Profilo

sabato 8 giugno 2013

La magistrale critica di Lara-Vinca Masini su Agato Bruno


Agato Bruno dedica questa sua mostra all’amico più caro, da poco scomparso, Vincenzo Perna, col quale ha diviso una vita di pensieri, di sentimenti, di ideologie, di preoccupazioni e di complicità culturali, didattiche, etiche. Perna ha seguito da sempre il suo lavoro pittorico, chiarendone, forse anche all’autore, con la sua scrittura còlta, raffinata, sensibile, le intenzionalità e gli esiti, facendone talvolta occasione delle sue meditazioni sul mondo attuale, sulla cultura, sull’arte, discutendo anche con lui sui titoli delle opere, come quando ha preso spunto dal titolo di un lavoro di Bruno, Risguardi (un grande telero di 10 metri di larghezza, alto m. 1.50, presentato a Gubbio nel ’91 e ad Anagni nel ’95), per dissertare e distinguere, in un suo testo, “tra chi ha guardato e chi ha riguardato, tra chi ha svoltato l’angolo e chi si è fermato e chi è tornato a svoltarlo per riprendere più consapevolmente il proprio cammino mirando al presente e al futuro, sentendo appunto ‘risvegliata’, la propria coscienza, la propria identità di uomo e di operatore”. In quello che si è definito “postmoderna” in pittura (non parlo del nostro tempo “postmoderno”), il “ri(s)guardo”, come citazione, come ripercorri mento, anche come atteggiamento randomatico e nomade, ha toccato, intenzionalmente, solo la superficie, la pelle della storia, ma è stato, comunque, uno dei percorsi quasi obbligati.

Quello di Agato Bruno è più complesso (e Perna lo ha còlto con grande finezza, da par suo). Anche se il realismo di protesta è la sua origine lontana (come notava Perna egli non è mai stato, tranne in un brevissimo periodo, quando aderiva a “Proposta 66”, un “a-figurativo), non è stato neppure, mai, veramente un realista. Le sue accensioni violente, le sue gestualità dinamiche hanno alla base l’Espressionismo storico, ( che in Italia si trasformava, nel secondo dopoguerra, in una sorta di rielaborazione critica, ispirata anche a Guernica di Picasso), ma anche il Surrealismo nella sua manifestazione più tarda, ispirato ad una simbologia onirica, talvolta quasi fantascientifica.

E, il leit-motiv in tutto il suo lavoro, l’impegno etico-sociale, che lo ha portato ad elaborare temi legati alla vita dell’uomo nel rapporto col mondo, di ogni tempo e luogo, sempre, peraltro, in termini di metafore legate ad una fantasia visionaria, onirica, spesso surreale.

Bruno interpreta queste istanze anche sul filo del “ri(s)guardo” dell’arte antica, quella visionaria e allucinata di Bosch e Bruegel, e, più recentemente, da quando vive nel Veneto, arricchendo il suo senso del colore napoletano con quello veneto, appunto… Parla infatti con calore dei cieli del Veronese, di cui riscopre la morbida, fluida luminosità negli ultimi lavori.

Ha meditato anche sul significato della lunghezza dei “teleri” (Perna cita, in proposito, il Convito in Casa di Levi, del Veronese), che ripropone in questa mostra, con il Cinto di Venere, appunto, e con Paradiso, un altro telero, di 2  metri di altezza e 8 di larghezza. Il primo è un lavoro su carta (una bellissima carta a mano), alto appena 17 centimetri, che si svolge per 6.35 metri, costringendo l’osservatore a muoversi con lo sguardo lungo una storia intersecata, ricca di avvenimenti e di rimandi, una lunga storia tra cielo e mare, in una sorta di continua accelerazione.

 Perna, parlando dei “teleri” di Bruno, si riportava al concetto di “centralità” trattata da Arnheim nel suo “Il potere del centro”, ma aggiungeva anche che nei luoghi dipinti non può esserci un ‘centro’. “Forse” scriveva “c’è un centro che si sposta e scegliamo di volta in volta per nostra economia di percezione e per vantaggio nel guardare ma è certo che l’ipotetico ‘centro’ non è qui una effettiva effettuale caratteristica della visibilità dell’opera”. Si aggiunge, cioè, un “tempo dio percezione”, di memoria, secondo un filo “che si srotola e lega, quasi un filo di Arianna che… non è, né indica un percorso unidirezionale, ma consente l’andare, il proseguire, il ritornare, la ripresa del cammino. Appunto perché – al di là delle decisioni, del momento storico, della volontà manifesta e univoca – esiste sempre per l’uomo lo scatto del ‘background’, la regione della memoria, l’essere più o meno consapevole del proprio radicamento/sradicamento”, il senso cioè dello scorrere della vita, il tempo della coscienza…

Si tratta, dunque, di un nuovo modo di far entrare il tempo e la “durata” nel quadro, quella che i futuristi esprimevano con la ripetizione ritmica del gesto e che qui costringe invece, si è detto, lo sguardo di chi osserva a spostarsi secondo una scansione temporale personale, che ha a che fare appunto, con la presa di coscienza del  proprio guardare e ri-guardare e anche del proprio essere nel mondo. La narrazione ha inizio con la visione di un Nautilus, una splendida conchiglia, simbolo della nascita e dello svolgersi labirintico della vita, prosegue con un accavallarsi continuo e travolgente di elementi, da grandi polipi dai lunghi tentacoli variegati, a mostri emersi da abissi insondabili, da reperti di archeologia fantastiche, alla presenza, per Bruno consueta, quasi ossessiva, di uccelli: ed ecco una mano gigantesca che sembra voler artigliare uno dei mostri marini, mentre l’affacciarsi di una piccola bicicletta ci riporta al senso della presenza dell’uomo e della civiltà. Il lavoro termina con l’immagine di un pellicano, che col sangue del suo fegato rigenera la vita dei propri figli… E tutto questo lungo una bassa fascia permeata di un colore luminoso, carica di una gestualità che si accavalla veloce, inarrestabile. E’ come lo scorrere della vita geologica, dagli abissi della preistoria ad un futuro che “genera mostri”, in una prospettia desolante, ma forse non ancora priva di speranza, finché su questo pianeta risplenderà il cielo e il sole farà brillare il colore, finché l’uomo avrà consapevolezza di se stesso e della propria facoltà di scelte tra l’accavallarsi continuo dei condizionamenti e dei “veleni” che circondano l’uomo: quelli che promana il potere, ammantato di oro e porpora, e che invadono portici e piazze coi segni antichi dell’arroganza”, come ancora scriveva Perna, e il senso della propria autodeterminazione e della propria libertà…

L’altro lavoro presente in mostra è Paradiso, un telero alto 2 metri, largo 8. E’ accompagnato da una serie di bozzetti che, di per sé, si presentano già come opere finite, affidate a temi singoli, votate completamente al colore, che si espande morbido e fluido, e alla luce, alla velocità del segno. Tutto un mondo acquoreo, salmastro, nel quale l’argento delle scaglie si unisce al rosa dorato dei mostri-crostacei, al degradare degli azzurri lungo le ali degli uccelli, si affolla in un accavallarsi morbido e scorrevole. Anche qui una lunga mano bianca tocca creste che sembrano mitrie, grossi becchi cornei sfiorano morbidezze magmatiche…

Qui non c’è più storia né cronaca, c’è, insieme dolente e struggente, un canto alla vita, che è insieme rimpianto e speranza: di chi vede gli abissi ma si accanisce a credere ancora in un possibile, metaforico rinascimento, per una natura che non sarà più quella che conosciamo e che dovremo accettare, forse, anche se stravolta.

