L’organizzazione feudale del centro agrario
di Racalmuto.
Sorprendentemente,
i religiosi del Carmelo di fine ’500 detenevano tutta una documentazione[1] sugli
strani debiti di uno di tali rami cadetti.
Se ne ricava uno spaccato dell’organizzazione feudale di un centro
agrario qual era Racalmuto. Con una “polisa” il 15 febbraio del 1569 il barone
di Sciabica, don Federico del Carretto s’indebita con Antonio Pistone. «Io don
Fidirico del Carretto per la presente polisa mi fazzo debitori ad Antoni
Pistuni in salmi quaranta e tummina setti di frumento forti et sunno li detti
ad complimento di salmi 70, tt.a 7 si comi chi mi prestao hora dui anni in lo
fego di la Menta quali frumenti prometto darli per tutto lo misi di augusto
proximo da veniri et ad sua cautela hajio fatto la presenti polisa scripta di
mia propria mano in Girgenti a di 15 di frebaro XIJ^ Ind. 1579, dico salme 40 e
tt.a 7 - ditto don Fiderico del Carretto.»
Quale il rapporto
sottostante di questa transizione di frumento della Menta, non è dato di
sapere. E’ da pensare ad una speculazione granaria. Il nobile agrigentino, un
cadetto della celebre famiglia, ha entrature a Racalmuto. Qui pare che non
manchino gli abbienti come questo Antonio Pistuni che può tranquillamente
prestare ingenti quantità di frumento. Federico del Carretto cessò di vivere
qualche anno dopo.
Si ricorda dei suoi
debiti nel testamento: «E’ da sapere - si può volgere dal latino - come fra gli
altri capitoli del testamento fatto a
mio rogito il 9 novembre p.^ Ind. 1572 dal quondam spettabile signor don
Federico del Carretto un tempo barone di Sciabica, sussista l’infrascritto
capitolo del seguente tenore:
«Del pari lo stesso spettabile testatore
volle e conferì mandato che qualsiasi persona dovesse ricevere od avere dal
detto spettabile testatore qualsiasi somma di denaro o quantità di frumento, di
orzo o di altro sia saldata dalla propria moglie secondo diritto a valere sui
redditi del detto spettabile testatore, sempreché quei debiti appaiano in atti
pubblici o con testi degni di fede o in scritture ricevute da qualsiasi curia.
E ciò volle e non altrimenti né in altro
modo.»
«Faccio fede, io
notaio Giovan Battista Monteleone».
Vi è un atto
esecutivo della Gran Corte del XV luglio 1573 dai toni pomposamente ultimativi
ma che in definitiva non fanno altro che confermare i fatti suesposti.
La curialità
cinquecentesca non scherzava davvero: «secondo
la forma della nuova Prammatica, si dovrà procedere con l’accesso ed il recesso
e per la soddisfazione di cui sopra pignorando qualsiasi bene e vendendo quelli
privilegiati ... carcerando e scarcerando ed operando l’estradizione da un
luogo ad un altro o da un castello all’altro ...» Ma ci limitiamo agli atti
formali della locale curia racalmutese, emergendone procedure, figure
locali, personaggi pubblici.
«Racalmuto 28
gennaio 1572 - atti contro donna Eleonora del Carretto per Gaspare La Matina,
baiulo.
«Testi ricevuti -
alcuni passi sono in latino, ma qui ne diamo la traduzione - ed esaminati a
cura dello spettabile baiulo della terra di Racalmuto ad istanza e richiesta di
Antonuzzo Pistuni avverso e contro la spettabile donna Eleonora del Carretto
tutrice testamentaria dei propri figli e figlie, eredi del quondam spettabile
don Federico del Carretto suo marito, in ordine alla verifica dei documenti.»
Identica relazione
fanno i sotto indicati personaggi:
·
nob. Giovanni Antonio Piamontisi, Secreto della
terra di Racalmuto, con don Federico ha avuto “pratica et canuxi la sua manu”;
·
magnifico Jo: Saguales di Racalmuto, «che canuxi essiri la manu propria del ditto
quondam et che ni havj multi polisi de causa sua et interrogatus dixit scire
premissa per modum ut supra ditta sunt..»;
·
hon. Vincenzo Lo Perno di Racalmuto, «como pratico che era con lo ditto quondam
don Fiderico ...»;
·
Diacono Martino Rizzo di Racalmuto, il quale «vitti quando ditto quondam don Fiderico
scrivia la ditta polisa et la vitti scriviri et la ditta polisa scripta che fui
l’appi in potiri lo ditto di Pistuni ....»;
·
Reverendo don Alerico Tudisco di Racalmuto, che
sa «come quillo che a pueritia usque in
diem obitus canuxi a ditto quondam del Carretto et canuxi essiri ditta polisa la
sua propria manu modo quo supra...».
