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domenica 14 dicembre 2014

onoriamo i nostri caduti in guerra, cari racalmutesi


Non demordo. Scrivevo un paio di anni fa contro questa ignavia nazionale di cancellare dalla memoria l'obbrobrio di suoi figli portati al macello nella guerra del '15-'18 da un Cadorna senza onore.
 
E la vicenda investiva anche Racalmuto, chiamato Regalpetra alla Sciascia o Paese della Ragione alla Cavallaro.
 
Né letterario fulgore né razionale splendore, solo deplorevole trascuratezza. Trentadue suoi figli, modesti contadini dell'epoca venivano sottratti alla terra e portati impreparati, mal equipaggiati, piccoli e militarmente risibili (leggete D'Annunzio) a far da scudo al fuoco inarrestabile degli austro-ungarici, ascosi in putride e miserevoli doline slovene. Vi avevano lasciato la vita retoricamente per la Patria. Non furono degnati di un ricordo, di una tomba, di una pietosa sepoltura. Disinvoltamente, nel burocratico  mettere agli atti una patica, apparvero solo come "dispersi in guerra" e per loro in un primo momento come "disertori" perché non avevan risposto all'appello dopo una vile ritirata da Hudi Log. 
 
Eugenio Napoleone Messana negli anni Cinquanta del Millennio scorso rovista tra gli archivi del Comune che era riuscito ad accaparrarsi e trova persino inesatto l'elenco di questi trentadue "proletari" trucidati dalla inane rabbia di un incapace Cadorna. Nella sua mania grafomane in esaltazione della sua rampante famiglia e della sua rivincita sull'ex suo particolarissimo amico Casuccio, il Messana dell'epoca  ne fa un sub elenco nelle  oltre seicento pagine di pretesa microstoria racalmutese.  E tutto finisce là.
 
Non voglio molto: solo una lapide in flex nell'ex chiesa di Santa Maria di Giesu, al cimitero.
 
Ne scrivo, ne grido da un paio di anni: silenzio, silenzio-dissenso. 
 
Agitai il caso con quei mercenari dell amministrazioni commissariate da una piangente ministra: non ci si poteva aspettare nulla e nulla avvenne.
 
Speravo che con questa celebrazione del centenario di quella infame guerra "vittoriosa" del 1915  se ne facesse qualcosa. Ho in un primo momento collaborato con documenti, libri e ricerche. Di tutto si è parlato in quel sedicente museo "CHIARAMONTANO" ma nessun accenno: obliati del tutto questi trentadue genuini figli del popolo di Racalmuto.
 
Un sindaco di ascendenza comunista ebbe a parteciparvi, pur avendo sviato abilmente militaristi e nostalgici del luogo, inni e gloria in favore di miliziani e repubblichini. Vi si adeguò questo 24 maggio 2015.
 
Ne invoco la gogna, ne grido allo scandalo, ne segnalo l'ignominia, il pavido popolo di Racalmuto finge di non vedere di non sentire di dormire. Peggio delle tre scimmiette.
 
Ma anche l'amico Emilio crede che potrà superare questo incidente nel suo cammino verso la gloria parlamentare col SILENZIO, il SILENZIO-DISSENSO.
 
Non cesserò di gridare!
    






Lettera  (seconda) a Patrizia 

Torno a Balla, critico serio, uomo di raffinatissima cultura pittorica. Per vivere, venne di straforo in Banca d’Italia. Lì lo conobbi, addirittura nell’agone sindacale. Ovviamente eravamo in CGIL: duri, malefici, irriducibili: ce la dovevano vedere con il figlio adottivo di Acerbo … e Persiani Acerbo era – buon’anima, si dice – un fascistone inflessibile. Mentre qualcuno si costruiva una piscina sul tetto di uno storico palazzo di Fontanella Borghese, sfondandolo, l’Acerbo fascista moralizzava per qualche notturno colloquio in Bankitalia con artisti d’Oltre Oceano. Una bazzecola che cercai di cassare da rappresentante sindacale di sinistra, in una commissione interna d’inchiesta. Vinsi allora, ma Alessandro tagliò la corda. Con il cipiglio di chi viene da una inattingibile schiatta di eccelsa pittura, tornò a riguardarsi i quadri delle sue due bisbetiche zie, come questo:


 

Se fossi pittore, da tutti mi farei ponderare meno che da Alessandro Balla, salvo a chiamarmi Guttuso, perché siciliano, o Cagli, come preferiva un mio grande sodale comunista di La Spezia. Apparentemente, da non temerlo molto; ed è poi soavemente galante specie con belle donne in fiore. Mi consta, monogamo, quasi quanto me: ma poi vatti a fidare di un bell’uomo come lui.

Di Poce dipinge, o almeno allora dipingeva, con geniale allegrezza, forse esuberantemente come avviene quando prorompono ancor giovanili ardori. Coloristicamente (con i colori di Roma?... Bah! Un mio amico di Bankitalia – anche lui pittore, ma soprattutto scultore che senza essere Bernini seppe, una volta, cogliere quello spasimo femminile del momento terminale dell’amore, ciarlava con me della inesistenza a Roma di cieli e colori vividi). Poverino, fu schiacciato dalla P2 osteggiata da Pertini. Non aveva neppure firmato l’adesione a Gelli. Ma questi – su segnalazione di un compaesano del Nostro – lo aveva allibrato; così apparve nei famosi elenchi trovati inopinatamente dal padre di Massimo d’Alema e dal giudice Colombo in una – per loro – estraneissima villa toscana. Il Ciampi, prima misericordioso, poi astioso, (d’un tratto era diventato antimassonico e persino bizzochero; e dire che noi in B.I. lo credevamo laico con cazzola e triangolo) umiliò il meschinello piduista, destituendolo nel prestigioso incarico ispettivo di vigilanza bancaria. Era il dottor Aronadio: supplichevole una volta ebbe a telefonarmi perché intercedessi con il terribile on. Giuseppe D’Alema, credendomi ancora suo collaborazionista. Purtroppo avevo avuto il mio bravo disguido con il sullodato onorevole rosso, non alieno dal credere ad una congiura ai miei danni; si tentò giornalisticamente di accreditarmi come quinta colonna di qualche pingue mio paesano d’America: uno scagnozzo molto remunerato da Sindona per millantato credito presso la cupola nuiorchese di Cosa Nostra. Favola ridicola davvero, ma ebbe facile credito presso le autorità nostrane e straniere, necessitate di trovare diversivi credibili a loro non commendevoli orchestrazioni valutarie. Povero Aronadio: non ne ho saputo più nulla. Credo che sia morto. Dopo una vecchiaia comunque triste e vizza. Ecco una tragedia che non mi risulta vivificata da pittori ed artisti. Senza futura memoria, quindi, e non dobbiamo scomodare Sciascia per qualche introverso diniego di ciò che in avvenire sarà storia “narrabile” alla Castro.


 

 

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