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domenica 14 dicembre 2014

a FORZA DI RIPETERMI QUALCHE DISTRATTO LO RECUPERO.

PREMESSA
Questa è una silloge di nostre personalissime e non  agevoli ricerche. Se qualcuno ha dato un contributo - anche e quasi sempre piccolo, sparuto e sostanzialmente di non grosso rilievo -  noi ne facciamo esplicito riferimento: è certo che non plagiamo nessuno, mentre potremmo essere vittima - e lo siamo - di plagio. La nostra cifra culturale e ideologica è marxista anche se trattiamo cose di chiesa. Sono note pubblicate in vario tempo; nostre personali convinzioni sono spesso cambiate ma in sostanza io resto sempre fedele a me stesso. Non amo né dogmatismi né moralismo. Sappiamo che dire storia religiosa di Racalmuto è solo riesumazione dell'unico e inscindibile vivere o sopravvivere di un aggregato sociale in questa landa per tanti versi aprica per altri ostile. Preti, conventi congreghe, istituti, canoni, morale, interessi non sempre sono propizi ad un egualitario consorziarsi di uomini liberi, eppur sempre vien fuori una cifra di acculturamento e di civilizzazione che trascende il mero dato confessionale.















Questa piccola chiesa di Racalmuto sorgeva all''estremità Nord di Racalmuto, nel vecchio quartiere della FONTIS tradizionalmente FONTANA  e per ripicche politiche tra due dioscuri egemoni codesto quartiere oggi è sparito dalla popolare toponomastica alla cui principale arterie hanno cambiato il tradizionale nome di Battesimo di via Fontana con quello improbabile di via Gramsci.


La chiesetta dedicata a S. Nicola di Bari adatta il suo nome alle esigenze foniche di questo strano paese, la nostra Racalmuto, per divenire SANTA NICOLA che resta pur sempre santo maschile ad onta dell'epiteto ambiguo.


"Santa Nicola, Santa Nicola, vi dugno la vecchia e mi dati la nova" pregavamo quando ci cadevano i denti lattei per quelli che più o meno malfermi ci dovevano accompagnare per tutta la vita. E l'invocazione accompagnava il gesto del dentino scagliato sui tetti nella convinzione che se non invocavamo questo santo barese non avremmo mai spuntato in bocca il sostituto.


Iniziamo da questa bella foto, fornitaci dalla signora Rita Grazia  Mattina, la nostra scorribanda storica su Racalmuto propiziata dalle foto che Rita Grazia, eccellente fotografa, mano mano ci metterà a disposizione.


Parte da qui una microstoria racalmutese, rapsodica, vagula, ma poggiante su studi e ricerche trentennali.


Filo logico sono l'amore per la verità storica - nonostante tutto, oltre tutto - e lo spasmodico affetto per questo !spazio vitale" in cui siamo nati, che giammai abbiamo rinnegato, che vogliamo integro nella sua storica toponomastica e fedele nel suo genuino toponimo. I vezzi letterari, gli svolazzi di un cervellotico congetturare devono stare  stellarmente lontani.


Amiamo con tutta la nostra mente, con tutto il critico e duttile intelletto di cui disponiamo questo nostro irrinunciabile borgo natio, spesso oggetto di interessate mistificazioni, di immeritate denigrazioni.


Ripuliamo la memoria storica di RACALMUTO!


Rita Grazia Mattina con le sue  appassionate, non oleografiche e non mercificate foto, ci accompagnerà in questo tortuoso e ondivago percorso.