Risulta il tutto dagli atti della curia del baiulo della terra di
Racalmuto, essendone stata fatta copia dal maestro notaro Giuseppe de Ugone
(gli Ugo del Rivelo).
Sotto Girolamo I Racalmuto dunque consolida il suo vivere contadino: il
conte è lontano, ma i suoi esattori onnipresenti. L’accordo è tutto a favore
del feudatario. I racalmutesi non lo gradirono; cercarono di aggirarlo; lo
contestarono. Le contese continuarono sotto tutti gli altri conti di Racalmuto.
Fino al tempo dei Requisenz, quando il prete Figliola e l’arciprete Campanella
riuscirono a far caducare dalla corte borbonica il terraggio ed il terraggiolo.
Era il 28 settembre 1787 quando il Tribunale borbonico sentenziò: “ius terragii
et terragiolii tam intra, quam extra territorrium declaratur non deberi”.
Ecco perché ci appaiono settari gli aculei che Sciascia (sull’onda degli
anatemi del Tinebra) scagliò contro il solo - ed appena ventiquattrenne -
Girolamo II del Carretto: ben altre erano le responsabilità dei predecessori;
ancor più inique le pretese dei suoi successori e persino dei feudatari
settecenteschi che non portavano più l’esecrato nome dei del Carretto.
Oltre ad una caterva di figlie femmine, Girolamo I del Carretto lasciò
tre figli maschi: Giovanni IV, suo successore nella contea di Racalmuto,
Aleramo, che diverrà conte di Gagliano e resterà famoso per gli abusi
amministrativi, ed un tal Giuseppe, di cui si occuparono le cronache nere del
tempo.
GIOVANNI
IV DEL CARRETTO
Giovanni IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad
occuparsi le cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un
personaggio che visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo
che a Racalmuto non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni
racalmutesi da un genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie
e che fu sposo della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte
teneva tanto da legittimarla.
Tinebra Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare
la figura di questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano
destano curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non
sono però molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro
conte Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua
ricostruzione delle vicende di fra Diego
La Matina (vedasi la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)
Ad onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per
questo, Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea,
sistemata in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto
Girolamo I, questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli
imprenditori, anche usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per
quei tempi: il rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento
abitanti, e molti di loro hanno patrimoni apprezzabili.
In un siffatto
contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo censimento
che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò si deve
alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni, infatti,
Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi era
incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come ce la
racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni [2] «In questi tempi [tra il 1589 ed il 15
maggio 1591] successe che essendo riportato a D. Giovanni Carretto, conte di
Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue
opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro
quello parole ingiuriose, il detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un
disfido per una lettera, dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.
Gli
mandò dietro il conte per farlo castigare della presunzione; ma fûro
i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano promesso far l’effetto: il che
sentì gravemente il conte, ed attese a procurar meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di Albadalista,
viceré in questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per
farlo accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non
uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a
trattare col viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la
venuta del Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva
concertato genti per tal effetto.
Lo ingannâro
due finalmente, che, offerendosi al Cannita di accompagnarlo a palagio, lo
diedero in mano de’ nemici.
Aveva il conte concertato due con due
pistole, e quattro per far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare
il pover’uomo, gli scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che
erano per salvarli, sbigottiti fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro,
essendo in fuggire, fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo,
fu preso e menato al viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse
[s’indispettì] assai quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo
con grande diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D.
Francesco Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi
non se ne seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era stato preso
per l’omicidio, fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé
dopo prendere in Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse
dato al viceré, perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere
del sant’Officio; ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della corda, con la
clausola ‘citra paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non
si eseguì per venire il giorno di festa con un altro seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi
la provista , quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere,
che aveva ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che
soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il
conte di Racalmuto con dodici guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore, che con i
Carretti si trattava da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua
Maestà, che il conte per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì
molto il conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in
sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato,
condennandolo solo ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze
duecento al fisco. In questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»
Il Tinebra
Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo
partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul
testo - invero arduo - del Di Giovanni
(che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione,
sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione
(v. pag. 105-107).
