le montagne brulle, i boschi scarseggiavano, le risorse minerarie quasi inesistenti. Il mare, oltre ad essere l’unica risorsa per la sopravvivenza delle popolazioni, impediva che il paese rimanesse isolato, facilitava l’importazione dei prodotti necessari, dai paesi vicini, e senz’altro fece nascere l’idea della emigrazione, organizzata mediante la colonizzazione, nelle terre fertili lungo le coste del Mediterraneo. La rete viaria complessiva La colonizzazione della Sicilia fu, dunque, conseguenza della povertà del territorio greco. Nella tradizione antica, colonizzare voleva dire conquistare un territorio idoneo alla coltivazione, venderlo in lotti e concederlo ai coloni fondatori. In Sicilia le colonia greche vennero tutte fondate sulle coste pianeggianti della Sicilia orientale da Naxos a Catania a Leontini, Megara e Siracusa poi da Siracusa a Gela ad Agrigento, infine Minoa e Selinunte compresa la stessa Imera sorta alla foce del fiume Salso nella pianura tra Termi e Cefalù. I coloni greci venivano in Sicilia alla ricerca di nuovi luoghi isolani dove definitivamente insediarsi, senza ricevere o aspettarsi di ricevere sostegno militare dalla madre patria per affrontare resistenze indigene. Non a caso la rete viaria si sviluppò prima lungo la fascia costiera dell’Isola, ma era inevitabile che penetrasse nell’interno sia per ragioni di difesa nei confronti degli indigeni, con i quali si ebbe sempre un rapporto di irrisolto conflitto, sia in ragione del fatto che la seconda fase della Colonizzazione si ebbe quando la società agricola fu potenziata e sviluppata dalle attività mercantili, da qui la necessità di una rete viaria interna che consentisse il trasporto di merci dall’interno dell’Isola verso i maggiori scali marittimi. La rete viaria della Sicilia greca fu in seguito utilizzata in epoca romana e non solo, ancora oggi alcune strade statali quali la SS. 120 e la SS. 121 ripercorrono quei tracciati che millenni fa, come un’impronta in cancellabile, ci lasciarono i Greci. Bibliografia A. Burgio - La viabilità greca – In “Nuove Effemeridi” n. 35 1996 M. R. Carra - La Sicilia centromeridionale tra II e VI sec. d. C. Caltanissetta, 2002 F. Coarelli, M. Torelli - Sicilia - ed. Laterza 1998 E. Gabba. G. Vallet - La Sicilia antica - Ed. Storia di Napoli e della Sicilia G. Uggeri -Itinerari, strade, rotte, porti e scali della Sicilia tardo antica in Kokalos 1997-98 G. Uggeri - Sull’“Itinerarium per marittima loca” da Agrigento a Siracusa in Atene e Roma XIV, 1970 Testo ed immagini di

 Beh! verrà quell giorno in cui potrò liberarmi da tutti questi ipocriti impacci in difesa degli ebrei, che io vetero comunista tutt'altro che pentito, odio con tutte le mie forze, disprezzo e condanno. Forse basterà questo appiglio, questo mio sincero sfogo per spingere i cerberi FB a cassarmelo. Parlo di quegli scherani sionisti a presidio della decenza di codesti sfoghi FB. Intolleranti degli svestimenti delle mammelle giovanili umane, indulgenti verso ogni cretineria conservatrice, rispettosi delle più deteriori superstizioni alla padre pio, ma guai se gli tocchi la memoria della loro eterrna nequizia mosaica: ti scaraventìratano contro censure e maledizioni. Non se la prendano i miei cari amici marrani alla Caleffi, Redavid, Tagliacozzo, Misserville, Salamone. Loro si sono redenti come mi sono redento lò dalle aberrazioni battesimali quando su mia impossibile delega ebbi a rinunciare al diavolo e alle sue pompe. Che poi erano quelle de sexto et de nono come sussurrare atti impuri della prima giovinezza, senza i quali non c'è preparazione ai congiungimenti matrimoniali. Bipartizan per intenderci. Dovrei continuare; ma MI SONO ANNOIATO. SOLO CHE COME TUO CRITICO LETTERARIO MI VA DI CHIEDERTI, CARO JONNY, TU DAVVERO SEI SINCERO NEL METTERE INSIEME SPLENDIDE RIME IN VERNACOLO PER PIANGERE ANCHE TU DOPO QUASI UN SECOLO USUFRUENDO DELLA CAVERNOSA VOCE DI ENRICO LE ORRIPILANTI TORTURE DI NON SI SA NE' SI SAPTA' MAI ISCHELETRITI SIONISTI. HAI COGNIZIONI STORICHE ,MACERATE E VERITIERE?

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