Due episodi ci rendono cara o interessante questa periferica chiesetta. Ai tempi della mia infanzia davvero vi erano bande di ragazzini terribili da richiamare alla mente i "ragazzi della via Paal". Molto attivi, spesso figli di famiglie dedite al crimine, un tempo all'abigeato, negli anni del dopoguerra del '40 al furto alla grassazioni, e sovente all'omicidio, quei bambinetti respiravano violenza da tutte le parti e consideravano l'atto aggressivo atto coraggioso, Una banda temibile raccoglieva i ragazzini dagli otto ai dodici anni provenienti dalle casupole attorno alla chiesa di San Nicola (vulgo Santa Nicola). In quel quartiere ora abitava gente dura, con precedenti penali e taluni dimoranti nelle patrie galere. Il quartiere di San Nicola, attestato già ai primi del '500 come coevo del tempo in cui la tradizione vuole la venuta della Madonna del Monte a Racalmuto, fu luogo prediletto da certe famiglie emergenti, famiglie di notai, di nobilato addetto alla gestione dell'economia dei Carretteshi, di preti piuttosto affermati. Era poi di molto decaduto, credo per l'insalubrità o ritenuta tale che si addebitava ai luoghi bassi: coincidenze di tisi endemiche in quel quartiere invero si erano avute. I medici consigliavano aria buona: d'estate si andava "fori" alla Culma o alla Marchisa o a Gargilata, considerate campagne atte a rigenerare polmoni malandati e quindi dall'autunno in poi nelle zone alte del Carmelo. Subentravano poveracci che occupano dammusi e se divenivano meno poveri salivano, sempre numerosi, le camere solerate. Promiscuità assoluta, igiene inesistente, moralità attutita.

La banda di Santa Nicola saliva gagliarda e minacciosa a lu Castieddru, Qui trovava l'altra banda un po' meno diseredata ma pur sempre grintosa. In un certo qual senso ne faceva parte un mio cugino vigoroso, molto abile con la fileccia, capace di colpire passeri alla Spina e colombi nelle feritoie della torre carrettesca. C'era la possibilità di organizzare non tanto uno scontro di calcio ché mancavano palloni e anche passione, ma erano le furibonde lotte allo Sceriffo, come nei filmi americani che tutti non so come conoscevano, a determinare infinite sparatorie finte  con indice e pollice a simulare la pistola e con la reboante voce a sparare. Stanchi i più piccoli tornavano a casa, i più grandicelli già non più puberi al calare della sera andavano a sedersi sugli scalini della chiesa di San Giuseppe e iniziavano conversari molto spinti. Eccitati poteva nascere una masturbazione a cerchio magari per mostrare chi poteva fiottare più lontano.

Molto più tarda è l'altra  simpatica memoria: Siamo negli anni '80. La nuova amministrazione social-comunista organizza addirittura un festival della lirica con concorso a premi. L'emergente on. le Milioto fa convergere nella bella piazzola antistante la chiesetta di Santa Nicola alcune manifestazioni liriche, persino dei balletti, concerti. Seduti dinanzi allo sfondo della facciata che qui si fotografa tra due filari di basse e civettuole case si poteva godere di una accattivante atmosfera. Ho partecipato qualche volta. Mi è molto piaciuto. Una sorta di redenzione artistica, una riabilitazione al suono di "la donna è mobile" o delle rivisitazioni di vecchi strazianti canti (Maria Passa) o di canzonette prossenetiche paesane, (affaccia beddra) che gli eredi di Luigi Infantino riescono a far cantare nel paese d'origine del pienotto tenore da poco deceduto.

La chiesa di San Nicola sorge, periferica, nei primissimi anni del '500. Spirava a Racalmuto in quel tempo un'aria misticheggiante cui non erano estranei i Del Carretto che tornarono ad abitare nel castello che si dice - non senza qualche fondamento - chiaramontano. Esplodeva un'espansione demografica, come dire un'appetibile servitù della gleba che si tramutava in bei proventi per codesti signori dalle origini genovesi e non finalesi come fa oggi comodo continuare a credere. Naturale che oppiare i popoli con fervori religiosi era espediente anche allora molto praticato. Una statua di "marmaru di nostra signura" viene via mare fatta venire da Palermo ove aveva buona bottega artigiana un non spregevole scultore toscano a nome MASSA.
Anche allora avere una dignitosa sepoltura era assillo dei nostri antenati racalmutesi. Si costruivano chiese per sepolture di ceti meno disagiati che si consorziavano in quelle che presero nome di confraternite. Una di queste costruì appunto la chiesetta di San Nicola di Bari. Ne abbiamo scritto nel nostro RACALMUTO NEI MILLENNI; ne stralciamo alcuni passi che messi qui forse qualche lettore in più riesco ad adescarlo.


Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto





Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.

In tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.

Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare, e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.





 Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.




Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [1] Tre anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte del  vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[2]

Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica Sacramenta.”).

Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)

Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).

Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).

Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata  confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie»   Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.

Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.



Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo  sul luogo. A lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era titolare.

Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»

Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse  alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa  inquadrandoli nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.

L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmutese non si appanna certo per il venire meno di una tale tradizione.