L’intrico
(veritiero) del conte Giovanni del Carretto.
Il Sant’Offizio.
Ma dobbiamo al
Garufi[3] queste
esplicative note.
«S’aspettava ancora
il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante] - scrive l’illustre storico - e chi sa per
quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse
fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il
19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo,
spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un
altro rapporto[4] con le copie d’un nuovo
processo contro Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi
fattacci occorsi al fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle.
[...]
[E sono fatti
diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una
riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al
foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere
appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra
riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la
cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo
l’Inquisitore “sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice
il Franchina, ad esser gravemente vilipesa”.
[...]».
Ed il Garufi così illustra il caso che avrebbe
coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo
avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto passa a parlare del fratello del conte di
Racalmuto.
«Premetto che non è
affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli interessi
materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del Carretto,
tramutato per l’occasione in un misero
commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del S.
Officio.
«Arrestato costui
per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati dalla G.
Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario per le
consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a favorire
il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di famiglia o
meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie a
dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo
alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto
che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una
regolare sentenza di magistrato.
«E giacché la G.
Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo il
Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo: che “di pieno diritto spettasse loro di
giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.
«Affermato codesto
principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle
inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte
sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi
reclami a Filippo II
«La moralità di
tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo molto
simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto,
condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»
Confessiamo che le
vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per l’ipotesi che
i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a verificare l’incidente
di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del 19 dicembre del 1589).
La «mal’opera» che Gasparo la Cannita - un personaggio importante se sta tanto a cuore
al viceré Albadalista - faceva al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse
una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante
conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale del S. Officio contro la G. Corte per salvare
l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del
Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma
l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la
reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
Al conte Giovanni
del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608 cade a sua
volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via Maqueda a
Palermo.
Il figlio Girolamo
del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne fatto
fuori da un servo.
Morì il 1°[5] ( e non
il 6 maggio) del 1622 all’età di appena 24 anni, 7 mesi e 3 giorni.
Il nipote Giovanni
del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo
il 26 febbraio 1650 (AURIA, Diario
Palermitano), colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento
verso Filippo IV, re di Spagna.
Ma qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel 1593, all’epoca del ‘Rivelo’?
A noi sembra, decisamente compromessa.
Un sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un
funzionario napoletano [6] che, parlando della nobiltà di Palermo e di Messina,
ignora del tutto la famiglia del Carretto.
I documenti lo
vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo XVI. Questo
sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio,
dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse
ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al
più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.
Nel processo n.
3542 del 1600 [7] , appare che Giovanni del
Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le procedure per assicurarsi
l’investitura della terra di Cerami.
Avrebbe dovuto essere
trattenuto in carcere, ma, sia pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di barone di Cerami.
La presa
del possesso di Racalmuto.
Veniamo
innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era
riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli
magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini
sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il
castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.
Sappiamo che
Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI indizione
del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di Palermo.
Defunto l’ex
pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di
recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente
agrigentino don Cesare del Carretto.
Eccone, in
traduzione, l’atto di possesso:
«Atto di possesso -
8 agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si premette che il
condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di Racalmuto, morì - come
piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui successe - così come
dovette e deve - nella contea predetta, per patto e provvidenza del principe,
l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio primogenito, legittimo e
naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e degli altri atti e
scritture.
«In relazione a
ciò, nel predetto giorno, lo spettabile
don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio, presente,
innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don Giovanni, in
forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del presente mese,
in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti, contratti e
scritture, con ogni miglior modo e
forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e pensato,
in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don Giovanni come
figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato ill.mo signor
don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del principe ed
in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome e
continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto procuratore
prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo, libero e
corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello stato
della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e degli
altri diritti ed universe pertinenze sue.
«E per me
infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore
predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome
del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della
predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze
universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione civile e criminale e nel mero e misto
imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi
ed altre scritture.
«E ciò per
acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue
porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.
«Così come si è
proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di castellanìa
nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e dell’ufficio di
secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio Piamontesi, dell’ufficio
di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di magnifici Artale
Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.
