I beni ecclesiastici di Racalmuto.
Il singolare
vescovo di Agrigento Horozco, con cui già ci siamo imbattuti, ebbe modo
d’interessarsi delle finanze ecclesiastiche concernenti Racalmuto nella seconda
“Relatio ad limina” della diocesi di Agrigento, datata 1599 (la prima è del 14
settembre, VIII^ ind. 1599[1]). Il
vescovo dichiarava di essere affetto dalla sciatica «per la quale gli fù
bisogno andare alli bagni » e pertanto non «hà possuto venire personalmente a
baciar i piedi di Nostro Signore e visitare li santi Apostoli». Non era più suo
fiduciario l’arciprete di Racalmuto don Alessandro Capoccio. Al suo posto aveva
prescelto come suo mandatario per la visita tridentina al Papa Giovanni Chimia.
Lo stato di infermità del vescovo veniva certificato da un appartenente
all’odiata famiglia dei del Carretto, appunto da quel don Cesare del Carretto,
preso di mira dall’Horozco nel libello prima cennato. Non si poteva evitare: il
17 di agosto 1598 il potente (e prepotente) don Cesare era “juratus civitatis
Agrigenti” [cfr. Relatio cit. f.15].
Dalla documentazione
vaticana risulta che la “Ecclesia Cathedralis Agrigentina” era in grado di
“ingabellare” 9.500 onze di rendita
diocesana. In via diretta o indiretta, Racalmuto è così chiamato in causa:
·
al 15° posto risulta censita la “prebenda di
Racalmuto che vale di Mensa onze 130”;
·
tra i “Beneficij semplici de Mensa”, al n.° 3
viene rubricata “la prebenda Teologale [che] si dà al Teologo quale eligino il
Vescovo ed il Capitulo: è titulo di Sta Agata [che sappiamo di Racalmuto, come sappiamo che talora il vescovo la
utilizzava non per remunerare teologi ma il fratello di un letterato, per come
abbiamo sopra visto, n.d.r]: [vale] onze 100;
·
l’arcipretura di Racalmuto è segnata al n° 12 e
“vale de mensa onze 250”.
Tirando le somme, i
racalmutesi a fine secolo XV erano chiamati per decime religiose e tasse
episcopali a qualcosa come onze 480, senza naturalmente includervi tutti gli
oneri di battesimo, matrimonio morte e simili, da conteggiare a parte. Era un
gravame misurabile in tarì 3 e 5 grana annui pro-capite.
Ma, allora - come
del resto anche oggi - le pubbliche autorità, civili e religiose, non amavano
riscuotere direttamente le loro tasse: le davano in appalto (in gabella, recita
il documento) e gli aggi esattoriali Dio solo sa a quanto ascendessero. Pensare
ad un 25% d’aggravio è forse da ottimisti.
ARCIPRETI E SACERDOTI NELLA
SECONDA META’ DEL CINQUECENTO
Don
Aloysio (Lisi) Provenzano
Questo sacerdote traspare dai registri di battesimo e di matrimonio della
Matrice. Il suo ministero sembra discontinuo. Nel biennio 1575-1576 dovette
avere funzioni di cappellano ed il suo nome si alterna con quello di don
Vincenzo d’Averna negli atti di battesimo. Ancora nel 1581 è uno degli
officianti della Matrice ed il 19 settembre 1581 battezza Paolino d’Asaro, fratello
del pittore e futuro sacerdote racalmutese.
In tale veste compare sino al 1584, dopo subentrano altri cappellani come
don Paolino Paladino e don Francesco Nicastro. Don Lisi Provenzano riappare
successivamente nei documenti della Matrice, ma come teste nella celebrazione
di matrimoni (ad es. il 28 settembre 1586) o come semplice padrino in battesimi
(come quello di Francesco Castellana del 3.10.1587 ).
La sua presenza a Racalmuto è attestata sino al 1593 come dal seguente
atto di matrimonio, da cui però risulta che il Provenzano non è più cappellano
della Matrice.
La figura di d. Lisi Provinzano emerge invero da un documento
dell’Archivio Vescovile di Agrigento che risale al 31 ottobre 1556. Se ne
ricavano alcuni tratti biografici. Ma soprattutto è la vita paesana a metà del
XVI secolo che traspare. Val quindi la pena di riportarne alcuni brani.
Siamo stati supplicati da parte del Rev. presti Aloysio
Crapanzano (ma trattasi di Provenzano) ... del tenor seguente: .. da parte del
rev. presti Aloisio Provenzano della terra di Racalmuto, subdito della
giusridizione di V.S. ... In tempi
passati venendo a morte lo condam ... di Salvo della ditta terra, fece il suo
testamento agli atti dell’egregio condam notaro Vito Jandardoni et per quello
inter alia capitula legao all’esponente pro Deo et eius anima et in
satisfatione de suoi peccati tarì dudici anno quolibet sopra tutti li soi beni
hereditari durante la vita di esso esponente per una missa da dovirisi diri in
die lunae cuiusvis hebdomadis .. in ecclesia Sancti Francisci dictae terrae per
ipse esponente. Et mancando, che tali
tarì dudici li havissero li frati di ditto convento durante la vita di
esso esponente, si como per ditto legato appare in ditto testamento fatto ni li
atti de ditto notaro Vito 21 novembre iiij ind. 1545. Et perché lo esponente si
trovao absenti da ditta terra alla morte del ditto testatore, che havea stato
in Palermo et ad altri parti per soi negotij et non habbi mai notitia di tale
legato et li frati di ditto convento quello si exigero con diri che ipsi
voleano dire tali missa.
Appena saputa la faccenda del legato, il sacerdote si dichiara
disponibile alla celebrazione della messa per l’anima del di Salvo. Ma i frati
sono riluttanti e non consentono al Provenzano di celebrare quella messa nella
chiesa del loro convento. Quindi il sacerdote si trova nell’impossibilità di
adempiere all’obbligo nelle modalità volute dal testatore. Egli non può
celebrare
ditta missa per la repugnantia di
ditti frati in la loro ecclesia; pertanto supplica V.S. sia servita provvedere
et comandare che ipso exponente possa satisfare la volontà di ditto defunto in
diri la missa ogni lune cuiusvis hebdomadis in alcuna altra ecclesia in ditta
terra di Racalmuto ben vista a V.S. Rev.da et comandare alli heredi di ditto
defunto che di ditti tarì dudici anno quolibet
staiono de rispondere et quelli dari allo esponente con la conditione
ordinata e fatta per lo defunto che quando mancasse per sua colpa e defetto
recada al ditto convento di santo Francesco. Et ita petit et supplicat.
..
Il vicario generale dell’epoca don Rainaldo dei Rainallis dà quindi
disposizioni al vicario del luogo perché faccia un’inchiesta e ragguagli il
vescovado.
Quel che emerge con chiarezza è dunque la vita piuttosto girovaga di
questo nostro prete del Cinquecento che per affari si reca a Palermo ed in
altre località ed è tanto affaccendato da non sapere neppure di un legato in
suo favore. Non meraviglia certo che il di Salvo s’induca a lasciare a favore
di questo sacerdote, durante vita, un legato di dodici tarì per una messa la
settimana, il giorno di Lunedì, da celebrarsi nella chiesa di S. Francesco. Le
disposizioni testamentarie pro Deo et anima in remissione dei propri peccati
investivano i vari strati della popolazione. Non sorprende che i frati siano
riluttanti a concedere il permesso di celebrare nella loro chiesa a sacerdoti
secolari. Se messe di suffragio sono da dire, possono benissimo essere loro ad
adempiere ogni volontà testamentaria al riguardo. Ovviamente percependone le
elemosine. A chi abbia dato ragione il Vicario Generale, se ai frati o a d.
Lisi Provenzano non sappiamo, ma propendiamo a credere che sia stato
quest’ultimo a venire favorito. Non per nulla, qualche anno dopo il sacerdote
si stabilisce a Racalmuto e qui svolge funzioni da cappellano.
Il documento è comunque importante perché ci fornisce qualche dato sul
convento e sulla chiesa di S. Francesco. L’uno e l’altra erano dunque operanti
da prima del 1545. Stanziano a Racalmuto padri francescani che dispongono della
chiesa ed erano sottratti alla giurisdizione del vescovo agrigentino. Nella
visita pastorale del 1540-43, il vescovo Tagliavia omette ogni riferimento ai
francescani. Eppure abbiamo motivo di ritenere
che essi fossero già insediati. Nel 1548 il convento possedeva una
bottega in piazza e ciò risulta dalla bolla di riconoscimento della
confraternita di S. Maria di Juso datata
21 maggio 1548 ( A.C.V.A. - Registro Vescovi 1547-48, p. 142).
Con i padri dell’Ordine dei Minori Conventuali di S.
Francesco, ebbe dunque a confliggere don Lisi Provenzano attorno al 1556 per un
legato del 1545. Il convento francescano precede quindi di almeno 15 anni il
1560, data ritenuta di fondazione dal Tossiniano. Al 1560 risale, invero, il
testamento di Giovanni del Carretto che accenna alla chiesa di S. Francesco ed
al convento ma in questi termini:
Del pari lo
stesso spettabile Testatore volle e diede mandato al predetto d. Girolamo del
Carretto, suo figlio primogenito ed erede particolare, di far celebrare delle
messe nel convento di S. Francesco di detta terra. Inoltre dispone che sia
costruita una cappella in un luogo da scegliersi in detta chiesa dal suddetto
erede particolare ed a tal fine saranno da spendere 100 onze entro due anni
dalla morte del testatore. La Cappella è da fabbricarsi per l’anima del
predetto testatore e dei suoi predecessori.
Inoltre decide di venire sepolto nella chiesa di S.
Francesco con l’abito francescano:
Item elegit eius
corpus sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus ordinis ditti
Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.
Anche da qui emerge che S. Francesco esisteva da
tempo.
Il Sac. Lisi Provenzano visse, dunque, gli anni del
suo sacerdozio tra Palermo, altri luoghi e Racalmuto. Ordinato già nel 1545,
all’epoca cioè del testamento del di Salvo, nacque a Racalmuto qualche tempo
prima del 1520. Morì attorno al 1597.
Nel 1584 fa una donazione alla chiesa di S. Maria
Inferiore (di Gesù) di tt. 6 annui, cedendo un censo annuo su una casa una
volta appartenuta a Violante Petruzzella:
Actus donationis o. - 6.
Pro ven: Eccl. Sanctae Marie inferioris - cum p.ro Aloisio
Provenzano.
Die xxiiij° septembris xiij^ ind. 1584
Reverendus presbiter Aloisius
Provenzano de Racalmuto coram nobis mihi notario cognitus pro anima sua titulo
donationis et omni alio meliori modo sponte cessit et cedit ven: Eccl.
Sanctae Mariae Inferioris dictae terrae
per eum Mattheo La Paxuta rettore mihi cognito omnia jura quae et quas habuit
et habet in et super tt. 6 census quolibet anno solvendi contra magistrum Joseph
Cachiatore super domo olim Violantis Petrocella virtute contractus facti in actis meis die etc.
Testes m.j Joseph Lomia et Jacobus de Poma.
Arciprete Gerlando D’Averna
Con bolla pontificia del 13 novembre 1561 ( Archivio
Segreto Vaticano - Registri Vaticano - Bolla n.° 1911 - f. 211 e ss.), Pio IV nomina arciprete di
Racalmuto don Gerlando D’Averna (chiamato nel documento Giurlando de Averna).
La bolla viene indirizzata al diletto figlio, arciprete e rettore della chiesa
di S. Antonio di Racalmuto, diocesi di Agrigento.
Pius episcopus
servus servorum Dei. Dilecto filio Giurlando
de Averna rectori archipresbitero nuncupato parrochialis ecclesiae
archipresbiteratus nuncupatae Sancti
Antonij terrae Rachalmuti
Agrigentinae diocesis, salutem et apostolicam benedictionem.
E’ del tutto rituale l’apprezzamento che giustifica la
concessione papale del lontano beneficio dell’arcipretura racalmutese, ma è pur
sempre un riconoscimento di meriti:
Vitae ac morum honestas aliaque
laudabilia probitatis et virtutum merita, super quibus apud nos fide digno
commendaris testimonio, nos inducunt ut tibi reddamur ad gratiam liberalem.
Ci appare oggi strano come una prebenda così striminzita fosse di
concessione pontificia. All’epoca era invece una consuetudine ed il papa mostra
di esserne un custode geloso et attento. Ne fa accenno nel corpo della stessa
bolla, dichiarando illegittima ogni usurpazione da parte di qualsiasi autorità:
Dudum siquidem omnia beneficia
ecclesiastica cum cura et sine cura apud Sedem apostolicam tunc vacantia et in
antea vacatura collationi et dispositioni nostrae reservavimus, decernentes ex
tunc irritum et inane si secus super hijs a quacumque quavis auctoritate
scienter vel ingnoranter contingeret attemptari.
In un siffatto quadro giuridico si colloca, dunque, il beneficio di
Racalmuto, un beneficio che, comunque, tal Sallustio - già rettore ed arciprete
di Racalmuto - non ha reputato utile mantenere e l’ha restituito nelle mani del
Papa.
Et de inde parrochiali ecclesia archipresbiteratus nuncupata Sancti
Antonij terrae Rachalmuti Agrigentinae diocesis per liberam resignationem
dilecti filij Salustij humilissimi nuper ipsius ecclesiae rectoris
archipresbiteri nuncupati, de illa quam tunc obtinebat in manibus nostris
sponte factam et per nos admissam apud
Sedem predictam vacantem.
L’arcipretura di Racalmuto, cui rinuncia anche il chierico Cesare, viene
alla fine assegnata al D’Averna per i suoi meriti:.
Noi, quindi vogliamo concederti una
speciale grazia per i tuoi premessi meriti, e assolvendoti da ogni eventuale
censura, disponiamo che tu ottenga tutti i singoli benefici ecclesiastici con cura e senza cura
(d’anime) e tutto quanto ti compete in qualsiasi modo, comunque e per qualsiasi
quantità; ed in particolare gli annessi frutti, redditi e proventi che
costituiscono una pensione annua di 24 scudi d’oro italiani secondo la
ricognizione fatta dalla Santa Sede quando ebbe ad accordarla al predetto
Sallustio, pensione che in ogni caso non supera i sessanta ducati d’oro come tu stesso affermi.
E vogliamo ciò
anche se sussiste una qualche riforma insita nel corpo delle leggi visto
che la predetta chiesa è riservata alla disponibilità apostolica in forma
speciale e generale.
Pertanto ti conferiamo il beneficio
con l’autorità apostolica che ci compete, giudicando irrituale ed inefficace
ogni altra contraria decisione di qualsiasi autorità che abbia ritenuto di
poterne disporre, scientemente o per ignoranza. E ciò vale anche verso chi
tenterà in futuro di arrogarsi poteri dispositivi.