 

                                                                                   Lara-Vinca Masini

Bruno seondo Perna


Attorno il pane

Provocatorio in certa misura fu allora, e volutamente in certa misura ambiguo, il titolo “Attorno il Pane” per la mostra che Agato Bruno tenne nel 1983 presso la galleria “Due Ruote” di Vicenza, diretta da Virgilio Scapin. Provocatoriamente  riprendiamo ancora quel titolo, che non tutti compresero, chiarendo – per taluni che si ritengono fini intenditori di letteratura e sono invece schiavi di formule e stereotipi – che né allora né ora siamo ricorsi in un “lapsus calami”,  e tantomeno in imprecisione di scrittura. Non si volle dire “Attorno al Pane” che ripeteva un modo antico (e di alto lignaggio) di titolazione ben acconcio per indicare il tema catalizzatore di riflessione e dialoghi sviluppati su un piano squisitamente letterario e filosofico: pensiamo al “De amicitia”, al “De senectude”, al “De divinazione” di Cicerone per non dire il “De tranquillitate animi” di Seneca e il “De consolazione Philosophie” di Beozio: Si volle dire e affermare- semplicemente o, se volete crudamente- una valenza assertiva, cioè il senso molto più ampio di una presenza soggettiva, rispetto ad una funzione più ridotta come la pura constatazione della presenza o della identità: valenza dunque ben più che dichiarativa, ben più che… amara fronte delle asserzioni magrittiane, ad esempio. Insomma l’argomento era il pane –essenzialmente il pane- nella sua fisicità, nella sua immediata riconoscibilità figurativa, e quindi nella  sua tautologia al di qua e al di là del simbolico ( il simbolismo non costituiva per l’autore, allora, uno specifico punto di partenza o di arrivo per le sue comunicazioni). Ed era sufficiente proprio la tautologia perché dietro ogni elemento materiale, dietro ogni comportamento umano si potesse individuare uno spezzone di racconto,  l’ “incipit” di una storia esistenziale. Il pane, dunque, nella sua prima e vera valenza di fatto esistenziale, rappresentata nella ben conosciuta corporeità figurale e capace di dilatarsi e di espandersi oltre la finitezza fisica. Era questo il senso del lavoro di Bruno, allora. E questo senso interpretò, e in modi  pertinenti sviluppò, la mia poesia stampata su un piccolo tagliere di legno che accompagnò la mostra vicentina. Che quella significanza assertiva fosse coscientemente perseguita nel lavoro di Bruno e con precisione trasferita in un titolo da alcuni contestato, risulta ora confermata dalla nuova antologia pittorica dell’artista casertano che Roma conoscerà in anteprima e per la quale proponiamo il titolo “Attorno il pane  (n° 2)”. Anche qui, ancora qui il pane: il pane intorno a noi non come emblema o simbolo, né come bandiera di una carità pelosa di un filantropismo in ghette, di un populismo ovvio, di una ideologia rivendicativa. Il pane intorno a noi è presenza, non dono, né miracolo, anzi è realtà fattuale, è storia, è conquista, è cultura che permea i giorni e le memorie del presente e del passato per chiunque di noi, per la stessa Maria Antonietta prodiga di “brioches” (e il richiamo alla regina di Francia –come si vedrà- non è gratuito né superfluo). Anche qui, ancora qui il pane, divenuto però il fulcro di una ricerca più raffinata, più sottile e penetrante rispetto a quella condotta nei primissimi anni ’80 quando l’artista si costrinse non solo ad un rapporto monotematico (di chiara valenza esistenziale, come si è detto), si costrinse anche all’impatto duro con la grafica: tra l’esercizio del disegno a china o a matita e l’esercizio dell’incisione con lo scavo del bulino e degli acidi. Si, allora Bruno si costrinse a scavare, con mezzi poveri e rudimentali, e a far emergere la cruda dimensione esistenziale: e furono squarci, interni di case contadine ed operaie ben prossime alla sua formazione umana, con testi popolari e borghesi proprio del suo “habitat”. Dopo quindici anni scanditi da esperienze pittoriche molto ricche, il cui punto di fusione più alto è il telero “Ri(s)guardi” presentato a Gubbio nel 1991 e ad Anagni nel 1995, Agato Bruno torna con i nuovi racconti del pane. I fili che l’artista casertano ora mette insieme per dare struttura e forma ai nuovi racconti sono ben più preziosi, vengono da antiche manifatture, da manifatture illustri sulle quali la storia e l’arte hanno impiantato pagine importanti. Fra questi lacerti emblematici che si chiamava e ancora si chiama “Terra di Lavoro” Bruno ritorna sull’abbrivio del riguardare appunto all’indietro, non per passione di archeologo o storico, ma per compito d’artista che vive e intuisce il presente e dai reciproci riverberi delle stagioni presenti e delle passate trae materia per la sua invenzione/comunicazione artistica. In questo scorcio finale di secolo, che coincide con la conclusione di un millennio, pesanti nubi offuscano l’orizzonte dell’umanità: l’incidere lento e inesorabile del deserto, ad esempio, e gli incrementi demografici mondiali, per non dire di altri rovinosi squilibri che minano il vivere e il sopravvivere sulla faccia della terra. E ancora una volta non può non tornare in primo piano il tema del pane, atavico problema di generazioni e generazioni che ora nuovamente Bruno ripropone come fattore esistenziale, come valore esistenziale, ma anche come elemento di una cultura non solo materiale. Se la nostra storia, se la civiltà dell’uomo non possono prescindere da questo sostegno basilare della vita quotidiana, sappiamo anche che una rivoluzione non si fermò innanzi alla provocatoria offerta di “brioches” da parte di una regina. Quella rivoluzione ebbe il passo lungo, superò le Alpi e dilagò fin nella “Campania Felix”dei Borbone: i francesi a Caserta entrarono nel 1806 e condizionarono perfino la manifattura del pane. Alla tradizionale pagnotta rotonda si aggiunse la “pagnotta alla francese” caratterizzata per alcuni tagli superficiali sulla crosta superiore, e al lungo filoncino napoletano si aggiunse “lo sfilatino alla francese” impastato con fiore di farina, bianchissimo e leggero, dalla crosta croccante per i rilievi e i tagli obliqui nella parte superiore: insomma una versione più larga e più corta della baguette, dal peso di circa 500 grammi(cfr. Domenico Ianniello, “il pane francese a Caserta”, in rivista “Frammenti anno 2° -gennaio 1993). L’innovazione riguardò, quindi, non solo la qualità del pane, ma anche i tipi della panificazione locale. Da poco meno di 200 anni il pane a Caserta si fa cosi. Bruno viene a conoscenza di questo fatto storico e  questo piccolo evento rimette in moto il meccanismo dell’immagine, saldamente ancorato a taluni capisaldi: la Reggia Vanvitelliana, S. Angelo in Formis, le “matres matutae”, le sete di San Leucio. Bruno rivede questa testimonianza e quelle pagine dell’arte /Bosch, Bruegel, Piero della Francesca) che soggiogarono la sua sensibilità e le ricontestualizza trasferendo tutto intero il “peso specifico” dello stralcio architettonico o artistico o artigianale. Cioè gli squarci del Palazzo Reale e della Basilica di S. Angelo in Formis, cosi come le misteriose “madri di tufo” sono state estrapolate e riproposte con tutta la loro forte “personalità”, anche nei dettagli, come “campi” non estrinseci, né refrattari al colloquio con altri capisaldi dell’arte italiana ed europea. Non solo, ma il dialogare di Bruno – che va a sussumere spirito e forma della rivoluzione francese, e di questa anche le propaggini che si attestarono nella città voluta da Carlo III di Borbone –fonde storia e arte, vita e cultura in una reinvenzione talora ludica, talora irridente, talora ironica, talora amara. Il pane come elemento non di mera raffigurazione, ma di reinterpretazione svolge appunto un ruolo “maieutico” con la sua elementarità rispetto a riproposizioni e a ipotesi culturali complesse. Se la sostituzione dei fantolini sulle braccia della madre di tufo si pone in chiave di lettura diretta e immediata (la “mater matuta” come dea della fecondità, dell’abbondanza ecc.), ben pi ù sottile la riflessione pittorica sottesa  al lavoro “ipotesi per una pala” nel quale una “Mater”  è sospesa al filo che discende dalla volta vanvitelliana del balcone reale con evidente richiamo alla pala “Sacra conversazione” di Piero della Francesca conservata a Brera. Se nel vestibolo della Reggia casertana può sorprenderci un cappottone appeso ad una colonna, sovrastato da una coppola che sembra piuttosto una pagnotta tonda, mentre da una tasca fuoriesce una “baguette”  (anzi lo sfilatino alla francese), Bruegel calato al sud celebra (v. “la Mietitura” Metropolitan Museum of Art, New York city) nel parco vanvitelliano la mietitura intorno ad una albero: forse un rinato Albero della Libertà. Opera felicissima questa, intitolata “se Bruegel venuto al sud…”, anche perché  nonostante la serrata trama dei richiami storici – culturali – iconografici l’autore si sente appagato da una propria interna libertà. E cosi via, da “Pioggia di fiori, pioggia di pani, a “Camposerico perché il pane ruoti, fino ancora a “Il pane non ha prezzo” e “Arrivano i francesi”, l’ironia (che è odio-amore) di Bruno quanto più appare legata e legarsi a contesti artisticamente “imperiosi” di per se intangibili, tanto più sorprendentemente trova l’appiglio perché nella visione data o ipotizzata compaia – subdola presenza – lo sfilatino alla francese. Superfluo ogni ulteriore  suggerimento di lettura per la singola opera o per l’intero ciclo, tra l’aristocratica “brioche” di Maria Antonietta e il popolare “rivoluzionario” sfilatino. Ancora  una volta Bruno conferma il più autentico interesse per la condizione e il destino dell’uomo, a partire proprio da quel livello esistenziale – il vivere, il sopravvivere – che è del singolo come dell’intero genere umano. I tempi della storia e della civiltà sono stati quasi sempre contrassegnati dalla lotta per la sopravvivenza, ancor prima delle pagine scritte e delle immagini rupestri; e via via  l’assalto al forno di manzoniana memoria. “Pane amaro” di Silone, la sequenza della conquista del pane  in “Roma città aperta” di Rossellini. Storie di ieri, di oggi purtroppo, e purtroppo di domani. Tutto questo è presente e non soltanto sotteso nei lavori bruniani di questa metà degli anni novanta. Il millennio sta per essere doppiato lasciando alle spalle un secolo ben ricco di rivolgimenti ideologici e culturali. Abbiamo assistito alle mutazioni, agli stravolgimenti e agli snaturamenti della pittura e della scultura fino a ritrovarci nuovamente con pennelli e scalpelli, tra calchi e forme. Non è il caso di ripercorrere qui gli stravolgimenti di una storia complessa, che chiede di essere decantata ancora di scorie e di esibizionismi. Avviandoci alla conclusione, basta qui dire che Bruno no è stato mai in realtà un “a-figurativo”. Si, la sua partecipazione al gruppo “ Proposta 66 – Terra di Lavoro”, come altrove abbiamo rilevato, fu laterale; ed i suoi successivi esercizi d’arte non sono mai pervenuti alla dissoluzione della pittura: se or qui, or li “a-figurale”, ma comunque dilatata o aggrumata su tessiture pittoriche, tra bagliori  accecanti e voluttuose profondità, che non hanno mai inteso annullare la forma, laa figura, la cosa. In queste opere recentissime Bruno porta a sintesi la sua accuratezza costruttiva, il suo dipingere terso, i nodi di luce o di buio in impaginazioni che alla frontalità preferiscono i tagli verticali, i punti di vista obliqui. Rispetto alla staticità , alla stabilità, alla monumentalità (in sostanza) l’artista ci induce a ripercorrere visioni trasversali oppure verticalmente strette che ci consentono di andare un po’ oltre gli strati superficiali ed ufficiali, e di comprendere quindi i meccanismi e le logiche (antiche e meno antiche) del predominio e della conservazione del predominio.