«E tanto si è fatto
anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone di mastro
Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco; e negli
uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone di mastro Giacomo
Puma e mastro Paolo Cacciaturi.
«Per nuova elezione
e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi ufficiali e
gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina degli
ufficiali in altra occasione o circostanza.
«Per la solenne
celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero, reale,
attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo signor
don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro di
avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di
Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi
registrato a suo tempo e luogo.
«Testi presenti:
chierico Francesco Nicastro; m.° Pietro Romano; m.° Marino de Mulé e m.° Pietro
Cacciatore.
«Nello stesso
giorno, ai fini dell’estensione del possesso predetto, fu fatto accesso per me
predetto infrascritto notaro e per il detto spettabile don Cesare del Carretto
procuratore, con i testi infrascritti, fuori di Racalmuto presso il feudo detto
di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale (Donnafala?), Garamoli e
Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti d’acqua, i vigneti della
detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del detto ill.mo don Giovanni,
facendo l’entrata e l’uscita, visionando la concessione degli erbaggi,
toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra, ispezionando il defluvio
delle acque e compiendo gli altri riti atti a dimostrare la solenne presa di
possesso.
«Testi: Nicolò di
Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.° Pietro Buscemi.
Dagli atti miei notaio Antonino de Gagliano,
di Cerami, regio pubblico notaio del
Regno.»
Il truce
personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se
ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando
deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).
Ottiene due
dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come
da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^
Ind. 1584 - prestitit juramentum [..]»
Giovanni del
Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di oneri,
pesi e debiti.
Il “paragio”.
Tra
tutti primeggiavano gli obblighi di “paragio”.
Il
“paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il
feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma
per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per
indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.
Simpatico o meno
che sia il sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul
poveraccio cadde addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due
fratelli che non scherzavano in fatto di pretese economiche, una figlia
‘spuria’ da dotare bene per farla sposare dal nobile Russo - forse un parente
della prima moglie -, un figlio infelice avuto tardivamente da una discendente
della arrogante e burbanzosa famiglia Tagliavia-Aragona della vicina
Favara.
E per di più le
disgrazie giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa di
mille fiorini’) e per quelli suoi propri
(condanna ad onze mille, da pagarsi alla
moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).
Sbuca poi un
Vincenzo del Carretto che le carte della curia agrigentina danno come arciprete
di Racalmuto al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio del ‘600.
Risulta da vari
documenti [8] un fratello dell’infelice conte di Racalmuto, quello
‘ucciso dal servo’ nel 1622.
Se è così, fu un
altro figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo) da
dotare se non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal Concilio
di Trento per gli ecclesiastici.
I ‘paragi’ delle
sorelle e dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei del
Carretto che avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad
acrimonie giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del
Carretto e suo figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava
Giovanni, e forse per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto
per alto tradimento nel 1650).
Racalmuto - questo
feudo dei del Carretto - ne subì i danni?
Tutto lo fa pensare.
Donna
Aldonza del Carretto
Un saggio della
pretenziosità delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la
terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che dota il
convento di S. Chiara a Racalmuto - la quale pure sul letto di morte non resiste
nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio verso il fratello primogenito.
Lo esclude, innanzi
tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali, [9] che
invece limita alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna
Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione,
salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis et infrascriptis».
Dopo aver fatto
alcuni lasciti per la sua anima ed aver
dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si
ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:
«..et perché a
detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di
Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto
essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li
detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e
qualsivoglia leggi et altri ragioni in
suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in
contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali
leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in
juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di
essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle,
siano et s’intendano instituti heredi
universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et
lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta
tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet
competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta
testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare
la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli
li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600
essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto
soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla]
presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Ma non tutte le
sorelle erano eguali per la terribile donna Aldonza.
E solo dopo un paio
di nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo un legato di
200 once così condizionato:
«Item ipsa tetatrix
legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori, uncias
ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes universales
infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis] ipsius
testatricis et hoc pro bono amore».
Uguale trattamento
per il fratello Aleramo:
«Item essa
testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di
Gagliano, onzi ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à
Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori
di essa testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem
D. Aleramo competenti et competituro.
«Item essa
testatrice declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi
pagando onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la
lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».
Nel testamento non
troviamo alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse perché già
morto?