Intorno a quanto precede, diamo
mandato per iscritto ai venerabili fratelli nostri, i vescovi Amerin/ e Muran/
nonché al diletto Vicario del venerabile fratello nostro, il vescovo di
Agrigento, affinché loro due o uno di loro, direttamente o per il tramite di
qualcuno introducano Te o un tuo procuratore nel materiale possesso della
chiesa parrocchiale e degli annessi diritti e pertinenze e lo facciano per la
nostra autorità. Non manchino, altresì, di difenderti, dopo avere rimosso
qualsiasi altro detentore, facendoti dare integro il resoconto della chiesa
parrocchiale e degli annessi frutti, redditi, proventi e doti. A ciò non osti
qualsiasi contraria costituzione di papa Bonifacio Ottavo, di pia memoria,
nostro predecessore, né ogni altra decisione apostolica. Del pari, nessuno può
richiedere per sé o per il proprio legato un qualche diritto di omaggio o un
qualunque beneficio ecclesiastico in base a lettere o in forma speciale o
generale, anche nel caso in cui vi sia stato un processo e sia stato emesso
decreto riformatore.
Vogliamo che tu comunque entri in
possesso di detta chiesa parrocchiale, senza pregiudizio alcuno degli annessi
benefici. Se qualcuno dovesse tentare presso il venerabile fratello nostro, il
vescovo di Agrigento o presso chiunque altro che sia stato dalla Sede
apostolica dotato in comunione o frazionatamente nei beni della chiesa, non gli
si accordi costrizione o interdetto o sospensione o scomunica. Resta ribadito
che quanto ad omaggi, benefici ecclesiastici, relativa collazione, provvisione,
presentazione e qualsivoglia altra disposizione, sia congiuntamente che
separatamente, non può provvedersi per lettera apostolica che non faccia piena
ed espressa menzione, parola per parola, alla presente, la quale ha forza di
annullare qualsiasi altra indulgenza, generale e speciale, di qualsiasi tenore
della Sede apostolica.
La complessità della bolla invero illumina poco sulle peculiarità
parrocchiali della Matrice del tempo. V’è un rigonfiamento di formule curiali,
del tutto sproporzionato alla esiguità dell’affare.
L’arc. D’Averna non pare essere racalmutese. Sembra venire da Agrigento.
E’ un po' nepotista. Con lui si sistema a Racalmuto il sac. d. Vincenzo
d’Averna che è anche cappellano. Appare un vicario a nome don Giuseppe
d’Averna. Fa capolino un chierico: Orlando d’Averna.
Come arciprete, lo riscontriamo con una certa assiduità negli atti di
battesimo dal 12.11.1570 sino al 5.7.1571; poi appare sporadicamente. Non
abbiamo, però, serie complete di atti di battesimo: il primo quinterno è
incerto se si riferisce al 1554 o al 1564. Si salta, poi al 1570-71-72 e quindi
al 1575-1576. Quindi il vuoto sino al 1584.
L’arc. Gerlando d’Averna figura ancora il 24 di maggio 1576 in questo
atto di battesimo - ed è l’ultima testimonianza di cui disponiamo:
24 5 1576
Joannella figlia di Barbarino Vella (di)e diPalma;
madrina: Juannella di Rotulu;officiante: Don
Gerlando di Averna.
Va, quindi, fugato il sospetto
che, ricevuto il beneficio dal papa, egli abbia soltanto percepito i proventi
della sua arcipretura e per il resto se ne sia stato lontano. La sua
arcipretura sembra durare oltre 18 anni: è, infatti, nel 1579 che subentra
l’arc. Michele Romano.
Don Vincenzo D’Averna
Ci sembra un parente dell’arciprete d. Gerlando D’Averna, ma non abbiamo
prova alcuna ove si eccettui una qualche singolare coincidenza. Sicuramente non
era racalmutese. E’ cappellano della matrice a partire dal luglio del 1571. I
salti della documentazione parrocchiale ci impediscono di sapere sino a quando
operò assiduamente. Comunque, stando agli atti di battesimo disponibili, nel
successivo periodo che decorre dal 6.11.1575 sino al 21.5.1576 è il sacerdote
officiante in n.° 76 funzioni battesimali. Dopo quella data non lo s’incontra
più, ma vanno tenute presenti le interruzioni che si riscontrano per quel
periodo nell’archivio della matrice. Don Vincenzo D’Averna non appare nel
“liber” della parrocchia: ovviamente già nel 1636 si era perso il ricordo di
quel cappellano.
Don Giuseppe D’Averna
Appare per la prima volta in un
atto notarile della confraternita di S. Maria Inferiore del 31 agosto 1578:
Terrae Racalmuti Die xxxi° augusti
vj ind. 1578. - Notum facimus et testamur quod Reverendus pater Joseph d’Averna
cappellanus, Antoninus de Acquista; Jo Grillo et Vincentius Macalusio rectores
venerabilis ecclesiae Sanctae Mariae
Inferioris ...
Nel 1580 fa da padrino di battesimo a Vincenza Stincuni:
14 2 1580
Vincentia di
Gerlando Stincuni e Angela; lo q. don Joseph di Averna la q. Betta la Carretta'.
E’ poi assiduo come cappellano sino alla data della sua morte che il
‘Liber’ segna sotto la data del 26 ottobre del 1600 (Liber in quo adnotata ..
cit. col. 1. n.° 13). Una malcerta
annotazione sembra indicarlo come Vicario Foraneo, ma è indizio troppo dubbio
per essere certi che abbia ricoperto tale importante carica. Comunque è
presente nei battesimi dei figli degli ottimati locali come quello di
3 7 1598 Margarita donna di Geronimo don Russo e
di donna Elisabetta del Carretto, per don Gioseppe d'Averna; patrini Vinc.
Piamontese et soro Gioanna Piamontese
Elisabetta del Carretto era figlia di Giovanni del Carretto, conte di
Racalmuto e di donna Caterina de Silvestro. Ella fu legittimata il 12 novembre
del 1587.
Giovanni del Carretto, fa sposare la figlia, attorno al 1590, con il nobile
Girolamo Russo. Costui figura come governatore del castello di Racalmuto
nell’ultimo scorcio del secolo. Un’eco affiora in certo carteggio scambiato tra
il vescovo di Agrigento Horozco Covarruvias e la Santa Sede, come si è visto
nello stralcio di un documento vaticano sopra richiamato.
Clerico Blasi Averna
Tra il 1579 ed il 1581fa capolino negli atti parrocchiali tal Clerico
Blasi Averna. Di lui non fa menzione il “Liber”: era dunque sparito persino dal
ricordo nel 1636. Nel rivelo del 1593 figura tal Blasi Averna, ma è un ragazzo
di 22 anni che vive con la madre Vincenza nel quartiere di S. Giuliano: non ha
dunque nulla a che vedere con il chierico in questione. Costui sposerà nel
gennaio del 1601 Agata Mastrosimone, come da seguente trascrizione della
Matrice:
7 1 1601 Averna
Blasi di Antonino q.am e di Vicenza q.am con Mastro Simuni Gatuzza di Nicolao
q.am e di Francesca; testi: Muntiliuni cl. Jac. e Gulpi Antonino: Benedice il
sac.Macaluso Jo:
Don Monserrato d’Agrò.
Compare come cappellano della Matrice
attorno al 1579, agli esordi dell’arcipretura Romano, e la sua missione
sacerdotale, in subordine all’arciprete, dura sino al 1594. Sotto la data del
30 aprile 1595 lo incontriamo negli atti della chiesa di S. Maria di Gesù, di
cui è divenuto cappellano. Nel coevo atto di assegnazione di un’onza di reddito
da parte dei fratelli Vincenzo e Giacomo d’Agrò per avere in cambio la
concessione di sepoltura nella medesima chiesa, don Monserrato d’Agrò fornisce
il suo benestare nella cennata veste di cappellano:
Praesente
ad haec omnia et singula praesbyter Monserrato de Agrò, mihi etiam notario
cognito et stipulante pro dicta ecclesia uti eius cappellano et se contentante
de praesente attu et omnibus in eo contractis et declaratis et non aliter.
Ma
negli ultimi giorni di agosto dell’anno successivo è già infermo e si accinge a
fare testamento. Il suo attaccamento alla chiesa di S. Maria di Gesù è tale da
presceglierla quale luogo della sua tumulazione. A tal fine assegna una rendita
annua di un’onza e 3 tarì.
In un atto della chiesa del 12 settembre
1596 viene formalizzato il contratto di concessione in termini che sono uno
spaccato del vivere civile e religioso dei racalmutesi dell’epoca.
Sappiamo dal rivelo del 1593 che a quel
tempo il sacerdote aveva 45 anni. Era nato dunque attorno al 1548. Muore
giovane, all’età di 48 anni. Abitava, apparentemente da solo, nel quartiere
della Fontana come da questa nota del rivelo del 1593:
3 149 AGRO' (DI) PRESTI MONSERRATO [Sac:]
CAPO DI CASA DI ANNI 45
La cappella desiderata da don Monserrato
sorse nella chiesa di S. Maria vicino a quella di S. Maria dell’Itria e di
fronte all’altra ove era raffigurata l’immagine di S. Francesco di Paola (intus dictam ecclesiam Sanctae Mariae
Majoris prope Cappellam Sanctae Mariae
Itriae in frontispicio cappellae Imaginis Sancti Francisci de Paula...).
Risulta che questa fu dedicata a S. Michele Arcangelo ( nell’atto del 1604 si
parla, infatti della dote Cappellae
Sancti Michaelis Arcangeli condam presbiteri Monserrati de Agrò).
Per quel che ci dice il Rollo della
confraternita di S. Maria di Gesù, don Monserrato aveva almeno quattro nipoti
di cui si ricorda nel testamento:
Est
sciendum quod inter alia capitula donationis causa mortis facta per condam don
Monserrato de Agrò Paulino, Natali, Joseph et Joannelle de Agrò eius nepotibus
est infrascriptum capitulum tenoris ....
Il nipote Paolino d’Agrò risulta figlio di
quel Simone d’Agrò che approvò la transazione feudale con il conte Girolamo del
Carretto nel 1581 (è il 229° dei presenti nella chiesa maggiore di Racalmuto
che diedero l’assenso il giorno 15 gennaio 1581). Don Monserrato si limiterà ad
apporre la sua firma come teste.
I primi cappellani:
don Vincenzo Colichia;
don Antonino La Matina;
don Dionisi Lombardo;
don Antonio Castagna.
Il più antico quinterno di atti battesimali della Matrice è composto di
n.° 26 colonne. In alcune parti è indicata la data del 1554 (ad esempio 24 di
augusto 1554 o die Xbris 1554) in altre 1563
(adi 9 januarii 1563) ed in altre ancora 1564 (junii VII ind. 1564). Non
è facile districarvisi. A noi comunque sembra che le date sia apocrife,
aggiunte successivamente. In effetti il fascicolo dovrebbe essere datato
1563-64, settima indizione anticipata.
Vi vengono segnati i sacerdoti che celebrano il battesimo. Sono costoro i
cappellani della Matrice (operante nella chiesa di S. Antonio). Non
riscontriamo mai la presenza dell’arciprete (né don Gerlando d’Averna, né
quello che si considera il suo predecessore,
don Tommaso Sciarrabba (“Arciprete e canonico della cattedrale di
Girgenti anno 1553”, annota il Liber citato, c. 1 n.° 2).
I cappellani officianti risultano:
don Vincenzo
Colichia;
don Antonino La
Matina;
don Dionisi
Lombardo;
don Antonio
Castagna.
La maggior frequenza si registra per don Vincenzo Colichia e per don
Dionisi Lombardo. Entrambi vengono segnati con il titolo di “presti”
(prete). Di nessuno di loro si fa il più
vago cenno nel “Liber”. Nella successiva documentazione del 1570/71, riappare
soltanto il cappellano don Antonino La Matina.
I cappellani del periodo successivo
(1570/1571):
Don Vincenzo d’Averna;
Don Jo Cacciatore;
Don Antonino D’Auria;
Don Giuseppe Garambula;
Don Antonino La Matina;
Don Filippo Macina.
E’ il periodo centrale dell’arcipretura di don Gerlando D’Averna che spesso
presiede alla funzione battesimale. Su don Vincenzo d’Averna ci siamo già
abbondantemente soffermati. Abbiamo pure accennato a don Antonino La Matina,
presente negli atti del periodo precedente del 1564 (o giù di lì). Sul D’Auria,
Cacciatore e Garambula non disponiamo di altri dati. Fra tutti questi
cappellani, il solo ricordato dal Liber è don Filippo Macina (c. 1 n.° 8). Stando ai cognomi, il D’Auria, il La Matina e
Jo Cacciatore possono essere stati benissimo indigeni. Il Macina ed il
Garambula appaiono oriundi.
I cappellani del periodo 1575/76
Don Vincenzo d’Averna;
don Lisi Provenzano.
I salti della documentazione disponibile ci portano a questa quarta
indizione anticipata (1575/76). I battesimi vengono ora suddivisi solo tra il
d’Averna ed il Provenzano. Su entrambi ci siamo dilungati in precedenza.
Arciprete di Racalmuto è ancora don Gerlando d’Averna
I
cappellani del periodo 1579/1582:
Don Michele Abate;
Don Monserrato d’Agrò;
Don Lisi Provenzano;
Don Giuseppe d’Averna.
Nei fascicoli dei battesimi del 1579 appare segnato come arciprete Don
Michele Romano, dottore in sacra teologia (S.T.D.). Nel Liber vengono citati
Abbate (n.° 24), Monserrato d’Agrò (n.° 7) , Giuseppe d’Averna (n.° 13) e
naturalmente l’arc. Romano ( n.° 4). Il Provenzano è segnato come diacono (n.°
18) non si sa se per errore o perché c’era veramente un diacono Luigi
Provenzano morto il 20 luglio 1600.
I cappellani del periodo 1583/84:
Don Monserrato d’Agrò;
Don Francesco Nicastro;
Don Paolino Paladino;
Don Lisi Provenzano.
Arciprete del tempo è don Michele Romano che appare in qualche battesimo.
Rispetto al precedente periodo appaiono per la prima volta don Francesco
Nicastro e don Paolino Paladino: entrambi sono annotati nel Liber, ma senza
alcun altro dato all’infuori del nome e cognome.
Don
Giuseppe Romano
Annotato nel Liber (c. 1 n.° 17) si riscontra solamente in questa nota a
margine del libro parrocchiale delle trascrizioni dei matrimoni 1582-1600:
Die 24
ottobris Xa ind.s 1597, mi detti lu cunto don Leonardo Spalletta delli
sponczalicii a mia don Joseppi Romano come procuraturi di mons.r ill.mo.
L’arc. don Michele Romano era morto solo da
poco tempo (28 luglio 1597). Che vi sia un qualche vincolo di parentela, è
congetturabile.
Arciprete
Michele Romano
Ha tutta l’aria di essere il primo arciprete d’origine racalmutese.
