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venerdì 21 novembre 2014

Risse o non risse: GRANDE GASPARE

Risse o non risse: GRANDE GASPARE
 
PARLA GASPARE AGNELLO
E’ da diversi anni che nutro il desiderio di scrivere del mio lungo e intenso rapporto personale con Leonardo Sciascia. Non l’ho fatto per pudore, per paura di violare la memoria di un uomo che non può più dire la sua verità, per non essere accusato di millantato credito.

Però tanti critici letterari di grande levatura mi hanno detto che io ho il dovere di scrivere tutti i ricordi di questo mio intenso e importantissimo rapporto di amicizia che nasce negli anni cinquanta del secolo scorso che ormai sono sbiaditi. Ne scrivo oggi e spero di sviluppare questi miei concetti in una pubblicazione.
Come e quando è nata la mia amicizia con Leonardo Sciascia? Non esiste una data precisa né io la posso ricordare. Posso solo dire che io e Nanà facevamo parte dello stesso circolo didattico di Racalmuto dove lui insegnava come maestro di ruolo e io come maestro di scuole sussidiarie.
Capitavano molto spesso riunioni comuni degli insegnanti di Grotte e di Racalmuto e certamente in quelle occasioni ho conosciuto questo grande maestro.
Il primo intervento di Sciascia che ho avuto modo di ascoltare e che ricordo perfettamente dovrebbe essere dell’anno 1956 quando ci fu una riunione di insegnanti in una saletta della chiesa madre di Racalmuto per discutere dei programmi della scuola elementare approvati nel 1955 e che dicevano, grosso modo, che fine e coronamento dell’insegnamento è la religione. La questione oggi sembra paradossale ma i programmi del tempo sostenevano questo concetto su cui si aprì un lungo e animato dibattito.
Tutti gli insegnanti presenti hanno chiesto insistentemente un parere di Sciascia il quale si schernì stancamente mentre fumava la sua solita sigaretta. Ma, vista l’insistenza, si è alzato e ha detto seccamente: ma che volete, il 1789 è ormai è passato da quasi due secoli.
Poche parole di grande significato che hanno gelato l’assemblea e hanno indotto tutti a riflettere sul senso della storia.
Sempre nel 1956 alcuni maestri di Racalmuto sono venuti a Grotte per vendere ai colleghi di Grotte il libro del collega Sciascia “Le parrocchie di Regalpetra”. Lo comprai con la somma di mille lire che per me, che guadagnavo sedicimila lire al mese, era un somma veramente importante.
Lo lessi e, pur non avendo gli strumenti critici che possiedo oggi che ho ottanta anni, ho detto a me stesso: questo è veramente uno scrittore e certamente avrà successo. Mi fu facile profetizzare il grande successo di Leonardo Sciascia.
In quello stesso anno si tenevano le elezioni per il rinnovo dei consigli comunali. Io ero candidato a Grotte per la lista del Blocco del Popolo che aveva come simbolo Garibaldi e fui eletto Vice Sindaco, mentre a Racalmuto c’era una lista di sinistra capeggiata da Eugenio Napoleone Messana che aveva come simbolo un uomo che spezzava le catene.
Andai a Racalmuto a tenere un comizio per sostenere la lista di sinistra che portò Eugenio Messana a diventare Sindaco di quel centro. Prima di iniziare il comizio mi avvicinò Sciascia pregandomi di non citare il suo libro, come facevano tutti gli oratori di sinistra, e questo per evitare che lo potessero catalogare come scrittore di parte.
Io promisi e non mantenni. Fu più forte di me e iniziai dicendo che l’orologio della torre civica di Racalmuto, come affermava Sciascia, era fermo al 1789 e che quindi bisognava spezzare le catene dell’oppressione per fare ripartire l’orologio.
