Archivio
Cerca
Archivio
tag: Ettore Messana
Opera, 21 agosto 1998
Premessa
Il documento che segue non persegue fini di carattere personale né segna una
svolta nella mia posizione nei confronti di uno Stato e di un regime che
disprezzo. Il volto cristiano della giustizia rappresenta solo un pro-memoria
per coloro che hanno finto di dimenticare come, in passato, hanno chiuso
capitoli ancor più sanguinosi della nostra storia solo perché le responsabilità
di vertice non potevano essere diversamente occultate.
Mettere a confronto, quindi, la ‘clemenza’ degli Scalfaro e C. per i duchi, i
principi, i mafiosi protagonisti della ribellione separatista siciliana, con la
‘faccia feroce’ che oggi stabiliscono nei confronti di quanti non si sono
proposti di vendere agli Stati uniti una parte del territorio nazionale ma, al
contrario, di liberarsi della tutela opprimente e liberticida degli americani –
e con essa dei loro servi italioti – ci è parso doveroso.
Altrettanto doverosa ci appare la risposta a quanti dagli Scalfaro e compari
attendono il condono condizionato al loro ravvedimento ed al riconoscimento dei
loro ‘crimini’ con conseguente condanna di un passato che, contrariamente al
loro presente, è dignitoso e andrebbe difeso e rivendicato. Non è l’attesa
della ‘grazia’ che devono attendere ma, eventualmente, un provvedimento di
giustizia, non dettato da pelose clemenze, che si basi sul riconoscimento della
responsabilità dello Stato e del regime nella guerra politica.
Un provvedimento che riapra – non chiuda – il capitolo sugli ‘anni di piombo’
per concluderlo solo dopo che esso sarà interamente chiarito.
La scarcerazione dei detenuti politici deve quindi rappresentare il primo passo
verso un chiarimento storico definitivo, facendo saltare gli accordi presi da
democristiani e pidiessini, con la complicità dell’immancabile magistratura
italiana, per cancellare le loro responsabilità e i servigi resi a Stati uniti
ed Unione sovietica sulla pelle degli italiani tutti. Perché coloro che sono
ancora in carcere servono ancora oggi a questa classe dirigente senza dignità
per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dal tradimento da essa perpetrato
nei confronti degli interessi nazionali da oltre mezzo secolo.
Depongano le illusioni quanti potrebbero intravedere in queste pagine un
invito, implicito od esplicito, fatto da chi scrive a promulgare un decreto di
indulto ovvero a compiere un gesto di clemenza nei confronti suoi e di quanti
come lui sono ancora in carcere. E’ un’illusione che possono coltivare gli
sciocchi e i disonesti, non coloro che comprendono come la ‘clemenza’ dei servi
suoni ad offesa per coloro che, al pari di chi scrive, sono signori di se
stessi e dei loro destini.
“Onorevoli senatori. Il disegno di legge
sul quale, d’incarico della Commissione da me presieduta, ho l’onore di
riferirvi, ha la sua prima origine nelle dichiarazioni che il Presidente del
consiglio faceva al Senato il giorno 19 agosto u.s. Egli dichiarava allora che
il governo, mentre intendeva riaffermare la esigenza di difendere la maestà
della legge, accogliendo tuttavia l’invito da varie parti ad esso rivolto,
avrebbe presentato un provvedimento di clemenza, ispirato a sensi di larga
umanità, nell’intento anche di contribuire ancora di più alla distensione degli
animi e nella persuasione che la clemenza è il volto cristiano della
giustizia”.
Corre l’anno democristiano 1953. A pronunciare queste alate parole è Adone
Zoli, relatore di un disegno di legge per la promulgazione di un decreto di
amnistia e indulto nei confronti di coloro che hanno commesso “reati… per fine
politico” fino al 18 giugno 1946 (varato con legge 18 dicembre 1953 n.920).
La guerra è finita il 25 aprile 1945 ma il parlamento, compatto, avverte la
necessità di promulgare una legge che allontani lo spettro del carcere o
determini il ritorno a casa di quanti sono detenuti per fatti compiuti fino
alla data del 18 luglio 1946, oltre un anno e due mesi dalla cessazione del
conflitto. E’ il riconoscimento ufficiale di uno stato di guerra non dichiarato
che aveva continuato ad insanguinare il Paese anche dopo che le armi avevano
taciuto e i ‘liberatori’ avevano conquistato l’intero territorio nazionale.
Nell’Italia tornata alla pace, dopo il 25 aprile 1945 era difatti esploso con
virulenza lo scontro tra anticomunismo e comunismo ma, parallela alla guerra
politica, in Sicilia era divampata la ribellione separatista.
Erano i protagonisti di quest’ultima quelli che i partiti politici, solidali
fra loro, dal Movimento sociale italiano al Partito comunista, sorretti dalla
benedizione vaticana, hanno allora inteso salvare con un decreto di amnistia e
indulto che l’opportunismo, non il tempo trascorso, hanno fatto dimenticare in
anni in cui sarebbe stato più che necessario, doveroso, rammentarlo.
La rivolta separatista siciliana non fu un moto spontaneo di popolo ma in esso,
provato e sfinito dalla guerra, trovò molti consensi ed alimentò le speranze di
quanti nell’infame casa Savoia vedevano il simbolo di un’oppressione brutale
che durava da oltre ottant’anni; da quel 1860 che aveva visto un avventuriero
di pochi scrupoli sbarcare a Marsala per sostituire una tirannide indigena con
quella straniera del regno di Piemonte e Sardegna. Nell’estate del 1943 sprazzi
di rivolta avevano illuminato la tormentata terra di Sicilia insanguinandone le
contrade già segnate dolorosamente dalla guerra. Provocati dal desiderio
legittimo di una popolazione che non voleva partecipare alla ‘guerra di
Badoglio’ che nella libertà della propria terra vedeva quel tempo della pace
che lo Stato italiano le aveva sempre negato furono soffocati con l’usuale
durezza dall’esercito di Vittorio Emanuele III. Nella sola Comiso vi furono, secondo
i reticenti dati ufficiali, fra i rivoltosi 19 morti e 63 feriti (F. Gaja,
L’esercito della lupara, Milano Maquis 1990, p.166), senza contare gli
arrestati, i torturati nelle caserme, i condannati. Ma in una terra in cui la
dignità è più preziosa della vita non si uccide impunemente, così l’esercito di
Badoglio contò 18 morti.
Se la ribellione separatista, che traeva forza e ragion d’essere da un anelito
di libertà, fosse stata fomentata dal basso, e avesse trovato in se stessa e
per suo esclusivo conto i propri condottieri, sarebbe stata scritta una pagina
di storia sanguinosa ma onorata. Invece, così non fu.
