Non pubblico la prima parte ove si accenna a "provvidenze" comunitarie dell'ordine di quasi un milione di euro. Quante commissioni, provvigioni, lauti compensi per fatiscenti collaborazioni, giornalistiche, teatrali etc. Alle spalle dei migranti che vengono disumanamente ammassati al Palazzetto di Falcone e Borsellino, infetti ed infettanti. Il gioco volpino pare che continui. Ora mi spiego perché il primo atto di Emilio ancora manco sindaco è stato quello di dare udienza a tale acuarinto- Rammento i rimbrotti che mi sono preso da tal Manuel romano (che però si è messo a tacere). Emilio, non avevamo no-profit a Racalmuto che potevano giovarsi di questa manna europea? Con tutti disoccupati che abbiamo a Racalmuto dobbiamo dare pane e companatico agli estranei acuarinti acueforti, spqr etc etc?- Anche i grotteschi passati al servizio dell'antimafia contro Grassanelli hanno le loro brave nuore a tutto servizio assente presso il lascito Ferdinando Martini. E c'è chi mi ha detto che anche il PD vuole così e basta. Tutte frottole, caro Emilio? mi piacerebbe che mi smentissi. Ho una voglia matta di avere torto!
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sabato 27 settembre 2014
Non è l'attuale sindaco il grande colpevole del triste crollo del vivere civile di questo grande spazio vitale a nome Racalmuto
ALL'AMICO GIOVANNI SALVO
Componimento caustico, colto, ripiccato. L'ha scritto un poeta vero non il risibile pitocco come direbbe Carducci, Non è il solito rimatore in vernacolo di cui pullula l'agorà dei politici da strapazzo attorno alla statua di Sciascia. Siamo stellarmente lontani dal belare di qualche pastorello incolto ed affarista. Quindi plauso incondizionato da parte mia. Mi permetto solo di far presente che qui e là alle volte ho udito stridori musicali, piegamenti ad esigenze compositive, voglia di fiondare s questo e su quello. Mi permetto di dire che non è la migliore poesia del sommo Giovanni. Non per nulla arrivano plausi da chi in fin dei conti recita ancora e male parti egemoni on quel teatrino della gestione comunale che il poeta credo vuole fustigare. Non posso penare che Giovanni sia quel fazioso che vede nel povero attuale sindaco il cristo del momento su cui far ricadere per crocifiggerlo tutta la quarantennale mala gestio del vivere racalmutese, il groviglio furbo dell'attuale momento e le preoccupanti prospettive future.
Componimento caustico, colto, ripiccato. L'ha scritto un poeta vero non il risibile pitocco come direbbe Carducci, Non è il solito rimatore in vernacolo di cui pullula l'agorà dei politici da strapazzo attorno alla statua di Sciascia. Siamo stellarmente lontani dal belare di qualche pastorello incolto ed affarista. Quindi plauso incondizionato da parte mia. Mi permetto solo di far presente che qui e là alle volte ho udito stridori musicali, piegamenti ad esigenze compositive, voglia di fiondare s questo e su quello. Mi permetto di dire che non è la migliore poesia del sommo Giovanni. Non per nulla arrivano plausi da chi in fin dei conti recita ancora e male parti egemoni on quel teatrino della gestione comunale che il poeta credo vuole fustigare. Non posso penare che Giovanni sia quel fazioso che vede nel povero attuale sindaco il cristo del momento su cui far ricadere per crocifiggerlo tutta la quarantennale mala gestio del vivere racalmutese, il groviglio furbo dell'attuale momento e le preoccupanti prospettive future.
storia di Racalmuto
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI.
Cediamo
alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione
sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a
Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad
ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi
fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità
troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga
posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le
caratteristiche «tombe del tipo a forno »
([1]).
Da
quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali
dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed
alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale
collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicoltura
e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare,
l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A
questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie
dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti
dal mare, i Sicani di Racalmuto preferirono ritirarsi entro le più sicure zone
montagnose di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela,
si insediarono nella valle agrigentina,
per i radi indigeni di Racalmuto fu il momento del loro melanconico
dissolversi.
