Processo d’investitura di Giovanni del Carretto, ultimo barone
di Racalmuto
Sul citato Giovanni fornisce lumi il processo n. 1175: ([1]) abbiamo avuto già modo di citarlo. Siccome lo riteniamo
basilare per la storia racalmutese del secolo XVI, lo trascriviamo, traducendo,
quando occorre, dal latino.
«N.° 1175 - In Palermo nell’ufficio del Protonotaro del Regno di Sicilia, sotto
la data del 28 gennaio, VII^ Ind., 1519.
«Memoriale esibito e presentato nell’Ufficio
del Protonotaro del Regno di Sicilia, dall’ill. Artale de Tudisco, procuratore
del magnifico signore don Giovanni del Carretto, figlio primogenito, legittimo
e naturale, unico ed universale erede del quondam magnifico Ercole del
Carretto, un tempo signore e barone della terra di Racalmuto (Rayalmuti), che
teneva e possedeva la detta terra di Racalmuto con il suo castello e
fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze a seguito della morte del
prefato quondam magnifico Ercole, suo padre.
E tanto per prendere l’investitura della
detta baronia con i suoi diritti e pertinenze sia per la morte del signor
nostro Re Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la successione delle maestà
cattoliche, la Regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri invittissimi,
quant’anche per la morte del prefato quondam magnifico Ercole del Carretto,
suo padre.
«Innanzitutto, si afferma che il detto
quondam magnifico Ercole del Carretto, padre del detto magnifico don Giovanni,
al tempo della sua vita, e fino alla sua morte, tenne e possedette la
terra di Racalmuto, con il suo castello
e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, cambiando tutti gli
ufficiali tutte le volte che piacque al medesimo quondam magnifico barone
Ercole e percependo e facendo percepire i relativi frutti, redditi e proventi
da vero signore e padrone.
«Del pari, si testimonia che il prefato
magnifico signore Giovanni del Carretto fu ed è figlio primogenito, legittimo e
naturale del detto quondam magnifico Ercole e come tale e per tale lo teneva,
trattava e reputava, così come era dagli altri tenuto, trattato e reputato.
«Del pari, si afferma che il detto quondam
magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della detta terra e
padre del detto magnifico signor Giovanni del Carretto, quando piacque al
Signore, morì e defunse nel castello della predetta terra di Racalmuto, sotto
la data del mese di gennaio, VI^ Ind., 1517, lasciando superstite e successore
in detta baronia il detto magnifico quondam Giovanni del Carretto, dello stesso
quondam magnifico Ercole figlio unico, legittimo e naturale, ed avendo prima
redatto testamento solenne in mano del notaio Antonio Quaglia del città di
Agrigento, sotto il giorno 27 del predetto mese di gennaio, testamento nel
quale venne istituito suo universale erede il detto magnifico signor Giovanni.
«Del pari, si afferma che, morto e defunto
il detto magnifico Ercole, il detto magnifico don Giovanni del Carretto, quale
figlio legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole, e come
successore legittimo in detta baronia, ebbe per il tramite del suo procuratore, prese e conseguì l’attuale, reale e corporale possesso della
detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi
diritti e pertinenze, secondo quanto risulta dal rogito celebrato nella terra e
nel castello predetti dal notaio Antonio Quaglia della città di Agrigento in
data 16 di gennaio VI^ Ind. 1517.
«Del pari, si afferma che in questo regno di
Sicilia fu ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato cattolico Re
Ferdinando, di gloriosa memoria, morì e che il suo ultimo giorno di vita cadde
nel mese di gennaio della IV^ indizione [1516] passata prossima ed a lui
successe in tutti i suoi dominî e regni
la serenissima Regina donna Giovanna, sua figlia legittima e naturale, nonché
il cattolico ed invittissimo Re Carlo, della stessa regina Giovanna figlio
primogenito e naturale. Così fu ed è la verità.
«Del pari, si afferma che al fine di prestare
il debito giuramento e l’omaggio della dovuta
fedeltà e del vassallaggio, nonché di ottenere l’investitura della
predetta terra e castello, con tutti i suoi diritti e pertinenze - tanto per la
morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del proprio
padre - seriamente creò ed istituì suo procuratore il magnifico illustre Artale
de Tudisco, come risulta dalla procura agli atti dell’egregio notaio Giovanni
de Malta, in data 26 del presente mese di gennaio VII^ Ind. 1519.
«Testi ricevuti ed
esaminati nell’ufficio del Protonotaro del Regno a richiesta ed istanza del
magnifico don Giovanni del Carretto, figlio legittimo e naturale del quondam
magnifico don Giovanni del Carretto, al fine di prendere l’investitura della
baronia di Racalmuto, tanto per la morte del Re Ferdinando, di gloriosa
memoria, quanto per la morte del magnifico Ercole del Carretto, suo padre e
signore di detta terra.