Alla testa del movimento separatista, a strumentalizzare quel sogno di libertà,
vi erano difatti i complici degli oppressori, quelli che dallo Stato sabaudo in
versione ‘democratica’ prima, fascista dopo, avevano ottenuto privilegi e
benemerenze e che ora, con l’arrivo degli angloamericani, avevano intravisto la
possibilità di divenire i padroni dell’isola, facendosi umili servi dei
vincitori. Politici emarginati ma mai perseguitati durante il Ventennio,
tornati alle loro lucrose professioni cumulando denaro e rancore; mafiosi
rientrati dal confino con l’odio nel cuore; nobili che sognavano il ritorno
all’antico potere non importa come e al servizio di chi. Durante la guerra
avevano contribuito a ‘liberare’ dalla vita migliaia di siciliani falciati dai
bombardamenti terroristici su città e paesi, collaborando segretamente coi loro
massacratori; con lo sbarco ‘concordato’ fra questi ultimi, casa Savoia e lo
Stato maggiore delle Forze armate italiane videro la prossima concretizzazione
delle loro aspirazioni.
Fra loro vi fu chi salvò faccia ed apparenze, inneggiando al “diritto alla
libertà e all’indipendenza della Sicilia” (ivi, p.133) fin dal 22 luglio 1943;
e chi, invece, distribuì senza ritegno e senza vergogna migliaia di distintivi
“recanti il semplice numero 49, ad indicare la Sicilia come quarantanovesima
stella degli Stati uniti d’America” (ivi, p.136), rendendo in tal modo
esplicite le sue intenzioni di passare da un padrone all’altro. I nomi dei capi
separatisti più noti appartenevano alla politica: Antinio Varvaro, Antonio
Canepa, Andrea Finocchiaro Aprile, Concetto Gallo. Poi vi era la melma mafiosa
dei Calogero Vizzini e dei suoi compari e comparielli, picciotti e quaquaraqua.
Ma a tirare i fili, c’erano i rappresentanti di una nobiltà più che avida,
ricca e disonorata: il duca di Carcaci ed i suoi rampolli, i baroni La Motta,
Cammarata, Di Benedetto, Bordonaro, Bonanno di Linguaglossa etc., solo per
citare i più noti.
La truppa era altrettanto composita. Vi erano i ‘volontari’ e i ‘banditi’. I
primi attratti dall’ideale separatista, i secondi richiamati da Concetto Gallo
per conto di principi, duchi e baroni. E furono proprio i banditi il braccio
armato del movimento separatista. Banditi lo erano certamente anche se in molti
avevano una parvenza di ideali come, ad esempio, due degli esponenti più
rappresentativi della banda dei niscemesi, Rosario Avila senior e Rosario Avila
junior, padre e figlio che si erano iscritti, rispettivamente, l’8 marzo 1944 e
il 28 aprile 1945 alla sezione del Movimento separatista di Niscemi. Gli altri
“guidati ed infiammati –scriveva l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana-
dalla diabolica esaltazione di Concetto Gallo, agivano nella illusione di
rifarsi la perduta verginità morale camuffandolo con il sacrificio per un
ideale…” (ivi, p.229).
Senza di loro, il separatismo siciliano non avrebbe avuto storia né peso
politico. I niscemesi guidati da Salvatore Rizzo erano stati arruolati, senza
molti problemi, nel luglio del 1945. Più difficile era stato l’avvicinamento di
Salvatore Giuliano con il quale il primo contatto ufficiale si ebbe il 15
maggio 1945 con esiti positivi (E. Magrì, Salvatore Giuliano, Mondadori, Milano
1987, p.50-51), tanto che il bandito di Montelepre nel mese di luglio poteva
essere considerato un militante separatista a tutti gli effetti.
L’arruolamento dei banditi trovò sanzione definitiva il 15 agosto 1945, nel
corso di una riunione svoltasi a Palermo in casa del barone Stefano La Motta.
Vi parteciparono tutti quelli che contavano: “Muniti di regolari deleghe,
intervennero – scrive Filippo Gaja – don Lucio e Giuseppe Tasca, i fratelli
duchi di Carcaci, Attilio Castrogiovanni, il barone Stefano La Motta, Sirio
Rossi, il barone Cammarata, Concetto Gallo Nicotra, Antonino Varvaro e
Finocchiaro Aprile. Intervenne anche, disdegnando qualsiasi delega e
accompagnato da due guardie del corpo, don Calogero Vizzini, capo della mafia
siciliana” (F. Gaja, L’esercito…cit., p. 197).
Con la sola opposizione di Antonino Varvaro, respinta da Lucio Tasca con
l’obiezione che “anche Garibaldi si era rivolto ai criminali” e l’assicurazione
di Calogero Vizzini che “garantì di poter assumere in qualsiasi momento il controllo
dei fuorilegge, dicendo esplicitamente che contro questi ultimi nulla avrebbe
potuto la polizia senza l’aiuto della mafia” (ivi, p.198), i banditi divennero
soldati dell’unico ideale al quale, in fondo, potevano aderire con la speranza
che il giorno della vittoria avrebbe coinciso con quello della loro redenzione.
Si ingannavano e venivano ingannati, ma erano importanti per la corrotta
nobiltà siciliana. E pur di poterli avere qualcuno fra i capi del separatismo
siciliano aveva provveduto a far liquidare fisicamente Antonio Canepa, legato
non agli americani ma all’Intelligence service britannico, contrario ad ogni
ipotesi di inquinamento della purezza dell’armata separatista con l’immissione
di criminali comuni e, quel che era peggio, dotato di un carisma in grado di
annullare quello di Concetto Gallo. Era Antonio Canepa il capo militare e
politico dell’Evis, fino a quel 17 giugno 1945 quando, a Randazzo in provincia
di Catania, i carabinieri aprirono il fuoco senza preavviso e senza motivazioni
sul furgone sul quale viaggiava insieme ad alcuni suoi compagni. I carabinieri,
si sa, sono coscienziosi. E anche quella volta fecero un lavoro accurato: su
sei separatisti ne morirono tre, due dissanguati per le ferite ed uno sul
colpo: Antonio Canepa.
L’esercito da lui creato si sgretolò: “Oltre alla brigata Canepa accampata a
Cesarò – ricorda Gaja – al momento dello scontro a fuoco di Randazzo erano già
in formazione in tutta la Sicilia i sedici gruppi di guerriglieri previsti da
Canepa i quali, rimasti senza capo, si sciolsero” (ivi, p.196). Ora si poteva
costituire un nuovo esercito separatista con a capo Concetto Gallo.
Il primo attacco, i miliziani separatisti e niscemesi insieme, lo sferrarono il
16 ottobre 1945 attaccando, in località Ape nei pressi di Niscemi, una
pattuglia di carabinieri, quattro dei quali furono uccisi e un quinto ferito.