I
moderni storici si accapigliano per
stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe
neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza
ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza
della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, la
scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un
doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima
ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona
era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre
in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile)
ritorno in patria. I rodiesi ed i
cretesi di Gela fondarono, accrebbero e
consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere
libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide
di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una
devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e
di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse,
fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si
attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi
reperti numismatici con la riconoscibile
effigie del granchio akragantino non
attestano solo l'inclusione di quel
territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla,
schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa
schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba.
Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli
inospitali valloni siti a tramontana. E
divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi,
irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi
sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le
radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si
evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona.
Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si
pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo
ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il
570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di
Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e
plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci
di quel periodo.
Racalmuto
vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi
delle terre del nostro altopiano. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a
moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi
schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento,
senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati
dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria
vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro
territorio sono i soli indici della loro presenza.
E'
certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e
gli Orlandin ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni
cinquanta, o come quelli degli anni Ottanta guidati dal De Rosa a noi non resta
che avventurarci in malcerte congetture.
Nella
campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi,
in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon
della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava
definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce
inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con
l'elegante 'non liquet' (non risulta) di
Filippo Cluverio. Oggi, liquet
(risulta) l'inattribuibilità di Motyon a
Racalmuto e dintorni: la località è
dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo.
Quando
vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non
riguardò queste nostre contrade: per
quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati
dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra
Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il
siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti
agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da
quella della fine del secolo XX.
Frattanto
Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani,
dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si
dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i
padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i
traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La
continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via
sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare
alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto
continua a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Resta
pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una
popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno
agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa
Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei
mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni
agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli
nei giochi olimpici della lontana Grecia.
Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori
greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola
quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche
signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in
qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni
versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476
a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile
all'alta poesia.: «certo per i mortali
non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/
s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di
gioia e d'affanno vengono agli uomini» erano poi versi da avvincere anche
l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. Ed in quel territorio circolavano anche le monete col granchio
agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze
greche.
Sfiora
la locale società contadina la nebulosa
vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro
Siculo. La sua cacciata da Akragas, per
il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu
coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo
sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo
il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa
coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua
volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene
neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti
contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a
goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi,
ma attendibili.
Atene
- con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo
ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415
a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una
disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto
generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a
Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle
tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano
risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a
guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore
fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra.
Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura
e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla
tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso,
Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel
406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa,
Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano
numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000
uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento.
Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi,
nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per
Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu
abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle
tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride.
Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un
afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine
finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano
sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e
ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia
dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio
il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa.
Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un
ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte,
commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza
politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione
gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle
esigenze cartaginesi.
Crediamo
che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani
erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi.
Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi
prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad
un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si
ribaltava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia
e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che
artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete
siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili
scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la
spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello
scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli, divenute epikrateia (provincia) cartaginese.
Sempre
il Tinebra Martorana ci testimonia del
rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al
rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi
siracusani che ci richiamano le dittature siracusane di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel
periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa.
I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino,
olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano
oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da
consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al
Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa,
resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto
sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno
al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un
qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la
popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una
città in puro stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a
Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire
egemoniche del despota agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e
Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di
Siracusa.
Nel
280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un
imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa.
Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas
e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di
Cartagine e vi restano per quasi un
ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.
Nel
264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia
melanconicamente a divenire un'oscura appendice della lontana e suprema Roma.
La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum
esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai
Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un
secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani
nient'altro che «extera gens»
[gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma
conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei
romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni,
né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come
schiavi.