Insediatosi attorno al 1579, succede a don Gerlando d’Averna. Muore il 28 luglio 1597, prossimo al suo ventennio di
arcipretura. Ebbe forse ad acquisire un discreto patrimonio, fatto sta che il
vescovo Horozco intenta una lite al conte del Carretto per rivendicare i beni
successori del defunto arciprete Romano. Il Vescovo ne fa cenno in una sua
difesa inviata al Vaticano, ove fra l’altro si legge:
« [.....]Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s’ha voluto occupare la
spoglia[2] del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti
et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante à
detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam
Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per
occuparseli esso conte, come se l’have occupato, et per non pagare ne lassar
quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran
Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone
sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta
spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in
condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno. »
A distanza di
secoli non è facile sapere chi avesse ragione. Di certo, il Romano durante la
sua vita non si mostra contrario ai Del Carretto. Sul punto di morte è persino
propenso a favorire il conte facendogli - a dire del vescovo - «certi testamenti et atti fittizij,
falsi e litigiosi».
L’arciprete Romano
deve vedersela con il primo conte di Racalmuto, Girolamo del Carretto -
divenuto tale nel 1576 - e, dopo il 9 agosto 1583, con il successore,
l’avventuroso Giovanni del Carretto, che finirà trucidato a Palermo il 5 maggio
1608. Entrambi furono però signori di Racalmuto che amarono starsene a Palermo.
L’arciprete Romano ebbe a che fare più con gli amministratori comitali, quali
Cesare del Carretto e Girolamo Russo, che non con gli altezzosi titolari. E
l’intesa sembra essere stata buona, anche quando si trattò di stabilire, nel
1581, oneri e tributi di vassallaggio.
Quando scende a
Racalmuto un parente dei del Carretto per battezzare il figlio di un
personaggio eccellente, in quel tempo operante nella contea, l’arc. Romano è
ovviamente presente:
“Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 Diego figlio
del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano
archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Conbare
l'Ill'S.ora Donna Maria del Carretto''
In ogni caso, nei
raduni del popolo, chiamato ad avallare gravami tributari, l’arciprete si
mantiene, almeno formalmente, al di sopra delle parti e non appare neppure come
teste.
Arciprete
Alessandro Capoccio
Il Vescovo Horozco
lo nominò arciprete di Racalmuto nell’estate del 1598. Il Capoccio aveva vari
incarichi presso la Curia Vescovile di Agrigento e non aveva tempo di
raggiungere la sede dell’arcipretura: mandò due suoi rappresentanti, muniti di
formalissimi atti notarili. Presso la
Matrice può leggersi questa nota apposta al margine di un atto matrimoniale:
«DIE 16 Julii XIe
Indi.nis 1598: ''Pigliao la possessioni don Vito BELLISGUARDI et don Antonino
d'AMATO (?) procuratori di don Lexandro Capozza p. l'arcipretato di Racalmuto
come appare per atto plubico''.» (cfr. Atti della Matrice: STATO DI FAMIGLIA - M A T R I M O N I - 1582-1600 )
Tre
anni prima, don Alexandro Capocho era stato inviato a Roma, al posto del
Covarruvias, per presentare la prima relazione 'ad limina' dei Vescovi di
Agrigento al Papa[3].
Nell'atto di delega del 12 settembre 1595 "Don Alexandro Cappocio' viene
indicato come "Sacrae theologie
professor eiusque [del vescovo] Secretarius”.
In
Vaticano si conserva il processo concistoriale di quel vescovo (Archivio
Vaticano Segreto - Processus Concistorialis - anno 1594 - vol. I - (Agrigento)
- ff. 30-62.). La testimonianza del Capoccio è, a dire il vero, schietta e per
niente compiacente (f. 36v e 37).
Sintetizzando
e traducendo dallo spagnolo ricaviamo questi dati:
«Depone
il dottor Don Alexandro Capocho, suddiacono naturale del Regno di Napoli e
residente per il momento in questa
corte. Egli testimonia che conosce il detto signor Don Juan de Horoczo y
Covarruvias di vista e solo da due mesi, poco più poco meno, e di
non essere né familiare né parente dell’ Horozco».
Salta quindi ben dodici domande che attenevano
alle origini ed alla vita del futuro vescovo. La sua testimonianza è quindi
molto minuziosa sulla Cattedrale di Agrigento (circostanza che non ci pare qui
conferente). ‘Conosceva piuttosto bene Agrigento per esservi stato due anni,
poco più poco meno’.
Per quanto tempo il Capoccio sia stato arciprete di Racalmuto, s’ignora.
Sappiamo che subentrò l'Argumento, nominato nel marzo del 1600.[4] Quel che
appare sicuro è che l’arciprete Capoccio non fu presente in alcun atto di
battesimo o nella celebrazione di un qualsiasi matrimonio nella parrocchia
racalmutese di cui per un biennio fu titolare. A sostituirlo nelle incombenze
pastorali fu di certo don Leonardo Spalletta, il cappellano di cui gli atti
parrocchiali testimoniano zelo ed assidua presenza.
Giurati a Racalmuto a fine ’500
I giurati di
Racalmuto allo spirare del secolo XVI sono:
1. Nicolò
Macaluso: ha 45 anni; abita nel centro del paese, al 159° fuoco del quartiere
di S. Giuliano; la moglie si chiama Francesca ed è coadiuvata nei servizi di
casa da Dora una “citella di casa”; non ha figli che coabitano con lui;
2. Giuseppe
Cacciatore: ha 42 anni e viene fregiato con il titolo di “magnifico”; abita al
quartiere Fontana al 226° fuoco; la moglie si chiama Giovannella: convivono con
lui quattro figli: Giuseppe di anni 11 e le femminucce Caterina, Franceschella
e Contessella;
3. Giuseppe
Vilardo: ha 30 anni ed anche lui viene fregiato con il titolo di “magnifico”;
abita al quartiere Fontana al 76° fuoco; la moglie si chiama Giovannella:
convivono con lui sei figli: Giuseppe di anni 9 e le femminucce Franceschella, Costanza, Innocenza, Angela e
Fania [Epifania];
4. il
notaio Giuseppe Sauro e Grillo: ha solo 25 anni ed è sposato con Antonella: non
ha figli; professionalmente si affermerà molto; frattanto abita al quartiere di
S. Giuliano al 167° fuoco; si era
sposato a Racalmuto il 20 settembre 1592 appunto con Antonella Magaluso e le nozze erano state
benedette da don Francesco Nicastro: compari, il sac. don Paolino Paladino e il
maggiorente Giovan Francesco d’Amella. Abbiamo l’impressione che il Sauro e
Grillo non fosse racalmutese: il matrimonio con una locale gli poteva
consentire di installarsi nel feudo dei del Carretto per una esplosiva carriera
ed una fortunata professione notarile.
Sono chiamati a
fungere da delegati per il Rivelo:
per il principale e più popoloso quartiere
di Santa Margaritella:
·
Martino di Messina: ha 35 anni circa; abita al
quartiere Fontana al 29° fuoco; la moglie si chiama Catherinella ed ha un
figlio di otto anni;
·
Vincenzo di Amella Pridicaturi: ha 40 anni;
abita al quartiere Santa Margaritella al 369° fuoco; la moglie si chiama
Biatricella; ha tre figli maschi: Giuliano di anni 9, Giuseppe di 6 e Diego di
un anno, ed una femminuccia, Jurla
[Gerlanda];
per il
quartiere di San Giuliano:
·
Giovanni Antonio Sferrazza: secondo noi
risiedeva al quartiere Monte di cui, come detto, non abbiamo il quinterno di
dati demografici;
e per il quartiere della Fontana:
·
Giovan Cola Capoblanco;
·
Natale Castrogiovanni;
·
Pietro Bellomo.
Di questi tre
personaggi non abbiamo notizie certe: dovrebbero tutti e tre abitare al
quartiere Monte.
Chiese,
quartieri e facoltà nel rivelo del 1593
I ponderosi volumi
del rivelo del 1593 non possono essere tutti minuziosamente setacciati, se non
da una squadra di studiosi e con rilevanti mezzi economici. Dobbiamo quindi
accontentarci di alcuni sommari cenni.
A quell’epoca la
terra di Racalmuto era idealmente segnata da un sistema di assi cartesiani in
cui l’ascissa era una linea ideale che dalla Guardia andava al Padre Eterno e
l’ordinata (che all’atto pratico era una sequela di strade tortuose) partiva
dal Carmine per giungere alla Fontana. Nel mezzo vi era di sicuro la chiesa di
Santa Rosalia (sicuramente in prossimità dell’attuale Collegio, ma a quale
punto non sembra che si possa individuare con certezza). In tale sistema la
parte sud-ovest costituiva il popoloso quartiere di S. Margaritella; quella di
sud-est il quartiere di S. Giuliano; l’altra di nord-est era la Fontana ed
infine il quartiere del Monte occupava la sezione di nord-ovest.
All’interno vi
erano località di spicco che negli atti ufficiali servivano per
l’individuazione di case e beni: faceva spicco il rione di Santa Rosalia che in
effetti risultava inglobato prevalentemente nel quartiere di San Giuliano ma
una minima parte debordava in quello di S. Margaritella. Santa Rosalia - che
talora veniva chiamata S. Rosana o S. Rosanna o S. Rosaria, non si capisce bene
se per errata trascrizione o per omonimia popolare o per la presenza nella
chiesa di qualche altra immagine della celeberrima Vergine Sinibaldi - ospitava
tanti personaggi cospicui. Esclusivo appare anche il rione di S. Agata.
Dettagli del Rivelo del 1593
Sembra fuor di
dubbio che il monaco benedettino Vito Maria
Amico [5] ebbe tra le mani, verso il
1750 il materiale del rivelo di Racalmuto del 1593. Nel suo Dizionario
topografico (la parte riguardante Racalmuto è riportata in appendice al libro
di Tinebra Martorana) l’Amico infatti annota: «Contaronsi nel tempo di Carlo V
890 case, e 4447 cittadini nell’anno 1595», (secondo la traduzione del Di
Marzo). Una particolarità ci sorprende: del censimento sotto Carlo V (che
crediamo essere quello del 1548) l’A. ci fornisce il numero delle case (890) e
non quello degli abitanti, per quello del 1595 (per noi 1593) fa l’inverso
dandoci invece solo il numero degli abitanti. E dire che se l’Amico ebbe i due
volumi dell’Archivio di Stato di Palermo (il n.° 597 ed il n.° 598) sarebbe arrivato presto a quel
conteggio: bastava sommare il numero finale del primo volume delle numerazioni
dei fuochi con quello del secondo per avere l’esatto (o quasi) ammontare dei
fuochi di Racalmuto.
Il numero degli
abitanti che ci fornisce il d’Amico è di complessa quantificazione se ha
proceduto ad un analitico conteggio dei componenti dei nuclei familiari: se,
invece, come crediamo, disponeva del quinterno del quartiere Monte, in calce
del quale è da presumere esistesse già quel calcolo di sintesi, la fatica del
benedettino fu di poco conto.
Presso il Tribunale
del Real Patrimonio dell’Archivio di Stato di Palermo, all’apposito fondo dei
Riveli, possiamo rintracciare tre distinti gruppi di documenti che riguardano
appunto quello del 1593 fatto nella ‘terra’ di Racalmuto:
1. alle
pagine 807r - 807v del vol. n.° 596 abbiamo lo spaccato della finanza locale
sopra riportato;
2. allegati
al volume stanno i quinterni delle rilevazioni fatte dagli appositi deputati,
disgraziatamente limitati a solo tre dei quattro quartieri (visto che è stato
trafugato quello del Monte). A parte ci
diamo carico di farne la trascrizione;
3. in
due grossi volumi (n.° 597 e n.° 598) sono annotate le dichiarazioni che i
racalmutesi erano tenuti a fare dinanzi al “Delegato”, reiterando quanto già
direttamente (o tramite un loro familiare) avevano segnalato ai ‘deputati’ ed
aggiungendo dati sommari sulle loro possidenze. Va notato che ancora nel 1593
la ‘dichiarazione dei redditi’ non aveva la completezza che avrà poi nel XVII
secolo.
Località
e Rioni
La suddivisione
amministrativa tra i deputati era in quattro quartieri: S. Margaritella, S.
Giuliano, Fontana e Monte. Nelle dichiarazione dei privati (rivelanti) e negli
atti notarili si faceva invece ricorso ad una ripartizione topografica alquanto
diversa che faceva sostanzialmente capo alle varie chiese e qualche volta alle
particolarità di alcuni luoghi. Non si trattava di veri e propri rioni, ma il
concetto vi rassomiglia molto. Abbiamo, così:
·
il Carmine;
·
S. Margaritella;
·
S. Giuliano;
·
S. Leonardo;
·
la Fontana;
·
il Castello (o Castrum);
·
S. Francesco;
·
S. Nicola;
·
la Cava;
·
Santa Maria;
·
li Fossi;
·
San Gregorio;
·
S.Antonio;
·
la Nunciata;
·
il Monte (lu Munti);
·
lu Spitali o S. Sebastiano o S. Bastianu;
·
la Piazza (o Platea);
·
Santa Rosalia;
·
Sant’Agata;
·
li Bottighelle;
·
Zagarano..
Molte di queste
località si estendevano in due e forse, come nel caso di Santa Rosalia, in
tutti e quattro i quartieri.
Centro topografico
del paese era Santa Rosalia - difficilmente collocabile con estrema decisione,
ma certamente - come detto - non lontano
dall’asse Itria-Collegio - che era quartiere ove stavano botteghe e le
abitazioni di alcuni ottimati locali (il padre di Marc’Antonio Alaimo, il dott.
Pietro; i Macaluso; i Taibi; i Lo Brutto; i Sanguineo; gli Afflitto, i
Monteleone; i Cacciatore; i Catalano e via dicendo). Ma il rione più esclusivo
sembra quello di S.Agata (gravitante sull’attuale via Rapisardi): vi abitavano
i potenti Piamontesi ed i nobili Ugo.
Molti militari stavano
invece al Monte. Non molte erano le case ‘solerate’ - quelle dei benestanti -
ma non rare: in cortili a grosso affollamento si ammassavano attorno le case
terrane (di norma un solo locale) ove
dimoravano i poveri.
Le maestranze
riuscivano a farsi soggiogare dalle potenti confraternite di appartenenza delle
discrete abitazioni. Le botteghe (c.d. Apoteghe)
erano in mano alle stesse confraternite
e venivano affittate con magniloquenti atti notarili ai propri confratelli.
Il castello -
rimesso a nuovo a metà del XV secolo dai del Carretto, come abbiamo sopra visto
- era in piena efficienza: non vi stavano più i conti, ma vi erano alcuni loro
stretti parenti che gestivano la cosa pubblica come avvenne sotto i Russo il
marito della figlia spuria di Giovanni del Carretto.