La guerra contro l’Italia era iniziata.
Una guerra all’italiana, con trattative segretissime fra i capi del movimento
separatista siciliano e Giuseppe Romita, ministro degli Interni, per conto del
governo che giunse a ricevere una delegazione di ‘rivoltosi’ al Viminale,
facendola accompagnare da un aereo militare appositamente inviato a Catania; e
l’esercito ribelle che si concentrava apertamente in località San Mauro di
sopra da dove avrebbe dovuto iniziare la sua marcia ‘liberatrice’ conquistando
Caltagirone, patria del non compianto don Luigi Sturzo.
Nell’attesa che sorgesse l’alba del giorno fatale, i separatisti, con e senza
banditi, procedettero a compiere requisizioni forzate per procurarsi viveri e
sequestri di persona per autofinanziarsi. Principi, duchi e baroni non
sborsavano che spiccioli: prima – ovvio- il patrimonio, poi l’ideale.
Il secondo attacco lo sferrò Salvatore Giuliano. Fallite le trattative col governo
di Roma, le truppe italiane si erano disposte attorno a San Mauro, pronte ad
attaccare. Era necessaria una diversione nella speranza, poi rivelatasi vana,
che una parte delle forze militari italiane fosse spostata dalla Sicilia
orientale a quella occidentale. Così venne impartito a Giuliano l’ordine di
attaccare. Il bandito ubbidì assalendo la caserma dei carabinieri di
Bellolampo, il 26 dicembre 1945, e facendo prigionieri i quattro militi che la
difendevano. Troppo tardi e troppo poco.
Il 29 dicembre 1945, le truppe italiane attaccarono il campo separatista di San
Mauro, impegnandosi in uno scontro a fuoco impari per la evidente sproporzione
di mezzi e di uomini proprio confrontati con quelli dei rivoltosi. Lo
sprovveduto ed inetto capo militare, Concetto Gallo, si auto-eliminò subito
dalla scena andando con cinque uomini a catturare una pattuglia di soldati
italiani, senza accorgersi che “era fiancheggiata da altri reparti, e si trovò
improvvisamente sotto il fuoco” (ivi, p.239). Obbligato a rintanarsi in una
buca, Gallo sparò fino all’esaurimento delle munizioni per essere poi
catturato, insieme a due giovanissimi volontari, alle quattro del pomeriggio.
Ad assumere le redini del comando fu Salvatore Rizzo, il capo dei niscemesi,
che diresse “la manovra di sganciamento. Fece la rapida ispezione di un
sentiero e –scrive Gaja- appena la notte fu caduta, il silenzio, e in fila
indiana, tenmendo i cavalli per le redini, i guerriglieri si addentrarono nel
bosco di San Pietro” (ivi, p.240).
La guerra guerreggiata dichiarata dal separatismo siciliano all’Italia si
conclude qui, con la cosiddetta ‘battaglia di San Mauro’ che suddivise
equamente le perdite: un morto e due feriti, fra i separatisti; un morto e
cinque feriti fra i militari italiani. Iniziò, quindi, la guerriglia vera e
propria affidata alle capacità militari dei banditi che scrissero una pagina
sanguinosa, intrisa di uccisioni di appartenenti alle forze di polizia e
dell’esercito, di assalti ad installazioni militari e caserme, di sequestri di
persona per finanziare il movimento e poter continuare a combattere.
La storia politica del movimento separatista potè così proseguire poggiandosi
sulla determinazione feroce con la quale Salvatore Giuliano e la sua banda, i
niscemesi ed altri continuarono a battersi per un ideale ormai definitivamente
tradito, restando soli quando gli ultimi volontari rimasti furono mandati a
casa con la garanzia che la polizia non li avrebbe arrestati, pur restando a
tutti gli effetti dei latitanti. La svolta, che segna anche l’inizio della
manovra di sganciamento dei banditi, era stata determinata dall’ingresso in
scena di Umberto II, consapevole di quanto fosse vacillante il suo trono nella
primavera del 1946, ed alla ricerca di una soluzione che ponesse rimedio a
quella che già si profilava come una sconfitta nelle elezioni del 2 giugno
1946.
La nobiltà separatista, in questa contingenza, dimentica degli ideali, si
propone di affidare la ‘libera Sicilia’ all’erede di chi della sua libertà
l’aveva privata, offrendo a Umberto II il trono dell’isola, con l’entusiastico
consenso delle gerarchie militari. E’ l’ennesima pagina di fango, scritta con
la complicità dei vertici politici, militari ed ecclesiastici, con latitanti di
alto rango ricevuti al Quirinale, patti stipulati con i mafiosi, generali che
fomentavano ‘movimenti rivoluzionari’ monarchici, soldi elargiti senza
risparmio da casa Savoia agli ‘amici’ ed agli ‘amici degli amici’.
Ad una distanza siderale da questo mondo di operetta tragica e dai suoi
burattinai, sul terreno arido e pietroso dei contrafforti montuosi della
Sicilia, si consumava intanto la tragedia autentica dei banditi – separatisti.
I niscemesi di Salvatore Rizzo avevano catturato, il 10 gennaio 1946, otto
carabinieri, un’intera pattuglia che si era subito arresa senza sparare un
colpo. Obbedivano ancora una volta agli ordini del comando separatista di
Palermo che esigevano l’attacco alle forze militari e di polizia italiane, ma
questa volta non disarmano i loro prigionieri, neanche li uccidono, se li portano
invece appresso, benché braccati da migliaia di uomini dell’esercito e dei
carabinieri, per ben diciotto giorni, senza torcere loro un capello.
Filippo Gaja nota che “a rigor di logica, un gruppo di guerriglieri in continuo
spostamento non prende prigionieri, che possono rallentare la marcia, se non è
costretto dalla necessità, o se non ha uno scopo ben definito, oppure se non ha
l’ordine di farlo. Né è possibile – continua Gaja – attribuire l’iniziativa ai
banditi per puro desiderio di vendetta, poiché questa sarebbe stata consumata
subito. Tanto meno è naturale che dei banditi si portino dietro otto
carabinieri legati per diciotto giorni, come in effetti avvenne” (ivi,
244-245).
Diverse sono state le ipotesi avanzate per spiegare la logica del comportamento
dei niscemesi in questo frangente e comprenderne il fine, mancando in assoluto
elementi di certezza. La più vicina alla verità appare essere quella di uno
scambio di prigionieri: gli otto carabinieri in cambio di Concetto Gallo,
arrestato a San Mauro, come abbiamo visto, il 29 dicembre 1945. Se questa è la
verità – e non può non esserlo a rigor di logica – Salvatore Rizzo ed i suoi
uomini obbedivano con disciplina e a rischio della propria vita agli ordini dei
dirigenti del Gris (Gioventù rivoluzionaria per l’indipendenza della Sicilia).