Sette
anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto
la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta
la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo
che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire
direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero
esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati
nella vicina polis; distruzione di
beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le
antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del
secolo, Akragas e la vicina Eraclea
Minoa appaiono saldamente in mano dei
cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati -
si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da
Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture
raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto
sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani
ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare: alla fine fu vacuo il
suo genio inventivo; lo specchio incendiario fu di ardita e micidiale fattura;
invento speculo, naves romanas incendit;
eppure i romani finirono per avere la meglio. Per i cartaginesi, nel grande
scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano
su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano
l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora
una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui
mercati del mondo. Levino a Roma fa il
suo trionfale ritorno. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni
di grano nella lontanissima Roma.
STORIA DI RACALMUTO TERZA PARTE
La
signoria di tal uomo della corte napoletana durò però poco e, nel corso del
Vespro, Racalmuto appare un comune autonomo, retto da sindaci e chiamato ad un
contributo di uomini in armi.
I
primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime
avignonesi del 1308 e 1310. Nell'abitato vi erano almeno due chiese: quella
parrocchiale retta dal p. Angelo di
Montecaveoso, e quella forse conventuale
dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal
Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra
pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi
avignonesi dell'Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto
dell'arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la
capacità contributiva e raccoglierne l'imposta per togliere l'interdetto che si
originava dalla rivolta del Vespro. Era l'anno 1375.
Allora Racalmuto doveva essere un piccolo
centro agricolo con non più di 800 abitanti. Nell'archivio vaticano è
reperibile il resoconto delle collette redatto dall'arcidiacono du Mazel.
Trattavasi di un sussidio che andava ripartito in ciascun abitato per case, in
rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per
le 'mediocri', 3 per le agiate e cioè
'qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà' ([1]). Il
29 marzo del 1375, il pio collettore (o
suoi emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il
'sussidio' e scioglieva l'interdetto ([2]).
Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone,
ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se
pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili. In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548,
la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra
Martorana vengono accettati - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e
mezzo. Nel successivo eguale lasso di
tempo, la crescita si è invece limitata solo al
48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.
Che
cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del
potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto
nell'intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di
forestieri.
Abbiamo
motivo di ritenere che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per
la paura dei pirati. L'improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato
il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata sembrano convalidare la prima ipotesi. I
molti cognomi di paesi e terre del
circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei
feudi racalmutesi.
Tanti
immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche,
acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta.
I non pochi Xortino denunciano l'antica carica di maestri di xurta. I maestri
xurteri erano al tempo di Carlo d'Angiò i sopraintendenti alla sicurezza
notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel
1282-1283 sotto Pietro d'Aragona.
Non è racalmutese il 'segreto' addetto alle gabelle, il
magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l'incarico - lo denunciano straniero.
Il 'segreto' era l'esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che
risaliva al 1296.
Per
avere un nome saraceno, Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con
nome di derivazione araba. Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo e simili,
possiamo calcolare in meno di 150 gli
abitanti di origine forse musulmana (su 2215 desunti dai registri della seconda
metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per
convinzione o per convenienza, si sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo
latineggianti. Lo stesso dovette
verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata da parte della
regina Isabella nel 1492 ([3]) o
sparirono del tutto a Racalmuto o
seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio dell'8
gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da
Grotte.
Tra la
borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che
hanno dominato nell'ottocento. Né baroni come i Tulumello, né gentiluomini come
i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora
quali i D'Amella, i La Lomia, gli Ugo, i Piamontisi ed altri si sono dopo
volatizzati: alcuni loro eredi
prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì.
Verso
la fine del 500, giungono a Racalmuto 'mastri' che vi attecchiranno ed oggi i
loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione.
Savatteri, Buscemi, Schillaci, Rizzo, Bongiorno, Chiazza, sono fra questi, per
fare solo alcuni esempi.
Il
quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare,
dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure)
si sia impadronita di tale casale con castello, facendone un personale feudo
con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del
figlio di Matteo del Carretto - all'inizio del secolo XV - una necessità
difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in
parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza
Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in
capo a quella famiglia proveniente da
Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le
ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale. Lasciamo qui agli araldici
ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com'è
nelle sue più antiche fonti,
difficilmente potrà essere ora del tutto chiarita.