Ma non basta. Se ci
si addentra nei processi per investitura dei del Carretto, sbuca fuori un’altra
sorella: Beatrice del Carretto, [10] morta nel settembre del 1592.
I del Carretto a fine secolo XVI.
Tirando le somme,
su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di
‘paragio’ di otto sorelle e due fratelli.
Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di
figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legale, il conte di Racalmuto per
antonomasia, Girolamo del Carretto.
Su quest’ultimo si
abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione patrimoniale, carica
di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’. Sarà stato per questo,
ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto, all’età di ventitré anni si
spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli Giovanni e Dorotea e
nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il fratello (o fratellastro)
don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.
Un anno dopo, il
primo maggio 1622, Girolamo del Carretto dava l’anima a Dio.
Ma torniamo al
1593, l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di sicuro
nel suo castello racalmutese.
Una nota di cronaca
lo accosta alla morte del celebre poeta
Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri del Santo Offizio.
«In questo stesso anno [1593] - precisa un diarista [11] - dì 19
di agosto. Fu posto fuoco alla monizione della polvere che era in Castell’a
mare di Palermo: perilché quasi tutto il castello brugiò, e morirono più di 200
persone, la maggior parte carcerati; fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta,
Argistro Gioffredo, il baron di Sinagra, due maestri di sant’Agostino che
andorno a mangiare con l’inquisitori, et altri cavalieri e plebei.
«Scamporno l’inquisitori, il conte di
Racalmuto, il barone di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina grande
delle case del castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi
d’ivi, andorno a stare alla casa di Monetta.»
Che cosa vi stesse
a fare Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente de
oficial» del Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan Francesco
Rao ed il viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II che i
nobili non potessero far parte dell’Inquisizione.
Non era quindi per
ragioni di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che potesse stare
in quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può dunque spiegare
il perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di riguardo [12]. Se è
così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.
Che i guai di
Giovanni del Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano stati
seri si desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello rampante,
Aleramo del Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.
I Diari [13] parlano del «pretore l’ill.mo sig. D.
Aleramo del Carretto conte di Gagliano» sotto la data del 26 ottobre 1595, e
narrano che l’11 aprile del 1596 costui, come pretore, ebbe a carcerare «tutti
li mastri di piazza». Gli ascrivono poi a merito che in quel tempo «fece fare
la scala nova della Corte del pretore e l’arcivo del capitano».
Giovanni del
Carretto dovrà aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16
dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore
sopra la lettiga. E lo portarono in spalla quattro titolati, che furono D.
Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di
Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è
vero, ma ci sta.
Giovanni del
Carretto resta vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di Cerami. Ha
una relazione non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è documentato - ha
una figlia di nome Elisabetta.
Nella seconda metà
dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo Russo. A sua
volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita Tagliavia di
Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio cognome
quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio sia
stato celebrato nel 1596.
Il primogenito
Girolamo del Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre 1597.
Dopo tante
traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare
l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il 13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo
piuttosto tardi (difettava di liquidità?)
e presta giuramento il 18 settembre 1600. [14]
I del Carretto,
dopo il trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto, almeno sino
all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del padre, nel 1606,
venne ricondotto, insieme alla sorella,
dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del Carmelo vi trovò anche
la morte nel 1622).
Il figlio,
Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel
1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro
paese, praticamente sino alla sua estinzione (1710).
Finché i del Carretto
si accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero proficuamente
abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel “castro” racalmutese
e viene seppellito a S. Francesco.
Ecco la
testimonianza resa da un maggiorente locale:
«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti,
repertus hic presens testes, juratus et
interrogatus supra capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire
qualiter:
«in lo misi di gennaro prossimo passato in la
ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim
baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo
Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in ditta baronia ipso
spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito legitimo et naturali, et accussì tempore eius vitae lo vidio
teneri, trattari et reputari per patri et figlio, et cussì da tutti quelli ca lu havino
canuxuto et canuxino ... quia
instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».[15]
Dal 1564 comincia
la documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto di
matrimonio. Piuttosto rada all’inizio,
verso la fine del secolo s’infittisce. Le presenze importanti in paese, o per
un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono dirsi tutte
documentate.