Ammette Filippo Gaja che, effettivamente, “molti anni dopo si seppe che vi fu
effettivamente un principio di trattativa fra lo Stato e la guerriglia, sotto
forma di colloqui segreti fra Guglielmo Carcaci e l’ispettore Messana”; e
rileva come “dall’andirivieni di messaggeri sembrava che i capi dei banditi
stessero discutendo con i responsabili della rivolta sul cosa fare dei
prigionieri” (ivi, p.248).
Poi, come in ogni oscuro mistero, sulla vicenda e la sua tragica conclusione
cala la nebbia del silenzio. Da Rosario Avila jr. si sa solo che “…un giorno
verso la fine di gennaio furono raggiunti da un giovane sui vent’anni che
indossava un impermeabile chiaro, il quale dopo aver salutato i presenti,
parlando aveva accennato a macchine già pronte per portar via i carabinieri”
(ivi, p.249), ma è doveroso dubitare della parola di un uomo incarcerato,
facilmente condizionabile dai suoi carcerieri interessati ad addossare ogni
responsabilità ai niscemesi sollevandone il comando separatista.
Salvatore Rizzo aveva sempre obbedito agli ordini dei dirigenti del Gris e non
si comprende perché avrebbe dovuto fare eccezione in quella sola ed unica
occasione, così che di certo c’è solo la visita di un emissario del duca di
Carcaci e dei suoi complici. Poche ore più tardi, Salvatore Rizzo “a notte
fatta ordinò a sei dei suoi uomini di fare uscire i carabinieri dalla stanza
dove erano rinchiusi, legandoli a due a due con le loro stesse manette. Quindi
tutti si avviarono nell’oscurità. Li fecero camminare un’ora e mezzo nella
notte, poi fu dato l’alt davanti a una miniera di zolfo abbandonata in contrada
Bubbonia. L’ex ergastolano Francesco Saporito disse ai carabinieri che
sarebbero stati liberati e li invitò a spogliarsi senza far rumore, con la
scusa che gli indumenti servivano a loro. Ma dopo che furono nudi, nel gelo
della notte – ricorda Gaja – cominciò l’esecuzione. Il brigadiere aveva ancora
la panciera e due carabinieri i calzini di cotone bianco d’ordinanza. Furono
fucilati uno alla volta. Il più giovane, un ragazzo di vent’anni, si calò la
bustina sugli occhi per non vedere, e morì così. Il costume delle stragi
politiche era entrato nella storia d’Italia. Questa fu la prima” (ivi, p.195).
Fu anche la prima i cui mandanti e responsabili organizzativi vennero lasciati
impuniti dalla magistratura italiana su ordine del potere politico. Agguati a
pattuglie di polizia e militari, sequestri di persona a scopo di
auto-finanziamento, requisizioni forzate, omicidi individuali, rivolte
collettive, rastrellamenti, arresti, torture. La misconosciuta – ancora oggi –
guerriglia separatista siciliana fu la prima guerra civile che sconvolse
l’Italia ‘liberata’. Guerriglia che aveva come fine dichiarato il distacco di
una parte del territorio nazionale per un’indipendenza da burla o, più
realisticamente, il suo passaggio sotto l’amministrazione degli Stati uniti
d’America. E Stati uniti ed Inghilterra appaiono come i veri responsabili di
una tragedia che il regime ed i suoi storici asserviti hanno, poi, fatto
dimenticare.
Ha raccontato il prudentissimo e inetto Concetto Gallo: “Il 17 giugno (1945
nda), mentre sto per lasciare Catania, ricevo una telefonata da Guglielmo duca
di Carcaci, comandante della Lega giovanile e comandante generale dell’Evis. Mi
dice: ‘Hanno ammazzato Canepa. Non ti muovere. Ti verrò a prendere io’.
Partimmo insieme verso Cesarò e ci rifugiammo nella ducea di Wilson, presso
Bronte. Trascorsi alcuni giorni, arriva un’automobile. Alla guida c’è un
ammiraglio degli Stati uniti. Accanto, una bella signora. Dietro, Guglielmo di
Carcaci con un cappello da commodoro. Entro in fretta e furia nell’automobile,
mi infilo una giacca da ammiraglio degli Stati uniti, metto in testa un
berretto da commodoro e l’automobile si avvia. La città è circondata da polizia
e carabinieri. Un vero presidio con posti di blocco ovunque. Ovunque uomini e
barriere che si alzano solo dopo che la polizia ha controllato i documenti di
chi vuole lasciare la città. Noi – prosegue Concetto Gallo – arriviamo al posto
di blocco di Ognina. L’ammiraglio si fa riconoscere e la pattuglia dei
carabinieri ci fa un perfetto saluto aprendo la barriera. Questo episodio mi
diede personalmente –conviene il protettissimo dalla magistratura italiana
Concetto Gallo- la misura della simpatia che il Movimento godeva presso gli
alleati. E infatti la sera stessa, dopo una sosta con colazione a Taormina,
giungemmo a Palermo dove, insieme col duca di Carcaci, fummo ospiti a villa
Wittinger, che era la sede del comando alleato in Sicilia…”(ivi, p.445).
E’ più di un indizio, come lo stesso Filippo Gaja lo presenta: è una prova,
inconfutabile e pesante come un macigno che avrebbe dovuto pesare sulla
coscienza di quanti politici, militari e magistrati l’hanno rimossa in nome di
una ragion di Stato che appare, viceversa, come l’ennesimo atto di servilismo
nei confronti dei vincitori della seconda guerra mondiale. I lacchè
seppellirono la verità sulla sanguinosa guerriglia separatista in Sicilia, e
presentarono gli ‘alleati’ (di chi non lo hanno ancora spiegato) come i
difensori dell’unità nazionale minacciata dall’accordo fra il partito comunista
italiano e la Jugoslavia di Tito per privarci di Trieste e di qualche altro
lembo di terra sul confine nord- orientale. Con il complice assenso-silenzio
dei comunisti italiani hanno rimosso dal ricordo una guerriglia vera in Sicilia
rimpiazzandola con un’altra, solo ipotetica, dalla parte opposta della
penisola.
Ma a motivare questo processo di rimozione – sostituzione non fu la presenza
esclusiva degli anglo-americani. Ad eseguire un piano accuratamente elaborato,
ad arruolare uomini capaci di combattere, a fornire loro le motivazioni per
farlo in modo determinato e duraturo nel tempo non potevano essere stranieri ma
indigeni per di più, come abbiamo visto, fra i più facoltosi ed influenti
dell’isola: nobili, politici, preti e mafiosi.