Resta assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:

1)        Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;

2)        “Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai al posto di quella Maggiore, già fatiscente;

3)        Chiesa di Santa Maria del Monte;

4)        Chiesa di santa Maria di Gesù;

5)        Chiesa di Santa Margherita;

6)        Chiesa di San Giuliano;



Nella precedente visita del 1540 abbiamo:

1)        Chiesa della “NUNTIATA”

2)        Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)

3)        Chiesa di Santa Margherita;

4)        Chiesa di “Santa Maria di lo Munti”;

5)        Chiesa di S. Giuliano.


(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)


Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:



la Nunziata, visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);

Santa Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo  di borcati vecho stagnato);

Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla di vecchio.



Il testamento di don Giovanni III del Carretto







Di Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([3]) steso sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone viene in qualche modo abbozzato.

In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”.  “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.



Il testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.

Ripete in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e dalla  condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.



Se si è avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di servitù e vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).



A don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.



“Del pari il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile D. Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle 600 once che stanno nella cassaforte (in Arca) del medesimo testatore ed essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi gli eredi don Federico e don Girolamo”.

“Del pari il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D. Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia, con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri diritti quali il terraggiolo, le gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli competono altresì denaro, frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti, nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni che seguono”.

Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata nel castello e la dota: «Item praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt, ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»

“E così il predetto testatore volle e diede mandato, ordinò e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo suo figlio primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia affinché voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni singolo vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da chicchessia,  e ciò per amore di nostro Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del testatore.»

Non crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla corte spagnola.

“Del pari il testatore lascia il legato a carico di Girolamo  di far dire tante messe nel convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”

“Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”

Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere: crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto. Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato considerato artefice ed inspiratore il notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento di Sciascia per la letteraria rievocazione di questa pagina  purtroppo tragica nella sua acre realtà storica.

Il morente barone dichiara di avere speso 130 once nella compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e  11 once per completare il tetto “della chiesa di Santa Maria di lu Carminu”.

Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:

donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da prelevare dalle casse del castello);

donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50 once in contanti da erogare;

Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia legittima, monaca del convento di Santa Caterina  della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la monacazione, altre 20 once a carico dell’erede  Girolamo;

Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello venale: introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse spectabilis Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione praesentis, et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij uncias quinque, nec non relaxavit  et relaxit mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et gravorum omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae inditionis pro Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per esserci stato buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.» Vada per le cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal terraggio e dai censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo Jacopo pagò quella sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure: Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte e la redazione del testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha cercato, non trova forma nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in sua terra di Racalmuto [in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et necessità ...».

Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o il ‘luterano’ notaio inventava?):

5 once al venerabile convento di San Domenico della città di Agrigento;

5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;

10 once al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;

5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di Racalmuto;

5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce (“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano

5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in auge);

5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.

Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.

Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto  «quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi, et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.»

I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.





Il barone resta legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era intensa).


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[1]) ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA"  - VISITA- DEL 1540 - f. 196 v - 198v.

[2]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA"  - VISITA 1542-43 - colonne 190v-193v.

[3] ) Archivio di Stato di Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r - 56v.