[...]
«E’ da sapere come
fra gli altri capitoli del testamento del quondam spettabile Ercole del Carretto,
barone della terra di Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del
Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel mese di
gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in Racalmuto e nel castello del
magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto [si raccolgono le ultime
volontà testamentarie], accese tre candele verso la quinta ora della notte.
[ ...]
«A tutti e singoli
i chiamati ad ispezionare seriamente, vedere e leggere il presente atto
pubblico, sia evidente e noto che esso fu redatto da me notaio, con i testimoni infrascritti, presso il castello della terra e baronia di
Racalmuto nel Regno di Sicilia.
« Si è costituito
il magnifico signor Cesare del Carretto quale procuratore del magnifico e spettabile signor don
Giovanni del Carretto, signore e barone della predetta terra e baronia di
Racalmuto, figlio primogenito, legittimo e naturale del magnifico e spettabile quondam signor Ercole del
Carretto, morto di recente nella detta terra e dipartitosi da questa vita
adempiendo tutte le formalità necessarie per conferire alle sue ultime volontà
la totale validità.
«Peraltro, con
pubblico strumento redatto in carta membrana, sono state espletate le
conseguenti formalità in modo solenne
presso la città di Napoli il primo marzo VI^ indizione 1518 per mano del nobile
ed egregio Bartolo Carloni della stessa città di Napoli, abilitato notaio per
tutto il regno di Napoli .
«Di tal che è stato
preso, recepito e tenuto - così come si
prende, si recepisce e si tiene - il naturale, reale e corporale possesso della
predetta terra e baronia di Racalmuto per tatto e tocco delle chiavi del
castello della stessa terra e baronia, nonché della porta e del cantone dello stesso castello, aprendo e chiudendo,
entrando ed uscendo dal castello ad
libitum senza l’opposizione di alcuno.
«Se ne attesta
quindi il possesso con tutti i singoli relativi diritti e pertinenze. E se ne
redige atto in segno di vera presa del possesso naturale, reale e corporale
della predetta terra e baronia, con tutti i singoli suoi diritti e pertinenze,
acquisendone l’integrità dello stato della stessa terra e baronia sotto il
profilo del dominio, quale configuratosi con le sue spettanze e pertinenze
giusta la forma, la serie ed il contenuto dei privilegi della ripetuta baronia.
«E continuando
nella presa di possesso, fattane l’acquisizione, il procuratore mutò e depose
nella detta terra gli ufficiali; in essa quindi nominò altri ufficiali e cioè:
innanzitutto istituì e nominò capitano della medesima terra Nardu lu Nobili;
giudice il nobile Scipione lu Carretto;
giudice ordinario e militare, il magnifico signore don Paolo de
Mistrectis.
«Del pari, nominò
Giurati: Enrico lu Nobili; Pietro d’Acquisto, Vito Taibi e Andrea Gulpi. Come
Castellano del predetto castello fu chiamato il magnifico signore don Giovanni
Benigno de Tudisco; come Segreto, il
magnifico Silvestro de Urso; come Maestro Notaro il magnifico Gilberto de
Tudisco.
«E per segno di
quanto precede, il predetto procuratore - a tal ultimo titolo - fece redigere
il presente atto pubblico da valere per ogni luogo e tempo.
«Testi: il
magnifico Matteo del Carretto, il magnifico Jo: Artale Tudisco, il magnifico
Teseo de Torres ed il nobile Giacomo de Alletto.
«Dai miei atti,
notaro Antonino Quaglia agrigentino»
«26 gennaio VII^
Ind. 1519
«Il magnifico don
Giovanni del Carretto, barone e signore della terra di Racalmuto, presente
innanzi a noi, spontaneamente - con ogni
miglior modo e forma con cui più preclarmente può essere detto e fatto -
costituì, scelse, creò e solennemente nominò come suo vero ed indubitato
procuratore, attore, nunzio speciale il magnifico Giovanni Artale Todisco.
«Questi, presente
ed accettando l’onere della infrascritta procura del tutto volontariamente,
compare a nome e per conto e parte del
predetto magnifico costituente dinanzi l’ill. signor Viceré per prendere l’investitura della terra e
baronia con relativo castello di Racalmuto, nell’integrità del suo stato e
nella pienezza dei suoi diritti e pertinenze, sia per la morte di Re
Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la successione delle invittissime
cattoliche maestà, la regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri
invittissimi, e sia per la morte del quondam magnifico Ercole del Carretto, il
di lui padre.