L’Ispettorato generale di P.S. della Sicilia, in un suo rapporto del 7 marzo
1946, ne aveva indicati alcuni: “Promotori ed organizzatori: Guglielmo Carcaci,
Giuseppe Tasca, Rosario Cacopardo, Stefano La Motta, Concetto Gallo. Capi:
Salvatore La Manna, Cammarata inteso Pippi, da identificare, Antonio Velis,
Giovanni Li Mandri, Giuseppe Calabrò, Francesco Tornabene, Salvatore Giacomo
Maria Graziano, don Ciccio da Caltagirone, da identificare, Pasquale Sciortino,
Bordonaro, da identificare, altro Bordonaro, da identificare, Pietro Franzone…”
(ibidem). Ma, in quel rapporto, di rilievo non c’erano solo i nomi, c’era anche
il riconoscimento esplicito di un’unità di comando che aveva reso possibile lo
sviluppo coordinato ed armonico della guerriglia in Sicilia: “All’unità di
comando –scriveva difatti l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana- delle
due formazioni ribelli operanti nella Sicilia orientale ed occidentale si
credette contrapporre la unicità di indirizzo e di coordinamento nelle indagini
che andavano svolgendo i vari organi di polizia dell’isola…” (ivi, p.284). E la
conferma giunge dall’interno della stessa organizzazione separatista, come
diretta conseguenza dei “primi arresti dei responsabili dalle cui dichiarazioni
emergeva subito la colpa dei dirigenti del Gris tra cui troneggiano le figure
del duca di Carcaci, di Giuseppe tasca e del barone La Motta” (ibidem).
Vi erano tutti i presupposti per fare un processo clamoroso, alla cui
conclusione la verità sarebbe necessariamente emersa in ogni suo risvolto,
anche il più oscuro e recondito. Ma a chi poteva convenire l’accertamento della
verità e la sua proclamazione in sede giudiziaria e storica? A nessuno. Tutti,
semmai, avevano l’interesse opposto: soffocare la verità, distruggerne financo
i frammenti sia per evitare che venisse riconosciuta la responsabilità degli
‘alleati’ e dei vertici politici, militari ed ecclesiastici italiani che con la
gerarchia separatista avevano trattato, brigato, preso accordi rendendosene
complici, sia perché i capi e una parte dell’esercito separatista si erano
avviati a divenire la milizia politica e militare della Democrazia cristiana,
dell’anticomunismo trasformandosi nel braccio armato dello Stato.
La polizia, consapevole di questa realtà, aveva proceduto subito a salvare i
propri complici e confidenti in coppola e lupara. Nel citato rapporto del 7
marzo 1946, l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana, uno dei protagonisti
di questa ignobile pagina di storia, si era premurato di specificare che
“nessuna responsabilità concreta è stata accertata a carico del Calogero
Vizzini, il quale pur separatista, nulla avrebbe avuto a che fare con il Gris…”
(ivi, p.266). E con il riconosciuto pubblico capo della mafia siciliana “nessun
altro elemento di spicco della mafia – rileva Filippo Gaja – ebbe l’onore della
citazione nei rapporti di polizia “ (ibidem).
Lo stesso accadde con i capi separatisti. “…Lucio Tasca barone di Bordonaro –
scrive ancora Gaja – rimase tranquillamente nella sua sontuosa villa in attesa
degli avvenimenti…In definitiva, furono perseguiti quali ispiratori ed
organizzatori della guerriglia soltanto il duca Guglielmo di Carcaci, Giuseppe
Tasca, l’avvocato Rosario Cacopardo, il barone Stefano La Motta e Concetto
Gallo; ma solo gli ultimi due raggiunsero il carcere, in attesa dell’amnistia,
e dopo pochi mesi riottennero la libertà” (ibidem).
Le ragioni ufficiali di tanta benevolenza le spiega il comandante dell’Arma dei
carabinieri, Brunetto Brunetti, in una relazione inviata il 18 febbraio 1946 ad
Alcide de Gasperi: “A loro carico –scrive- non sono affiorati convincenti
elementi di diretta partecipazione all’organizzazione del Gris e delle bande
armate, per cui finora non sono state raccolte prove sufficienti a giustificare
il loro arresto e la conseguente denuncia all’autorità giudiziaria. Al loro
fermo si è anche soprasseduto perché, da quanto ha riferito il commendator
Messana, il ministero dell’Interno non intenderebbe allargare troppo le repressioni,
che verrebbero limitate alle sole persone direttamente coinvolte nelle azioni
criminose, e ai loro fiancheggiatori…” (ivi, p.267).
Ministro degli interni, all’epoca, era il socialista Giuseppe Romita, ministro
di Grazia e giustizia il comunista Palmiro Togliatti. Con questi
‘rappresentanti del popolo’, nobili e nobilastri sarebbero rimasti fuori dalle
inchieste, e a pagare per tutti sarebbero stati i proletari che li avevano
ingenuamente seguiti in nome di un ideale di libertà che, per loro, significava
anche la fine dell’oppressione economica e dello sfruttamento. Nell’ipocrita
distinzione operata dal socialista Giuseppe Romita in concorso con il comunista
Palmiro Togliatti fra coloro che possono essere ‘repressi’ perché ‘direttamente
coinvolti nelle azioni criminose’ e coloro che lo devono essere, c’è una
filosofia politica e giudiziaria che, da allora, è rimasta inalterata: gli
esecutori pagano, i mandanti e gli organizzatori no.
In quanto alle ‘prove’ si nega con estrema disinvoltura che esistano o che
siano sufficienti, come ha fatto il comandante Brunetti che ha ignorato
bellamente quanto gli aveva messo per iscritto il suo subalterno, generale
Branca, responsabile dei carabinieri in Sicilia: “l’idea di aggregare ad
elementi di fede separatista malfattori comuni è una trovata di Lucio Tasca,
capo del Gris –aveva scritto Branca, specificando che- capi del Gris e
promotori delle violenze sono: don Guglielmo Carcaci, Giuseppe Tasca, figlio di
Lucio Tasca, barone Cammarata, barone Stefano La Motta, avvocato Silvio Rossi,
avvocato Di Benedetto” (O. Barrese – G. D’Agostino, La guerra dei sette anni,
Rubbettino, Messina 1997, p.83).
Dopo polizia e carabinieri, a completare con precisione chirurgica
l’ingiustizia salvando i forti e condannando i deboli interviene la
magistratura italiana, da sempre gelosa custode della sua dipendenza da ogni
potere politico, non importa quale purché garantisca carriera e stipendio.
Inizia la Procura generale di Palermo a compiere l’opera di divisione fra i
volontari del Gris, da salvare, e i banditi, da condannare, applicando il 9
marzo 1947 l’amnistia Togliatti a 183 imputati e inviando “alle Corti d’assise
competenti secondo criteri territoriali i giudizi per fatti che non potevano
rientrare nella’amnistia” (F. Gaja, L’esercito… cit., p. 446). La
frammentazione del processo in tanti rivoli è, difatti, la premessa
indispensabile per non fare emergere il disegno unitario del separatismo
siciliano, coordinato da un unico vertice che aveva avuto ai suoi ordini non
bande separate ma un solo esercito.