Sciascia infatti a proposito di un certo progresso che faceva capolino nel proprio paese aveva scritto: “questo è forse un principio, comunque si cominci l’importante è cominciare. Ma è un greve cominciare, è come se la meridiana della Matrice segnasse un’ora del 13 luglio 1789, domani passerà sulla meridiana l’ombra della rivoluzione francese, poi Napoleone il Risorgimento la rivoluzione russa la Resistenza, chissà quando la meridiana segnerà l’ora di oggi, quella che è per tanti altri uomini nel mondo l’ora giusta”.
A distanza di quasi sessanta anni ancora in Sicilia l’ora segnata dall’orologio della Matrice della terra di Sicilia non è quella di oggi, quella che è per tanti altri uomini del mondo.
Nel 1957 Sciascia abbandonò l’insegnamento, io andai a fare il Segretario comunale in “terre assai luntane” e il mio rapporto con Sciascia è quasi finito.
Certamente da Vice Sindaco di Grotte e da maestro elementare qualche volta andavo a incontrare gli amici di Racalmuto e qualche passeggiata con Sciascia l’avrò fatta ma non né ho alcun ricordo particolare e significativo.
Sono tornato ad Agrigento nel 1961 ma di Sciascia leggevo solamente i suoi libri senza che coltivassi nessun rapporto di amicizia. Lo rividi al cinema Bomboniera di Agrigento, dove venne a tenere un discorso a favore del divorzio. Non mi interessai della sua campagna elettorale essendo io un militante socialista.
Lo vidi un giorno in una stradina di Roma tra la Camera e il Senato ed era con Antonello Trombadori; lui accennò a fermarsi per salutarmi ma io, preso da un certo complesso di inferiorità, proseguii e me ne pentii.
Dopo la sua esperienza parlamentare un gruppo di compagni socialisti siamo stati alla Noce per proporgli la candidatura socialista al Senato ma lui rifiutò nettamente per diversi motivi. Il primo fra tutti perché Sciascia non era uomo da schierarsi con un partito. Aveva accettato la candidatura radicale in quanto i radicali non gli imponevano nessuna scelta ideologica e quindi lui era un parlamentare assolutamente libero e poi perché, dopo l’esperienza al consiglio comunale di Palermo e quella al parlamento nazionale, aveva capito che il potere in Italia non risiedeva nelle assemblee elettive ma in altri luoghi più oscuri ma più potenti e terribili.
Arriviamo finalmente al 1980, anno in cui il Consiglio comunale di Grotte, Sindaco il Professore Pietro Agnello, istituisce il premio letterario Racalmare città di Grotte il cui regolamento stabiliva che il Presidente onorario della giuria doveva essere una personalità di rilevanza nazionale nel mondo della cultura.
La delibera restò lettera morta fino al 1982, anno in cui lessi il libro di Matteo Collura “Associazione indigenti”.
Il libro mi piacque molto e ho proposto al Sindaco del tempo Filippo Giambra di andare da Sciascia per vedere se avesse voluto assumere la presidenza del premio. Il Sindaco mi diede mandato di contattarlo e poi, nel caso positivo, sarebbe venuto lui.
Inizia così la mia grande avventura della terrazza di contrada Noce che finisce il 20 novembre 1989 con la morte dello scrittore.
Mi sono recato alla Noce e  gli chiesi se fosse stato disposto ad assumere la presidenza del premio letterario Racalmare città di Grotte e nel caso che la risposta fosse positiva se era d’accordo a premiare, per la prima edizione, il libro di Matteo Collura “Associazione indigenti”.
Sciascia mi rispose: la cosa mi piace anche perché il libro di Matteo è nato tra le mie mani.
Non vi racconterò questi sette anni di lunghi contatti, né le vicende del premio che spero di potere raccontare in una mia prossima pubblicazione però mi preme raccontare quello che avvenne l’ultimo anno e ciò nel 1988/89.
Io non sapevo né potevo sapere che Sciascia stesse scrivendo della sua morte nel libro “Il cavaliere e la morte” e tutti i discorsi che noi abbiamo fatto nei lunghi pomeriggi in quella terrazza li ho trovati tutti per interi in quel libro.