Il Carmine era
piuttosto deserto: del tutto fuori dell’abitato si ergeva il Convento sotto
l’egida dei del Carretto e con un valido priore padre Paolo Fanara. C’era anche
un altro carmelitano sacerdote: padre Roberto Costa. Ben sei coadiutori
semplici frati rendevano fertile la tenuta annessa. Costoro si chiamavano (e
dal cognome sembra che fossero tutti racalmutesi): Fra Salvatore Riccio; Fra
Francesco Sferrazza; fra Angelo Casuccio; fra Geremia Russo; fra Giuseppe
Ragusa e fra Zaccaria Riccio. Le rade case intorno erano ripartite tra il
quartiere di S. Margaritella e quello del Monte.
Rientravano
totalmente nel quartiere Monte i rioni dello Spitali (l’attuale S. Giovanni di
Dio), di S. Antonio, Zagarano e quello strettamente confinante con la chiesa.
Vi confluivano parzialmente quelli di S. Rosalia, della Nunciata e di San
Gregorio.
Erano annessi amministrativamente al quartiere della
Fontana le località di S. Agata, della Fontana vera e proprio, del Castello, di
San Francesco, di S. Nicola, di Santa Maria, delle Fosse e qualche frangia di
Santa Rosalia. Qualche abitante di San Gregorio viene incluso alla
Fontana.
Il nome della
Nunciata appare a cavallo tra Monte e
Fontana.
Se nel 1540 quella
dell’Annunciata era una ‘ecclesiola’ e Sant’Antonio la chiesa principale; dopo
mezzo secolo le parti sembrano invertite. L’Annunciata non ha la grandezza
dell’attuale Matrice (che conseguirà nella seconda metà del Seicento) ma è già
abbastanza capiente con una ‘cupolona’, come recita un atto notarile del tempo.
Fino al 1608 S.
Antonio era ancora operante ma il suo ruolo era di molto scemato. Persisteva
comunque il toponimo che, come abbiamo detto, indicava una zona gravitante sul
quartiere del Monte.
Lo Spitale era
operante nel 1593 quando ancora non era stato affidato ai Fatebenefratelli.
Tale affidamento avvenne un secolo dopo nel 1693[6] per
opera dell’ultimo Girolamo del Carretto. Ma godeva già di rendite. Tale
Giovanna Vigni aveva soggiogato all’Ospedale due case per tarì sei annui con
atto del notaio Gio: Vito d’Amella del 10 settembre 1585[7].
Giuseppe Gulpi gli
aveva costituito un’onza e 15 tarì di rendita sopra 9 salme di terra con vigne, stanze ed alberi nel fego della
Menta con due atti soggiogatori: uno del notaio Gacomo Damiano di Racalmuto in
data 24 ottobre 1551 e l’altro a rogito del notaio Nicolò Monteleone in data 29
dicembre 1582. [8]
Un altro atto di
dotazione dello Ospedale risale al 10 gennaio 1558, sempre a gli atti del
notaio Giacomo Damiano. Risultavano
incisi quasi due secoli dopo “Santo
Cristofalo, Vincenzo e Marc’Antonio di Giglia e Isidoro Mulé Paruzzo”.
Nel 1693 ecco
com’era descritto il vetusto ospedale:
«Nella terra di
Racalmuto vi è un Spedale sotto titolo di S: Sebastiano che dall’antichità di
esso non si ha certezza della fondazione e perciò li Prelati ... [ed i del
Carretto] have dato la cura ed amministrazione di detto Spedale, e sue rendite
alli Deputati di tutte le Chiese di detta terra, li quali, benché s’havessero
impiegato à tutto potere all’augumento di Esso, e suo servizio, per le molte
occupazioni, e per la poco prattica con esse somiglianti, l’Ammalati patiscono
della loro salute in tanto detrimento del publico di essa terra.»[9]
L’ospedale era
peraltro munito di “chiesa con giogali ed arnesi”.
Qualche immigrato di spicco
Capitava che dalle
vicinanze venisse qualche persona di spicco per trovare moglie a Racalmuto.
Ebbero così inizio famiglie oggi fra le più significative del paese. Dal libro
dei matrimoni della Matrice estraiamo qualche esempio:
SAVATTERI (provenienza:
Mussomeli)
“7 7bris XIIIe Ind.nis 1586 - Vincenzo figlio
di Vito et Angila Carlino cum
Margaritella figlio di Paulino et Belladonna SAVATERI dilla terra di
Mussumeli, servatis servandis et facti
li tri denunciatione inter missarum solenia
et observato l'ordine sinodali et consilio tredentino, non si trovando
inpedimento alcuno, contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie et foro beneditti nella missa
celebrata per me presti Francesco
Nicastro, presenti li magnifici notari Cola et Gasparo Montiliuni et notaro
Jo:Vito D'Amella et di multa quantità di personj”.
BUSCEMI (provenienza: Agrigento)
“Die 6 di Jongno 1593 - Petro BUXEMI di la
gitati di Jorgenti cum Margaritella
figlia di Jacubo di Graci, servatis servandis
.... contraessiro matrimonio pp.ce e foro benediti per me don Paolino Paladino, presento presbiter
Francesco di Nicastro, don Michele Romano e multa quantità di agenti”.
SCHILLACI (provenienza: Cerami)
“Die 9 februarij 1591 - Vincenzo SCHILLACI di
la terra di Cirami cum Angila figlia di Calogiaro Savuso, servatis servandis
...., contrassiso matrimonio pp.ce e foro beneditti per don Paolino Paladino, presenti Paulino
Buscarino et Antonino di Mole' et multa quantità di genti”.
SCHILLACI (provenienza: Sutera)
“Die 21 di Jongno 1593 - Scipiuni Jngrao di
li Grutti cum Joanedda SCYLACHI di la terra di Sutera, servatis servandis e
fatte le tri denunciationi inter missarum solemnia, non si trovando inpedimento alcono, contra essiro
matrimonio pp.ce e foro beneditti per me don Paolino Paladino, presenti clerico
Jacubo di Avedda e multa quantità d'agenti”.
RIZZO (provenienza: Scicli)
“Die 30
Januarii 1600 - Antonino RICZO di la terra di Xicli cum Diana figlia di lu q.dam Minicu et
Margarita Muraturi, servatis servandis et facti li tri denunciationi inter
missarum solemniarum et observato l'ordini sinodali seu concilio tridentino,
non si trovando impedimento alcuno, contrassiro matrimonio publice et in facie
ecclesie foro benedicti per don Leonardo Spalletta, p.nti Filippo di Graci e
Francesco Furesta”.
BONGIORNO (provenienza:
Gangi)
“Die 6 di ferbaro 1583 - Vicenso BONJORNO di
Ganci con Contissa figlia di Petro e Joannella di Antonuczo Caldararo di Agro', a litre (lettera) di monsignore
illustrissimo e reverendissimo di
Jurgenti, servatis servandis e facte li tre denunciaczioni, la prima a li 9 la
2a a li 16 e la tercza a li 20 di Jnaro
inter missarum solemnia, non si trovando
inpedimento alcono contraessiro matrimonio pp.ce in facie ecclesie e
foru benediti jn la missa celebrata per me don Paolino Paladino, presenti lu
magnifico Jacubo Piyamontisi, lu
magnifico Cola Montiliuni, lu magnifico Marino Catalano e multa
quantitati di agenti”
PIAZZA (provenienza: Mussomeli)
“Die 8 Januarii 1594 - Minico di CHIACZA di la terra di
Musumeli con Josepa di Vinciguerra, servatis servandis ..., contra essiro
matrimonio pp.ce et foro benediti per me don
Paulino Paladino, p.nti Mastro Francesco Sachineo, clerico Jacubo d'Aveda
e multa quantità di agenti”.
LO JACONO (provenienza: Aidone)
“Die XVo
Julii Xe ind.is 1589 - Mastro Masi La Iacono della terra di Daiduni cum
Lucretia figlia di Antonj et Hiaronima di Guarino, servatis servandis ....
contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie e foro beneditti per presbiter
Leonardo Spalletta, p.nti Ioanni di
Vigna et Hieronimo Piruchio et multa
quantità di genti”.
Uomini e cose da segnalare
A Racalmuto sono
stanziati come soldati di professione:
1. Salvo (de) Mg. Ruggero, soldato anni 45, che abita al
Monte;
2. Morriali Antonino di Federico, soldato di cavallo, di anni
75, pure del quartiere Monte;
3. Buxemi Currau anni 35, soldato, abitante anche lui al
Monte;
4. Barberi Petro anni 50; soldato cavallo, sempre del
quartiere Monte;
5. Matina (la) Gio, soldato di anni 70, residente nello stesso
quartiere;
6. Morriali Federico anni 40; soldato, vicino di casa;
7. Sferrazza Mariano soldato di anni 22, che abita nel
quartiere di S. Antonio.
In paese, a fine
del secolo XVI, non è del tutto ignota la schiavitù. Il magnifico Giacomo Piamontisi di anni 44 e
sua moglie Beatricella tengono una “scava” nella loro abitazione di S. Agata.
La loro vicina
Antonella, vedova del quondam Leonardo La Licata, ricchissimo per i suoi tempi,
emula il singolare rapporto e tiene “Cristina sua serva seu scava” a farle
compagnia.
Del resto a quei
tempi anche l’altezzosa donna Aldonza del Carretto manteneva una schiava
addirittura dentro il convento che l’ospitava.
Sono invece ben 17
le famiglie che possono permettersi una “citella”, una serva:
1.
AFFLITTO (D') CARLO MAGNIFICO
2.
AGRO'(DI) PETRO
3.
ALAIMO (DI) LU M.co
PETRO
4.
BALDUNI M.co FRANCESCO
5.
CATHALANO MICHELI
6.
CHICCARANO ANTONINO
7.
GUELI (DI) JOSEPPI
8.
GUELI (DE) GIUSEPPE DI
JORLANDO DI ANNI 29
9.
LA LOMIA JOSEPPI
10.MACALUSO NICOLAO
11.MACALUSO PETRO
12.MONTILIUNI Not. Mco COLA
13.PAXUTA (LA) MATTHEO
14.PROMONTORO BALDASSARE LO S.r
15.SALERNO JO:
16.TODISCO Sp. ARTALI
17.TODISCO
Sra SALVAGIA
Sul finire del
secolo piuttosto diffuse sono le maestranze: abbiamo contato 52 mastri (il 4,11% dei fuochi). Non sono tantissimi
ma rappresentano sempre una discreta forza sociale, anche se “li jurnatara” e
li “burgisi” (per la gran parte contadini poveri) costituiscono la massa della
popolazione, a sfondo quindi proletario e spesso miserabile. I cinquantadue
“mastri” sono:
1.
ALAIMO (DI) M.°
ANTONINO
2.
ALLIGRIZZA M° CARLO
3.
AMICO (D') MASTRO
PAOLO
4.
ARRIGO M° HYERONIMO
5.
BARBERI M° JOSEPPI
6.
BARUNI M° FRANCESCO
7.
BLUNDO MASTRO GRIGOLI
8.
BOCCULERI M° FILIPPO
9.
BONOANNO HYRONIMO M°
10.BUFALINO
M.° BENEDITTO
11.CACHIATURI
M.° FRANC.
12.CACHIATURI
M° PAULO
13.CANSUNERI
M° GERLANDO
14.CAPOBLANCO
NICOLO M°
15.CATHALANO
M° FRANCESCO
16.DAIDUNI
M° PETRO
17.DI
NOLFO M° HYERONIMO
18.DILIBRICI
MASTRO GIUSEPPE
19.FACHIPONTI
M° PAOLO
20.GENTILE
M.° LUCIANO
21.GIGLIA
(DI) M.° PIETRO
22.GIGLIA
(DI) MASTRO ANTONINO
23.GIGLIA
M.° ANTONINO
24.GIGLIA
(DE) M.° MARCO
25.GISULFO
M° SILVESTRO
26.GUELI
(di) M° ANT.no
27.GULPI
ANTONINO MASTRO
28.JACONA
(LA) M° MASI
29.LA
SCALIA M° ROGERI
30.LO
PILATO M° BARTHULO
31.MANGIA
M° JOANNI
32.MANGIAMELI Mastro HETTARO
33.MEDIORA
? M° ANGILO
34.MILACZO
(DI) M° MATTEO
35.MONASTERI
M° BASTIANO
36.MONTANA
(DI) M° XANDRO
37.MORREALI M° MARIANO
38.NOBILI
(LO) M° FRANC.°
39.NOBILI
(LO) M° GIULIO
40.NOBILI
(LO) M° HORATIO
41.NOBILI
(LO) M° MASI
42.NOBILI
(LU) M.° PETRO
43.PUMA
(DI) M° FILIPPO
44.PUMA
(DI) M° LISI
45.RAGUSA
(DI) M° JULIO
46.RIZZO
M° FRANCESCO
47.SALVO
(DI) M° PETRO
48.SANGUINEO
M° MASI
49.SPATAFORA
M° PETRO
50.TAIBI
M° FRANCESCO
51.VILARDO
ANTONI M.°
52.XANDRA
M° HYERONIMO
Fine di Giovanni IV del Carretto
Giovanni IV del
Carretto fu trucidato in Palermo nel 1608: tanti diaristi annotarono quel fosco
delitto.
La cronaca,
fra l’altro, la troviamo nei Diari della Città di Palermo, pubblicati nel 1869
da Gioacchino di Marzo. [10] Eccola:
«A 5 di
maggio 1608, Lunedì sera, a ora una di notte. In questa città di
Palermo, nella strada Macheda, alla calata a mano dritta dove si va alli
Ferrari, successi uno orrendo caso, che venendo in cocchio lu ill.e conte di
Racalmuto, chiamato D. Ioanni del Carretto, insemi con un altro gentilomo
nominato D. Ioanni Bonaiuto (quali sempre era solito di andare con lui), come
fu alla detta strata, ci accostorno dui omini, li quali non si conoscêro, allo palafango [parafango]di detto; e ci tirarono
dui scopettonate nel petto a detto conti, chi a mala pena potti invocare il
nome di Jesù, con gran spavento di quello che era con detto conti, e con gran maraviglia
di tutti li agenti; e finìo.
« A 7 detto, mercori, ad uri 22. Si gittao un bando
arduissimo della morti del ditto conti di Racalmuto: chi cui sapissi o
rivilassi cui avissi occiso a detto conti, S.E. li donava scuti cincocento,
dudici spatati, quattro testi, sei destinati [nota del di Marzo: .. non è
agevole intendere il significato di spatati e testi, che davansi
in premio a chi rivelasse.
«De’ sei destinati però (qual voce in siciliano
vale esuli, relegati) intendo facilmente, che accordavasi facoltà
al denunziante di ottenere per sei di loro la grazia del ritorno], purché non
sia lu principali ci avissi fatto detto
delitto, et anco la grazia di S. M.».
Ci dispiace
per il nostro Tinebra Martorana: è del tutto destituita di fondamento la notizia
che riporta a pag. 123 e cioè: «..il conte di Racalmuto tornava al suo
castello, seguendo con la sua carrozza la via che attraversa la contrada
Ferraro, sita nel nostro territorio ed a quattro chilometri dal Comune.»