Quanto ai del
Carretto, un Baldassare viene a Racalmuto, con la moglie, per fare da compare e
comare al figlio di un grosso personaggio: i Vuo. La solennità dell’evento
viene così segnata:
«Adi 9 marzo VIe
Indiz. 1593 - Diego figlio del s.or
Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il
Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora
Donna Maria del Carretto.»
Quattordici anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto
vivo per un’analoga circostanza don Giuseppe del Carretto: la cerimonia
riguarda il battesimo della figlia Porzia del magnifico “Arthali magn.
Thodisco”. Infatti, il documento recita: “I padrini: ill.mo don Joseppi de lo
Carretto et donna Anna de Carretto”.
Troppo poco, come si vede.
Ebbe ad attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte
Giovanni, il marito della figlia illegittima Elisabetta.
Recenti ricerche d’archivio in Vaticano ci hanno permesso
di appurare il ruolo di questo personaggio.
I del Carretto ed il vorace vescovo spagnolo di
Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva.
Nel 1599 il vescovo
spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva si vedeva costretto
a difendersi presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, [16] avendo avuto sentore di un libello
accusatorio contro di lui che non si è lungi dal vero ritenerlo ispirato, se
non addirittura scritto, dalla potente famiglia locale dei Montaperto.
Il Presule
agrigentino passa al contrattacco e descrive con toni acri le sopraffazioni
dell’intera nobiltà dell’agrigentino, i del Carretto compresi.
La fosca
storia del chierico Vella
«Le controversie poi per la giurisdizione o esenzione
ecclesiastica non erano infrequenti.
«A Racalmuto il chierico in
minoribus Jacopu Vella fu “infamato” della morte di un vassallo del
Conte il quale lo fece arrestare e volle procedere contro di lui, nonostante
monitori e censure, e per sottrarlo al vescovo lo fece prima portare nelle
carceri di Palermo e poi in quelle di Agrigento.
«“In detta terra li preti e clerici non godono franchezza
nixuna et per ordine del conte non si da la franchezza della gabella et mali
imposti et comprano come li seculari denegandoli la franchezza.
«”In detta terra, essendo mandati Vincenzo Carusio,
sollicitaturi fiscali, e Giuseppi Gatta commissario per prendere a notaro
Oruntio Gualtieri, foro detenuti dalli uffiziali temporali, carzerati per molti
giorni tenendoli a lassari exequiri
l’ordini contra detto prosecuto”.
«Nella stessa terra lungamente il conte contrastò con il
vescovo e il capitolo per il diritto di spoglio alla morte dell’arciprete
Michele Romano.»
*
* *
Nei registri della Matrice si hanno, tra l’altro, notizie
sulla morte del detto arciprete. Nel libro dei matrimoni del tempo si annota,
ad esempio: «die 28 Julii X Ind. 1597. Incomensa lo conto delli inguaggiati
dopo la morte del arciprete don Michele Romano.»
Il benefizio di Sant’Agata
Al Vescovo di Agrigento facevano dunque gola i beni
dell’arciprete racalmutese.
Rimane ancora l’eco di un suo maneggio sui beni di S.
Agata.
Non si sa se nel 1596 sorgesse nel Beneficio di S.
Agata una qualche omonima chiesa. In uno
studio del 1908 [18], F. M. Mirabella illustrava
la figura di «Sebastiano Bagolino, Poeta latino ed erudito del Sec. XVI». Vi si
parla anche dei difficili rapporti del poeta ed il vescovo di Agrigento
Giovanni Horozco Covarrusias e Leyva di Toledo.
«Certo è che - si
legge a pag. 188 - della sua traduzione [fatta dallo spagnolo in latino di
alcune opere del vescovo] il Bagolino non si tenne adeguatamente compensato.
Aveagli il vescovo fatto l'onore di ammetterlo alla sua mensa; aveva anche
conferito a don Pietro Bagolino, fratello di lui, prima i beneficj di Santa
Lucia e di S. Margherita in Castronovo, di
S. Agata in Racalmuto, di S. Maria Maddalena in Naro, di S. Leonardo fuori
le mura di Girgenti, e poi quello di S. Pietro nella stessa Girgenti col
reddito annuo di 250 ducati. Ma questo al poeta non pareva un guiderdone
condegno.»
IL MERO E MISTO IMPERIO
Nel 1582, nel
testamento di don Girolamo del Carretto primo conte di Racalmuto, il lascito a
Don Giovanni quarto comprende, senza ombra di equivoco, la contea di Racalmuto
con il «..mero et misto imperio dicti
comitatus ac titulo dicti comitatus aquisito
per dictum dom. testatorem ...».