Quel
che ci preme è sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e
tramandata un'importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto
si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S.
Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa
degli aragonesi. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei
Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del
Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte.
Il re aragonese, tra l'altro, cominciò a metter mano alla riforma
ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto
tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione
dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di
Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il
delegato del Pontefice anche in materia
religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e
donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche
Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo
aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che
qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino: «Martino etc. Al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra
di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare
nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù
ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai grati riconoscimenti. ... e pertanto per
l'autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, [vi conferiamo] il
canonicato di Santa Margherita di
Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti
e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando
tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della
secessione contro le nostre benignità [
... ]
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo
mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali
nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti
quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente
e pienamente la prebenda, i redditi con
i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se
desiderano e vogliono mantenere la nostra benevolenza.
Dato in Siracusa, l'anno del Signore,
VII^ Ind. 1398..... Re Martino - »
Tanti collegano - come già detto - quella
chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della
curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo
per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola
concessione di quest'ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col
Papa.
La
presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità
sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il
singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i
due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento),
nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da
parte di Isabella nel 1492.
Raccapricciante
lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme,
viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era
l'anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco
ebreo, dedito certamente all'usura.
«Il Vicere' Lop Ximen Durrea dà commissione
ad Oliverio Raffa di recarsi a
Racalmuto per punire coloro che
uccisero il giudeo Sadia
di Palermo, e di pubblicare un
bando a Girgenti per la
protezione di quei giudei.»
Quanto
alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano assetti
significativamente organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero sinagoghe o
scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e
legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si
dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da
Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono
mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e
rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non
abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l'Inquisizione. Quel non
glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là
nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un
notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si
abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque
non collimanti con quelle della blasfema canonizzazione celebrata da Leonardo
Sciascia.
La
tradizione colloca nell'anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte.
La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni
ricerca storica che suonerebbe falsa ed irriguardosa. Noi quindi ce ne
asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione dell'Officio sulla nostra
miracolosa Madonna: «a Racalmuto, in
Sicilia, - vi si recita in latino -
da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio
dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione,
la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una
sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino
per essere condotta nella antica città di Castronuovo. E questo fu un mero
portento.»
Francesco
Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura
Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone
Messana nel 1968, Leonardo Sciascia in
una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull'evento, quasi
sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di
Racalmuto. Una mia personale ricerca tra vecchie carte che si custodivano in
una stanza della casa che fu del canonico Mantione mi ha fatto imbattere in una
pubblicazione del ‘700 cui assegnare la palma della più antica narrazione in
versi della Vinuta di la Bedda Matri di lu Munti.
Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia
notizia documentata - la gloriosa statua viene repertoriata con stile invero
molto burocratico. Nell'Archivio vescovile di Agrigento si rinviene la
relazione sulla visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del
Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge
però nulla che possa richiamare alla mente un santuario prestigioso. In seconda
battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l'irriguardoso
ecclesiastico si limita ad inventariare il venerabile simulacro come «una figura di nostra donna di marmaro».
Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode solo
a partire dai primi decenni del '700, dopo l'opera del p. Signorino.
Poco
più che trisecolare risulta la vera signoria feudale che i Del Carretto
ebbero a dispiegare su Racalmuto: dalla
prima investitura baronale di Matteo del Carretto da parte di Martino d’Aragona,
il giovane - che il Villabianca colloca
nel 1392, il giorno 4 di giugno - sino alla malinconica scomparsa della grande
famiglia dei conti di Racalmuto, databile 10 Luglio 1716, corrono infatti 324 anni.
Bisogna,
invero, aggiungere un preludio quasi secolare di presenza dei Del Carretto
(dal 1307, data del matrimonio tra
Costanza Chiaramonte ed il marchese di Savona e Finale, Antonio del Carretto,
sino all’investitura baronale di Matteo del Carretto), ma trattasi di ambigua
signoria, malcerta e di sicuro intermittente, emergendo una egemonia
sovraordinata della potente famiglia agrigentina dei Chiaramonte.