Il discorso su cui io e gli amici insistevamo era sul fumo che, pensavamo, contribuisse a minare fortemente la sua salute e quindi era un continuo incitamento a smettere di fumare per potere riacquistare la salute.
Ma Sciascia mi diceva che noi pentiti del fumo eravamo gente pericolosa e che lo incitavamo a non fumare perché eravamo dei frustrati perché avevamo perso il paradiso che proveniva dalla gioia del fumo. E poi lui sosteneva che se avesse smesso di fumare probabilmente avrebbe finito di scrivere. Ecco cosa scrive ne “Il cavaliere e la morte”:
“Automaticamente, accese ancora una sigaretta. Ma l’avrebbe lasciata a consumarsi nel portacenere se il capo, entrando, non gli avesse fatto il solito rimprovero sul tanto e rovinoso fumare. Vizio stupido, vizio di morte. Aveva smesso di fumare, il Capo, da non più di sei mesi. Ne era molto fiero: a misura della sofferenza che ancora sentiva, una certa invidia, un certo rancore, quando vedeva gli altri fumare; e si alimentava del fatto che davvero ormai il sentore del fumo gli dava un fastidio che arrivava alla nausea, al tempo stesso che la memoria del proprio fumare gli era COME DI UN PARADISO PERDUTO”…..
“…. ‘Capisco’ disse il Capo con tono di superiore tolleranza ‘che non si abbia la forza di volontà di smettere del tutto: ma perseguire con tanta ostinazione ed abuso questo genere di morte….Mio cognato”…’. Si serviva dello schermo del cognato, fumatore accanito da qualche mese morto, per la delicatezza di non parlare direttamente di quel male di cui evidentemente il Vice si avviava a morire”.
“Lei certamente sa che sono stati gli ebrei CONVERTITI a inventare in Spagna l’inquisizione cattolica”.
“Convertiti o no, dice il Capo, nessuna simpatia. Lei, invece…”.
“Io, invece, ebrei o no, non ho simpatia per i convertiti: ci si converte sempre al peggio, anche quando sembra il meglio. Il peggio, in chi è capace di conversione, diventa sempre il peggio del peggio”.
“Ma il convertirsi a non fumare non c’entra per niente: ammesso che il convertirsi sia generalmente un’abiezione”.
“C’entra, c’entra: dal momento che si diventa persecutori di coloro che ancora fumano”.
E  a testimonianza di quanto, tutto ciò, fosse oggetto delle nostre ultime chiacchierate  vi dico che sei giorni prima di morire e cioè il 14 settembre del 1989 mi sono recato, con alcuni membri delle Giuria del Premio Racalmare,  nella casa di Palermo di Nanà e in quell’occasione abbiamo pure parlato di libri. Io gli dissi che mai avevo trovato, nei suoi scritti, un errore o un refuso. Lui mi obiettò che invece ce ne erano e chiese alla moglie di portargli una copia del libro “Il cavaliere e la morte” e mi fece notare che a pagina 28 c’era un errore che lui segnò con la mano tremante per la morte vicina. Nel libro c’è scritto: “ Prese, una dopo l’altra due tazze di denso caffè. Dicevano che il caffè acuisse i dolori; ma a lui davano la lucidità per sopportarli”.
E’ chiaro che “davano” doveva essere “dava” perché si riferiva al caffè e non alle tazze del periodo precedente.
Poi mi regalò il libro con questa dedica “A Gaspare Agnello come esortazione al fumo ( di sigarette),
Leonardo Sciascia e questo è stato l’ultimo regalo e l’ultimo incontro con il mio grande padre spirituale
L’altro argomento delle ultime discussioni intavolate nella sua terrazza è stato, oltre le questioni politiche, la questione religiosa.
In quell’estate dell’ottantanove o dell’ottantotto ma quasi certamente dell’ottantanove un pomeriggio mi disse: Gasparino hai letto l’articolo del Corriere della Sera in cui un filosofo parla della sua morte apparente?