Roma, aprile 1996

 

                                                                                                                             Vincenzo Perna

Il mondo semplice di Agato Bruno


Agato bruno

Un mondo semplice, chiaro e immediato, espresso attraverso un linguaggio artistico che gli appartiene, quello di Agato Bruno, profondamente legato alla sua terra d’origine dove ora ritorna con questa mostra personale di una ventina di opere realizzate recentemente, alcune della quale pensate proprio per questi spazi. Per certo diventa complicata e direi intenzionalmente  da lui stesso non auspicata una precisa e facile etichettatura della sua produzione che, per tali motivazioni, si connota di un’ evidente originalità. Uno spirito libero, fuori dagli schemi e dalle mode, dotato di una ben precisa identità e sentimento ideologico cui ha mantenuto fede nel tempo, aspetto alquanto raro oggi in quanto siamo sempre più adusi a facili quanto rapide virate e cambiamenti di bandiera, cedendo a opportunismi spiccioli, di ogni genere, che vanificano il credo più autentico e solido. Nell’affrontare alcune considerazioni sulle sue opere avverto la necessità di indugiare sull’uomo Agato Bruno che, cosa altrettanto rara, pienamente coincide con l’artista, inteso ancora in senso tradizionale di uomo –artista, attento e curioso studioso, fine operatore culturale, già docente e preside per molti anni nelle scuole  secondarie di istruzione artistica, che ha relativizzato tutto questo suo bagaglio di esperienze motivanti la sua ricerca attraverso una chiara e coerente appartenenza a un senso civico perseguito eticamente. Un’attività che non può non riconoscersi nella più conseguente appartenenza politica, vissuta on discrezione, comunque, pronta a confrontarsi lealmente e con una predisposizione innata rivolta a garantire il giusto rispetto reciproco, pur nel mantenimento delle rispettive posizioni, anche con chi non la pensa allo stesso modo e magari si trova  ideologicamente agli antipodi. Partendo da tali presupposti possiamo iniziare a prendere in considerazione l’odierna produzione collegata da un sottile ma ineluttabile filo rosso che cuce le opere, alcune delle quali, di primo impatto, così diverse per tecnica di realizzazione e apparentemente di soggetto. Nella sempre presente tematica sociale e politica, è, tuttavia, individuabile quale comune denominatore  di confronto, la natura e tutto ciò che da essa di fatto deriva nel bene e nel male in una sua positiva o deleteria o deleteria gestione. Il tipo di approccio e di osservazione primaria rivolta all’elemento naturale,, così come dovrebbe essere per ogni buon artista, lo conduce a fare arte nel pieno coinvolgimento e diretta partecipazione con quanto gli sta e avviene intorno. Dalla grande passione coltivata nei confronti del variegato intrigante mondo dell’incisione, in particolare di matrice nordica, soprattutto espressionista, solitamente dettagliata nei particolari e nelle  avvertito dall’autore dichiarate scelte ideologiche e politiche di denuncia, gli deriva la notevole attenzione rivolta sia agli strumenti di narrazione dei contenuti sia ai valori simbolici e formali nel rimando ai significati analogici dall’autore privilegiati. Così anche nei dipinti, come con parole appuntate su un quaderno che poi diventa libro, Agato Bruno parte da valutazioni espresse in merito a una natura matrigna e resa ancora più caotica dall’intervento interessato, avido e corruttore dell’uomo, utilizzando colori accesi a riempimento di un segno veloce che descrive pesci con bocche spalancate e biforcute terminanti con punte che ricordano tiare vescovili, edifici piacentini ani porticati in bilico e pendenti, giganteschi uccelli incombenti o rapaci sullo sfondo. Tutto sembra ricomporsi nella parte dell’orizzonte retrostante dove predominano tinte uniformi di colorazione oscillanti nelle diverse gradazioni del rosa e dell’azzurro. Dal primo olio si passa ai vellutati pastelli dove si avverte un soffuso richiamo all’astrattismo di Kandinskij, risolto, tuttavia, in un’accezione di maggiore consapevolezza interpretativa per quanto  concerne uno slancio sentimentale avvertito dall’autore a contatto con il paesaggio, espressione di una natura, in questo caso, senza dubbio  rigenerativa. Se nella crescita la natura viene costretta e avvolta da un drappo, essa riesce, tuttavia, a riaffiorare e a farsi strada creandosi un varco, e fuor di metafora, nonostante le ottusità di un potere becero e finalizzato esclusivamente a mantenere e potenziare all’inverosimile i propri esiziali interessi che proprio recentemente hanno portato l’Italia e gli italiani, come esplicitamente ci suggerisce Bruno, “alla frutta”. Da qui si passa ai palazzi rappresentativi del sistema, pubblico e privato si confondono, da Palazzo Chigi  al Grazioli, di triste, seppur recente, memoria, dalla villa di Arcore a quella in Sardegna trasformata per l’occasione, in discarica pubblica della mondezza già a suo tempo accumulata in eccesso nelle strade di Napoli, al Quirinale, sede del Presidente della Repubblica Italiana, ultimo baluardo e freno a una dilagante volgarità diffusa e che ancora si richiama con orgoglio a un’unità nazionale riecheggiata nei festoni e nei drappi tricolori srotolati sulla piazza antistante l’edificio. Questi ultimi lavori rivolti a descrivere la recente triste commedia umana di un berlusconismo imperante ma ora al capolinea, sono realizzati da Bruno cona la tecnica dell’acquerello, una tecnica difficile da padroneggiare ma molto sentita e ben assimilata dall’autore che, in tal senso, ottiene effetti di fattura briosa, raggiungendo risultati freschi e allo stesso tempo caldamente coinvolgenti risolti in un’armonia compositiva sapiente ed efficace, come d’altronde e parimente evidente nelle opere esposte per questa sua coinvolgente e interessante rassegna.