«Al contempo, il
procuratore, in nome e per parte del predetto magnifico mandante, si presenta
per prestare il giuramento e rendere l’omaggio di debita fedeltà e vassallaggio
nelle mani dell’illustre e potente signore viceré, nonché per svolgere
quant’altro occorra per prendere la predetta investitura, non mancando il detto
magnifico mandante di obbligarsi sotto
vincolo di ipoteca etc. Così giurò etc.
« Testi: nobile
Pietro Pasta e magnifico Vito Paladello.»
Da questo processo,
che - pur nella sua contorsione - è il meno complesso dei processi
d’investitura dei del Carretto, emergono due o tre istituti molto peculiari del
diritto feudale della nostra terra di Racalmuto:
1. Diritto
dei baroni all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue
vescovo di Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi
paladino di un omicida, il chierico
Jacobo Vella.
2. Diritto
alla destituzione e nomina di tutte le cariche, civili e militari, di
Racalmuto. I Tudisco, i Promontorio, i Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili,
gli Acquisto, i Taibi, i Fanara, i La
Licata, i Gulpi, i Rizzo, i Morreali, i Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra
il XIV ed il XVI secolo possibilità di farsi apprezzare dagli stravaganti
baroni di Racalmuto: ne diventano fiduciari; spesso si arricchiscono alle loro
spalle; in ogni caso attecchiscono nella fertile terra del grano. Poi tanti
svaniscono nel nulla. Qualcuno resta tuttora, ma senza più il ruolo di
profittatori del regime.
3. Non
emerge ancora un chiaro affermarsi del diritto al terraggio ed al terraggiolo
[prestazioni in natura da parte dei coltivatori delle terre del barone, nel
primo caso, e fuori la baronia, nel secondo - stando almeno alla
volgarizzazione della fine del Settecento].
4. Il mero e misto imperio dei baroni fa capolino nel Cinquecento, ma
piuttosto tardivamente.
Giovanni III del
Carretto eredita la boronia di Racalmuto qualche tempo prima dell’iniziale
investitura; alla morte del padre Ercole e cioè il 27 gennaio (o un paio di
giorni dopo) del 1517. Il 16 marzo di quell’anno il neo barone manda come suo
procuratore Cesare del Carretto per la formale acquisizione della baronia. Il relativo atto viene stilato con rogito del
notaio Bartolo Carloni di Napoli in data 1° marzo 1518. Il successivo 26
gennaio 1518 nomina procuratore il già detto Giovanni Artale Tudisco per gli
adempimenti presso la curia vicereale di Palermo. L’investitura risulta
definita il 31 gennaio del 1519. “Fiat investitura” la nota finale del
processo. In una ricostruzione del 1558 si dice che Giovanni fu costretto
all’investitura “per la morte del cattolico ed invittissimo re Ferdinando di
gloriosa memoria e per la successione delle cattoliche maestà la regina
Giovanna ed il re Carlo”. Adempimenti che comportavano aggravi fiscali in prima
battuta per il barone, ma per ricaduta sui malcapitati nostri compaesani del
‘500. E poi si vuol far credere che i grandi eventi della storia non avessero
incidenza sulla villica popolazione racalmutese!
Secondo processo d’investitura di Giovanni III del Carretto
Ma non è finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III del Carretto è costretto a
rifare il giuramento di fedeltà nella forma solenne, come attesta un diploma
rilasciato a Messina. Altre formalità, altre spese, altre tasse.
Il 2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto
saldamente in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni,
un’egemonia lunghissima specie se si tiene conto della irrisoria vita media di
quel tempo.
Ebbe a sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante,
di cui sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la si indica nel
testamento.
Nulla ha a che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di
Giovanni III: quella che dota il convento di S. Chiara è la nipote. Costei
inguaierà fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di
“paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Nel 1375 la terra di Racalmuto contava appena 136 fuochi cui si possono
attribuire non più di n.° 500 abitanti,
elevabili a 600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono Bertrando du
Mazel, inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli fuochi in
cambio della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano più di due
chiese, fragili e malandate.
In piena signoria di Giovanni III del Carretto, le cose erano
notevolmente cambiate a Racalmuto: la popolazione si era enormemente
accresciuta.
Abbiamo pubblicato nel citato nostro lavoro sul Cinquecento racalmutese
dati e note sul censimento del 1548 - Giovanni III del Carretto era barone già
da 31 anni - che sintetizziamo con questa tavola:
Censimento del 1548
|
Ceti paganti
|
ceti esenti
|
evasori
|
totali
|
N.° Fuochi
|
896
|
0
|
90
|
986
|
Abitanti (fuochi * 3,53)
|
3.163
|
0
|
316
|
3.479
|
Dai 1600 del 1505 ai quasi 3500 abitanti del 1548 il salto era stato
rimarchevole: non poteva trattarsi solo di normale crescita demografica; sotto
il barone di Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita
accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e
forse anche mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro quartieri che ormai si
erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar
Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo,
Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra
la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere
del Monte o montis comprendente
l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se
poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo
(o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione
avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa,
Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello intrafeudo) e terraggiolo
(quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare
balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il
particolare al Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte
angherie comitali cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello
ucciso dal servo arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di
Vita.