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giovedì 5 settembre 2013



gli sviluppi del convento di San Giuliano di Racalmuto







QUANDO Il buon Leonardo Sciascia si avventura nelle cose di Dio e della Chiesa, non sempre la sua raffinatissima e talora pungente penna lo mette a riparo da topiche anche gravi. Successe con la faccenda del vescovo Ficarra, successe con fra Diego La Matina e purtroppo appare claudicante anche quando vuol cimentarsi con gli sviluppi del convento di San Giuliano di Racalmuto. Dovremmo citare e commentare quanto scritto nelle pagg. 226 e 227 del volume che raccoglie e le Parrocchie di Regalpetra e la Morte dell'Inquisitore. Dovremmo qui comprovare queste nostre apodittiche insinuazioni. Lo faremo in altra occasione. A dire il vero attendiamo i risultati di una intrigante tesi di laurea che una discendente della grande famiglia degli Sferrazza Papa ( il cui apice è per noi un nostro estimatore, il defunto gesuita Padre Sferrazza Papa S. J) sta approntando con acuto intelletto, caparbietà sarda, e serietà indagatrice. Ed è anche una bella ragazza, il che non guasta mai. Abbiamo capito che terremoterà tanti idola baconiani. Roba insomma da mandare in brodo di giuggiole chi come me non vede l'ora di sbeffeggiare le ricorrenti cervellotiche congetture cui osano indulgere più o meno impettiti eruditi locali.
 Frattanto proponiamo questo scritto in cui molto vi è sugli agostiniani centuripini nei cui confronti Carmelo Sciascia ci appare steccare abbondantemente.
 [naturalmente non è materiale nostro, ma è preso da internet]
 LA CONGREGAZIONE Dl CENTORBI
 Tutti questi monaci, che abitavano gli eremi sulle montagne vicino a Centuripe, non appartenevano ad un ordine religioso e non seguivano nessuna regola, erano soltanto dipendenti dal Vescovo del luogo di appartenenza o terziari di qualche ordine religioso senza fare mai la professione solenne. Per cui la Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi incaricò Matteo Saminiati, protonotario apostolico e vicario generale di Catania, di far sì che quei frati entrassero a far parte di qualche ordine religioso riconosciuto dalla chiesa o che lasciassero l’abito eremitico e vivessero come chierici secolari. Per cui fra Andrea del Guasto ed i suoi compagni decisero di seguire la regola di S. Agostino. Furono dodici quelli che seguirono fra Andrea che, dopo tante difficoltà, fondò la “Congregazione dei Frati Agostiniani Riformati di Centorbi”. Il due febbraio del 1579 fra Andrea si recò a Roma dal generale dell’Ordine Agostiniano, Tadeo da Perugia, che approvò l’aggregazione di questo gruppo di frati eremiti all’OSA., ottenendo il primo decreto che lo autorizzava a fondare la nuova Congregazione Riformata in Sicilia sotto la regola di Sant’Agostino. Al suo ritorno nell’isola, però, per poter attuare quel decreto, il frate incontrò molte difficoltà, per l’opposizione del vescovo di Catania Cutelli e di alcuni eremiti, che durò circa cinque anni, dal 1580 alla fine del 1584. Nel frattempo, tra il 1579 ed il 1581, furono aperti altri dieci romitori per attendere alla vita contemplativa ed al “laborizio”. Nel 1581 arrivò l’approvazione di tale Congregazione da parte di papa Gregorio XIII e del Governo della Sicilia. In questo periodo fra Andrea del Guasto si recò per ben tre volte a Roma e alla fine, il 22 maggio del 1585, su licenza del Vescovo, prese l’abito dalle mani del p. Malchiore Testaì da Regalbuto, nel convento di Sant’Agostino di Catania, con l’approvazione del vicario generale Matteo Saminiati, insieme con i suoi dodici compagni: Andrea Diaz (Dias) spagnolo, Francesco di Paternò, Mario di Paternò, Matteo di San Filippo, Matteo di Vizzini, Domenico di Troina, Filippo di Regalbuto, Michele di San Filippo, Zaccaria di Francofonte, Bonaventura spagnolo, Leone del Guasto di Castrogiovanni (Enna) e Agostino spagnolo. Indossato l’abito, fra Andrea del Guasto, con i dodici monaci, si recò a Centuripe e fondò nella Sacra Grotta, dove si trovava la chiesa dedicata alla Vergine Maria, il primo Convento Agostiniano e così i tredici eremiti iniziarono il loro primo anno di prova. Nello stesso anno (1585) fu eletto il primo Vicario Generale della