Simi  Saverio de Burgis

Simi Saveroi de Burgis presenta Agato Bruno


Agato bruno

Un mondo semplice, chiaro e immediato, espresso attraverso un linguaggio artistico che gli appartiene, quello di Agato Bruno, profondamente legato alla sua terra d’origine dove ora ritorna con questa mostra personale di una ventina di opere realizzate recentemente, alcune della quale pensate proprio per questi spazi. Per certo diventa complicata e direi intenzionalmente  da lui stesso non auspicata una precisa e facile etichettatura della sua produzione che, per tali motivazioni, si connota di un’ evidente originalità. Uno spirito libero, fuori dagli schemi e dalle mode, dotato di una ben precisa identità e sentimento ideologico cui ha mantenuto fede nel tempo, aspetto alquanto raro oggi in quanto siamo sempre più adusi a facili quanto rapide virate e cambiamenti di bandiera, cedendo a opportunismi spiccioli, di ogni genere, che vanificano il credo più autentico e solido. Nell’affrontare alcune considerazioni sulle sue opere avverto la necessità di indugiare sull’uomo Agato Bruno che, cosa altrettanto rara, pienamente coincide con l’artista, inteso ancora in senso tradizionale di uomo –artista, attento e curioso studioso, fine operatore culturale, già docente e preside per molti anni nelle scuole  secondarie di istruzione artistica, che ha relativizzato tutto questo suo bagaglio di esperienze motivanti la sua ricerca attraverso una chiara e coerente appartenenza a un senso civico perseguito eticamente. Un’attività che non può non riconoscersi nella più conseguente appartenenza politica, vissuta on discrezione, comunque, pronta a confrontarsi lealmente e con una predisposizione innata rivolta a garantire il giusto rispetto reciproco, pur nel mantenimento delle rispettive posizioni, anche con chi non la pensa allo stesso modo e magari si trova  ideologicamente agli antipodi. Partendo da tali presupposti possiamo iniziare a prendere in considerazione l’odierna produzione collegata da un sottile ma ineluttabile filo rosso che cuce le opere, alcune delle quali, di primo impatto, così diverse per tecnica di realizzazione e apparentemente di soggetto. Nella sempre presente tematica sociale e politica, è, tuttavia, individuabile quale comune denominatore  di confronto, la natura e tutto ciò che da essa di fatto deriva nel bene e nel male in una sua positiva o deleteria o deleteria gestione. Il tipo di approccio e di osservazione primaria rivolta all’elemento naturale,, così come dovrebbe essere per ogni buon artista, lo conduce a fare arte nel pieno coinvolgimento e diretta partecipazione con quanto gli sta e avviene intorno. Dalla grande passione coltivata nei confronti del variegato intrigante mondo dell’incisione, in particolare di matrice nordica, soprattutto espressionista, solitamente dettagliata nei particolari e nelle  avvertito dall’autore dichiarate scelte ideologiche e politiche di denuncia, gli deriva la notevole attenzione rivolta sia agli strumenti di narrazione dei contenuti sia ai valori simbolici e formali nel rimando ai significati analogici dall’autore privilegiati. Così anche nei dipinti, come con parole appuntate su un quaderno che poi diventa libro, Agato Bruno parte da valutazioni espresse in merito a una natura matrigna e resa ancora più caotica dall’intervento interessato, avido e corruttore dell’uomo, utilizzando colori accesi a riempimento di un segno veloce che descrive pesci con bocche spalancate e biforcute terminanti con punte che ricordano tiare vescovili, edifici piacentini ani porticati in bilico e pendenti, giganteschi uccelli incombenti o rapaci sullo sfondo. Tutto sembra ricomporsi nella parte dell’orizzonte retrostante dove predominano tinte uniformi di colorazione oscillanti nelle diverse gradazioni del rosa e dell’azzurro. Dal primo olio si passa ai vellutati pastelli dove si avverte un soffuso richiamo all’astrattismo di Kandinskij, risolto, tuttavia, in un’accezione di maggiore consapevolezza interpretativa per quanto  concerne uno slancio sentimentale avvertito dall’autore a contatto con il paesaggio, espressione di una natura, in questo caso, senza dubbio  rigenerativa. Se nella crescita la natura viene costretta e avvolta da un drappo, essa riesce, tuttavia, a riaffiorare e a farsi strada creandosi un varco, e fuor di metafora, nonostante le ottusità di un potere becero e finalizzato esclusivamente a mantenere e potenziare all’inverosimile i propri esiziali interessi che proprio recentemente hanno portato l’Italia e gli italiani, come esplicitamente ci suggerisce Bruno, “alla frutta”. Da qui si passa ai palazzi rappresentativi del sistema, pubblico e privato si confondono, da Palazzo Chigi  al Grazioli, di triste, seppur recente, memoria, dalla villa di Arcore a quella in Sardegna trasformata per l’occasione, in discarica pubblica della mondezza già a suo tempo accumulata in eccesso nelle strade di Napoli, al Quirinale, sede del Presidente della Repubblica Italiana, ultimo baluardo e freno a una dilagante volgarità diffusa e che ancora si richiama con orgoglio a un’unità nazionale riecheggiata nei festoni e nei drappi tricolori srotolati sulla piazza antistante l’edificio. Questi ultimi lavori rivolti a descrivere la recente triste commedia umana di un berlusconismo imperante ma ora al capolinea, sono realizzati da Bruno cona la tecnica dell’acquerello, una tecnica difficile da padroneggiare ma molto sentita e ben assimilata dall’autore che, in tal senso, ottiene effetti di fattura briosa, raggiungendo risultati freschi e allo stesso tempo caldamente coinvolgenti risolti in un’armonia compositiva sapiente ed efficace, come d’altronde e parimente evidente nelle opere esposte per questa sua coinvolgente e interessante rassegna.

Simi  Saverio de Burgis

Giorgio Trentin presenta Agato Bruno


Caro Bruno,

 sembra che il mio destino sia sempre quello di sostituire all’ultimo istante le presentazioni, promesse agli amici, con brevi  lettere di augurio, causa pesanti e sempre più onerosi impegni di lavori imposti dal mio ufficio. Una sorta di piccolo “escamotage” non privo, per taluni, forse, del sapore, un po’ amaro d’una piccola presa i n giro, anche se ciò non è stato mai nelle mie intenzioni. Tanto meno per quanto di riguarda.

E’ vero che nel tuo caso avevo tentato disperatamente, anche perché conscio del periodo rappresentato dall’incauto ascolto di certi canti di sirene, ad esempio di quelli provenienti, in maniera così suadente, da talune persone come ad esempio il mio fraterno amico Mario ABIS docente di storia dell’arte all’Accademia di BB.AA. di Venezia, di prendere le dovute distanze e precisare i termini di un impegno in una prospettiva di tempo assai elastica. Poi, sollecitato dell’interesse, assai notevole, che molti dei tuoi disegni, tra l’altro, a mio avviso, destinati a riscontrare la loro definitiva, maggiore e più funzionale conclusione in soluzioni incisorie, ebbero a suscitare nel mio animo, commisi il malaugurato e imperdonabile errore di definire i tempi di questo mio impegno.

Ora la tua mostra non soltanto è definita nelle scadenze, ma ormai bussa alle porte, senza che abbia avuto la facoltà di stendere una sola parola.

Che dirti? Che fare se non , ancora una volta, chiedere scusa e ricorrere al solito “trucco” della formuletta legata alla letterina propiziatoria, non fosse altro che per riempire, in un modo o nell’altro, una parte dello spazio già preventivato e calcolato, per la presentazione, nella impaginazione del catalogo e dirti, ora tuttavia, con maggiore serietà, che gli auguri in questi casi, come nel tuo, ho sempre sentito di doversi esprimere non gratuitamente, ma soltanto a coloro in cui credevo.

Ritengo, infatti, che in questi tuoi fogli, dalla grafia intensamente elaborata e tecnicamente già assai raffinata, attestante, già, del possesso di un mestiere non trascurabile, portato a procedere in profondità, in precisi e costanti, crescenti verifiche, ritengo, ripeto, che in queste pagine vi sia, senza alcun dubbio, la testimonianza di un non comune impegno umano . Un impegno teso, in una, ci sembra, coraggiosa e chiara consapevolezza di scelte ineluttabili e necessarie, nella prospettiva di uno sforzo doloroso e drammatico di redenzione e di riscatto, di liberazione delle genti da condizioni millenarie sottomissioni, di rinunce, di paure e di angosce lontane, di pregiudizi, qui tradotti nella forte suggestione di cupe allucinazioni di una atmosfera che sembra chiaramente richiamarsi alla visione di un BOSCH.

Quell’impegno che, particolarmente in momenti come questi  di così sconvolgente travaglio di una nostra società in crisi, e nella misura del potenziale di fiducia dell’uomo in esso implicito, non può non suscitare profondo interesse e commossa tensione in quanti ancora fermamente credono nel possibile recupero dell’individuo avvertito nello spazio e nelle dimensioni di una sua reale autonomia e di una sua nuova, autentica dignità. Certo si tratta di una strada dura e di scelte che, come sempre si dovrà e dovrai pagare caramente.