Avevo letto quell’articolo di un filosofo francese che era titolato: Sono andato nell’aldilà e sono tornato più ateo di prima. Il filosofo sosteneva di avere avuto una morte apparente che è durata circa quattro minuti e in quello stato di morte apparente nell’aldilà non aveva visto nulla. Invece Sciascia, con gli occhi sgranati (cosa abbastanza strana) mi disse che non era vero perché nell’articolo dice di avere visto una nuvola rosa e due guardie. Quindi qualche cosa ha visto, mi dice Sciascia con un tono di chi si aspetta una risposta positiva, una risposta di certezza dell’esistenza di un aldilà che lui cercava disperatamente per dare un senso alla propria esistenza e quindi alla sua prossima morte.
Non voglio morire, scrive ne “Il cavaliere e la morte”, coi religiosi conforti della scienza: che non solo sono religiosi quanto quegli altri, ma strazianti in di più. ( Sciascia mi disse che la dialisi è come Matausen). Se mai sentissi il bisogno di un conforto, ricorrerei a quello più antico. Mi piacerebbe, anzi, sentirne il bisogno; ma non lo sento”.
A mio avviso, questo bisogno lo sentiva fortemente.
La ricerca di Dio traspare dal suo ultimo libro autobiografico “ll cavaliere e la morte” che è un libro altamente drammatico in cui Sciascia parla della vita e della morte e dimostra, come tutti gli uomini comuni, di avere paura della morte. “Ancora bella, la vita; ma per chi ancora ne era degno. Se ne sentì non indegno…”
“Stava intanto guardando il suo quadro di Albrecht Durer che teneva sempre nel suo ufficio “Il cavaliere, la morte e il diavolo. Forse Ben Gunn, per come Stevenson lo descriveva, un po’ somigliava alla morte di Durer; sicchè gli parve prendesse, la morte di Durer, un riflesso di grottesco. L’aveva sempre un po’ inquietato l’aspetto stanco della Morte di Durer, quasi volesse dire che stancamente, lentamente arrivava quando ormai della vita si era stanchi. Stanca la Morte, stanco il suo cavallo: altro che il cavallo del Trionfo della morte e di Guernica. E la Morte, nonostante i minacciosi orpelli delle serpi e della clessidra, era espressiva più di mendicità che di trionfo. ‘La morte si sconta vivendo’. Mendicante, la si mendica…”
“….E il Cavaliere: dove andava così corazzato, così fermo, tirandosi dietro lo stanco Diavolo e negando obolo alla Morte? SAREBBE MAI ARRIVATO ALLA CHIUSA CITTADELLA IN ALTO, LA CITTADELLA DELLA SUPREMA VERITA’, DELLA SUPREMA MENZOGNA?”….
“…E si accorse, così pensando, di essere arrivato come al cancello della preghiera, intravedendola come un giardino desolato, deserto.
Qui potrei e dovrei chiudere sui sentimenti che tormentarono Sciascia negli ultimi mesi della sua tormentata vita ma voglio leggervi l’ultimo brano molto significativo di questo tormento:
“Come sempre, però, quando arrivava allo sconforto dell’oggi, alla disperazione del domani, si domandò se nel rammaricarsi per l’indegnità in cui il mondo correva non ci fosse il rancore di stare per morire e l’invidia per coloro che restavano. Forse sì pur nella dilagante pietà che sentiva per tutti quelli che restavano; tanto che in certi momenti, incattivito, gli avveniva di ripetersi nella mente, a modo dei presentatori di avanspettacolo della sua adolescenza, un “signore e signori, buon divertimento”; come un saluto, beffardamente. Ma nella coscienza che il divertimento non ci sarebbe stato, era pur sempre, scontrosamente, pietà”.
Ce ne ricorderemo, di questo grande maestro.
Agrigento, lì 20. 11. 2014

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