Congregazione, nella persona del fra Andrea del Guasto. Le elezioni del Vicario Generale si svolgevano sempre ogni due anni fino al 1745. In seguito il Capitolo Generale dell’Ordine OSA. dispose di poter fare le elezioni dei Vicari della Congregazione e dei Provinciali ogni tre anni. Questa Congregazione, in poco tempo, si diffuse negli altri eremi di Sant’Antonio di Regalbuto, di San Michele di Militello, di San Basilio sul Monte Scalpello ed in altri luoghi solitari. Propagatasi, ormai, in varie parti della Sicilia, i frati della Congregazione si chiamarono: “Frati Eremiti dell’Ordine di Sant’Agostino della Congregazione di Sicilia”. Il primo novembre, festa di tutti i Santi, del 1586 frate Andrea con i suoi compagni emise i voti di Castità, Povertà ed Obbedienza nel convento di Sant’Antonio a Regalbuto (come risulta dagli atti del notaio Ottavio di Paula). In questo periodo fra Andrea si recò ancora a Roma. La nuova Congregazione fu regolata da uno statuto a cui tutti i frati dovevano fare riferimento. Esso fu approvato dal Generale dell’Ordine Agostiniano, sotto il pontificato di Sisto V, il primo aprile del 1587, confermato il 30 luglio dello stesso anno e messo in pratica il 12 marzo del 1588. Il 3 giugno del 1587 i due conventi della Congregazione di S. Adriano si unirono a quella di Centorbi, secondo l’atto notarile di unione già effettuata dal P. Generale il 14 aprile dello stesso anno. Nell’anno 1588 i fratelli fra Santoro e fra Gregorio fondarono il convento di Militello; due anni dopo, nel 1590, fra Matteo Panzica fondò quello di Caccamo ed infine fu eretto il convento di Paternò. Costoro erano i primi discepoli di fra Andrea del Guasto. Il 10 luglio del 1591 il P. Generale OSA concede al Vicario della Congregazione la facoltà di ricevere “servatis servandis” anche i religiosi della provincia O.S.A. Apparteneva alla “Congregazione dei Frati Eremiti Riformati di Centorbi” anche il conventino dei SS. Marcellino e Pietro, aperto da p. Girolamo Grazian a Roma, in via Labicana e preso nel 1592 da fra Andrea Diaz, compagno di fra Andrea del Guasto e secondo nella lista dei tredici frati eremiti fondatori di tale Congregazione. Fra Andrea Diaz, iniziatore della riforma degli Agostiniani Scalzi d’italia, sbarcò a Messina intorno al 1584 ed entrò a far parte della Congregazione Centorbana, insieme con i suoi due compagni spagnoli, fra Bonaventura e fra Agostino. Durante il suo periodo a Centuripe p. Diaz insieme con p. Andrea del Guasto, introdusse la vita riformata e fu importantissimo il suo lavoro di “agostinizzazione” nella Congregazione, secondo la direttiva dell’Ordine. Padre Andrea Diaz rimase a Centuripe fino al 1588 poi, venuto a sapere che la provincia di Castiglia, nel Capitolo di Toledo, aveva accolto finalmente la Riforma Agostiniana, rientrò in Spagna. Il diciannove ottobre 1589 entrò a far parte della prima comunità recolletta nel convento di Talavera. Ottenuta la licenza dal Nunzio Apostolico in Spagna di portare la riforma in Italia, si trasferì nell’aprile del 1592 a Roma, presso il convento dei SS. Marcellino e Pietro. Il 19 maggio 1592, nel centesimo Capitolo Generale Agostiniano, si parlò della riforma dell’Ordine voluta da Clemente VIII. Il neo eletto priore generale, p. Andrea da Fivizzano, il 22 maggio dello stesso anno approvò i Capitoli per il buon progresso della Congregazione degli Eremiti Riformati di Sicilia. Il 28 giugno 1592 giunse a Napoli, nel convento di Sant’Agostino, fra Andrea Diaz, “vestito con un abito di panno nero e grosso, un cappuccio tondo in testa e alle spalle, cinto da una cintura larga, scalzo con le sandole di corde alla spagnola ed un lungo mantello”. Espresso il desiderio di vita riformata, il Priore gli mise a disposizione i due conventini di Santa Maria dell’Olivella, dove va a vivere, e quello di Santa Maria della Grazia, alla Renella. Nel conventino di Santa Maria dell’Olivella, p. Andrea Diaz abitò insieme con p. Andrea da Sicignano. Il 6 luglio si aggiunsero due laici: Andrea Taglietta e Lorenzo della Tolfa. Il 20 luglio arrivarono altri due giovani sacerdoti agostiniani p. Ambrogio Staibano da Taranto e p. Giovan Battista Cristallino, e infine si unirono a loro altri due