Il quadro
della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo
interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi
pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva
considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone
non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna
si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la
condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un
fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto
bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di
Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona morte” che è come
dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre
presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso di
disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta
economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali
banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure
relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro
guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare,
e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono
essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente
religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto
racalmutese: monaci e parrini, vidici la
missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite
ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno
deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta
indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica,
tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni
anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma
con scarso successo.
Gli aridi inventari episcopali del
1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza
le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente
esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è
parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del
Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno
pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del
vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura
sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro
Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le
visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione
sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in
sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di
allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San
Giuliano. [2] Tre anni
dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte
del vescovo in persona, che vi si recò
il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e
viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[3]
Al centro della locale
comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’
originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico
agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però,
se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché
l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono
alla chiesa e amministrano i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis
Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est
assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo
ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto
l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex
disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario
in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di
un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate
solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam ..
contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte
terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti
et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum
singulo anno”.)
Nella visita del 1540
era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella
misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di
16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La
popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto
lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890
fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di
indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto
elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel
1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di
Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha
decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in
circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni
capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in
statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di
una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime
suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il
fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse
soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle primizie,
l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli
dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e
dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex
administratione cure”).
Nel 1540 si constatava
che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da
chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si
aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione:
«Ecclesia di la Nuntiata confraternitati
et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore
che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet
primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini
Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie» Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di
che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da
chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La
vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle
esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che
venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et
hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo
dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli
ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S.
Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono
tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio
sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice
percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo
coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali
richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri
sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco
de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse
il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti
esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia
penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più
dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio
ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di
cui era titolare.
Il de Leo era vicario,
dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di
curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio
di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i
pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva
accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco
de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel
visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene
compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam
dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario,
oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque,
positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché
tenesse alla vetusta chiesa di S.
Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il
Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de
Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata
e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale
agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est
titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I
contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della
Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un
racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si
assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la
donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il
milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta,
si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra
intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica
del 1108 consacra chierico e chiesa
inquadrandoli nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro
agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta
l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di
riferimento e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica
chiesa “normanna” non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e
lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmutese non si appanna
certo per il venire meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto
il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa
su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato
che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa
Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) “Ecclesiola”
sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una
Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai
al posto di quella Maggiore, già fatiscente;
3) Chiesa di
Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di
santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di
Santa Margherita;
6) Chiesa di San
Giuliano;
Nella
precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della
“NUNTIATA”
2) Chiesa di
Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di
Santa Margherita;
4) Chiesa di
“Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di S.
Giuliano.
(Cfr.
le pagine 196v-198v della Visita)
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Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543
abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:
·
la Nunziata,
visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto
iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
·
Santa
Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
·
Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle
antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano
non v’era nulla di vecchio.
Il
testamento di don Giovanni III del Carretto
Di Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([4]) steso
sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito
sotto le grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone viene in
qualche modo abbozzato.
In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile
signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto,
cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta
terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i
testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è
tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene
nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il
secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di
Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso
spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del
medesimo”.
Ripete in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da
me e dalla condam Aldonsa mia mugleri in
tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime
in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e
pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti,
orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali,
et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto
Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se si è avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha
un’idea di quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di
servitù e vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva
proprietà di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata
nel contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del pari il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso
spettabile D. Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità
versare al signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese
del funerale quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della
persona dello stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da
prelevarsi da quelle 600 once che stanno nella cassaforte (in Arca) del medesimo testatore ed
essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi
gli eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del pari il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto
spettabile signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito,
legittimo e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam
Donna D. Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di
Racalmuto con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e
criminali, il mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella
regia curia, con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con
tutti gli altri diritti quali il terraggiolo,
le gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo
del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta
Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli competono altresì denaro,
frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti,
nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi
d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni
che seguono”.
Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata
nel castello e la dota: «Item praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et
mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro
dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt,
ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri
pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così il predetto testatore volle e diede
mandato, ordinò e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo
suo figlio primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia
affinché voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni
singolo vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da
chicchessia, e ciò per amore di nostro
Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del testatore.»