Il
primo e vero storico della famiglia dei Del Carretto, baroni prima e conti dopo
di Racalmuto, riteniamo essere l’arcigno Marchese di Villabianca con la sua
diligente opera del 1759: prima di lui il Fazello, il Pirri, l’Inveges, il
Mugnos, il Di Giovanni, il c.d. Muscia, il Barberi, il Ciacconio, il Crescenzi, il
Barone, il Savasta ed il Sansovini, tutti costoro avevano mostrato interesse alle vicende dei
Del Carretto, ma erano stati accenni qualche volta infelici, non sempre
attendibili, in ogni caso incompleti. Quel signore settecentesco, reazionario e
fieramente aristocratico e feudale, ci fornisce un quadro lucido, documentato
ed appassionante - anche se lo stile è ovviamente arcaico - di quella che è
stata la vicenda feudale della baronia e contea del nostro paese. Dopo il
Villabianca, tanti si sono cimentati nella ricostruzione storica della pagina
araldica dei Del Carretto, ma ci appaiono tutti tributari del nostro marchese
e, sostanzialmente nulla aggiungono a quanto saputo, ove si eccettui una
qualche nota critica. Così è sicuramente per la ponderosa opera del San
Martino-Spucches.
Ebbe
di certo tra le mani l’opera del Villabianca il racalmutese Tinebra-Martorana e
vi razziò ingordamente: era, però, appena ventenne e non aveva né voglia né
tendenza ad analisi critiche: qualche documento locale, come quello del
sarcofago di Girolamo del Carretto o come quelli fornitigli maliziosamente dai
Tulumello sul terraggio e terraggiolo da corrispondere a quei
conti di Racalmuto, gli fu sufficiente per imbastire una storia non sempre
precisa sulla signoria dei Del Carretto, la quale storia ebbe, a distanza di
quasi un secolo, il non corrodibile avallo del grande Leonardo Sciascia.
Chi,
da ultimo, si è industriato per recuperare alla memoria eventi certi del casato
dei Del Carretto è stato il prof. Giuseppe Nalbone. Dall’8 aprile 1993 egli ha scandagliato gli archivi di stato di
Palermo e la sua fatica è stata premiata con il rinvenimento di molteplici
diplomi, privilegi e documenti che irradiano una vivida luce sulla storia dei Del Carretto e
finalmente ce la restituiscono nel suo intenso ed obiettivo defluire. Poco o
punto è il risultato rettificativo dell’opera del marchese di Villabianca, ma
tanta è la portata esplicativa di istituti, interventi, ruoli, imposizioni,
condizionamenti ed altro di una vicenda feudale trisecolare che investe
l’essere ed il forgiarsi della vita civile e sociale dei nostri antenati
racalmutesi. Riaffiorano nomi e cognomi di
segreti, castellani, giurati, maestri notari, fiscali, capitani etc. Tanti
di loro non hanno più eredi a Racalmuto, ma taluni sono invece ricollegabili a figure tipiche del
grande teatro che tuttora persiste tra la gente del nostro altipiano.
Il
diciottesimo secolo vede Racalmuto alla prese con gli eredi dei Del Carretto.
Si ebbero varie controversie. Quella più celebre fu mossa prima dal Sac. Nicolò
Figliola (luglio 1787) e successivamente dall’arciprete d. Stefano Campanella
contro il “terraggio” ed il “terraggiolo”. La vertenza si chiuse il 28
settembre 1787 con sentenza liberatoria per i racalmutesi. Cadeva al contempo
il “diritto del mero e misto impero” che l’erede dei del Carretto, il Requisenz,
pretendeva ancora a danno degli abitanti della decaduta contea di Racalmuto.
Nell’Ottocento,
ebbe l’abbrivo lo sfruttamento delle miniere di zolfo e del salgemma ed esplose
un risvolto borghese che ancor oggi suscita consensi entusiastici o stroncature
impietose.