Una realtà, questa, che era presente negli atti processuali come nei rapporti
di polizia e carabinieri nei quali la ‘banda Avila’ e la ‘banda Giuliano’ erano
inserite nell’organico del Gris. Ma cosa vale la verità, quand’anche conosciuta
dall’intera popolazione, per l’arrogante magistratura italiana? Nulla. Dopo
aver salvato i capi del separatismo, i ‘promotori delle violenze’, bisognava
chiudere il capitolo concedendo ‘clemenza’ ai ‘volontari’ per riservare ai soli
banditi un trattamento feroce e vendicativo.
Un esempio emblematico e significativo di una disparità di trattamento, che non
può che definirsi ignobile, viene fornito dal raffronto di quanto hanno scritto
i magistrati nelle sentenze emesse, rispettivamente, a carico di Concetto Gallo
e dei superstiti della ‘banda dei niscemesi’. Sul conto del primo, i giudici
della Corte d’assise, rievocando la ‘battaglia di San Mauro’, non esitarono a
scrivere: “…L’ambiente è quello della battaglia che vede contrapposti due
piccoli eserciti, il regolare comandato da tre generali e quello dei ribelli
contro l’ordine costituito comandato da Concetto Gallo che agiva per un ideale,
sia pure condannevole per il sovvertimento che si proponeva, ma pur sempre un
ideale…” (ivi, p.288). Sui secondi, in tutto quattro imputati fra i quali
Vincenzo Milazzo, i giudici della Corte d’assise di Caltanissetta,
territorialmente competente per la strage di Feudo nobile, risolsero così il
problema rappresentato dalla milizia degli accusati nell’esercito separatista:
“…la predetta banda (composta tutta di avanzi di galera, di evasi e di
pregiudicati) successivamente si aggregava (al Grsi, nda) al solo intimo
proposito di mascherare e rafforzare il raggiungimento delle proprie finalità,
rivolte unicamente alla consumazione dei più gravi delitti…” (ivi, p.286).
Giustizia era fatta.
Se questi furono i giudici, non migliore di loro fu il codardo Concetto Gallo
che dei niscemesi era stato l’arruolatore ed il capo, e per la cui liberazione
erano stati prima fatti prigionieri, poi uccisi, gli otto carabinieri di Feudo
nobile. Non una parola o un gesto sprecò Concetto Gallo in loro difesa.
Assistette in silenzio allo spettacolo miserando del massacro giudiziario di
quel che restava dei suoi uomini cumulando i benefici che a lui venivano
concessi in nome della sua complicità con il potere politico. La storia
giudiziaria di Concetto Gallo è difatti quella di un salvataggio sistematico e
sfacciato.
In relazione alla costituzione ed all’attività dell’Evis il 19 settembre 1946
il giudice aveva rinviato a giudizio quaranta persone riuscendo nell’impresa di
accusare i subalterni di essere i capi e i capi di essere i vivandieri, tanto
che il duca di Carcaci e Concetto Gallo vennero ritenuti colpevoli “solo di
‘aver fornito informazioni e viveri’ “(ivi, p.441). Nel processo, svoltosi a
Catania, contro la banda dei niscemesi “inizialmente – ricorda Filippo Gaja –
era imputato anche Concetto Gallo, esattamente per undici capi di imputazione.
Ma poi fu prosciolto” (ivi, p.285).
Nel processo per l’uccisione del brigadiere dei carabinieri Giovanni Cappello,
avvenuta a San Mauro il 29 dicembre 1945, la Corte d’assise giunse al punto –
fatto di eccezionale rarità in un tribunale italiano- di disattendere la
testimonianza di un ufficiale dei carabinieri, ritenendola meno attendibile di
quella dell’imputato Concetto Gallo, pur di evitargli il carcere. Riuscirono,
così, quei giudici a condannarlo per omicidio preterintenzionale il 28 ottobre
1950, e “il reato – annota Gaja – fu dichiarato estinto per amnistia e il
mandato di cattura contro Gallo revocato” (ivi, p.288). La famiglia del
sottufficiale dei carabinieri ucciso si ribellò ad una sentenza che le apparve
scandalosa. Propose appello e chiese ed ottenne il trasferimento del processo
ad altra sede per legittima suspicione. Questa volta, la Corte d’assise di
appello riconobbe Concetto Gallo responsabile di omicidio volontario e, il 18
novembre 1954, lo condannò a quattordici anni di reclusione. Ma, per effetto
del decreto di amnistia ed indulto promulgato dal Presidente della repubblica
il 18 dicembre 1953, la pena venne interamente condonata.
Giustizia era fatta.
Dopo la discriminazione fra i capi e i gregari del separatismo siciliano,
quella fra questi ultimi e i banditi, ve ne fu una terza fra banditi e banditi.
Risparmiati dai mitra dei carabinieri e dalle lupare dei mafiosi, Salvatore
Giuliano ed i suoi uomini vennero graziati anche dal bisturi giudiziario che su
di loro non intervenne. Anzi, il procuratore generale di Palermo, Emanuele Pili,
risulta documentalmente provato che incontrò almeno una volta Giuliano
recandogli “grande conforto” (ivi, p.333). “Un bandito inseguito da centinaia
di ordini di arresto, che incontra privatamente il capo della giustizia –
commenta Filippo Gaja – è un fatto oggettivamente molto insolito, spiegabile
solo con motivazioni straordinarie che però non sono mai state spiegate” (ivi,
p.336). Negli anni Settanta e successivi si sarebbe visto anche di peggio,
perché gli anni passano ma la magistratura resta.
A parere di Filippo Gaja, l’impunità di Salvatore Giuliano derivò dal fatto che
“se fosse comparso in Corte d’assise forse avrebbe potuto documentare la sua
alleanza con i finanziatori e dirigenti del Gris e avrebbe fatto delle chiamate
di correo, poiché non aveva una natura remissiva. Era uno che non perdonava.
Difficilmente avrebbe acconsentito di essere il solo a pagare per i delitti dei
quali si era macchiato in nome dell’indipendentismo, se era convinto, come era
convinto, d’essere stato indotto a compierli per uno scopo politico” (ivi,
p.288.289). Noi siamo meno ingenui perché riteniamo che mai, nemmeno per un
momento, a politici, magistrati e uomini delle forze di polizia è venuto in
mente di condurre Salvatore Giuliano vivo dinanzi ad una Corte d’assise. A
nostro giudizio, quindi, la discriminazione fra Salvatore Giuliano e Salvatore
Rizzo non derivò dalla maggiore capacità di ricatto del primo rispetto al
secondo, quanto dal fatto che il bandito di Montelepre, dopo la causa
separatista, aveva abbracciato quella anticomunista, mentre il secondo non
aveva compreso la realtà che si era determinata in Sicilia e nel paese o, più
semplicemente, non gli interessava.