La coerenza e il coraggio, ne sono convinto, tuttavia, non ti mancano e altrettanto convinto sono che, pur attraverso anche errori inevitabili e difficoltà, saprai garantire alla tua ricerca il costante punto focale di riferimento e di certezza nella verifica, rappresentato dall’uomo. Quell’uomo che oggi, non scordiamolo, è considerato il vero autentico e reale nemico di quella civiltà dei consumi, non disposta ad ammettere e ad acconsentire autonomie e libertà decisionali di sorta, in cui si identificano tragicamente i termini sempre più esasperati, e senza vie d’uscita, della crisi insanabile della società borghese.

Quindi, ancora una volta, auguri vivissimi pregandoti di perdonare il carattere maldestro, forse anche sgrammaticato e scorretto, di queste mie brevi e affrettate, ma sincere parole.

 

 

                                                                                                                                              Giorgio Trentin

 

Venezia, 23 marzo 1979    

Presentano Agato Bruno


FRA TECLOLOGIA E NATURA, L’UOMO

Per Agato Bruno

Questa non è una presentazione né, tanto meno, un saggio critico, vuole essere solo una lettera ad un amico che si accinge ad inaugurare una mostra.

Ho proprio pensato a te in questi giorni di primavera, mentre, curioso, scrutavo il giornaliero germinare delle foglie del mio giardinetto; mi sono tornati alla mente i tuoi girasoli sempre più protesi nel loro divenire vegetale, con quei petali rotanti verso spazi che si moltiplicano e si distendono, che inglobano nel continuo ritmo di crescita le testimonianze di una civiltà ogni giorno più fossile.

Ed ecco che acquistano significato le rotelline e gli ingranaggi delle macchine ormai inutili mentre il cigolio diviene flebile in questo strano cambio di natura e tecnologia. Ma riaffiora, a questo punto, la mano dell’uomo tesa ad annodare funi e gomene quasi a voler imbrigliare il mondo nella volontà dell’azione, per riportarlo a valori ancora possibili per un recupero civile dell’umanità.

Cos’ questi nodi mi sembrano diventare emblemi anche di un modo di agire, del quotidiano scontro della realtà, di una insoddisfazione di fondo che ha bisogno della tela o del foglio di carta per tramutarsi in linguaggio e verifica di se stessi.

Venezia, aprile 1977

                                                                                                                                    Marcello Colusso

 

 

.. E la pittura che non muove da empirismi critici o letterari, ma invita alla contemplazione, indicando al pensiero di chi guarda remote forme che per forza del colore si identificano in oggetti; essi formano il quadro in quella sola calma atmosfera di chi persegue in un linguaggio comune agli altri, l’unica linea chiara per una più ampia comprensione.

Anche uscendo da un linguaggio comune, farsi capire dai più come oltre che far pittura fosse un messaggio interiore per un suo preciso scopo: queste sue ultime cose denunciano chiaramente questa sua volontà e i non pochi punti raggiunti.

1976

                                                                                                                                            Mario Abis

 

 

Agato Bruno è la dimostrazione, nella sua più recente produzione, di come sia possibile fondere due culture regionali e di come da tale fusione possa nascere un prodotto pittorico sicuramente interessante. Infatti la acquisizione del colore veneto dà un calore via via sempre più caldo alla tematica che il Bruno ha assorbito dalla scuola di Napoli.

Forse è per questo che il fiore esce ad invadere la superficie e domina nella sua “traamutazione”, qui ancora in fase di religiosa o “freudiana” iniziazione, il groviglio, la confusione e la esasperazione della “prima morte ecologica”; ovvero, cioè, l’essere umano che prima è sempre presente nell’opera (partecipe o contrito – in Primis-, o rappresentato  dalla materia meccanica, ora sostituita dalla forza  sconosciuta che “il grande fiore nuovo” emana, o dalla farfalla: simbolo fallico, se vogliamo, ma simbolo di un bisogno amoroso che sia concettualmente amorale, nel sens di negazione del presente…

1976

 

                                                                                                                                     Mario Marconato

 

 

Al di là della presenza plastica e cromatica, al di là delle forme perentorie che si situano nello spazio con il loro connotato preciso e comune, c’è un discorso che Bruno si impegna a sviluppare con coerenza e decisione; cioè un discorso che travolge/supera il senso grafico, l’aspetto coloristico, l’epidermide di quanto sostanzia laa realtà – la realtà fisica.

In effetti la ricerca di  Agato Bruno è essenzialmente un puntuale (e puntiglioso) confronto con il mondo di oggi, meglio una investigazione della realtà. E l’operatore che conserva una notevole carica di umanità, non può assumere, è chiaro, se non una posizione polemica: muovendosi attraverso la visualizzazione di momenti – elementi tipologici della civiltà delle macchine, della civiltà dei consumi, così ricche di abbaglianti presenze, tanto prodighe di miti…

1975

                                                                                                                              Vincenzo Perna

 