Non crediamo che Girolamo I del Carretto
abbia dato troppo peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì
anzi per Palermo e Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue
cospicue disponibilità liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi
quanto tronfi titoli dalla corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia il legato a carico di
Girolamo di far dire tante messe nel
convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una
Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito
annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato
sapere: crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a
Palermo per spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato
Racalmuto. Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato
considerato artefice ed inspiratore il notaio. Come familiare del Santo
Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato
Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e
la beffa del sanbenito. Leggere il
commento di Sciascia per la letteraria rievocazione di questa pagina purtroppo tragica nella sua acre realtà
storica.
Il morente barone dichiara di avere speso 130 once
nella compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e
mastro Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la
costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa
di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da
dotare:
1.
donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de
Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da
prelevare dalle casse del castello);
2.
donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare
Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50
once in contanti da erogare;
3.
Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia legittima,
monaca del convento di Santa Caterina
della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la monacazione, altre
20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello
venale: introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi
certamente alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei
potenti ed ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse
spectabilis Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione
praesentis, et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij
uncias quinque, nec non relaxavit et
relaxit mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et
gravorum omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae
inditionis pro Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per esserci stato buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et
mandavit.» Vada per le cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero
dal terraggio e dai censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo
Jacopo pagò quella sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure:
Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si
celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte e la
redazione del testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma
non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha cercato, non trova forma
nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in sua terra di Racalmuto
[in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo
recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et
necessità ...».
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos
sui, o il ‘luterano’ notaio inventava?):
·
5 once al venerabile convento di San Domenico
della città di Agrigento;
·
5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del
Monte;
·
10 once al venerabile ospedale della terra di
Racalmuto;
·
5 once alla venerabile confraternita di San
Nicola di Racalmuto;
·
5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano;
inoltre poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una
fabbrica di calce (“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che
se ne dia sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
·
5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è
ritornata in auge);
·
5 once in onore del glorioso Corpo del Signore
quale si venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once
per i tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de
Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed
amico. Ecco perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto «quod omnes et singulae Personae
Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi,
et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis
spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis,
granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum,
et ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli
baronali come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano,
dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto
fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone resta legato alla sua terra; vuole essere
seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco
(dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era
intensa).
Il processo d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci
attesta che in gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente
di vivere; morì in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San
Francesco.
GIROLAMO
I DEL CARRETTO
Il Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive quello che
fu l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto (cfr. § 78 op. cit.):
«A Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni, dunque
ritorniamo. Su di lui ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a Filippo
II re di Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che la
famiglia del Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di
Girolamo vantavano il titolo di marchesi di Savona, volle che il nostro
Girolamo fosse chiamato ed avesse in
quel tempo il titolo di conte di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire
avrebbe amplificato la gloria di tanta illustre famiglia con titoli di maggior
risalto.
« Le lettere del re, dove Girolamo è gratificato con il titolo di conte,
sono da riportare. Niente è più preclaro. Esse sono datate: 28 giugno 5 ind.
1577 e recitano: “Filippo etc. A tutti
quanti etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei
marchesi di Savona documentato l’insigne
virtù non disgiunta da grandi fortune della propria stirpe, abbiamo considerato
i tanti servizi che ai nostri predecessori, di felice memoria, sono stati dai
del Carretto prestati quando necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo
considerato l’antica nobiltà e lo splendore della famiglia carrettesca, che non
soltanto in questo Regno ma in tante altre nostre province si è a diverso
titolo resa celebre e meritevole. E omettiamo di considerare gli altri celebri
uomini della medesima famiglia che meritevolmente sono assurti a preclare e
altissime dignità dello stato ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati
verso il lodato D. Girolamo Carretto etc.”
«Noto è per di più quanto
l’imperatore Rodolfo fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la lettera
del padre, l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si gratificasse
Girolamo con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc.
Premesso che negli anni scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e
genitore nostro colendissimo di augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità
vostra lettere in favore del fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro
Girolamo de Carretto barone in Racalmuto dei marchesi di Savona, con le quali
lettere benevolmente si pregava la Serenità vostra affinché Girolamo del
Carretto, i suoi figli ed i suoi discendenti primogeniti successori nella
baronia Rachalmutana, potessero fregiarsi del titolo grado e dignità
marchionale e volesse pertanto erigere la detta baronia in marchesato; ne
conseguì che la vostra Serenità decretò quella baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore
ingenerò in D. Girolamo la speranza che in altro tempo gli potesse venire
concesso il titolo di marchese. Ed è per questo che il predetto Girolamo de
Carretto conte in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto
desidera essendo noto che egli discende dall’antica stirpe dei Marchesi di
Savona, la quale ha origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion per cui così alla fine egregiamente concluse l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore
preghiamo la Serenità vostra affinché vengano restituite al predetto Girolamo
le avite prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche
per la nostra intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò,
peraltro, ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12
febbraio 1580.»