“Uccidetemi se per caso diventassi comunista”, aveva ordinato Giuliano ai suoi
gregari Pisciotta e Ferreri. Si comprende – scrive Gaja – perché alle elezioni
del 2 giugno 1946 si ebbero solo 21 voti comunisti e socialisti a Montelepre”
(ivi, p.301). Si comprende anche perché a Salvatore Giuliano e alla sua banda
venne concessa una proroga sulla vita e piena libertà di azione, culminata
nella strage di Portella delle ginestre il 1 maggio 1947. La Democrazia
cristiana, la Chiesa di Roma, le forze anticomuniste italiane e straniere
avevano bisogno di uomini come lui per imporre con il terrore il nuovo ordine
che in Sicilia si rappresentava, in quegli anni, con la croce e la lupara. Poi,
anche Salvatore Giuliano divenne un subalterno scomodo, da uccidere. E gli
ammazzati rappresentano l’altra faccia della giustizia italiana, altrettanto
efficiente di quella ufficiale.
“Ho già riferito all’inizio della presente relazione – scriveva il 28 aprile
1947 l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana al capo della polizia – che
gli ultimi tre componenti della banda, fra cui il capo di essa, il pericoloso
pregiudicato Salvatore Rizzo, sono stati eliminati con l’ultima decisa azione
del 19 febbraio scorso. Il bandito Rizzo, ferito, ha continuato a fare fuoco
fino agli estremi contro i carabinieri ed è morto addentando la canna rovente
del suo mitra, mentre in una mano teneva stretta una bomba a mano, a cui aveva
già tolto la linguetta di sicurezza… Prego codesto ministero – concludeva
Messana – perché la taglia di L. 500 mila promessa per la cattura del capo
della banda dei niscemesi sia concessa al confidente che è riuscito a far
cogliere il bandito Rizzo Salvatore, capo della banda stessa durante tutte le
vicende dell’Evis, in occasione dell’eccidio dei militari della stazione di
Feudo nobile e in tutte le altre imprese criminose” (O. Barrese – G.
D’Agostino, La guerra…cit., p. 92).
Rosario Avila senior era stato già eliminato, come altri componenti la banda,
da sicari mafiosi; Rosario Avila junior morirà in carcere senza che si
conoscano la data né le circostanze. In poco più di un anno la ‘banda dei
niscemesi’ era stata così annientata, fisicamente liquidata, dall’azione
congiunta di polizia, carabinieri, polizia e mafia. I pochi superstiti vennero
sepolti all’ergastolo.
Non diversa fu la sorte riservata a Salvatore Giuliano ed ai suoi uomini. Il 27
giugno 1947, informati dalla solita ‘fonte confidenziale’, i carabinieri
tendono ad Alcamo un’imboscata ai banditi-confidenti dell’ispettore generale di
P.S. Ettore Messana, colpevoli di conoscere qualche particolare di troppo sulla
strage di Portella delle ginestre ed i suoi mandanti. Vengono uccisi sul colpo
Caraci Antonio, Giuseppe e Fedele Pianello, mentre Salvatore Ferreri,
conosciuto come Fra’ Diavolo, viene trascinato nella caserma e liquidato con
due colpi di pistola in fronte sparati dal capitano Giallombardo.
Il 24 novembre 1948 tocca a Giuseppe Passatempo cadere sotto il fuoco dei
carabinieri. Lo seguono, nei primi mesi del 1950, Salvatore Pecoraro, il 24
gennaio, e Rosario Candela, il 14 marzo. Passatempo Giovanni, Di Maria Emanuele
e Giammone vengono eliminati dalla mafia. Il 5 luglio 1950 tocca a Salvatore
Giuliano essere eliminato dalla scena; il 9 febbraio 1954, viene chiusa per
sempre la bocca di Gaspare Pisciotta mentre il 6 marzo 1954 l’avvelenamento di
Angelo Russo, sempre nel carcere dell’Ucciardone permette la scarcerazione del
secondino Selvaggio accusato di aver avvelenato Pisciotta.
Per gli altri fu la morte civile.
“La clemenza – aveva detto con voce ispirata il democristiano Adone Zoli – è il
volto cristiano della giustizia”. Ma rivolta verso chi?
Non passeranno molti anni e, a metà degli anni Sessanta, la guerra politica
ridiviene guerreggiata perché tanto esigeva lo Stato di Portella delle
ginestre. Questa volta la Sicilia rimane esclusa, affidata al controllo della
mafia, mentre il centro-nord del Paese conosce il volto di una guerra nella
quale si ritrovano gli stessi, identici elementi di ambiguità, misteri e
complicità fra lo Stato presunto ‘aggredito’ ed i suoi presunti ‘aggressori’.
Le bande del neofascismo atlantico e di regime assumono il ruolo che fu di
Salvatore Giuliano e dei suoi uomini. Delinquenti, e non politici, conosceranno
però durante e dopo la guerra la ‘clemenza’ ed il ‘volto cristiano della
giustizia’ in misura proporzionale ai servigi resi allo Stato ed al regime.
Come già i dirigenti separatisti eletti all’Assemblea costituente, i ‘promotori
delle violenze’ sono sempre stati seduti – e ancora oggi siedono – sui banchi
della Camera dei deputati e del Senato, fanno parte delle Commissioni
parlamentari d’inchiesta e ostentano indignazione al solo sentir parlare di
‘clemenza’ nei confronti dei ‘terroristi’ ancora in galera, avendo già
provveduto a far concedere ai propri stragisti quei benefici che la
legislazione penitenziaria riserva, appunto, ai delinquenti.
A sinistra, la situazione è storicamente diversa ma non eticamente migliore.
La corsa ai benefici di legge, ottenuti e da ottenere ripudiando ideali e
passato, rinnegando compagni vivi e morti, umiliandosi dinanzi a secondini e
magistrati di sorveglianza, ha visto tagliare il traguardo, tra i primi, i
capi, secondo una tradizione italiana che pesa come una maledizione su un
popolo dove pure dignità non è parola di ignoto significato. Ne sono
testimonianza alcune decine di ragazzi e ragazze, divenuti uomini e donne in
carcere, che nulla hanno mai chiesto e niente vogliono. Non ai ‘semiliberi’, ai
‘lavoranti esterni’, ai ‘permessanti’, a quanti invocano il diritto di avere
‘pietà verso se stessi’ abbiamo pensato tratteggiando la storia tragica e
terribilmente attuale del separatismo siciliano e della sua conclusione. Le
abbiamo invece dedicate ai soldati di una guerra ideologica che lo Stato ha
dichiarato, fomentato, inasprito e, infine, fermato dichiarandosene vincitore.