Nello
stesso Diario, pubblicato dal di Marzo (pag. 30-31), leggesi che successivamente:
«A 20
ottobre 1608. Fu martoriato il sig. Baruni dello Summatino. Lo primo iorno
happi quattro tratti di corda, e lo secundo tre, ed il terzo dui, e li sùccari
[Sùccari in sic. canape o fune, con cui si collava, ed era proprio per
uso della tortura. Colla ] soliti; e tinni [intendi che tenne forte
a non confessare]: avendo stato carcerato del mese di agusto passato.
«E fu perché il giorno che sindi andâli galeri di Franza, andando Scagliuni a vidiri cui
era supra detti galeri, trovao uno calabrisi quali era di Paula, e travovauci
certi faldetti che avia arrubati allo Casali.
«E pigliandolo, ci disse, che non ci facissero nenti,
ché isso volìa mettiri in chiaro uno grandissimo caso.
«E cussì Scagliuni ci lo promisi; et isso dissi, che
isso con il sig. D. Petro Migliazzo aviano tirato li scupittunati al conti di
Racalmuto, essendoci ancora in loro compagnia
alli cantoneri il sig. D. Petro e il sig. D. Vincenzo Settimo; e che il
detto di Migliazzo avia tirato il primo; e che il baroni del Summatino ci avea
promesso onzi cento per fari detto caso. E chiamao ancora diversi personi».
In
una pubblicazione dell’Archivio di Stato di Palermo [11]
vengono fornite notizie sulla dovizia di documenti relativi al processo del
presunto mandante dell’omicidio del conte Giovanni del Carretto.
Sono
documenti che si trovano nell’ «Archivo
General» di Simancas e precisamente:
- nel legajo n.° 254 è contenuta la copia del "PROCESSO CAUSADO EN LA GRAN CORTE SOB RE LA
MUERTE DEL CONTE DE RECALMUTO" CC. 123
- ANNO 1608 - VISITAS DE ITALIA 1) SICILIA.
Riportiamo
integralmente quanto si legge nella pubblicazione dell’A.S.P.:
«Si
tratta degli accertamenti disposti dal visitatore ad istanza di don BLASCO
ISFAR e CRUILLAS, barone di Siculiana, e don GASPARE LO PORTO, barone di
SOMMATINO, suo nipote, nel processo subito da quest'ultimo, come presunto
mandante dell'assassinio di Giovanni DEL CARRETTO, conte di Racalmuto. I due
baroni sostengono che il processo fu messo su in base a false testimonianze dal
procuratore fiscale della Corte capitanale di Palermo, GIACOMO SCAGLIONE, con
la complicità del Presidente della Gran Corte RAO.
Il successivo Leg. 255.1. 1579-1611 contiene i discarichi
di Giacomo Scaglione e vi sono le difese del funzionario in ordine alle accuse
mossegli a proposito del processo contro i presunti mandanti dell'omicidio del
conte Giovanni del Carretto.»
In quei “legajo” di
Simancas v’è dunque il seguito della storia. Sembrerebbe un delitto in famiglia:
gli Isfar sono poi gli eredi di quel genero di Giovanni I del Carretto che a
dire del Bresc lo avrebbe depredato dei feudi racalmutesi; a distanza di due
secoli un altro Isfar avrebbe trucidato Giovanni IV del Carretto, evidentemente
per interessi.
Ma è storia di
famiglia che a noi non importa gran che. E’ in definitiva storia della nobiltà
palermitana, verso cui nutriamo altrettanta indifferenza.
La comunità ecclesiale di Racalmuto nei
primi anni del Seicento.
Il nuovo secolo, il XVII, si apre a Racalmuto con un vuoto: non c’è
ancora il nuovo arciprete. Questi viene solo dopo alcuni mesi e si tratta di
Andrea d’Argomento.
Questo nuovo arciprete di Racalmuto è comunque esaminatore sinodale ad
Agrigento, ed è dottore in utroque iure;
giunge nel marzo del 1600, il giorno della festività di San Tommaso dottore
della chiesa, prende possesso della chiesa arcipretale di S. Antonio, anche se
forse anche lui preferisce la più centrale chiesa suffraganea della Nunziata.
Questo pozzo di scienza immigra a Racalmuto, oriundo da non si sa quale parte
della Sicilia. Forestiero, di sicuro, ma almeno in paese ci viene e rispetta le
novelle costituzioni tridentine. Non muore però come arciprete del paese; si
trasferisce o viene mandato altrove. Ma per l’intero triennio 1600-2 lo
ritroviamo annotato qua e là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti del
1601 rimangono rivelatrici annotazioni come “detti fra Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la palora a l’arciprete;
all’arciprete; palora al s. arcipreti”. Il senso è evidente; non può che
trattarsi del regolamento dei conti della cd. quarta dei “festuarii”; in altri
termini la quota di spettanza per i funerali (che costavano per le spese di
chiesa, 5 tarì e 10 grani per gli adulti ed un tarì e dieci grani per le “glorie”,
i bambini). Negli esempi che qui sotto riportiamo, le sepolture avvengono “a lo
Carmino” (ed ecco il riferimento al celebre priore fra Paulo Fanara, di cui
abbiamo fornito cenni biografici), a Santa Maria (di Giesu) - e vi viene tumulato un pargoletto della racalmutesissima
famiglia Mulé, ed a S. Giuliano (accompagnata da tutto il clero vi è sepolta
una tale Angela Turano, ceppo poi emigrato da Racalmuto). Sia però chiaro che
non abbiamo elementi di sorta per sospettare di questo arciprete dottore in utroque. Crediamo, anzi, che sia
stato bene accetto e rispettato: un “signore arciprete”, dice il chiosatore
dell’archivio parrocchiale.
Dopo il 1602 sino al 10 gennaio 1606, l’Horozco ha traversie giudiziarie,
contese con Roma, deve vedersela con il conterraneo - ma non per questo meno
ostile - vescovo di Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato dai nobili,
è costretto a fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di obbrobri
giudiziari per il tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi, canonico
percettore della prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la Sacra
Congregazione dei Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i canonici
cammaratesi don Francesco Navarra, titolare della prebenda di Sutera, e don
Raimondo Vitali: il primo era accusato di pederastia; il secondo di relazione
peccaminosa con la vecchia madre del primo.
La diocesi sbanda e così Racalmuto. Certe carenze d’archivio parrocchiale
ne sono un indice. Il nuovo vescovo Vincenzo Bonincontro, che si insedia il 25
giugno 1607 e durerà a lungo sino al 27 maggio 1622, dovette mettersi di buzzo
buono per riordinare la sua turbolenta e disastrata diocesi.
Il 18 giugno del 1608, il novello vescovo da Canicattì
si porta a Racalmuto per la sua visita pastorale. Ne tramanderà una relazione
minuziosa, ricca di riferimenti a persone, chiese, istituzioni, fatti e
misfatti, tale da rappresentare una preziosissima fonte per la storia di
Racalmuto, e non solo quella religiosa.
L’anno successivo, il Bonincontro ritorna a Racalmuto e
completa la vista..
Il Bonincontro trova a Racalmuto una situazione che
doveva essere anomala sotto il profilo del codice canonico del tempo. Il figlio
legittimato - era stato concepito fuori dal talamo coniugale dall’irrequieto
Giovanni IV del Carretto - don Vincenzo del Carretto si era insediato nella
chiesa di S. Giuliano, elevandola a sede parrocchiale. Dove e quando e se fosse
stato consacrato sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma si guarda bene
dall’indagare. Il potente e collerico figlio del prepotente Giovanni IV non
consente insolenze del genere. Neppure il titolo arcipretale e l’appropriazione
di San Giuliano hanno i crismi della legalità canonica. Il Bonincontro sorvola:
ratifica il fatto compiuto. Solo, divide la terra in due parti
approssimativamente uguali: la bisettrice parte dal Carmino ed arriva a la
Funtana lungo un percosso che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo
riusciti a tratteggiare con sicurezza. Non passava di certo per la discesa
Pietro d’Asaro, al tempo un vadduni
pressoché impraticabile, ma lungo un dedalo di viuzze a sud-ovest. Lambiva la
chiesa di Santa Rosalia, posta al centro del paese, ma dalla parte di S.
Giuliano, per irrompere nella parte terminale della vecchia via Fontana.
La parte a sud-est viene lasciata a questo strano
arciprete; quella a nord-ovest, in mancanza di anziani ed autorevoli sacerdoti,
viene assegnata al giovane - è appena ventisettenne - fratello del pittore
Pietro d’Asaro, don Paolino d’Asaro. Di sfuggita annotiamo che il pittore nel
1609 è già affermato ed una sua tela - oggi purtroppo irrimediabilmente perduta
- viene apprezzata, come abbiamo visto, in occasione della visita a Santa
Margherita, la chiesa congiunta e collegata con quella di Santa Maria (Visitavit Altare, supra quo est pulchrum
quadrum dictae S. Margaritae depictum in
tila manu pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il segretario del
vescovo).
Giovanni IV del Carretto, familiare del Santo Ufficio,
ma per interessi e per sottrarsi a tribunali laici molto meno accomodanti, non
dovette essere molto religioso. Quel figlio legittimato che faceva il prete nel
suo lontano feudo di Racalmuto doveva apparirgli come un povero diavolo che si
arrabattava per superare le umiliazioni del suo essere stato concepito in toro
non benedetto. Gli echi della vita religiosa della sede della sua contea gli
saranno pervenuti, ma molto affievoliti, lasciandolo nella totale indifferenza.
Non vi è documento che comprovi la sua presenza, anche saltuaria, a Racalmuto.
Ma appena seppellito quel truculento conte, il figlioletto deve raggiungere la
lontana dimora di Racalmuto, così diversa dai fasti di Palermo.
GIROLAMO II DEL CARRETTO
«Nella chiesa del
Carmine c’è un massiccio sarcofago di granito, due pantere rincagnate che lo
sorreggono. Vi riposa “l’ill.mo don Girolamo del Carretto, conte di questa
terra di Regalpetra, che morì ucciso da un servo a casa sua, il 6 maggio 1622.»
Così esordisce Sciascia nelle sue “parrocchie di Regalpetra”. Con tali ricordi
inizia la folgorante carriera letteraria del più grande figlio di Racalmuto
A Leonardo
Sciascia, Girolamo II del Carretto portò dunque fortuna, lui che nella vita ne
ebbe ben poca; lui che da morto resta ancora vituperato, e non proprio a
ragione.
Il famigerato
padre, dopo una moglie sterile di Cerami, dopo un’amante prolifica, ebbe a
sposare, di là negli anni, la nobile Margherita Tagliavia-Aragona attorno al
1596. Un solo figlio da questo matrimonio, appunto Girolamo II, battezzato in
Palermo il 28 ottobre 1597.
Giovanni IV del Carretto lasciò il
figlioletto (l’unico legittimo) di appena nove anni. Il ragazzino non
riuscirà mai più a togliersi di dosso l’anatema e l’ingiuria (cocu) di cui lo gratifica a distanza di
oltre tre secoli anche Sciascia. Girolamo II del Carretto viene raccolto fanciulletto
a Palermo e portato nel suo castello di Racalmuto, affidato alle cure (chissà
se affettuose) del fratellastro, il neo arciprete di Racalmuto don Vincenzo del
Carretto.
Non resistiamo neppure alla tentazione di spettegolare con Sciascia (op.
cit. pag. 16): «Il conte [Girolamo II del Carretto] stava affacciato al balcone
alto tra le due torri guardando le povere case ammucchiate [invero non poteva,
perché da lì le case non si vedono, n.d.r.] ai piedi del castello quando il
servo Antonio di Vita “facendoglisi da presso, l’assassinò con un colpo d’armi
da fuoco”. Era un sicario, un servo che si vendicava: o il suo gesto scaturiva
da una più segreta e sospettata vicenda? Donna Beatrice, vedova del conte,
perdonò al servo Di Vita, e lo nascose, affermando con più che cristiano
buonsenso che “la morte del servo non ritorna in vita il padrone”. Comunque la
sera di quel 6 maggio 1622, i regalpetresi certo
mangiarono con la salvietta, come i contadini dicono per esprimere solenne
soddisfazione; appunto in casi come questi lo dicono, quando violenta morte
rovescia il loro nemico, o l’usuraio, o l’uomo investito di ingiusta autorità.»
E nella Morte dell’Inquisitore
(pag. 180): «Che un fondo di verità sia in questa tradizione, riteniamo
confermato dall’epilogo stesso del racconto popolare, che dice il servo di Vita
averla fatta franca grazie a donna Beatrice, ventitreenne vedova del conte: la
quale non solo perdonò al di Vita, fermamente dicendo a chi voleva fare
vendetta che la morte del servo non
ritorna in vita il padrone, ma lo liberò e lo nascose. Ora chiaramente
traluce ed arride, in questo epilogo, l’allusione a un conte del Carretto cornuto e scoppettato...».
Purtroppo ci divertiamo meno, quando sacrilegamente lo scrittore
prosegue: «ma questa viene ad essere una specie di causa secondaria della sua
fine, principale restando quella del priore. Insomma: se non ci fossero stati
elementi reali a indicare il priore degli agostiniani come mandante, volentieri
il popolo avrebbe mosso il racconto dalle corna del conte. Il priore non era
certamente uno stinco di santo: ma quel colpo di scoppetta il conte lo riceveva
consacrato da un paese intero. Una memoria della fine del ’600 (oggi
introvabile, [ma ora trovata dal Nalbone, n.d.r.], autore di una buona storia
del paese) dice della vessatoria pressione fiscale esercitata dal del Carretto,
e da don Girolamo II in modo particolarmente crudele e brigantesco. Il
terraggio ed il terraggiolo, che erano canoni e tasse enfiteutiche, venivano
applicati con pesantezza ed arbitrio...»
E’ ora disponibile una documentazione - quella del Fondo Palagonia -
che restituisce alla verità la faccenda
del terraggio e del terraggiolo pretesi dai del Carretto.
Crediamo che queste non siano tasse enfiteutiche o che sia inesatto definirle
così. Erano diritti feudali spettanti al baronaggio siciliano e legati al
semplice fatto che contadini abitassero nella terra del barone: dovevano al feudatario (di solito al suo
arrendatario o esattore delle imposte cui queste venivano concesse in
soggiogazione) una certa misura di frumento per ogni salma di terra coltivata
nel feudo (terraggio) ed un’altra (di
solito doppia) per quella coltivata fuori dal feudo (terraggiolo). A preti e conventi racalmutesi codesti gravami
feudali non andavano giù ed essi fecero cause memorabile (e secolari) per
sottrarsi e sottrarre agli odiati terraggio
e terraggiolo. La spuntarono, come si disse, solo il 27
settembre 1787.