* i testi di Marconato e Perna sono estratti di precedenti presentazioni

La pittura di Agato Bruno


te hanno impiantato pagine importanti. Fra questi lacerti emblematici che si chiamava e ancora si chiama “Terra di Lavoro” Bruno ritorna sull’abbrivio del riguardare appunto all’indietro, non per passione di archeologo o storico, ma per compito d’artista che vive e intuisce il presente e dai reciproci riverberi delle stagioni presenti e delle passate trae materia per la sua invenzione/comunicazione artistica. In questo scorcio finale di secolo, che coincide con la conclusione di un millennio, pesanti nubi offuscano l’orizzonte dell’umanità: l’incidere lento e inesorabile del deserto, ad esempio, e gli incrementi demografici mondiali, per non dire di altri rovinosi squilibri che minano il vivere e il sopravvivere sulla faccia della terra. E ancora una volta non può non tornare in primo piano il tema del pane, atavico problema di generazioni e generazioni che ora nuovamente Bruno ripropone come fattore esistenziale, come valore esistenziale, ma anche come elemento di una cultura non solo materiale. Se la nostra storia, se la civiltà dell’uomo non possono prescindere da questo sostegno basilare della vita quotidiana, sappiamo anche che una rivoluzione non si fermò innanzi alla provocatoria offerta di “brioches” da parte di una regina. Quella rivoluzione ebbe il passo lungo, superò le Alpi e dilagò fin nella “Campania Felix”dei Borbone: i francesi a Caserta entrarono nel 1806 e condizionarono perfino la manifattura del pane. Alla tradizionale pagnotta rotonda si aggiunse la “pagnotta alla francese” caratterizzata per alcuni tagli superficiali sulla crosta superiore, e al lungo filoncino napoletano si aggiunse “lo sfilatino alla francese” impastato con fiore di farina, bianchissimo e leggero, dalla crosta croccante per i rilievi e i tagli obliqui nella parte superiore: insomma una versione più larga e più corta della baguette, dal peso di circa 500 grammi(cfr. Domenico Ianniello, “il pane francese a Caserta”, in rivista “Frammenti anno 2° -gennaio 1993). L’innovazione riguardò, quindi, non solo la qualità del pane, ma anche i tipi della panificazione locale. Da poco meno di 200 anni il pane a Caserta si fa cosi. Bruno viene a conoscenza di questo fatto storico e  questo piccolo evento rimette in moto il meccanismo dell’immagine, saldamente ancorato a taluni capisaldi: la Reggia Vanvitelliana, S. Angelo in Formis, le “matres matutae”, le sete di San Leucio. Bruno rivede questa testimonianza e quelle pagine dell’arte /Bosch, Bruegel, Piero della Francesca) che soggiogarono la sua sensibilità e le ricontestualizza trasferendo tutto intero il “peso specifico” dello stralcio architettonico o artistico o artigianale. Cioè gli squarci del Palazzo Reale e della Basilica di S. Angelo in Formis, cosi come le misteriose “madri di tufo” sono state estrapolate e riproposte con tutta la loro forte “personalità”, anche nei dettagli, come “campi” non estrinseci, né refrattari al colloquio con altri capisaldi dell’arte italiana ed europea. Non solo, ma il dialogare di Bruno – che va a sussumere spirito e forma della rivoluzione francese, e di questa anche le propaggini che si attestarono nella città voluta da Carlo III di Borbone –fonde storia e arte, vita e cultura in una reinvenzione talora ludica, talora irridente, talora ironica, talora amara. Il pane come elemento non di mera raffigurazione, ma di reinterpretazione svolge appunto un ruolo “maieutico” con la sua elementarità rispetto a riproposizioni e a ipotesi culturali complesse. Se la sostituzione dei fantolini sulle braccia della madre di tufo si pone in chiave di lettura diretta e immediata (la “mater matuta” come dea della fecondità, dell’abbondanza ecc.), ben pi ù sottile la riflessione pittorica sottesa  al lavoro “ipotesi per una pala” nel quale una “Mater”  è sospesa al filo che discende dalla volta vanvitelliana del balcone reale con evidente richiamo alla pala “Sacra conversazione” di Piero della Francesca conservata a Brera. Se nel vestibolo della Reggia casertana può sorprenderci un cappottone appeso ad una colonna, sovrastato da una coppola che sembra piuttosto una pagnotta tonda, mentre da una tasca fuoriesce una “baguette”  (anzi lo sfilatino alla francese), Bruegel calato al sud celebra (v. “la Mietitura” Metropolitan Museum of Art, New York city) nel parco vanvitelliano la mietitura intorno ad una albero: forse un rinato Albero della Libertà. Opera felicissima questa, intitolata “se Bruegel venuto al sud…”, anche perché  nonostante la serrata trama dei richiami storici – culturali – iconografici l’autore si sente appagato da una propria interna libertà. E cosi via, da “Pioggia di fiori, pioggia di pani, a “Camposerico perché il pane ruoti, fino ancora a “Il pane non ha prezzo” e “Arrivano i francesi”, l’ironia (che è odio-amore) di Bruno quanto più appare legata e legarsi a contesti artisticamente “imperiosi” di per se intangibili, tanto più sorprendentemente trova l’appiglio perché nella visione data o ipotizzata compaia – subdola presenza – lo sfilatino alla francese. Superfluo ogni ulteriore  suggerimento di lettura per la singola opera o per l’intero ciclo, tra l’aristocratica “brioche” di Maria Antonietta e il popolare “rivoluzionario” sfilatino. Ancora  una volta Bruno conferma il più autentico interesse per la condizione e il destino dell’uomo, a partire proprio da quel livello esistenziale – il vivere, il sopravvivere – che è del singolo come dell’intero genere umano. I tempi della storia e della civiltà sono stati quasi sempre contrassegnati dalla lotta per la sopravvivenza, ancor prima delle pagine scritte e delle immagini rupestri; e via via  l’assalto al forno di manzoniana memoria. “Pane amaro” di Silone, la sequenza della conquista del pane  in “Roma città aperta” di Rossellini. Storie di ieri, di oggi purtroppo, e purtroppo di domani. Tutto questo è presente e non soltanto sotteso nei lavori bruniani di questa metà degli anni novanta. Il millennio sta per essere doppiato lasciando alle spalle un secolo ben ricco di rivolgimenti ideologici e culturali. Abbiamo assistito alle mutazioni, agli stravolgimenti e agli snaturamenti della pittura e della scultura fino a ritrovarci nuovamente con pennelli e scalpelli, tra calchi e forme. Non è il caso di ripercorrere qui gli stravolgimenti di una storia complessa, che chiede di essere decantata ancora di scorie e di esibizionismi. Avviandoci alla conclusione, basta qui dire che Bruno no è stato mai in realtà un “a-figurativo”. Si, la sua partecipazione al gruppo “ Proposta 66 – Terra di Lavoro”, come altrove abbiamo rilevato, fu laterale; ed i suoi successivi esercizi d’arte non sono mai pervenuti alla dissoluzione della pittura: se or qui, or li “a-figurale”, ma comunque dilatata o aggrumata su tessiture pittoriche, tra bagliori  accecanti e voluttuose profondità, che non hanno mai inteso annullare la forma, laa figura, la cosa. In queste opere recentissime Bruno porta a sintesi la sua accuratezza costruttiva, il suo dipingere terso, i nodi di luce o di buio in impaginazioni che alla frontalità preferiscono i tagli verticali, i punti di vista obliqui. Rispetto alla staticità , alla stabilità, alla monumentalità (in sostanza) l’artista ci induce a ripercorrere visioni trasversali oppure verticalmente strette che ci consentono di andare un po’ oltre gli strati superficiali ed ufficiali, e di comprendere quindi i meccanismi e le logiche (antiche e meno antiche) del predominio e della conservazione del predominio.

Roma, aprile 1996

 

                                                                                                                             Vincenzo Perna

Lezione di filosofia estetica


FILOSOFIA

Il colore è tanto acceso che infiamma l’immagine, ne brucia lo sguardo o il tempo: è questo prima un metaplasmo, poi una metafora.

L’idea del sole come idea di luogo che nega la realtà e allora il luogo diventa il simbolo di un’altra cosa,  e forse già il tempo o la materia dell’essere: Bruno è nato dalle stesse parti dove è nata la filosofia e all’inizio della filosofia, a partire da Parmenide e Zenone o Melisso di Elea, congiungeva il tempo all’essere e addirittura ne con fondava la materia.

L’arie e il tempo come misura o materia di scena nella filosofia, e qui come materi  e scena della pittura, e poi al loro interno il formarsi incendiario delle immagini a forma di sole o a forma di quelle figure interne alla solarità e alla scena del sole che sono state sempre presentate come lingue e di cui siamo soliti usare poi la metafora quando appunto parliamo di lingue di fuoco.. Immagini, metafora e tempo. Cosi in questa pittura che è tutta una sceneggiatura di lingue di fuoco, in un paesaggio misto spesso tra terrestre  e aereo di piccole figurazioni ardenti e frequentemente attive (appunto in lingue di fuoco) nella metafora non delle cose o nel realismo freddo delle cose, ma in quella dell’essere e nell’idealismo caldo delle pose.

FILOSOFIA E PITTURA

Probabilmente il progressivo venir meno dell’autenticità e della responsabilità nelle esperienze artistiche attuali ha molto più a che fare di quanto non si pensi con lo smarrimento, l’assottigliamento delle capacità di produzione simbolica sociale, tanto che ci si può domandare, in termini forse ancora più drammatici di quanto non si sia fatto finora, quale sia lo statuto e la reale incidenza di quel diritto all’esistenza dell’arte di cui parlava Adorno, un’arte tuttora disperatamente impegnata nel compito di giustificare se stessa, trasformata in un estenuante commento della propria sterilità” : cosi è arrivato a dire Massimo Carboni in ‘Aut-Aut’ di maggio-agosto 1995 al titolo ‘Pittura e Filosofia’. E probabilmente la colpa c’é. Probabilmente, per esempio, la critica non critica, omologa e non ama il proprio sapere come sapere di vita: la critica non è il sapere sull’arte, ma altro, e cioè il sapere che fa dell’arte una via dove incontrare la vita. Le parole di Carboni sono gravi, esse dànno la colpa all’arte e forse ha ragione, ma noi sappiamo che l’arte è simbolica a una condizione soltanto: che essa sia metà di quello che si dice di lei, e l’altra metà è appunto la critica e cioè il nostro linguaggio di vita. Sembra difficile eppure è un esercizio corrente, vediamo una cosa e ci viene da dire, da parlare, di essa, di noi, della vita. La critica ha perso la sua dimensione letteraria, la sua passione di fantasia parlata e la sua originaria vocazione di essere filosofia. Romanzo e poesia.

PITTURA

In principio la pittura, la sua macchina di revisione poi: la moviola.

In principio dunque la pittura come presa e come macchina da presa o di contatto: e allora l’occhio, la mano, la cosa che appare. In principio l’iconismo dell’espressione; l’unità di tempo, di luogo e di azione come unità istruttoria della scena vista e visiva e anche come quinta di ciò che è possibile nel doppio rapporto con l’arte: il segno. Il senso, la cosa, la posa; il nome e il fantasma. Il tutto come cosa, patema e gesto d’azzardo: ludus e pthos nella tecnica di una psicologia che fa la spola tra pulsioni forse senza direzione. Questo perché probabilmente l’oggetto della vista è archeologico e costituisce quello che può essere individuato come principio artistico; il problema è: che cosa e come si può eventualmente poi assumere questa cosa quale principio esplicativo e di artisticità?. E’ una forma, è una figura, è un gioco di forme e di figure, è un rapporto di presa e di sorpresa, di noto e ignoto, un atto di contatto, di distacco, di visione o di revisione, di stasi o di fuga, di soggetto e di oggetto, d’autore o di lettore, di verità o di spettacolo eccetera; pluralità, slittamento, sparizione, esplosione e implosione; di che si tratta? C’è una parola intensamente intrigante di Vincenzo Perna che ci fa strada: quando parla di ‘macro-pittura’, nel senso di una pittura estesa che paela della pittura, ne fa scena come calcolo anche di prospettiva e in rapporto di proiezione con l’arte, come gioco di questo calcolo.