Siffatto pasticcio epistolare non sortì effetto alcuno. La baronia
“rachalmutana” di cui si parlò nelle corti degli Asburgo ascese solo di un
grado e divenne contea, ma marchesato giammai. Diciotto anni dopo, nel 1598, i
del Carretto tornarono alla carica, ma invano. Il Baronio infatti prosegue:
«Esiste un’altra missiva, molto ben fatta, del 1598. Fra l’altro vi si
diceva: “Antica e regale è la famiglia
dei del Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene
accetta ai nostri Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del
Carretto, conte di Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono
le grazie di nostro padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della
nostra benevolenza e volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto
ciò che possa accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc.”
«Da quanto sopra è ben chiaro che
Girolamo e la famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto dagli
imperatori come le citate missive, altri documenti che non ho citato ed
autorevoli testimoni ampiamente
comprovano.»
Le note del Baronio rendono invece a noi chiaro che i del Carretto,
giunti all’apice della ricchezza con la baronia di Racalmuto, presero il largo
e andarono a dimorare a Palermo. Lì, la fatua e neghittosa nobiltà aveva solo
l’angoscia delle preminenze negli onori. Agli immigrati del Carretto, il titolo
di barone suonava stretto: si prodigarono in regalie, bussarono a varie corti
regali, impetrarono favori, ma non riuscirono a superare la soglia del titolo
comitale.
Il Villabianca lesse il Baronio e vi si ispira quando redige questo
profilo sul nostro Girolamo I del Carretto:
«GIROLAMO nel retaggio di
questo Stato dopo la morte di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor
di Contea per privilegio del serenissimo
Rè Filippo Secondo, dato nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno
1576, [5] esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577. [6] Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 [7], e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO
RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri
della Patria mercé il lodevolissimo governo, ch'egli fece, procacciato avendone
gloria, ed ornamento. Presiedette altresì la Compagnia della Carità di essa
Città di Palermo nel 1549., e adorno videsi di distintissimi elogi fattigli da
Rodolfo Imperatore con le sue Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni
1580 e 1598., rapportate per extensum da BARONE
loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit. - Da esso fu dato al mondo [p.
205] GIOVANNI del CARRETTO, quarto
di questo nome. il quale fu il secondo C. di RAGALMUTO, e Pretore di Palermo
nel 1600. [8] di non minor merito di quello del genitore come vuole il citato DI
GIOVANNI nell'istesso luogo notato di sopra, avvegnachè fu egli dotato di tanta
prudenza, valore, ed abilità, che nella onorevol carriera di reggere gli affari
pubblici avanzò tutti gli altri cavalieri suoi pari, e magnati suoi
contemporanei.»
Sciascia dileggia questo nostro barone assurto al rango di conte. «Il primo Girolamo - riecheggia il grande
racalmutese [9] - fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per
lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un
privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non
sappiamo molto: fu pretore a Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione
seu presunzione”, come invece afferma il Paruta, la sollevazione dei
palermitani contro la sua autorità. Né mi pare che sia da ascrivere a sua
gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo
dell’anno milleseicento, trentasette facchini abbiano subita la pena della
frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito regalpetrese
[alias il Tinebra, n.d.r.]». Tutto
bene, salvo il fatto che nel 1600 Girolamo primo del Carretto era già morto da
diciotto anni. L’abbaglio nasce da imprecise letture da parte del Tinebra
dell’opera del Villabianca.
Dai processi ricaviamo questi dati biografici. Girolamo I del Carretto fu
il primogenito di Giovanni III, come si evince dal testamento redatto dal
notaio Jacopo Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio 1560 Girolamo
s’insedia quale barone di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il suo
procuratore, il magnifico Giovanni Antonio Piamontesi. La formula recita che il
barone prese “l’attuale, vera, naturale, corporale baronia del castello, dei
feudi e del territorio di Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il mero
e misto imperio, con le giurisdizioni civile e criminale su tutto lo stato,
risultato integro giusta la forma dei privilegi baronali”. Il procuratore
rispetta il meticoloso ed emblematico rituale: “esibisce la chiave del portone
del castello; di propria mano apre e chiude quella porta; entra ed esce; si
reca presso i feudi; ne prende alcune pietre in segno di libera disponibilità
di quelle terre; revoca e rinomina tutti gli ufficiali locali: il castellano
nella persona del nobile Scipione de Selvagio; il capitano nella persona di
Giovanni Piamontesi; il giudice nella persona del nobile Marco Promontori; i
giurati nelle persone di Cesare di Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo
Caravello; il maestro notaio nella persona del nobile Innocenzo de Puma”. Viene
redatto pubblico atto. I testi sono: il nobil homo Maragliano, il nob. Antonino
de Averna, l’onorabile Antonuccio Morriali e l’onorabile Gerlando de
Pitrozella. Il notaio è ancora il povero Jacopo Damiano che però si dichiara
agrigentino.