Invero il Tinebra Martorana ebbe tra le mani le carte feudali del terraggio e del terraggiolo: gliele misero a disposizione i suoi protettori i
Tulumello, già baroni e maggiorenti del paese. Quel che il giovane vi capì è
riportato fideisticamente da Sciascia e cioè:
«Oltre alle numerose tasse e
donativi e imposizioni feudali, che gravavano sui poveri vassalli di
Regalpetra, i suoi signori erano soliti esigere, sin dal secolo XV, due tasse
dette del terraggio e del terraggiolo dagli abitanti delle
campagne e dai borgesi. Questi balzelli i del Carretto solevano esigere non
solo da coloro che seminavano terre nel loro stato, benché le possedessero come
enfiteuti, e ne pagassero l'annuale censo, ma anche da coloro che coltivassero
terre non appartenenti alla contea, ma che avessero loro abitazioni in
Regalpetra. Ne avveniva dunque, che questi ultimi ne dovevano pagare il censo,
il terraggio e il terraggiolo a quel signore a cui s'appartenevano le terre, ed
inoltre il terraggio e il terraggiolo ai signori del nostro comune... Già i
borgesi di Regalpetra, forti nei loro diritti, avevano intentata una lite contro
quel signore feudale per ottenere l'abolizione delle tasse arbitrarie. Il conte
si adoperò presso alcuni di essi, e finalmente si venne all'accordo, che i
vassalli di Regalpetra dovevano pagargli scudi trentaquattromila, e sarebbero
stati in perpetuo liberi da quei balzelli. Per autorizzazione del regio
Tribunale, si riunirono allora in consiglio i borgesi di Regalpetra, con
facoltà di imporre al paese tutte le tasse necessarie alla prelevazione di quella ingente somma. Le tasse furono
imposte, e ogni cosa andava per la buona via. Ma, allorché i regalpetresi
credevano redenta, pretio sanguinis,
la loro libertà, ecco don Girolamo del Carretto getta nella bilancia la spada
di Brenno ... e trasgredendo ogni
accordo, calpestando ogni promessa e giuramento, continua ad esigere il
terraggio e il terraggiolo, e
s'impadronisce inoltre di quelle nuove tasse».
Sciascia commenta: «Il documento riassunto dal Tinebra dice che appunto
durante la signoria di Girolamo II i borgesi
di Racalmuto, che già avevano mosso ricorso per l'abolizione delle tasse
arbitrarie, subirono gravissimo inganno: ché il conte simulò condiscendenza, si
disse disposto ad abolire quei balzelli per sempre; ma dietro versamento di una
grossa somma, esattamente trentaquattromila scudi. L'entità della somma, però,
a noi fa pensare che non si trattasse di un riscatto da certe tasse, ma del
definitivo riscatto del comune dal dominio baronale; del passaggio da terra
baronale a terra demaniale, reale.»
La ricostruzione sciasciana non ci convince molto. Un fatto singolare si
verificava frattanto a Racalmuto. Era diventato arciprete un illegittimo, sia
pure figlio di Giovanni IV del Carretto. Era quel don Vincenzo del Carretto su
cui si è già avuto modo di fornire taluni
ragguagli. Anche lui venne colpito dalla violenta morte del padre (5 di maggio 1608) e così aveva raccolto il
fratellastro novenne Girolamo II che per diritto ereditario era divenuto
novello conte di Racalmuto (la legge contemplava il maggiorascato, e sarebbe
toccato quindi a don Vincenzo essere conte, ma escludeva i figli illegittimi.
Non sappiamo come abbia accolta quell’infamante esclusione, quello scorno a la faccia di lu munnu).
Don Vincenzo diviene comunque il tutore del conte
minorenne: nel 1609 pasticcia quell’infame accordo sul terraggio e terraggiolo
che Tinebra Martorana e Sciascia affibbiano al “vorace e brigantesco don
Girolamo II del Carretto”, all’epoca uno smarrito bambino. Lo desumiamo da
un diploma:
Sotto le quali
convenzioni ed accordio detta università ed il conte di detto stato hanno
campato ed osservato per insino all’anno settima indizione prox: pass: 1609,
nel qual tempo detta università, e per essa li suoi deputati eletti per publico
consiglio a quest’effetto, ed il dottor Don Vincenzo del Carretto Balio e
Tutore di detto Don Geronimo, moderno conte allora pupillo, con intervento e
consenso del reverendissimo don Giovanni de Torres Osorio, giudice della Regia
Monarchia protettore sopraintendente di detto pupillo e con la sua promissione
di rato, devennero à novo accordio e transazione in virtù di nuovo consiglio
confirmato per il signor Vicerè e Regio Patrimonio, per il quale promisero
detti deputati à nome di detta università pagare al detto conte don Geronimo
scuti trentaquattromila infra quattro
mesi, e quelli depositarli nella tavola di Palermo per comprarne feghi ò
rendite tuti e sicuri, con l’intervento e consenso di detta Università, con
diversi patti e condizioni in cambio per l’integra soluzione e satisfazione di
detti terraggi e terraggioli dentro e fuora di detta terra e suo territorio, e
per contra detto tutore cessi lite alla detta exazione di detti terraggi, quali
ci relasciò e renunciò, essendoli prima pagata detta somma di scuti
trentaquattromila, promettendo non molestare più detti cittadini ed abitatori
di detta università di detti terraggi e terraggioli come più diffusamente
appare per detto contratto all’atti di notar Geronimo Liozzi [a.v.: Liezi] à 17
luglio settima indizione 1609., confirmato per Sua Eccellenza e Regio
Patrimonio
A porre una qualche attenzione alle date, abbiamo che Die 22 Junii VI Ind.is 1608 Don Vincenzo
viene riconosciuto Arciprete (sia pure a metà con quella specie di mitateri quale appare il vassallo don Paulino d’Asaro); il
successivo 17 luglio si sbilancia nella gestione delle sopraffazioni
feudatarie.
Investigando i processi d’investitura emerge che don Vincenzo del
Carretto esercita questa funzione tutoria sino al luglio del 1610. Ma da questa
data, quando il bambinello Girolamo II viene d’autorità - pare - fidanzato a
Beatrice figlia bambina del Ventimiglia, il tutore diviene il futuro suocero
del conte.
Beatrice del Carretto
Il Tinebra Martorana (pag. 125) vorrebbe Girolamo II
sposato ad una ”certa Beatrice, di cui s’ignora il cognome”. Niente di più
falso: di donna Beatrice sappiamo tanto. Non crediamo che finché si protrasse
il breve legame matrimoniale si sia indotta all’adulterio, come maliziosamente
insinua lo Sciascia. Da vedova, qualche leggerezza può averla commessa (ma noi
non lo diremo dinanzi a voi stelle pudiche.)
Sembra che dopo la morte del conte avvenuta il primo ( e
non il 6) maggio 1622, una rivolta
popolare sia esplosa a Racalmuto: vi sarebbe stato l’assalto al munito castello
ed il popolino rivoltoso abbia fatto man bassa di tutto. La giustizia - che
pure era mera espressione dei del Carretto - non fu in grado di far nulla e
così alla giovane vedova ed a suo cognato, tutore, non rimase nient’altro da
fare che chiedere la comminatoria delle canoniche sanzioni da parte della sede
vacante del vescovado di Agrigento. Ne avesse avuto sentore Leonardo Sciascia,
crediamo che avrebbe più succulentamente imbandita la tavola della “mangiata cu la salvietta” dei
racalmutesi nell’estate del 1622.
Poi, con gli anni, il terrore della morte ebbe a
sorprenderlo: si costruì una chiesetta (Itria) tutta per lui e la dotò. I suoi
eredi - nobili - dovettero corrispondere le rendite al cappellano di quella
chiesetta perlomeno sino 1902.
GLI ARCIPRETI DI RACALMUTO SOTTO GIROLAMO II DEL CARRETTO
Don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu
(o volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a
tale Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. ([12])
Secondo il prof. Giuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima rettore e poi
arciprete del nostro paese:
1613 PIETRO
CINQUEMANI RETTORE e poi
nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber
in quo a f. 1, n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli
atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete
è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna
Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra
arcipretura, fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42).
Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili a Racalmuto, tristi, lieti
e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto,
vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una
con una bolla che si conserva in
Matrice; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel
centro del paese.
*
* *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice
Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608, subito
dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni; finisce
sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva
benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale di Racalmuto.
Non ci sembra un prete molto degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma
come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo
II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata donna Beatrice
del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per il resto,
chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione
della minuscola chiesetta dell’Itria, può far sospettare ancor di più come può
farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio
e tutore” dell’illustre conte, vede vedersela con le procedure della
successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da
approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa.
I processi di investitura che qui pubblichiamo mostrano una sfilza di rinvii a
richiesta appunto di codesto strano arciprete. Una proroga è del 2 maggio 1609;
un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra
del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di
Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio
risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia.
Ha potere e lo dispiega per altre proroghe del suo nuovo protetto, il nostro
Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo
Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni
dei Tartari in Palermo:
Die 28
octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don
Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita
del Carretto et Aragona conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo;
lo compare lo ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la
ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono
due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa
ha appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti
nel noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque
attorno al 1616, quando il giovane conte
era quasi ventenne e la splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione di Girolamo II del
1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea
aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete
don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di
interessarsi alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è
parlato sopra: vi ritorniamo per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel
1609, l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale
e circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori dello stato di
Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione
generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le
annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al
saggio allora corrente del 7% potevano fruttare
2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa
tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo
però che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli
(soprattutto mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati
feudali vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei
profughi che non vollero essere
tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò allora di
ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via
fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di
ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui abbiamo già detto.
Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni
sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria
se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità, senza
spumeggiamenti anticlericali.
In una memoria del 1738 [13], quando
lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la
vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene
inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto
avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del
territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra
coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di
ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa
tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la
misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di
terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché
fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare
all’antico.
La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la
ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto
era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i
racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e
Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce
il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e
terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo
conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la
fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non
interrelazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno
all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della
pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei
racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli
agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non
mancarono certo a Racalmuto.
Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale
lettura dei documenti rende incontrovertibili.
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto,
nasce fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e
come disinvoltamente si continua a scrivere).
Trattasi del povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di
finire in un convento che già nel 1667 ([14]) si
tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile.
Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto
di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più
pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre
mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo
accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto
nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile
svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per
scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe
saputo che la chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto
al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La
Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate,
avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non
avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre Matranga ([15]).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per
farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice
circa i vagabondaggi ed i ladroneschi del monaco agostiniano: scrive da cane il
frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore
dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed
efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito
e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito
al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore
ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego ..
eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie
svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli
ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in
abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo
‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un
individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le
campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse
invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del
Sant’Uffizio; o dalla giustizia
ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal
Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia
ordinaria.»
Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca
delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Cavarruvias y Leyva,
finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove
malaccortamente il presule si era
sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni»
risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del
capoluogo agrigentino. ([16]) Da un
contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la
figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per
l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio
gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello
messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue
ruffianesche relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare
questo illuminante passo: «Nella Diocese,
che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati
per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi
quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta
volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li
superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e
disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo
conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più
del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([17]).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da
Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella
data dallo scrittore.
Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor
Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come
uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori,
che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino
Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la
fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel
1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato
trovato nelle “sacchette” “un libro
scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine -
veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia,
l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che
un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato
tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare
per gli specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe
fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al
diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali,
ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del
processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus
delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il
Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico
fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della
Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno,
‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva
al secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal
sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile
traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla
macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito
secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S.
Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del
convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto
appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al
terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta
scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola.
Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del
contemporaneo p. Lanuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che
si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di religione del
padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne
dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa
di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in
briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di
santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio
di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita.
I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di
pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e
proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza
indugio giustiziati sul posto. ([18])
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase
anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur
dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese
Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte
di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone
Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et
viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis,
animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus:
corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea
Communi», come a dire che il “povero
disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato
alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul
patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo
corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in
Matrice, nella fossa comune.” ([19])
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la
giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma
solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un
diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato
religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per
non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu
dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale
dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23
anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga
fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio
che lo si rigiri come meglio aggrada,
resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione
oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia
per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo
di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere
coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op.
cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio
poteva ben riuscire a fare di uomo
religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di
libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente
religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin
troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto
scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale
dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca,
ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per
sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo
Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto
Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte
d’Albadalista, e darsi in pasto
all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio. [20]
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo
aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione
venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di
martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era
una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita
dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al
Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo
pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace
concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo.
Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.
Riandando indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu
Vincenzo Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle
tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare
addirittura farla da presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il
titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia
agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era
una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La
Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera
identità di fra Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al
condannato a morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15
marzo 1621 in base a quest’atto che va correttamente letto:
Eodem
[nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di
Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug.
[giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don
Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo
Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo]
Sferrazza et Giov.a [Giovanna] di Ger.do [Gerlando] di Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate
dal tenace concetto la presenza a
Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime
della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei anni di distanza
dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego -
di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo stesso
che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina
ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo
scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e
prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore
di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo
Sciascia. A noi risulta, invece, - come
si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente
assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle
Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi,
è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a
Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo
una polisa con il diavolo per
risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla
nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia
irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento
fraticello di Racalmuto.
*
* *
L’atto di
donazione della contea di Racalmuto da parte di Girolamo II del Carretto in
favore del figlio Giovanni V del Carretto
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni,
Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi
figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4
luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie
“governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo
preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario
di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le
imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte sulla
nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero,
anche qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo
spara al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla trascrizione
settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel sarcofago
del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto acconcio. Il
figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come quinto con tal
nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio
altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono ritratti
dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna della Catena» (le
pretenziose note [21] di
coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del
Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero forsennate.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione
ai gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile -
resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era
stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto
sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito
destinato alla successione nella contea.
Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato
per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla
Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.°
d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d.
Ger.mo del Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si
aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di
questo conte ucciso a soli venticinque anni.
Don Vincenzo del Carretto, ormai non più arciprete, che
sembrava essersi eclissato negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese,
eccolo ora riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice
Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta principessa di Ventimiglia, come
unica erede del genitore, il citato Marchese di Geraci. I documenti la chiamano
principessa di Ventimiglia.
Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del
marito, ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le
tumula nel grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani
non le dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue
preferenze.
Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere
un qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva
vedova.
I tempi dell’interregno di Beatrice del Carretto
Ventimiglia.
Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del
giovane conte Girolamo II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello
per compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era
oltremodo precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino,
“vaxelli” di api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova
Facciponti tutrice dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha
altro da fare che invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli
effetti) per gli incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon
grado. [22] La
curia invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di
Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla vedova di “molta
quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi .. denari et altre robbe,
stigli di casa et di massaria”. Se da un lato si ha il disappunto per siffatte
malandrinerie, dall’altro c’è la
piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di discreto
benessere in diffusi strati della popolazione
racalmutese del Seicento.
Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe
addirittura l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili
ci ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del
castello. Il 3 settembre 1622 [23] altra
missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don Vincenzo del
Carretto, che peraltro è ancora vivo). “ Semo stati significati da parti di
donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia - recita il diploma vescovile - contissa
di detta terra nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici
de li figli et heredi di del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta
terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati molta quantità di
oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita,
cosi lavorati come senza, et occupati scritturi publici et privati, derubati
debiti et nome di debitori, rubato vino di li dispensi ... animali grossi et
vari stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro dunque.
Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli
del fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa,
non ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella
necessita di un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si
accolla. Ed in tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo
Giovanni V del Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura
n. 4074 del 1621 sotto la data del primo settembre 1621 [24] ). Ma
non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio al cognato
anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo II del Carretto seguente
il bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro secoli)
atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice del
Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che l’ingombrante marito
si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di corna, di
servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce l’avrà pure.
Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.
La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni
netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare
al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a
debellare il flagello a Racalmuto.
Il culto di Santa Rosalia è ben provato in
Racalmuto, sin dal primo decennio del 1600, un quarto di secolo almeno
anteriore alla discutibile invenzione delle spoglie mortali in Monte Pellegrino
da parte del cardinale Doria.
In un appunto manoscritto del 15 ottobre del
1922 rinvenibile in Matrice, si riferisce - credo dall'arciprete Genco - che
Santa Rosalia sarebbe nata a Racalmuto nel natale del 1120. Le prove
documentali le avrebbe avute il canonico Mantione ma le avrebbe distrutte per
dispetto al vescovo riluttante a finanziargli la pubblicazione di un suo libro.
Tra l'altro, in quell’appunto manoscritto leggesi che «fui il 13 ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi
il piacere di leggerlo [un libro del Cascini] per summa capita. » In
quel libro si parla di antiche
iscrizioni e di chiese anche fuori Palermo. Viene inclusa "quella di Rahalmuto,
della quale non appare altro millesimo. che questo M.CC. ed il muro è guasto"». Il testo riportato
dall’Arciprete Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di
costruzione di quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive
lettere della data, appunto per quel 'muro guasto'.
II mio spirito laico mi spinge ad essere
alquanto scettico sull'attendibilità di tante notizie contenute nel
manoscritto: è certo, comunque, che di esse ebbe ad avvantaggiarsi il padre
gesuita Girolamo Morreale nel suo "Maria SS. del Monte di Racalmuto"
, stando a quel che si legge nelle pagine
23, 24, 69, 97, 98, 99 e 101.
Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di Santa Rosalia più antica
ed accreditata è quella del PIRRI. (A pag. 697 abbiamo un’esauriente notizia).
Il passo, in latino, può venire così tradotto: «A Racalmuto v'era una chiesetta
[aedes] - antichissima - che risaliva all'anno 1400 circa. Fino al 1628 vi si
poteva vedere dipinta un'immagine di santa Rosalia in abito d'eremita e
portante una croce ed un libro tra le mani. Purtroppo, è andata distrutta per incuria di alcuni, ormai tutti presi dalla nuova chiesa dedicata
alla medesima Vergine, di cui venerano alcune reliquie, essendosi peraltro
costituita una confraternita denominata delle Anime del Purgatorio. La chiesa
ha rendite per 70 once.» Non saprei se la nuova chiesa di Santa Rosalia sia
sorta in altro posto oppure sopra quella vecchia. Quella vecchia, nel 1608,
collocavasi nel mezzo della bisettrice Carmine-Fontana. Sappiamo che travavasi
dalla parte della parrocchia di S. Giuliano.
Per il prof. Giuseppe Nalbone non vi sono dubbi: «la
chiesa di Santa Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal
1593, anno dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793, anno
di cessione dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria Grillo.»
Di recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un
rudere (ampiamente fotografato) nei
pressi della Barona essere l’antica chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che
respingiamo: la Santa Rosalia del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di
via Marc’Antonio Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso
Garibaldi. I documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da
interpretare l’aggettivo “nuova” usato
dal Pirri. Per “nuova” chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato
altrove o il riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che
non ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il rudere
venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che siamo nel
recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben quattro distinti luoghi di
culto in vario modo dedicati a Santa Rosalia. Il Prof. Nalbone trova, però,
molte inesattezze nell’opera dell’Acquista.
Don Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta
ecclesiastico dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della
Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli porta fortuna:
tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di vita terrena. Crediamo
sia una delle vittime del flagello endemico che in quel biennio si abbatté a
Racalmuto. Il giovane medico Marco Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo -
dava preziosi consigli ai fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non
avevano - grande efficacia.
Donna Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del
1624. La troviamo ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le
reliquie di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano
traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di Santa
Rosalia.
Nella nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la
tutela della locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si
fa carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è adottata
dai giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto, Benedetto Troiano e
Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza il benestare della potente
vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad effectum in dicta ecclesia Sancte
Rosalie detinendi lampadam accensam ante magnum altare ubi est collocata
Reliquia sancta dictae dive Rosalie pro sua devotione et elemosina et non
aliter nec alio modo”, sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente
ad hec ill.me D. Beatrice del Carretto et Xxliis comitissa dictae terre
Racalmuti tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre
Racalmuti”, soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza l’impegno
giurazio: diversamente il tutto sarebbe stato senza effetto. Va invece bene
“quoniam predicta ipsa D. Comitissa sic voluit et vult et contenta fuit et
est”, giacché essa signora Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è
contenta.
Per di più “la predetta signora Contessa per la
devozione che nutre verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa
reliquia, graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti
suoi figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla confraternita in
essa esistente che si possa celebrare la festività con fiera in luoghi congrui
ed opportunamente benedetti, da scegliersi dai signori Giurati. E siffatta
festività e fiera (festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede
incarico e ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché
siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al signor
Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto giorni cioè a dire
da quattro giorni dalla detta festa sino a quattro giorni dopo». Un editto
feudale con tutti i crismi come si vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata
contessa Beatrice del Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che
testimonia la sua presenza a Racalmuto.
Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio resta sotto la sua tutela sino al
diciottesimo anno. Nell’archivio di Stato di Agrigento sono conservati i documenti
del convento del Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota comprovante i
diritti del convento a valere sulle doti di paragio di donna Eumilia del
Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra l’altro: «Don
Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XXlijs ... concessit cum
auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs Comitissae Racalmuti et
Principissae XXlijs eius curatricis seu procuratricis» Era il 7 maggio 1636. [25]
GIOVANNI V DEL CARRETTO
Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé
a Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi:
Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo
Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il
battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II
ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è
già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626
emigra a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo
aveva un tempo comprato dai Vernagallo .
La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere
davvero scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai
non ha peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via
che lo porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad
un colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se
la squaglia in tempo.
Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio
quando scrive «il terzo [Girolamo, ma in
effetti era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di
una congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da
credere si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del
conte di Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice
[errore anche qui: invero si chiamava
Maria Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di
Sicilia. Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura
scoperta, il conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in
amicizie e protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era
cosa ben più grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i
del Carretto erano dediti.» [26]
Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene
attenersi a quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso: [27]
«Rappresentava il Giudice a costoro, che l'accennato conte del Mazzarino
(il quale avea nome D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato successore del
principato di Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo del regno e di
capo del braccio militare, potea con
l'appoggio de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere riconosciuto
per principe di tutto il regno, e così li persuase facilmente a scuoter dal
collo il giogo straniero in tempo, che, mancata la legittima successione degli
Austriaci di Spagna, e minorata di forza e di autorità la monarchia spagnuola,
poteano i Siciliani ristabilire l'antica gloria della nazione, e godere come
prima un re proprio ed interessato al comune vantaggio.
Di tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni
altro il conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e pensarono
davvero all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la falsa
notizia della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice e
Pesce tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di
maggiore importanza e che con più simulazione
aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo
confidente, i dubbi promossi per la
successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso
Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto
cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che
alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima
destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale,
che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima
qualità, fra le quali il conte di
RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello
del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del
Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe
Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de'
principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e
molti altri.
[p.118] Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare
il padre SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli
tutto il trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto. [.....] Fu rispedito il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con
un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era
allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina,
di assicurarsi prima di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai
congiurati di porsi in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed
il Requesens ... prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12
di novembre dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di Mazzarino
per sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte di RAGALMUTO suo cognato. Temendo
però egli d'incolparsi maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir
nominato come complice da' due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti nelle mani
de' regi. Mentre però il Vicerè era ancora a Messina, confessarono il Gaetani
ed il Giudice tutto ciò, che sapevano dell'accennata consulta; ed ancorché il
Pesce ed insieme il procurator Potomia negassero costantemente avervi avuto
parte, furono tutti condannati alla morte. Allora il Giudice, che di tanto male
si conosceva la prima cagione, dettò in difesa de' compagni una sì eloquente
orazione, che dal Ronchiglio consultore del vicerè venne onorato l'infelice suo
autore col titolo di Tullio Siciliano.
Né meno dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la
costanza del Pesce, il quale pria di
morire scrisse alla madre una moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu
ancor maggiore la discussione del processo del conte di Ragalmuto, e nella corte la compassione. Corse anche
voce, che fosse a lui facilitata dal viceré stesso la fuga, per non macchiarsi
le mani nel sangue di un sì nobile e principalissimo barone: ma non ostando a
ciò il segretario Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della morte.
Contentatosi intanto il viceré D. Giovanni del castigo di costoro, fu imposto
silenzio alle accuse contro gli altri, de' quali il numero era assai grande, e
principalmente contro il duca di Montalto, a cui la grandezza della casa, la
quantità de' parenti, il numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi
torbidi servirono, per così dire, di scudo. »
La cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di
Giovanni V del Carretto l’abbiamo in un diarista palermitano: quel Vincenzo
Auria che Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra Diego
La Matina .[28] Non credo che se ne possa
mettere in dubbio l’attendibilità cronachistica. Seguiamolo, dunque:
«Martedì, 11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D.
Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, come uno dei capi principali della
congiura. [v. pag. 359]
«A dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero
ciò che si diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che
in caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo signore del
regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del conte di Racalmuto la
notte di Natale di nostro Signore, doveva occupare il castello ed uccidere gli
Spagnoli. [v. pag. 364]
«Sabbato, 26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato privatamente
dentro del castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e nell’istesso
modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da testimonii
d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte del Mazzarino della
tardanza del suo trattato, e che gli aveva promesso molte genti a cavallo de’
suoi vassalli, per effettuare quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di
Ragalmuto molto tempo da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma
infatti, violentato dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi
passeggiava, come non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del
Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi ministri,
per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti egualmente il meritato castigo.»
[v. pag. 367][29]
Forse il conte qualche parola pietosa la meritava, ma
Sciascia - come si è visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei
vassalli di cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato,
c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato dal convento
ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.
Ma a parte questa storia di vassalli racalmutesi agli
ordini di Giovanni V del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto
che possa legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro
paese.
Il
testamento di donna Aldonza e le pretese del monastero di Santa Rosalia di
Palermo
Tra le altre sventure Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere
pronipote della terribile donna Aldonza del Carretto, proprio quella che passa
per benefattrice di Racalmuto per avervi voluto il chiostro femminile della
Badia.
Donna Aldonza era figlia, come si disse, di Girolamo I del Carretto, il
primo conte di Racalmuto che lasciò ben sei figlie femmine (la stessa Aldonza,
Diana, Ippolita, Giovanna, Eumilia e Margherita) e tre figli maschi (Giovanni IV, Aleramo e
Giuseppe). Sull’erede Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto “paragio” - una
cospicua dote per ogni fratello e per ogni sorella. Pare che il violento conte non se ne desse
eccessivo pensiero. Snobbò principalmente di dotare le sorelle specie quella
zitellona che fu donna Aldonza. Questa non glielo perdonò mai, pure sul letto
di morte. Redasse un testamento, tanto pio quanto subdolo verso l’inviso
fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi
universali,[30] che invece limitò alle
sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna
Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen
legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis et infrascriptis».
Dopo aver fatto
alcuni lasciti per la sua anima ed aver
dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si
ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini: «..et
perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di
Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti,
pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una
con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e
qualsivoglia leggi et altri ragioni in
suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario,
in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo
favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et
extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice
tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano et s’intendano instituti heredi universali
per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D.
Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum
pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quolibet
competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta
testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare
la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli
li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600
essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto
soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla]
presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Il chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del 1649. Ad
Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce il
“Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa terra
di Racalmuto dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è del 24
agosto 1649. Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione dell’opera
passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere spesi
4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre Euro.
Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento, ha dell’inspiegabile; ma
alla fin fine le sorelle superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi)
rispettarono la volontà testamentaria della terribile virago. Nel chiostro,
però, non andarono solo giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli
condizioni economiche. Verso la fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto.
L’omonimo arciprete annota nei libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO e della quondam Melchiora, entrò nel
monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24
giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna
Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino
don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri
eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.»
Nel 1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di
frustrazione) delle sole signorine di buona famiglia che i genitori reputano di
non dovere sposare per esigenze di bilancio familiare.
Dovevano
bene ricordarsene i Matrona, i Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i
Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello, i Tirone, quando con le leggi Siccardi,
dopo l’Unità d’Italia, non parve loro vero di arraffare i beni della chiesa e
di trasformare quel convento secolare in una fabbrica di San Pietro per
sperperare soldi pubblici in nome del decoro della costruenda casa comunale. Ed
oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle “poverette” è luogo di raduno
pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le obliate ceneri di quelle
monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe scorrere i libri di morte
della Matrice per farne una doverosa ricognizione). Neppure un fiore. Neanche
un segno esteriore, un monito. I soldi di donna Aldonza sono stati rapinati dai
governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine, risultarono stregati, come la
sua non molto pia donatrice testamentaria.
Il fatto poi è che il testamento di donna Aldonza, per una sorta di
ricorso perverso, viene riesumato a danno
sul nostro Giovanni V del Carretto. Un documento del Fondo Palagonia ci
svela l’arcano. [31] E’ il 10 ottobre del 1645:
Giovanni V del Carretto ha ora 36 anni, sta a Palermo, non crediamo che avesse
voglia di fare dei colpi di stato per far nominare re di Sicilia il cognato, il
conte di Mazzarino. E’ costretto a stipulare un contratto (in effetti una
transazione) con il dottore in utroque
Giuseppe Bonafante. Su questa figura di prelato vedasi il Nalbone. ([32]) Si
trattava in effetti del “procuratore generale e protettore del venerabile
convento di Santa Rosalia” in Palermo.