E’ a questo punto allora che adesso parliamo dell’invenzione che più di ogni altra scopre l’intera posta in gioco: quella che abbiamo chiamato la macchina di revisione della stessa pittura. Consiste essa, la macchina,di  una struttura di due fulcri rotatori, posti a circa un metro di distanza l’uno dall’altro, in modo che il rotolo della pittura come un film passi tra i due come una sequenza continua di fotogrammi, e lo spettatore ne azioni personalmente e a distanza il pulsante. Perna ne parla come di un telero, e in effeti l’idea e la stessa di quelle specie di videorama che sono i grandi teleri dei grandi artisti veneti, Veronese, Tintoretto: idea rinascimentale, in desiderio di cinema. Questa macchina fagocita la pittura e ne interiorizza  l’dea nell’idea stessa della propria tecnica di macchina di revisione, ed è questo che alla fine vince e avvince. Cosi l’espressionismo morfematico della pittura diventa un’altra cosa: perché l’installazione lo medializza ulteriormente, e allora tutta l’operazione (forma, contenuta) si sposta. A questo punto allora di che dobbiamo parlare? Della pittura o della istallazione? E quale medium/mediazione/medialità? E che da qui prima la pittura si propone il problema dell’essere della pittura, e poi l’istallazione introduce l’idea della camera ottica per vederne la prospettiva, la proiezione nel campo lungo dell’arte e la sua stessa genealogia. Medialismo e immedialismo, siamo al punti di uscita forse definitivo dell’arte, e dallo sguardo o dal tempo dell’arte.

 

Valdagno, agosto 1995

 

                                                                                                                                 Salvatore Fazia          

Bruno Agato secondo Maro ABIS


…………………………

Affrontare, spiegare.

Fare il proprio lavoro oggi è estremamente difficile.

Strano ed umano tutto questo

E’ questa sempre una ricerca di se stessi attraverso stilemi o anche simboli del nostro tempo; quasi fossero sempre ideogrammi posti in proposito di essere emblemi che ognuno crea per sua immagine, a sua similitudine. Questo, forse per capirsi o, per farsi capire di più, anche se in fondo questo è UN SUO “ gergo “ inteso per essere, esplicazione di ciò che si ha dentro. E’ quello che si vuole esporre per proporre in maniera di rendere proprio ad ognuno il suo pensiero.

Pensiero e forma come conseguenza di qualche cosa di personale che stia al di la di concetti che, diciamo un po’ bene fra noi, sono ormai consunti, triti, tristi. Questo modo di essere che muove entro concettuazioni attuali fatte da oscuri letterati angolati su impossibili ricerche non litoranee e, in fondo in fondo, inavvicinabili per i loro “concettiformi” pensieri elucubrati in momenti tristi odi sole acceso perpendicolare – pur di essere fuori da consuetudini, ma entro a norme ormai ben precise di onanismo in biaanco iride, acceso da cupidigia di pensiero per il possesso di “ beni “ che fuggono.

Il rincorrersi in fondo è un modo ela pittura ne è in conseguenza la eterna palestra in cui le vittime, da sempre, sono gli autori, inconsapevoli, essi si affannano entro lì astratto giro dei non impegnati, nel vuoto di parole che è sempre il non senso del “vuoto ombra”  o del –sole rosa- spazio e azione  in un contesto assurdo e quanto mai sporadico fatto di individui che partecipano solidali solo con se stessi entro uno spazio imbecille carico di sofismi (ohimé) non più letterali ne polemici, ma solo rinunciatari.

Ne consegue che chi con il suo lavoro non sa inserirsi in tutto ciò, occiamente, si pone fuori dal suo tempo. Però, dai tanti esclusi contro i pochi eletti, cercheremo di ricavarne quel tanto, che in parte ci appartiene non fosse altro che per la fiducia riposta su un serio lavoro di chi, seguendo nel suo essere logico, il tempo e le mode che ne conseguono si propone in soluzioni più ovvie e fa parte di esse. In questa linea di vita nel suo modo di percorrerla facendo pittura, BRUNO AGATO ci propone le sue ultime cose. E’ pittura che non muove da empirismi critici o letterari, ma invita alla contemplazione, indicando al pensiero di chi guarda remote forme che per forza di colore si identificano in oggetti; essi formani il quadro in quella sola calma atmosfera  di chi persegue in un linguaggio comune agli  altri, l’unica linea chiara per una ampia comprensione.

Anche uscendo da un linguaggio comune, farsi capire dai più come oltre a che far pittura  fosse un messaggio interiore per un suo preciso scopo: queste sue ultime cose denunciano chiaramente questa sua volontà e i suoi non pochi punti raggiunti

Venezia, settembre 1976

                                                                                                                                              Mario ABIS

Sofocle Edipo Re

Povero me, io mi dannerò. Non c'è rimedio. Edipo Re mi condanna. E Sofocle non erra.

CORO
Mi sia dato serbare reverente purezza,
di atti e di parole,
secondo le leggi che vigono eccelse,
nell'alto cielo generate.

L'Olimpo soltanto ne è padre
non le produsse
parole di uomini effimeri, né mai
oblio le assopirà.
Vive in esse un dio possente
che non invecchia.

La dismisura genera il tiranno,
la dismisura, se ciecamente
in eccesso si sazia
senza cura del bene e dell'utile,
una volta ascesa agli spalti supremi,
precita in un fato scosceso,
doveappoggio no ha di valido piede.
La lotta che giova alla città
prego il dio
che mai vogli sopprimere;
e il dio non cesserò
di avere a mio patrono.

Chi a vie di superbia
con parole con gesti si volge,
e Dike non teme
e non venera i simulacri degli dei,
destino sinistro lo colga,
per il suo fasto miserabile.
se guadagno, non guadagnerà
secondo giustizia,
se da sacrilegi non si asterrà
o se vaneggiando
toccherà l'intagibile.
Chi allora vantarsi porà
di stornare dalla sua vita
gli strali degli dei?
Se questo agire è in auge,
perché ancora danzare dovrei?

Mai più, devoto pellegrino,
andrò all'ombelico inviolabile del mondo,
né al tempio di Abe,
né ad Olimpia,
se queste cose
tutti gli uomini concordi
non mostreranno a dito.
Ma tu, dominatore,
se rettamente così sei chiamato
o Zeus signore del mondo,
non sfugga questo a te
e al tuo potere sempiterno.
Dispregiate ormai sbiadiscono
le antiche profezie d Laio,
Nè in alcun luogoalcuno di onori è insigne
Apolo.
Muore il culto degli dei.

Povero me, io mi dannerò. Non c'è rimedio. Edipo Re mi condanna. E Sofocle non erra.

Povero me, io mi dannerò. Non c'è rimedio. Edipo Re mi condanna. E Sofocle non erra.

CORO
Mi sia dato serbare reverente purezza,
di atti e di parole,
secondo le leggi che vigono eccelse,
nell'alto cielo generate.

L'Olimpo soltanto ne è padre
non le produsse
parole di uomini effimeri, né mai
oblio le assopirà.
Vive in esse un dio possente
che non invecchia.

La dismisura genera il tiranno,
la dismisura, se ciecamente
in eccesso si sazia
senza cura del bene e dell'utile,
una volta ascesa agli spalti supremi,
precita in un fato scosceso,
doveappoggio no ha di valido piede.
La lotta che giova alla città
prego il dio
che mai vogli sopprimere;
e il dio non cesserò
di avere a mio patrono.

Chi a vie di superbia
con parole con gesti si volge,
e Dike non teme
e non venera i simulacri degli dei,
destino sinistro lo colga,
per il suo fasto miserabile.
se guadagno, non guadagnerà
secondo giustizia,
se da sacrilegi non si asterrà
o se vaneggiando
toccherà l'intagibile.
Chi allora vantarsi porà
di stornare dalla sua vita
gli strali degli dei?
Se questo agire è in auge,
perché ancora danzare dovrei?

Mai più, devoto pellegrino,
andrò all'ombelico inviolabile del mondo,
né al tempio di Abe,
né ad Olimpia,
se queste cose
tutti gli uomini concordi
non mostreranno a dito.
Ma tu, dominatore,
se rettamente così sei chiamato
o Zeus signore del mondo,
non sfugga questo a te
e al tuo potere sempiterno.
Dispregiate ormai sbiadiscono
le antiche profezie d Laio,
Nè in alcun luogoalcuno di onori è insigne
Apolo.
Muore il culto degli dei.    

Uomo suicida per amore, donna riottosa per disdegno.

Donne, la donna mia ha d'un disdegno
sì ferito il me' core,
che se voi non l'atate  e' se ne more!