Il
Novecento - prima giolittiano, poi fascista e quindi, nel dopoguerra,
contraddistinto dal vorticoso gioco delle alternanze democratiche -
contrassegna eventi troppo prossimi per trattarli con il dovuto distacco
storico.
GLI EVENTI RACALMUTESI PRIMA DEL 1271
Miocene [4]
(c.a. 25 milioni di
anni fa)
|
Una
sconfinata invasione di un particolare vibrione (il desulfovibrio desulsuricans)
si spande sull’intero altipiano di Racalmuto;
per un singolare processo chimico (nutrendosi il vibrione di petrolio grezzo
e rubando ossigeno al solfato di calcio dà luogo ad idrogeno solforato ed
attraverso una normale ossidazione si trasforma in zolfo) si hanno le sedimentazioni
solfifere racalmutesi.
|
(c.a. 7 milioni di anno
fa)
|
Si
concludono le regressioni di acqua marina e si definisce l’attuale facies del territorio di Racalmuto.
|
XXX millenio a. C.
|
Se
qualche homo sapiens sapiens (del
tipo di Cro-Magnon) ebbe a stanziarsi a Racalmuto, non poté trovare migliore
dimora della grotta di Fra Diego.
|
II millenio a. C.
|
I
sicani si stabiliscono e prosperano in varie plaghe dell’Altipiano. come
attestano le tombe a forno attorno alla cennata grotta o quelle disseminate
dal Castelluccio sin ad Est, nei pressi della Stazione ferroviaria di
Castrofilippo.
|
XIII a. C.
|
Decade
la civiltà sicana nelle nostre terre, mentre prospera quella d’influsso
miceneo di Milena e S. Angelo Muxaro e zone limitrofe.
|
581 a. C.
|
I
Geloi vanno a fondare Agrigento, ma percorrendo un itinerario del lungo costa
con centro Licata ed evitando le impervie zone dell’interno. L’Altipiano
racalmutese, desertico ed impraticabile, non viene per vario tempo acquisito
alla colonizzazione ellena.
|
Secc. V, IV e III a. C.
|
La
presenza greca è variamente avvertita, ma non è tale da far pensare a qualche
rilevante centro. Abbiamo solo sporadiche testimonianze numismatiche.
|
210 a.c.
|
Sotto
il console Levino, Agrigento cade definitivamente sotto il dominio di Roma: Racalmuto
ne segue le sorti.
|
70 a.c.
|
Cicerone
fa un viaggio in Sicilia per preparare la sua celeberrima accusa contro
Verre: il territorio di Racalmuto non figura visitato. Qui, però, è da tempo
che vengono riscosse le decime sul
grano, sul vino e su quant’altro. Una diota , rinvenuta nel XVIII secolo, dimostra
come un tal Fusco praticasse l’incetta del vino destinato a Roma.
|
180 d.C.
|
Un
contadino rinviene a S. Maria una “gavita” che secondo il Salinas si riferisce
al 180 d.C., al tempo di Commodo: è un’importante testimonianza dello
sfruttamento delle miniere solfifere di Racalmuto da parte di Roma imperiale.
|
Sino al IV sec. d.C
|
Ferve
un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con
centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso
Casalvecchio.
|
Dopo il IV sec. d.C.
|
Uno
spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria
estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò
l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
|
V e VI sec. d. C.
|
Scarse
sono le conoscenze che si hanno per questo periodo in tema della più generale
storia della Sicilia. Se l’Isola fu
occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Di
certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di
quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. I
Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della
Sicilia e la soggiogano sino all’anno
in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad
Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e
modalità sinora del tutto ignote.
La
Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da
parte di Teodorico. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare
tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di
fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il
rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario
riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà
bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe,
non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo
dell’insediamento berbero).
|
Fine del VI sec.
|
A
Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è
probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou.
|
829
|
Caduta
Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino
di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se
ne possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.
|
1087
|
Chamuth fu
l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna.
Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si
può anche ipotizzare che a Racalmuto
vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire
in arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza - se esistette - era sotto il dominio di Chamuth.
|
Secolo XI
|
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero
d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna.
Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per
divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio
dell’islamica sudditanza, durata quasi
due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica
religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al
cristanesimo.
|
Sino al 1271
|
I
saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200.
Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le
testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad
avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone
aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando
ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria
condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di
insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva con spirito predatorio nel regno che gli
era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la
‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà
questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375
abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi
dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi
Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’
distruttrice di uomini e cose.
|
CENNI GEOLOGICI
Nel
succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunge
l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in epoca
piuttosto recente. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a
ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la
ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra
“geologicamente recente”([6]). Ed
anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di
milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno
formativo dell’isola. In un primo momento,
“formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie
di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra
Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In
una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo
emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca
quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo
una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia
dovuta al Trevisan ([7]) Racalmuto
si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo
intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno
Pliocene.
Studi
sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali
(vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella
sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla
trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel
sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A.([8]) - i
terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:
1)
complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2)
formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e
argille;
3)
serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del
Saheliano e Messinese.
4) una
formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e
calcari marnosi (Trubi).
Completano
la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma
abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna
competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del
Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate
[sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per
protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma
addirittura uno straordinario
microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace
di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo» ([9]).
Secondo tale affascinante teoria, le
ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque,
a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di malefica
premonizione.
LA
PREISTORIA
Ma a
che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu
esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi
nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono
tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche.
Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego,
che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
Dobbiamo
saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei
abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano
in modo indubbio: le tombe a forno
scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo
il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del
paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la
strada ferrata.
Azzardiamo
una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo
agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e
l'altro, in cerca del sale, contiguo
agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande
verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
Il
primo insediamento è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene
definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che
dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra
l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma
fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura
di una vendicatrice resurrezione che pare angosciasse i nostri antenati. ([10])
Quei
cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego,
avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca
probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo
strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso
fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il
sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei ([11]).
Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei
fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo,
entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si
foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di
'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Il
secondo insediamento viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Le pertinenti solite tombe a forno vennero
scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. ([12]) I
reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei
sotterranei di un qualche museo siciliano. Le tombe a forno, che si trovavano
nei pressi della stazione ferroviaria di Castrofilippo, si sono te del tutto
disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla
primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se
non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a
riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle
ferrovie ([13]). Apprendiamo, così, che
«le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro
nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di
esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada
ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci
chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest
di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non
ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi
si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra
per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari
punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le
altre precedentemente descritte.» ([14]) Si
ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano
scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna
particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e
parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista
a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([15])
Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una
riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una
“coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”,
di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un
corno”. Non è questa le sede per
riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli
appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La
conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore
sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani
rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e
Pietralonga, ([16]) - conclude l’A. - nei
cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il
sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle
falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga,
chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città;
ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la
topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città
sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo
la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata
sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa
- presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si
trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione,
con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo
avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel
che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un
policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo
(1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di
Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello
sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono
vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade
racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni
sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al
confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa
che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani
un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi
contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a
tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una
miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani,
risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel
XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([17]) Il
Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti
di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del
XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure
a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana
sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora?
Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della
colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché
disabitato, come l’assenza di ogni testimonianza archeologica pare dimostrare.
[2]) AVS - Reg. Av. 162 f.419v.
[7]) L.
Trevisan: Les mouvements tectiques
récents en Sicile - Hipothèses et problèmes.
[8]) Luigi Romano: Idrogeologia della propagini sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto -
GEOLOGIA - Università di
Palermo - Facoltà di Scienze - Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[12]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ..
scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880.
[13])
Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra
il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra
Licata e Racalmuto nella provincia di Girgenti”.
Il Mauceri risulta essere ingegnere e
direttore dell’Ufficio Centrale
di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S.
di Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI
(AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 - Fascicolo 40.5.2 ).
[14]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ..
scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880,
pag. 17.
[16])
Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del
finitimo Castrofilippo.