Ma viste le
successive contese, giocò forse il fatto che nel più importante privilegio di
casa del Carretto - quello della sua erezione a contea con firma autografa di
Filippo II di Spagna - latita un esplicito richiamo al mero e misto imperio,
anche se non mancano le locuzioni equipollenti. [19]
Tra le varie
clausole scegliamo questa (che traduciamo dal latino):
«Concesse e concede a Don Giovanni del
Carretto, suo figlio primogenito, successore indubitato in detto stato, terra,
titolo, feudi .. con le modalità specificate .. il predetto stato e contea di
Racalmuto .. con tutti i suoi singoli feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi, terraggioli, censi,
servitù, giurisdizioni civile e
criminale, mero e misto imperio, con il
titolo e la dignità di conte.»
Concetto che
ritorna subito dopo: « Del pari, doniamo
tutti ed integralmente i beni stabili e mobili, allodiali e burgensatici,
redditi, diritti, censi e tutti gli altri diritti, .. nonché il detto stato di
Racalmuto con tutti i singoli relativi feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi
feudali, giurisdizioni civile e criminale, nonché il “mero e misto imperio” con
la dignità ed il titolo di conte...».
Nel Privilegium concessionis Comitatus Racalmuti
in personam Don Hieronimi de Carretto[20], dopo
la buriana dell’esecuzione per alto tradimento dell’ultimo Giovanni del
Carretto, il “mero e misto imperio” non si dubita neppure essere prerogativa
della Contea di Racalmuto.
Il diploma regio è
chiaro: «...il feudo, lo stato ed il
titolo confiscati, doniamo, rimettiamo, con la nostra indulgenza, ed a te don
Girolamo del Carretto e Branciforti doniamo di nuovo e concediamo,
investendotene, il feudo e la contea di Racalmuto, con la sua terra, i suoi
dominî, il vassallaggio e con tutti i suoi singoli feudi e territori, nonché la
baronia come si dice di Gibillini e Fico, entro i loro confini, con le case, i
mulini, i corsi d’acqua, i boschi, e con
tutte le altre singole cose della detta Contea e Baronia e relative pertinenze,
comunque e dovunque inerenti, unitamente all’integrità dello stato con ogni sua
causa e modo, nonché alla giurisdizione, il mero e misto imperio, la ’baglîa’, le gabelle, i censi e tutti gli
universi singoli diritti a detta Contea e Baronia spettanti, con tutte le
prerogative, dignità, preminenze e clausole come tuo padre e tuo nonno ed i
tuoi antecessori legittimamente avevano avuto, tenuto e posseduto ... »
Resta ancora poco
chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto, se in natura
(come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in contanti (come
tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
Non vi erano solo i
diritti feudali veri e propri, ma anche i beni allodiali della famiglia del
Carretto, per la gran parte in mano ai rami cadetti (che erano soliti dimorare
ad Agrigento) a motivo forse del dispersivo gioco del ‘paraggio’.
[1]) Archivio di Stato di
Agrigento - Fondo 46 - vol. 509 - f. 52-55.
[2]) Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restaurato - Palermo 1989, pag.
334-335. Trattasi della ripubblicazione di un testo manoscritto del 1627 (una
trentina d’anni dunque dopo la conclusione degli eventi).
[3]) C.A. Garufi - Fatti e Personaggi dell’Inquisizione di
Sicilia - Edizione Sellerio, Palermo 1978, pag. 255; 260; 260 e 262-263
[5]) Nel libro
dei Morti della Matrice di Racalmuto del 1614 alla
colonna n. 83, n.ro d'ordine 17, leggesi:
«2 dicto [maggio
1622] il Ill.mo D. Ger.o [Geronimo] del Carretto fu morto e sepp.[llito] nella
ecclesia di S.to Francesco per lo clero». Dai processi d’investitura
sappiamo che era morto il giorno prima
1° maggio 1622.