Ella l'ha disdegnato così forte
perch'i' guarda negli occhi di costei,
che ha ferito un mio compagno a morte;
e sol per questo la miraro i miei.
Ond'i' vi dico ch'i' m'ucciderei
se 'l su' dolce valore
non avesse pietà del mi' dolore.

Questa mia bella donna che mi sdegna,
legò si stretto il meo cor quando 'l prese,
che non si sciolse mai per altra insegna
che vedesse d'Amor: tantol'accese
d'una fiamma del su' piacer, che tese
lo su' arco ad Amore
col quale ne pinge l'anima de fòre.


[GIANNI ALFANI, poeta sicuramente fiorentino, poesia databile dopo il 1243. Chiunque sia veramente costui - cosa da erudti - è certo che un uomo del Dugento aveva tanta sensibilità da dichiararsi pronto al suicidio per una donna riottosa. Noi maschi siamo allora tanto insensbili, crudeli e perfidi verso una donna? Qui non si direbbe. E quale esemplare umano di sesso maschile non ha vissuto strazanti  e melanconici momenti per una donna che manco ti guarda. Amatissima eppure distante, altera, INSENSIBILE. La donna, ogni donna può dire altrettanto?]

Come è buffo questo mondo!


Non so se quello che sto facendo è plagio passibile di enormi sanzioni penali. Ma penso di no. Dell’originale qui nulla rimane. Ho fertile fantasia, ho penna fluida, ho senso ironico e so essere beffardo con tutti soprattutto con me stesso. Qualcuno mi dirà: guardone. Qualche altra mi ha detto satiro lussurioso; i il perfido è epiteto costante contro la mia modesta personcina.

Mi difendo: non sono guardone: ad 80 anni la fiamma del mio sesso è talmente al lumicino che la rada luce basta ed avanza nel mio intimo per aver voglia di sbirciare nei talami altrui. Guardone dell’anima, delle anime femminili, dell’anima erotica delle donne, beh! quello sì: è peccato? Me ne fotto; è crimine? Quello lo escludo, ho sostenuto tutto gli esami in Giurisprudenza e la mia vita successiva è stata solcata da codici, testi unici, regolamenti,  circolari e roneate. Perfido? Ditemi voi se è perfidia: mi presento virtualmente per quello che sono con l’età che ho e dichiarandomi fedelissimo a mia moglie. Tante tardone si incantano, arrivano persino a corteggiarmi. Scocco qualche astuta domanda. Ci cascano, cominciano a confessarsi: che guazzabuglio, etico, esistenziale, erotico! Se ne pentono e mi aggrediscono con tutte le contumelie del caso. Non sono io la vittima? Non sono loro le perfide?

 

Mi insinuo in un  blog, luccicante, perlaceo: blog di donne, donne che si dichiarano audaci sol perché pensano che travestire le loro fantasie in impossibili realtà sia essere audaci e credono persino di raccontare e di raccontarsi audacemente.

Ne ho tratto copia. Una miniera. Un paradigmatico mondo femminile, scarno quanto velleitario, l’onirica discesa nel vero, il vero evaporante nella scusa di sé dei peccati agognati e mai consumati, e quell’unico momento d’amore, persino prolifico, ma rivolto all’uomo sbagliato, in modo errato, coi sensi infuocati ma solo quela volta  quando non doveva essere. E quell’uomo sbagliato, quel coito alle dieci del mattino,  il peggior momento copulatorio per ogni esemplare maschile dotato quanto si voglia, diviene il prototipo di tutti gli uomini, il sigillo spermatico di tutta quell’altra metà che sta sotto il cielo. Laido, come laidi tutti, laido il suo copulare senza preservativo, spargente, insozzante fighe e lenzuola, come sarebbe costume generalizzato di tutti gli adulti maschi.

Il maschio è condannato inflessibilmente, senza appello, lurida bestia. Sia vecchio sia giovane, sia adulto, sia paterno, sia amico sia bullo d’angiporto.   Lei si agghinda, forse ha marito, forse ha altri amanti, ma pronuba l’amica, si reca in casa altrui per incontrare lui. E lui ” Entrò frettolosamente, quasi scansando il corpo di Serena; lei gli sorrise cercando i suoi occhi - “Guardami” - urlò muta.
Ma i suoi occhi erano già spenti, le palpebre calate e quelle mani dappertutto, mani ladre, febbrili, che palpano, prendono, spogliano, godono. Velocemente tirò giù la cerniera, abbassò i pantaloni, le allargò le gambe e, dopo aver ricacciato indietro la cravatta, la penetrò.”

Non finisce qui. “L’orologio sulla parete segnava le 11.00. Seduta sul divano, Serena beveva caffè e ingoiava cioccolatini. Anche stavolta non aveva provato niente. Nessun piacere. Nessun orgasmo. Solo finzione. Si chiedeva come fosse possibile che i suoi uomini non si accorgessero mai di niente, andavano via soddisfatti, fieri della loro prestazione, rassicurati e gratificati dai gemiti e dal respiro ansimante di lei.
Forse lei era proprio una brava attrice. D’altra parte recitava da sempre e aveva un ruolo ben definito: lei era la donna perfetta e la donna perfetta non può essere frigida. Lei era l’amante, la donna ideale prodiga di sorrisi e di spensieratezze, ben vestita, curata e profumata, dolce e remissiva, provocante e puttana.
Li faceva sentire al centro del mondo, lei, quegli uomini boriosi ed egoisti. Stupidi bambini capricciosi!
Le mogli a tirar su la prole e loro a reclamare l’attenzione usurpata tra le cosce docili di una femmina carnale!
Serena si alzò di scatto, accese la radio, prese le candele e le posò sui bordi della vasca da bagno. Aprì il rubinetto dell’acqua calda, uscì fuori dal vestito attillato e si guardò nello specchio.
Il suo viso era intatto: le pagliuzze dorate dell’ombretto, il lucido del rossetto, il velo satinato della cipria, i capelli acconciati, nulla era stato sfiorato, neppure con un leggero tocco di dita.
Il suo corpo, invece, era stato insozzato di sperma infedele e indifferente.”
Già mi dico, ma perché codesta dona va in casa altrui per chiavarsi un uomo frettoloso? Non le dà manco piacere. E allora perché gli permette di copulare. Le fa senso lo sperma del maschio? Ma siamo tutti nati da uno sperma maschile anche le donne, soprattutto le donne. Ma a noi maschi perché non devono ripugnare le loro “regole” lunatiche. Perché non ci debbono fare schifo. A me fanno schifo ad esempio. Ma io amo le donne. Mia madre è donna. Non ho sorelle. E lei non sa che il padre era uomo e lei nacque per quello sperma là diffuso nella vagina della madre. Perché solo noi maschi dovremmo essere porci? Perché dovrei essere io un porco? Perché non dovrebbero essere loro le porche. Ma diciamolo: tutti quanti e tutte quante un porcile alla Pasolini. Solo che io nonostante le accuse amo quella donna, ne sono perfidamente attratto. E forse anche lei, dannata forse ad amare ciò che disprezza, con una mente vanesia ed isterica, come avviene a noi maschietti ormai in disuso. Abbiamo combattuto le nostre battaglie come i vecchioni sulle porte Scee, friniamo sugli alberi peggio delle cicale e come sto adesso facendo, discettiamo all’infinito sul nulla  ma anche su donne:  dicano di noi quel che vogliono ma senza noi non saprebbero vivere (ed invero anche noi senza di loro). Che buffo il mondo.  

Liddru Curtu, prete longilineo.




Ne avevo qualche dubbio prima, ora ho quai certezze. Qui un impettitto Liddru Curtu - amico mio d'infanzia, insieme nel seminario sempre a confabulare nella mezz'ora di ricreazione  nella parte maggiore del grande spiazzo interno di quel maniero chiaramontano. In fondo il porcile ove buttare i tanti residui dei pasti per duecento seminaristi e poi davvero grosso il verro veniva sacrificato nelle feste natalizie perché allora a Natale non si andava a casa.
Padre Calogero Curto, canonico oggi mi pare - non so se hanno fatto monsignore anche lui, pur sempre tardivamente - qui mette un tocco eretico: niente più stola, niente cotta. Solo berretta in testa e pastrano lungo  e nero. Longilineo come è (o come era) ci fa più bella figura, è più maschio. E a ben vedere è il solo maschio in quella procesioncella tutta al femminile. I maschi a Racalmuto desertano (o meglio disertavano ché oggi tantisi vanno redimendo e tornano a pregare persino in ginocchio sui freddi marmi delle algie chiese racalmutesi).

Una sola nota dissidente: ma padre Curto è di San Giuliano, che c'entra dunque il Carmine di padre Puma?