religiosi più anziani: p. Giulio Calabrese e p. Giovanni da Bologna. Costoro furono i primi “riformati”. Infatti, nello stesso giorno “tutti rivestiti di rozza lana si scalzarono”. Padre Andrea Diaz diventò il Superiore di quei religiosi dei conventini di Napoli, ma tra la fine del mese di marzo e i primi di aprile del 1593 fu eletto Vicario Generale della sua Congregazione di Centorbi. La notizia fece scalpore nel convento dell’Olivella, perché p. Andrea Diaz voleva ufficialmente unire alla Congregazione Centorbana i due conventini di Napoli. Allora la piccola comunità si divise: p. Sicignano era d’accordo con fra Andrea Diaz mentre p. Staibano e p. Cristallino erano contrari, perché ritenevano la Congregazione di Centorbi diversa da quella che stava nascendo nei conventini di Napoli. Questi ultimi fecero ricorso al P. Generale affinché non permettesse l’unione. Il Generale, allora incaricò come suo delegato, per risolvere quella controversia, p. Cristoforo di Roma. Nel frattempo p. Andrea Diaz, amareggiato da quegli eventi, decise di abbandonare tutto e far ritorno in Spagna, rifiutando anche la carica di Vicario Generale della sua Congregazione di Centorbi. I Padri Centorbani, sapendo che p. Diaz non voleva iniziare il suo governo della Congregazione, dopo alcuni mesi elessero padre Domenico da Troina, con l’approvazione del P. Generale. La questione durò per circa sette mesi e alla fine, a metà novembre del 1593, si arrivò ad un compromesso. Il 16 novembre del 1593 p. Andrea Securani da Fivizzano, priore generale, con il decreto “Cum Ordinis nostri splendorem”, nominando padre Staibano primo vicario generale, riconobbe giuridicamente la nuova Congregazione degli Agostiniani Scalzi, separandola da quella degli Eremiti di Sicilia. Il 19 novembre 1593 l’elezione a Centorbi di padre Domenico da Troina, non essendo canonica, fu considerata nulla e quindi fu dichiarato legittimo vicario generale p. Diaz, al quale fu ordinato di recarsi in Sicilia a governare la sua Congregazione Centorbana. Quindi da un lato il Priore Generale diede ragione a p. Staibano, ufficializzando gli Agostiniani Scalzi d’Italia, dall’altro ridiede fiducia a p. Andrea Diaz inviandolo nella sua Congregazione a completare i due anni di Vicariato. Completato il suo mandato a Centorbi p. Diaz decise di ritornare in Spagna, per fondare un nuovo convento. Durante il viaggio la nave su cui viaggiava, a causa di una tempesta, fu trasportata sulle coste della Catalogna, vicino a Cadaquez, qui si ammalò gravemente e nel 1596 morì. Fu sepolto nella Parrocchia di S. Maria. L’Ordine agostiniano gli riconosce il titolo di Venerabile. Il 15 agosto del 1609, p. Andrea del Guasto fu rieletto vicario generale a Centorbi dove si celebrò il Capitolo, che fu uno dei più famosi tenutisi allora per il gran numero di frati che vi parteciparono e per le tante leggi stabilite. Il 15 agosto del 1617, fra Andrea si ammalò gravemente nel suo convento di Sant’Antonio. La sua agonia durò fino al 7 settembre, quando, dopo aver abbracciato un Crocifisso, rivolgendogli lo sguardo pieno di gioia, morì. Si concluse così, secondo il racconto di p. Fulgenzio da Caccamo, la straordinaria vita di questo frate che, dopo ottantatre anni vissuti santamente in terra, raggiunse l’eternità. Passati tredici anni dalla sua morte, su istanza del Vescovo di Catania, fu esaminato il corpo del ven. frate e fu trovato intero ed incorrotto, come più volte attestò, insieme ad altre persone, fra Vincenzo da Regalbuto della nobile famiglia dei Picardi. Il suo corpo fu analizzato nuovamente il 27 settembre 1674, durante il vicariato di p. Adeodato di Geraci. Il 4 maggio del 1918, su ordine di Mons. Agostino Felice Addeo, vescovo di Nicosia, su istanza del priore del convento di Sant’Agostino p. Giuseppe M. Campione, si è accertata, nella chiesa del convento di Sant’Antonio Abbate fuori le mura della città di Regalbuto, l’esistenza delle reliquie di fra Andrea del Guasto e l’inviolata conservazione delle medesime. Le ossa furono poste in un’altra cassa e il 19 maggio dello stesso anno furono traslate nella chiesa di Sant’Agostino della suddetta città. L’ultima ricognizione fu effettuata il tredici novembre del 1927.