Girolamo I del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono ancora i
processi d’investitura a dirci che esternò le sue ultime volontà dinanzi il
notaio Giacomo Devanti di Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il testamento fu
aperto un anno dopo, il 9 agosto del 1583. Fu sepolto nella chiesa di Santa
Maria di Gesù fuori le mura in Palermo proprio sotto quella data. Ne fa fede
l’atto parrocchiale della chiesa di San Giacomo alla Marina del 14 luglio 1584.
Sposa di Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto casato.
Ma come si è visto, i del Carretto non stanno più a Racalmuto: quella
lontana terra, quel loro ‘stato’ serve solo per approvvigionare di fondi questi
nobili accasatisi a Palermo. Nel castello racalmutese siede e dispone un
‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato neppure un atto che attesti la
presenza del barone ora conte di Racalmuto, magari come padrino in un qualche
battesimo. Qualche membro dei rami cadetti, sì, ma il conte giammai. Vi farà
ritorno solo Girolamo II del Carretto per venirvi trucidato (se ciò corrisponde
al vero) nel 1622.
In altra parte del presente lavoro pubblichiamo il privilegio di Filippo
II che erige a contea Racalmuto: è una sfilza di vacue formule da cui non
riusciamo a cavare alcun briciolo di microstoria locale. Non abbiamo qui note in proposito da
proporre.
Da questo momento la vicenda familiare dei del Carretto è cosa che solo
di striscio colpisce Racalmuto. Vale di più per la storia della città di
Palermo.
Ciò non vuol dire che non vi furono riflessi tributari su Racalmuto a
seguito della concessione dell’onore di farne una contea da parte di Filippo II
a tutto vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci furono e
gravi. Una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone fra le carte del fondo Palagonia
dell’archivio di Stato di Palermo ha consentito di rinvenire documenti di quel
tempo, estremamente significativi per la riesumazione delle vicende vessatorie
cui sottostettero i nostri antenati racalmutesi del Cinquecento.
Peste e
tasse a Racalmuto
Il carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni
dell’università feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel 1576 si era abbattuto su Racalmuto una immane pestilenza che ebbe
pure a colpire l’Italia intera.
Del pari sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo
nel carteggio che «per lo contaggio del
morbo che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone
[a Racalmuto] restano solamente ... due mila e quattrocento
delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel precedente Rivelo del 1570 Racalmuto in effetti contava 5279
abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che
sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto
e sulle sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte
dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di
Racalmuto prima della consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor
oggi non è che creda in pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per
sgravi fiscali e si cercò di scontare la tragedia della peste racalmutese del
1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia, la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori
parlano di un dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli
agenti delle tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e
della sua corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per
intesi. Le “tande” - o più graziosamente “donativi” - andavano pagate sino
all’ultimo grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate
anche le tasse arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è agli atti una secca e perentoria negativa alla seguente perorazione
dei Giurati racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li
Giurati della terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per
l’Università di quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte
cossì per donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per
oblationi ?] fatti per il Regno à Sua Maestà,
come per le tande della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per
lo contaggio del morbo che in quella s’hanno ritrovato ... ,
à vostra Eccellenza l’esponenti hanno supplicato che se li concedesse à
pagare quel tanto che detta università deve alcuna dilattione competente [e che
] à detta Università fossero devenute [condonate] li tandi maxime quella della
macina che si doveva pagare ..»
La burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia
in un “non convenit” “non conviene”. La tragedia racalmutese agli occhi
palermitani si traduce in una gretta questione di convenienza. L’abbuono di
tasse non è ammesso, non conviene alle esigenze del bilancio dello stato. Una
storia dunque che si ripete; un localismo, il nostro, quello di Racalmuto, che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa
municipale. Altro che isola nell’isola ..
Remissivamente i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il loro fato e
fatalisticamente annotano:
[Ma tale petizione non ha avuto esito] “per lo chi attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato
per vostra Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti per li
Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città per
l’officio del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo
alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et
interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di
poter fare eligere persona facultosa,
poiché pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e
raddoppiare alcune delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per
consiglio si concluderà, acciò potersi
sodisfare nullo preiudicio generato
ad essa università circa detta diminuttione, e difalcatione che hanno
supplicato doversi fare à detta Terra per detta mortalità, e mancamento di
persone, e resti servita Vostra
Eccellenza sia quello mezzo che si
concluderà quello che di sopra si è detto per detto consiglio concederli dilattione almeno di mesi due,
altrimente stando assentati non potriano effettuare cosa alcuna e detta Regia
Corte non verria ad esser sodisfatta ne tenendo detta università modo alcuno di
sodisfare, ne tener altro patrimonio ut Altissimus. ..”»