[7]) Archivio di Stato di Palermo
- Protonotaro del Regno - Processi d’investiture - Busta n. 3542 - Contea,
terra e castello di Racalmuto - del Carretto Francesco (così erroneamente
indicato, ma trattasi di Giovanni del Carretto)
«ex actis meis
notarii Angeli Castro Joanne Racalmuti -
«Est sciendum
qualiter inter alia capitula testamenti solemnis et in scriptis quondam don
Vincentij del Carretto sacerdotis, ultimi sub quo decessit, facti in actis meis
notarii infrascripti die XV° augusti VII ind. proximae praeteritae 1624, aperti
et publicati in eisdem actis meis sub
die XVIII presentis mensis
septembris VIII^ inditionis instantis,
extat capitulus ut infra:
«“Item
dictus testator legavit et legat de summa illarum unciarum quadraginta novem
redditus supra statu et baronia Ciramis vigore contractuum superius
expressatorum uncias duodecim redditus
Ven: Conventui Sanctae Mariae de Monte Carmelo terrae Racalmuti pro
celebratione unius missae de requie pro anima Ill.i Don Hieronimi del Carretto
comitis Racalmuti eius fratris.”»
Se ne ha la riprova nell’atto di donazione del 10
luglio, IIIJ^ Ind. 1621 (ASP -
Protonotaro Regno - Investiture - Busta n.° 1569 - Processo n. 4074 - 1621 - f. 10) che recita:
«.. Don
Vincentius del Carretto frater ipsius Don Hironimi comitis et avunculus
dictorum Don Joannis et Donnae Dorotheae...»
[9]) vedi testamento reperibile
in Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol. 501.
[10]) Archivio di Stato di
Palermo - Fondo: Conservatoria Registro - Serie Investiture - Busta n.°
141- Anni 1636-48 - f. 118.
[11]) Diari della città di Palermo, a cura di
Gioacchino di Marzo - Palermo 1869 - “Varie
cose notabili occorse in Palermo ed in Sicilia” cavate da un libro scritto da Valerio Rosso dottor in medicina, della
città di Corleone - pag. 283.
[12]) Leonardo Sciascia - Morte dell’Inquisitore - Bari 1982, pag.
183 - la pensa invero alquanto diversamente.
Precisa: «questo stesso Giovanni IV troviamo
nella cronaca dello scoppio della polveriera del Castello a mare, 19 agosto
1593: stava a colazione con l'inquisitore Paramo, ché allora il Sant'Uffizio
aveva sede nel Castello a mare, quando avvenne lo scoppio. Ne uscirono salvi,
anche se il Paramo gravemente offeso. Vi perirono invece Antonio Veneziano e
Argisto Giuffredi, due dei più grandi ingegni del cinquecento siciliano, che si
trovavano in prigione.»
[13]) Op. cit. - Diario della
città di Palermo da’ mss. di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino - vol. I,
pag. 136.
[14]) ARCHIVIO DI STATO IN
PALERMO - PROTONOTARO DEL REGNO - PROCESSI D’INVESTITURE - BUSTA N. 1555 - PROCESSO N. 3542 - FEUDO: CONTEA TERRA E
CASTELLO DI RACALMUTO -
COGNOME E NOME DELL’INVESTITO: DEL CARRETTO FRANCESCO [ma trattasi di Giovanni: errore dell’archivista palermitano di questo
secolo] - ANNO: 1600
[15]) ARCHIVIO DI STATO IN
PALERMO - PROTONOTARO DEL REGNO - PROCESSID’INVESTITURE - BUSTA N. 1517 -
PROCESSO N. 2554 - FEUDO: TERRA CON CASTELLO DI RACALMUTO - COGNOME E NOME
DELL’INVESTITO: DE CARRECTIS GIROLAMO - ANNO: 1562.
[17]) Domenico De Gregorio - Giovanni Horozco de Covarruvias de Leyva,
Vescovo di Agrigento (1594-1606), in Miscellanea
in onore di Mons. Canv. Dr. Angelo Noto - per la sua messa d’oro -
Agrigento 1985, pag. 73. Le raccoglie dall’Archivio Curia Vescovile di
Agrigento - Reg. 1595.
[18]) ARCHIVIO STORICO SICILIANO
del 1908 , Nuova Serie, Anno XXXIII (pag. 105 e ss.)
[19]) Archivio di Stato di
Palermo: PROTONOTARO REGNO INVESTITURE -
BUSTA 1538 - PROCESSO n.° 2872 - ANNO 1584,
[20]) Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro
del Regno - Processi investiture - Busta n.° 1597 - Processo n.° 5226 - Anno
1656.
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