 IL NUOVO CONVENTO
 Due anni prima della morte di fra Andrea, il 20 novembre 1615, il nobile Francesco Moncada dichiarò esente da ogni tassa chiunque volesse costruire una casa a Centuripe. Inoltre, per evitare ai cittadini penosi viaggi da Centuripe ad Adrano, da cui dipendevano per l’amministrazione della giustizia, dei beni e delle rendite, nominò Antonio Spitaleri governatore e giudice della città. Il 21 novembre 1617, con un accordo tra il priore del convento agostiniano, fra Michele di San Filippo, Antonio Spitaleri governatore di Centuripe e don Giuseppe Perdicaro, cappellano della città, si stabilì che quest’ultimo, non avendo nessuna chiesa a sua disposizione dove poter esercitare il suo ministero sacerdotale, poteva usufruire della piccola chiesa dei Padri Agostiniani. Nel frattempo con l’aumento della popolazione, i Padri del convento pensarono di lasciare le loro piccole e malconce abitazioni, scavate nella roccia, per costruirsi un convento ed una nuova chiesa più grande e capace di poter accogliere tanta gente. Il nuovo convento fu edificato tra il 1627 ed il 1628, sulle rovine della vecchia fortezza ed il santuario fu intitolato a “Santa Maria La Stella” dal nome della prima chiesetta costruita nella grotta. Era priore p. Stefano da Regalbuto. Però, il Vescovo di Catania, da cui dipendeva Centuripe, non credette opportuno far continuare l’amministrazione dei Sacramenti ai Padri Agostiniani e diede l’incarico ad un parroco. Intorno al 1638 p. Agostino da Sanfilippo fu il primo vicario foraneo, cioè un parroco fuori della città, inviato dal Vescovo, che giunse a Centuripe. Con la costruzione della nuova chiesa, la “Sacra Grotta” rimase per molti anni chiusa ed abbandonata. I Centuripini, che non avevano dimenticato quel luogo sacro, nel 1649 ottennero dal Vescovo il permesso di farvi celebrare di nuovo la Santa Messa, riaprendo così al culto quel Santuario, mèta di numerosi pellegrini provenienti anche dai paesi vicini. Sotto il pontificato di papa Innocenzo X, verso il 1662, furono soppressi molti conventi e ne rimasero solo diciassette; i religiosi furono chiamati nei paesi ad aiutare i parroci. Ricordiamo inoltre, che all’inizio tutti i conventi erano costruiti fuori delle città. Soltanto nel 1632 i monaci ottennero il permesso di poterli fondare dentro, ad eccezione del romitorio di Centorbi che rimase sempre dentro l’abitato. La “Congregazione Centorbana” contava i seguenti conventi: Santa Maria della Stella in Centorbi, Santa Domenica in Bideni (Vizzini), Sant’Antonio in Regalbuto, San Leonardo in Militello, San Calogero in Caccamo, Santa Maria in Artesina (EN), Santa Maria di Liccia (Castelbuono), Santa Maria dei Gulfi in Chiaromonte, Santa Maria della Consolazione in San Filippo di Agira, San Bartolomeo in Geraci, Santa Maria della Neve in Piazza, Santa Rosalia in San Michele di Ganzaria, Santa Maria in Castiglione, Sant’Ippolìto in Mineo (già in S. Basilio a quindici miglia), Santa Maria della Rocca in Monreale, Santa Maria della Grazia in Paternò, San Nicola in Mascali, e Santa Maria del Riposo in Francavilla Sicula (già in S. Adriano sul monte), Santa Maria della Sanità in Castelvetrano, SS. Marcellino e Pietro in Roma, poi, dopo il 1650, Sant’Agata la Pedata in Palermo, S. Giovanni Battista in Cattolica Eraclea e San Giuliano in Racalmuto. Questo lungo elenco ci fa capire quanto si sia propagata la Congregazione di fra Andrea del Guasto. Continuando con la nostra indagine storica, siamo giunti al 1671, quando a Centuripe, con l’aumento della popolazione, crebbe anche il numero delle parrocchie, che alla fine del XVII secolo arrivò a sei. Il 26 dicembre 1721 i Padri Agostiniani concessero agli esponenti dell’Arciconfraternita di Nostra Signora della Consolazione, prima chiamata dell’Innacolata Concezione, un pezzo di terreno adiacente alla loro chiesa maggiore “ad effetto di erigersi dai medesimi un Oratorio [per] colà esercitarvi dalli confrati suddetti tutti gli officii dovuti”. Nel 1728 il Vicario Generale della Congregazione chiese alla Santa Sede di essere autorizzato a poter cambiare l’abito “di tessuto siciliano con la sua tinta di vitriolo”, nocivo alla salute, per vestire come i Padri Agostiniani Scalzi “con tunica di saja leggiera e ferrajuolo di panno”. Quello stesso anno, il 20 gennaio, papa Benedetto XIII scrisse al generale dell’Ordine Bellisini ordinandogli di interessarsi affinché anche quei Padri si vestissero con un abito simile a quello degli Agostiniani Scalzi d’Italia. Il 12 febbraio il Generale dell’Ordine accettò quella proposta e i Padri di Centorbi cambiarono il loro abito. Nel 1757 il convento era abitato da tredici religiosi tra sacerdoti, chierici e laici. I Padri Agostiniani continuarono ad occuparsi del convento fino alla metà del XIX secolo, quando la Sicilia e, quindi, Centuripe entrarono a far parte del nuovo Regno d’Italia. Tra il 1866 e il 1867 furono soppressi gli Ordini religiosi ed incamerati dallo Stato i loro beni. Già nel gennaio del 1865 a Centuripe alcuni locali del convento furono adibiti a caserma dei Carabinieri. Successivamente, il 20 maggio 1867, i due Padri Agostiniani che vivevano nel monastero, furono costretti a cederlo allo stato. L’ex convento passò al municipio di Centuripe, che ne occupò i locali, tranne quelli adibiti come caserma. Uno dei Frati rimasti, l’ex priore don Francesco Lo Giudice si assunse il compito del mantenimento delle due chiese. Nel 1868 vi fu trasferita la biblioteca comunale e nel 1870 furono spostate le tre scuole comunali maschili. Il convento di Sant’Agostino, poi, fu sede del Municipio, della Pretura e di altri uffici comunali. Nel periodo fascista l’ex chiostro del convento, che era aperto da una parte, fu chiuso e si costruirono nuovi locali adibiti ad uffici e ad antiquarium comunale. In seguito il fabbricato ormai con i locali umidi e fatiscenti, fu demolito e ricostruito ex novo. Di quel convento ci rimane oggi soltanto la chiesa parrocchiale intitolata a Sant’Agostino, con accanto l’oratorio.