A questi ex ragazzi e ragazze, a questi uomini e donne, le dedichiamo con
rispetto pari al disprezzo che riserviamo ai politici italiani di ogni partito,
nessuno escluso.
Non c’è difatti politico italiano che abbia vissuto gli anni del dopoguerra,
che non conosca il testo del provvedimento di amnistia ed indulto concesso con
legge 18 dicembre 1953 n.920. Oscar Luigi Scalfaro, Nilde Iotti, Giorgio
Napolitano, Armando Cossutta, Giulio Andreotti, Pino Rauti, Marco Pannella,
Giulio Maceratini, Sergio Flamigni, solo per citarne alcuni, non hanno certo
dimenticato la storia infame della guerriglia siciliana e la sua ancor più
infamante conclusione, così come ricordano quali interessi politici ed
ideologici furono alla base di quel provvedimento di amnistia e indulto che
chiuse il capitolo bellico fino alla cessazione ufficiale della guerriglia
separatista in Sicilia. Ognuno in quell’occasione salvò i propri: il Partito
comunista italiano, i Moranino; il Movimento sociale, i residui prigionieri
della Repubblica sociale italiana; la Democrazia cristiana, i propri assassini.
Ma, pur contro la volontà dei suoi promotori di allora e degli interessati
smemorati di oggi, quel provvedimento di amnistia e indulto rimane modello per
quanti oggi cercano una soluzione che chiuda, in maniera definitiva, il
capitolo della guerra politica.
Ricordiamo anche noi, qui, cosa stabiliva l’art. 2 del decreto di amnistia ed
indulto del 18 dicembre 1953:
“Il Presidente della repubblica è delegato a concedere indulto:
per i seguenti reati commessi dall’8 settembre dall’8 settembre 1943 al 18
giugno 1946: reati politici ai sensi dell’art. 8 del codice penale e i reati
connessi; nonché i reati inerenti a fatti bellici, commessi da coloro che
abbiano appartenuto a formazioni armate:
commutando la pena dell’ergastolo nella reclusione per anni dieci e, qualora
l’ergastolo sia stato già commutato in reclusione per effetto dell’indulto,
riducendo ad anni dieci la pena della reclusione sostituita a quella
dell’ergastolo;
2. riducendo ad anni due la pena della reclusione superiore ad anni venti e
condonando interamente la pena non superiore ad anni venti;
per ogni reato commesso non oltre il 18 giugno 1946 da coloro che appartennero
a formazioni armate, e non fruiscano del beneficio indicato nella precedente
lettera a):
commutando la pena dell’ergastolo nella reclusione per anni venti e, se
l’ergastolo è stato già commutato in reclusione per effetto di indulto,
riducendo di anni otto la pena della reclusione già sostituita a quella
dell’ergastolo;
In nessun caso la pena residua può superare gli anni venti.
I benefici previsti nelle lettere a) e b) del presente articolo si cumulano con
quelli concessi dai precedenti provvedimenti di clemenza e devono essere
applicati anche a coloro si siano trovati o si trovino in stato di latitanza”
(legge 18 dicembre 1953 n.920).
Non ci sono errori. L’Italia del 1953 riconosceva ancora, senza ipocrisia, che
esistevano ‘reati politici’ i cui autori non potevano essere equiparati, per
evidenti ragioni, a chi i reati veri li commetteva per fine di lucro e
interessi personali. Sulla base di una verità incontrovertibile, sancita anche
dal codice penale, si potevano adottare provvedimenti che di questa differenza
tenevano debito conto.
L’Italia del 1998 pretende viceversa che il ladrocinio sia considerato l’unico
‘reato politico’ e quanto determinato da ragioni ideali sia valutato alla
stregua del crimine comune, e come tale trattato.
I ladri democristiani ed i loro complici del 1953 avevano ancora, insieme alla
convenienza, un minimo di pudore; i ladroni democristiani oggi sparsi nelle
varie formazioni sorte in questi ultimi anni, insieme ai loro complici del
partito democratico della sinistra, hanno perso anche quello e, in quanto alla
convenienza di mostrare che ‘la clemenza è il volto cristiano della giustizia’
non ritengono di averne necessità: il cardinale Marcinkus è scappato con la
benedizione papale; Roberto Calvi lo hanno impiccato; Michele Sindona lo hanno
avvelenato e agli altri ci ha pensato la loro magistratura a condurre
un’inchiesta che alla fine, di nuovo, ci ha gratificato della entrata in scena
del plurinquisito Antonio di Pietro lasciando tutto come prima, peggio di
prima. E’ vero, l’Italia politica, clericale, finanziaria delle mezze calzette
rivoltate ostenta la faccia feroce nei confronti di quanti hanno inseguito il
sogno bellissimo di liberarsi di loro una volta per sempre. Non ce lo
perdoneranno mai, questo sogno.
Ma quanti in questo regime non si identificano, in questi partiti non si
riconoscono, a questo mondo giudiziario e pretesco che imperversa nei tribunali
e nelle tribune televisive non intendono uniformarsi, possono rilevare ora
quanto inutili siano le ciarle di tutti coloro che, in televisione e nei
giornali, ostentano il bisogno di chiudere il periodo degli ‘anni di piombo’
con un gesto di clemenza che permetta ai ‘terroristi’ di lasciare il carcere
entro il 2010! (non è una barzelletta, è il calcolo fatto da Roberto
Formigoni).
Possono ora, costoro, fare il confronto fra un provvedimento assunto per le
esigenze del regime e quelli proposti per spezzare la volontà e l’orgoglio di
quanti ancora detenuti non se la sentono proprio di recitare mea culpa, di
riconoscere che hanno avuto torto a sognare un paese liberato dai suoi
parassiti politici, di spezzare il sogno dopo aver infranto per ragioni ideali
la loro vita. Lo vieta il rispetto di se stessi, quello per i propri caduti ed
anche quello per gli uccisi dell’altra parte della barricata, anch’essi traditi
dallo stesso Stato, che sul sacrificio di tutti ha potuto sopravvivere e
rafforzarsi.
Il confronto fra il provvedimento di amnistia ed indulto del 18 dicembre 1953 e
quelli via via enunciati in questi anni da tutte le parti politiche denuncia
l’ipocrisia del regime ed indica la via da seguire, non perché il parlamento
possa esibire ‘clemenza’ ed ostentare il ‘volto cristiano della giustizia’, ma
semmai perché venga piegato alla necessità di compiere un atto di giustizia.
Una giustizia senza aggettivi, vergognosa di se stessa e del tempo perduto.
Vincenzo Vinciguerra