Costui aveva ottenuto dal consultore Don Diego de Uzeda una
“provvisionale” datata 5 luglio 1643. L’ingiunzione seguiva ad una sentenza del
5 maggio 1643 che investiva in pieno il conte di Racalmuto. Questi veniva
condannato a pagare entro un mese al
monastero di Santa Rosalia di Palermo «dotes de paragio D. Aldonzae, d.
Margaritae, d. Eumiliae et d. Joannae de Carretto», le doti di paragio (quelle
che abbiamo prima citate) di quattro delle sorelle del trucidato conte Giovanni
IV del Carretto. E non era una bazzecola: si trattava di once 7.687,
diciassette tarì e tre grani. Un calcolo in moneta attuale? era la cospicua
cifra di quasi quattro miliardi e mezzo.
Ma che diavolo era avvenuto?
Come si disse, anche sul letto di morte presso il pauroso convento di
Santa Caterina, donna Aldonza del Carretto non sia acquietò contro il fratello
Giovanni per la faccenda del paragio. V’era in corso una causa: la vecchia non
voleva che con la sua morte, la lite andasse in nulla a favore del fratello.
Stabilì dunque che il paragio, dedotte duecento onze per tacitazione dei
diritti del conte del Carretto, andasse alle sorelle che istituiva sue eredi
universali.
In base ad una clausola del testamento di Donna Aldonza, il destino del futuro conte Giovanni V del
Carretto viene segnato. E siamo nel giorno 31 marzo del 1605.
Nel 1625, sotto l’egida di un sacerdote troppo intraprendente, sorge una
sorta di monastero patrocinato e sovvenzionato dalle tante sorelle del
Carretto. Sia come sia, le doti di paragio di Donna Aldonza, donna Margherita,
e donna Eumilia finiscono sotto le grinfie del convento. Si sostiene che
sarebbero state devolute per volontà testamentaria in dote del chiostro
palermitano.
Attorno al 1635, l’indomabile prete Bonafante intenta causa, quale
protettore e procuratore del convento di Santa Rosalia in Palermo, contro il
sedicenne conte Giovanni V del Carretto. Si nominano periti, si fanno conteggi,
si tentano espedienti formali, ma il 15 luglio del 1643 don Diego de Uzeda,
consultore di Sua eccellenza, condanna irrimediabilmente il giovane conte ad
una cifra enorme. Sulla base delle ricostruzioni contabili di tal Gaspare
Guarneri, il conte - sui beni di Racalmuto - deve corrispondere a quell’alieno
convento di Santa Rosalia 7.687 onze, 17 tarì e 3 grani (abbiamo detto circa
quattro miliardi di lire). Il conte soprassiede, ma il 10 ottobre del 1645, la
pretesa viene elevata ad onze 7.977.29.9.
A questo punto il conte, un po’ più agguerrito, si rammenta di paragi
pagati, di biancheria pregiata fornita in dote, di altri pagamenti a quelle
tremende prozie. Sarebbero oltre mille onze da decurtare dalla pretesa
conventuale.
Inoltre, chiede che si nominino altri periti di sua fiducia. E’ una corsa
ad ostacoli ... giudiziari. Soprattutto si offre la cessione dei diritti di
baglia di Racalmuto. Questa offerta viene gradita dagli organi giudicanti. Il
padre Bonafante annusa la trappola e si oppone. Le suorine palermitane giammai
sarebbero state in grado di conseguire quelle tassazioni sui poveri e
riluttanti racalmutesi.
I diritti di baglia su Racalmuto erano ingenti: 823 onze annuali.
In un arido documento palermitano
v’è comunque uno spaccato delle condizioni economiche di Racalmuto che va qui
sottolineato. Ogni capo famiglia doveva dunque corrispondere al conte 12 tarì
per il tugurio ove abitava; era lo jus proprietatis del feudatario che stava a
gozzovigliare nell’opulenta capitale panormitana. Non desta meraviglia che i
1.500 fuochi (per una popolazione di oltre 5.000 abitanti) tenessero ad
apparire alloggiati in dimore povere, non idonee a sopportare quell’imposta
catastale, ed erano abili nel vantare titoli d’esenzione. Il prete Bonafede lo
sa e non vuole incappare nelle astiose incombenze esattoriali avverso evasori e
gente con pretese di ogni sorta di franchigia (preti, monache, conventi,
indigenti, confraternite etc.)
Non accetta la cessione dei diritti feudali e congegna un accordo con il
conte: ridurre il tasso da 5 a 4%, ma il pagamento della rendita annua (ma
perpetua) dovrà avvenire sotto la diretta responsabilità del conte e dei suoi
successori e con la garanzia di tutte le entrate feudali di Racalmuto.
Giovanni V del Carretto sembra ora più avveduto - o ha migliori
consiglieri. Dice che gli sta bene il minor tasso ed il diverso modo di
pagamento delle rendite annuali, ma è la sorte capitale che va tutta
revisionata.
Contrario in un primo momento è il sullodato sacerdote Bonafede.
Ma deve, il prete, fare buon viso a cattivo gioco.
Si consegue l’avallo delle superiori autorità.
La conclusione è una soggiogazione da parte del conte di Racalmuto per
onze 160, 3 tarì e grani 7 annuali, in favore del monastero di Santa Rosalia in
Palermo.
La mappa agricola di Racalmuto c’è tutta: i gravami feudali messi in
bella mostra; i dati sui mulini dell’epoca hanno il fascino della rievocazione
e inducono ad un interessamento nei riguardi di questi antichi opifici, spesso
capolavori di ingegneria idraulica, che oggi, diruti ed abbandonati, corrono il
rischio di sparire per sempre.
L’intricato carteggio si conclude con l’accordo transattivo che nel suo
nucleo essenziale contiene i termini giuridici della soggiogazione delle
predette 160 onze (più tre tarì e sette grani) nella ragione del 4 per cento di
un capitale pari ad onze 4.002, 24 tarì e 14 grani.
Vi erano molte riserve: non credo che il monastero le abbia potute far
rispettare. Il conte Giovanni V morì di lì a cinque anni con le modalità e per
le vicende prima ricordate.
Ma il censo annuale fu corrisposto e, quando in ritardo, con gli
interessi di mora, come sta ad indicare questo resoconto del 1693:
13 Le onze 253.11.9. pagati
al ven. monasterio di Santa Rosalia di questa città per l'interusurio dell'anno
14^ ind. come per apoca in d.ti atti a 30 sett. 1692: onze 253, tarì 1, grani
9.=
Alla fine dunque il conte Giovanni V del Carretto dovette sobbarcarsi a
soggiogare 160 onze a valere sui diritti feudali racalmutesi. Circa 80 milioni
di lire annuali prendevano il largo da Racalmuto per finire nelle ingorde mani
degli amministratori del monastero di Santa Rosalia di Palermo. Nulla legava
l’economia racalmutese a quella claustrale di Palermo: un esborso dunque a
vuoto; un impoverimento monetario della illiquida realtà curtense dei nostri
compaesani del Seicento. Si dirà: tanto sempre a Palermo andavano quelle
imposte. Se nelle tasche dello scervellato Giovanni V del Carretto o in quelle
del monastero, non v’era poi grande differenza. Magari il fine era più nobile!
Ma si racchiude tutta qua la
giustificazione di quell’asfissiante prelievo fiscale di mera natura feudale.
Giovanni V del Carretto qualche contraccolpo finanziario lo ebbe. Ebbe
bisogno di alienare un feudo in quel di Cerami. Fu il barone Antonio Grillo che
comprò “il feudo di Donna Maria nel territorio di Cerami - annota il San
Martino de Spucches - avendolo
comprato sub verbo regio da Giovanni DEL CARRETTO, e se ne legge
l'investitura a 16 settembre 10 Ind. 1641 ....”.
Anagrafe di Giovanni V del Carretto
Sarà il figlio a confermarci i dati anagrafici di questo conte.
Ex dicto don Hieronymo natus fuit illustris don Joannes de Carretto et de
Viginti Milijs filius primogenitus qui duxit in uxorem illustrem donnam Mariam
Branciforte filiam legitimam et naturalem quondam illustris don Nicolai Placidi
Branciforte, principis Leonfortis, et Catharinae Branciforte, Barresi et
Santapau.
[1]) Archivio Segreto Vaticano -
Relationes ad limina - 18A - f. 5. La relazione economica è al f. 16 e ss.
[2]) Ciò che alla morte del
prelato ricade nel dominio del Governo durante la sede vacante: spoglio.
In spagnolo, il Covarruvias
così presentava il Capocho alla Sacra Congregazione competente:
«Quando no veniera negocios en esta Corte a que embiar a Don Alexandro
Capocho mi secretario, me diera contento embiarlo a hacer riverencia a
V.S.Ill.a y darle cuenta de las cosas de por aca, como lo hara Don Alexandro
...el obispo de Girgento».
[4]) Cfr. Atti Matrice: STATO DI FAMIGLIA - M A T R I M O N I - 1582-1600. E’ ivi annotato: «Di la maiori
ecclesia di Racalmuto pigliao possisioni don Andria Argumento a li 7 di
marzo XIII ind.1600».
[5]) AMICO Vito Maria - storico e
geografo (Catania 1697 - ivi 1762), monaco benedettino, priore di vari
conventi del suo ordine, professore di storia civile
nell’università di Catania (1743), dal 1751 storiografo regio sotto Carlo III
di Spagna; è autore del “Lexicon topographicum Siculum” 1757-60) (tradotto da
G. Di Marzo nel 1855 in “Dizionario topografico della Sicilia” - 2 voll.).
[6]) Archivio di Stato di
Agrigento - Fondo 46 - vol. 532.
[10] ) Vol. II - Aggiunte al Diario di
Filippo Paruta e di Niccolò Palmarino, da un manoscritto miscellaneo seg. Qq C
48 - pag. 24-25 dell’edizione del 1869.
[12]) Giuseppe Sorge - Mussomeli
... vol. II, pag. 95 vi rinviene una famiglia Cinquemani “di cui le prime
notizie rimontano al 1584.”
Palagonia n.° 709 Anni 1613-1749
[n.° 3] Relationes Burgentium Terrae Racalmuti [f. 141-149]
[14]) Vedasi la nota apposta nel
Libro dei Morti del 1667 presso l’Archivio della Matrice di Racalmuto. Il 26
agosto del 1667 muore il padre fra Giovan Battista FALLETTA degli Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino
della Congregazione di Sicilia all’età di 63 anni. Ad assisterlo è il
confratello P. Salvatore da Racalmuto, agostiniano, un frate in odore di
santità, che solo in questi ultimi tempi si cerca di farlo emergere dalle
nebbie di un colpevole oblio. Per volontà del vescovo agrigentino fra Ferdinando Sancèz de Cuellar, invero in
esecuzione di disposizioni pontificie, il Convento di S. Giuliano di Racalmuto
andava chiuso, per carenza di uomo e di mezzi.
Fra Giovan Battista Falletta veniva pertanto sepolto nella Chiesa Madre,
anziché a S. Giuliano, dato che, come viene annotato: «stante soppressione conventui Sacre
Congregationis per decretum sub die 26 augusti 1667 ». Ma il Convento riaprì e sopravvisse per un altro secolo
almeno.
[15]) Leggasi quanto elucubrato
in Morte dell’Inquisitore a pag. 182 dell’edizione Laterza 1982. Per inciso, è
tutt’altro che provata la storia del priore agostiniano mandante dell’omicidio
di Girolamo del Carretto, avvenuto il 1° (e non 6) maggio del 1622, ammesso che
di omicidio si sia trattato e non della stroncatura per “un morbo” del
venticinquenne conte di Racalmuto.
[16]) Archivio Segreto Vaticano -
Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi - Anno 1602: positiones D-M.
[18]) ARCHIVIO VATICANO SEGRETO -
SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI - PROCESSI nn. 28; 2169; 2170.
[19]) ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA
MATRICE DI RACALMUTO - LIBER MORTUORUM 1811. Dove fosse quella piazza ove
veniva eretto il patibolo non sappiamo con certezza: tutto però induce a
pensare che si trattasse della parte antistante l’attuale Piazzetta Crispi. Il
toponimo tradizionale del «cuddaro»
sembra comprovarlo. L’attribuzione di quel macabro posto alle male esecuzioni
dell’Inquisizione - come fa Sciascia - puzza alquanto di astioso
anticlericalismo.
[20]) Vincenzo Di Giovanni -
Palermo Restorato - Palermo 1989, libro
quarto, pag. 335. Per un approfondimento si leggano le splendide pagine di C.G.
Garufi: Fatti e personaggi dell’Inquisizione in Sicilia - Palermo,
Sellerio - pp. 255 e 262-263.
[22] ) Archivio Vescovile di
Agrigento - Registri Vescovi 1622-1623 - f. 230r-231 - die 24 januarii 1623.
[23] ) Archivio Vescovile di
Agrigento - Registri Vescovi 1622-1623 - f. 412v - die 3 settembre VII ind.
1622.
[24] )
Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro del Regno - Processi investiture -
busta n.° 1560 - proc. N.° 4074 - anno 1621-
[25]) Archivio di Stato di
Agrigento - Fondo 46 - Vol. 508 - f. 35,
[26] ) Leonardo Sciascia, Morte
dell’inquisitore, op. cit. pag. 182 e segg.
[27] ) Gio.
Battista Caruso, Storia di Sicilia, PUBBLICATA
CON LA CONTINUAZIONE SINO AL PRESENTE SECOLO PER CURA DI Gioacchino di MARZO Palermo 1878 - Vol. IV - LIBRO XIV [p. 116]
[28] ) Leonardo Sciascia, Morte
dell’inquisitore, op. cit. pag. 177.
[29] ) Dal Diario delle cose
occorse nella città di Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16
dicembre 1652, composto dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai
manoscritti della Biblioteca Comunale a’ segni Qq C64a e Qq A 6, 7 e O - pubblicato a Palermo nel
1869 da Gioacchino di Marzo (pagine citate nel testo).
[30]) vedi testamento reperibile
in Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol. 501.
[31])
Archivio di stato di Palermo - Fondo archivistico Palagonia - Serie Fondi
Privati - UNITA’ n.° 636 ff. da 372r a 390r
[32]) Da Giuseppe Nalbone: Santa
Rosalia (dattiloscritto 1994): pag. 8:
«Che i del Carretto fossero devoti a S. Rosalia è anche dimostrato dal fatto
che le figlie del Conte di Racalmuto Girolamo, Margherita e poi Diana, Ippolito,
Giovanna, Emilia, fondarono in Palermo, intorno al 1643, un Monastero
intitolato alla Santa, sotto le regole di S. Benedetto, eretto di fronte alla
Chiesa Parrocchiale S. Giovanni dei Tartari, e completato poi dal fratello
Aleramo, nella sede dove don Giovanni Bonfante sacerdote palermitano, nel 1625,
aveva già istituito sotto lo stesso titolo un conservatorio di donzelle
(Gioacchino di Marzo. Biblioteca Storica Letteraria vol. XIII pag. 287)..
Nessun commento:
Posta un commento