La messa in mora della locale
amministrazione per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena
dunque la cupidigia di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato
paese moroso ad esigere, oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali
diarie per missioni) e ad aggravare le esauste finanze locali «con
eccessivi danni ed interessi».
Si accordino - si chiede da Racalmuto - due mesi di dilazione per
trovare un sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia
detta una serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un
nuovo sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi,
organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna.
Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla
cultura storica degli accademici.
Viene fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi
al mero dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa
trasparire una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità
tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente
organato, con una sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine, certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine
volto ad attivare le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali
che gli attuali consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che
viene chiamato a raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili
gravami tributari, ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi
chiameremmo la giunta comunale: la giurazia.
Affascinano questi passaggi delle carte palermitane:
vi diciamo, et ordiniamo che
debbiate in giorno di festa e sono di campana come è di costume congregare il
vostro solito consiglio sopra le cose contenute nel preinserto memoriale, e
quello che per detto conseglio seù maggior parte di quello sarà concluso, et
accordato, e sigillato lo trasmitterete nel Tribunale del real Patrimonio acciò
di quello fattone relatione possiamo provedere come conviene. - data Panormi
11. Martij 5^ ind. 1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus Augustinus Sucadellus ... conservatore [f. 229] Marianus Magister
Rationalis, de Bullis Magister Rationalis, Franciscus de Aurello Magister
Notarius, ..»
Il Consiglio comunale si svolge nella chiesa dell’Annunziata - che anche
allora, molto prima che nascesse don Santo d’Agrò, era bene operante a
Racalmuto - ed abbiamo anche il verbale
consiliare che mi pare opportuno rileggere, almeno nelle sue parti essenziali:
Racalmuti die 25. Aprilis 5^ Ind.
1577.
Die festivo supradicti Martij in
Ecclesia Sanctae Mariae Annuntiatae dictae Civitatis existens in platea
publica.=
Perche ritrovandosi l’università di
questa Terra di Racalmuto debitrice in molta somma cossì alla Regia Corte
è stato supplicato da parte di
detta Università per li Giurati di quella à Sua Eccellenza che per li detti
debiti se li concedesse dilatione competente per potersi ritrovare il modo di
quelle sodisfare, et in quanto à quelli della macina poiche avendosi fatto
offerta à Sua Maestà, et ordinatosi quella dovere pagare per poche di persone
di tutte città, e terre del Regno à raggione di denari novi per ogni tummino
[f. 230] che per il ripartimento e numero di persone che allora vi erano in
detta terra tocca à detta Università pagare in due tande once 24.5.11.2.
e vedendosi che tuttavia detta
Università non si vederà libera à tal debito supplicano detti Giurati un’altra
volta à Sua Eccellenza che resti servita concederli potestà di poter eligere
persone facultose, ò vendere et augumentare, e raddoppiare alcune delli gabelle
di detta Università, e fare quel tanto che si potesse per consiglio concludere
acciò si potesse detta Università liberare di tal debito et interesse nullo
prejudicio generato à detta Università sopra la diminutione, e difalcatione che
se li deve fare per detta Regia Corte stante le raggioni predette come si contiene
per memoriale alli quali s’abbia in tutto relatione [f. 231] et essendo stato
provisto per la prefata Eccellenza Sua e Tribunale del Real Patrimonio che si
congregasse sopra le cose contente in detto memoriale consiglio, e quello si
trasmettesse per poter provvedere come convenisse, per ciò s’ha devenuto alla
congregatione del presente consiglio come intesa la presente proposta habbiano
sopra le cose prenominate ogn’uno possi liberamente dire il suo voto, e parere.
Il Magnifico Vincenzo d’Randazzo uno
delli Magnifici Giurati di detta Terra, e locotenente del Magnifico Capitano di
quella, è di voto, e parere che s’aggiongano onze quaranta di rendita da
pagarsi quolibet anno come meglio e per manco interesse di detta Università si
potrà accordare con quelle persone che vorranno attendere à tal compra di
rendita.
[1]) Archivio di Stato di
Palermo: PROTONOTARO REGNO INVESTITURE -
BUSTA 1487 - PROCESSO n.° 1175 - ANNO 1518-21
[3]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI
MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di
laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di
Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto
risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO
- "GIULIANA" - VISITA 1542-43
- colonne 190v-193v.
[4] ) Archivio di Stato di
Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r -
56v.
[6] ) (b)
[R. Cancell. ann. 1577. f. 476]
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