 Pubblicato da Calogero Taverna     a 21:40   Nessun commento:      

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ARCIPRETI E SACERDOTI NELLA SECONDA META’ DEL CINQUECENTO

Don Aloysio (Lisi) Provenzano



Questo sacerdote traspare dai registri di battesimo e di matrimonio della Matrice. Il suo ministero sembra discontinuo. Nel biennio 1575-1576 dovette avere funzioni di cappellano ed il suo nome si alterna con quello di don Vincenzo d’Averna negli atti di battesimo. Ancora nel 1581 è uno degli officianti della Matrice ed il 19 settembre 1581 battezza Paolino d’Asaro, fratello del pittore e futuro sacerdote racalmutese.

In tale veste compare sino al 1584, dopo subentrano altri cappellani come don Paolino Paladino e don Francesco Nicastro. Don Lisi Provenzano riappare successivamente nei documenti della Matrice, ma come teste nella celebrazione di matrimoni (ad es. il 28 settembre 1586) o come semplice padrino in battesimi (come quello di Francesco Castellana del 3.10.1587 ).

La sua presenza a Racalmuto è attestata sino al 1593 come da un atto di matrimonio, da cui però risulta che il Provenzano non è più cappellano della Matrice.

La figura di d. Lisi Provinzano emerge invero da un documento dell’Archivio Vescovile di Agrigento che risale al 31 ottobre 1556. Se ne ricavano alcuni tratti biografici. Ma soprattutto è la vita paesana a metà del XVI secolo che traspare. Val quindi la pena di riportarne alcuni brani.

Siamo stati supplicati da parte del Rev. presti Aloysio Crapanzano del tenor seguente: .. da parte del rev. presti Aloisio Provenzano della terra di Racalmuto, subdito della giurisdizione di V.S.  ... In tempi passati venendo a morte lo condam ... di Salvo della ditta terra, fece il suo testamento agli atti dell’egregio

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