ECCLESĺA CORCINIANA
La
città dI CANICATTI’
[Sigla musicale da Le
Parrocchie di Girgenti - scorrono i
titoli di testa – avanza il presentatore]
CANICATTi’ eccola di
fronte,
nella sua grandezza,
[finiti i titoli di
coda, scoppio del sorgere del sole della sinfonia Also Spreach Zarathustra di
Strauss]
[carrellata di scorci
della Canicattì di oggi che possono vere attinenza – anche larga –con la
seguente aggettivazione o i seguenti richiami]
aggrovigliata, da
cima in fondo, inestricabile, disumanamente aggressiva, umanissima, recondita,
ammaliante, repulsiva, bella, amabile, con i suoi inestricabili precordi
atavici, preistorica
flessa nei tempi di mezzo, imperiosa dopo il tracollo narese
dei secoli dei lumi, risplendente sotto i Borboni, esplosiva con i Savoia,
egemone nei tempi dell’eldorado solfifero, ferroviaria, traviata dall’abigeato
dei primi decenni del XX secolo, ironica e sardonica ma prospera sotto il
regime nero, dominatrice con Guarino Amella, espansa nelle connivenze col
regime bianco, città dell’uva Italia
[ed ora la musica si
intristisce con la patetica di Ciakovskij all’attacco della parte più
orecchiabile del primo movimento]
regressiva per la
conquista bancaria del Centro Italia, cedevole alle mire del Monte dei Paschi
di Siena , della banca Popolare di
Lodi, all’irruzione di paoline banche
del Nord, alle banche nuove dei vignaioli vicentini. Frattanto le banche locali
decrescono e si concedono forse per i figli prodighi dei parsimoniosi padri
genuinamente canicattinesi, nobili, estrosi, sardonici, fuori dal tempo.
Vescovi coltissimi, infusori della antica lingua greca nel
seminario maggiore agrigentino tornano per un mistero che l’archivio segreto
vaticano ancora non rende palese e mal si adattano alle cure delle anime nella
grande chiesa madre. Là geni arcipretali, longevissimi sanno essere egemoni,
inossidabili, imperiosi, irriducibili. Qualche giudice quasi ragazzino viene
assassinato sulla scorrimento veloce del male, della devianza mafiosa
Grande Canicattì
Ma lasciamo la parola allo storico non indigeno che Canicattì l’ama forse più di
noi per averla indagata negli archivi inaccessibili vaticani, in quelli impervi
dell’EUR, tra le scartoffie della curia arcivescovile di casa nostra.
[Stacco – Entra lo
storico non indigeno con la professoressa – la musica ora si avvale del secondo
movimento della Sinfonia n. 2 di Malher]
Storico non indigeno: Canicattì domina un’hinterland tutto
peculiare, un entroterra tra Agrigento e Caltanissetta, tra Licata e Cammarata
e dopo avere assordito il decomporsi della civitas narense soggioga e
monopolizza risorse, commercio, professioni di Montedoro, Sutera, Campofranco,
Bompensiero, Milena, Racalmuto, Grotte, Castrofilippo, Naro, Sommatino, Delia,
Serradifalco (in parte), propaggini di Campobello di Campobello di Licata,
Ravanusa e Favara. Trattasi di una landa geologicamente ben specifica e
soprattutto di un territorio ove ebbe a prosperare la civiltà sicana. Canicattl
ne era allora l’epicentro egemone, la capitale insomma per dirla in termini
moderni; Canicattì dopo il miracolo economico degli anni’60 e la bolla
speculativa legata allo sfruttamento dell’uva Italia degli anni 80-90 e primo
quinquennio del duemila, ora ha segni di cedenza che si spera vengano presto
superati e si torni ai tempi aurei dell’economia agricola e del commercio
aperto all’estero.
Ma com’era Canicattì antica? Esisteva?
Strabone scrive ai tempi di Pompeo: Sicilia sotto il dominio
romano. Cicerone aveva gongolato: viva la Sicilia che ha fatto gustare ai
romani quanto è bello dominare i popoli- Questo il senso. Se non le parole. In
quel periodo a Roma non si sa molto di questo lembo di terra all’interno di
Agrigentum.
Sfogliamo quel che si credeva di sapere a Roma circa la
nostra terra. Ci sovviene la Geografia di Strabone.
[qualche diapositiva
del tipo sotto abbozzate]
Per Strabone, la faccenda dei Sicani – sui quali noi avremo
modo di dire molto – si riduce ad un pourparler:
“ a quel tempo continuavano a vivere là Siculi, SICANI, Morgeti ed altri ancora
…” [v. p. 263]
[La professoressa
incalza: allà dietelesan mexri deuro Sikeloi, kai Sikanoi, kai morgetes, kai
alloi ….] [pag. 262]
[lo storico stizzito
interrompe ….. la musica alza il tono, la telecamera spazio nei dintorni
canicattinesi, possibilmente quelli più aridi]
[ Lo storico pare
tradurre da Strabone VI, 2,6 pag. 273: in effetti va a ruota libera.]
[ La professoressa,
piuttosto saccente, riprende a farfugliare: kai ton barbarihond’ecseleifthesan
pollai, kathaper oi Kamikoito Kokalou basileion, par’o Minos dolofonethenai
leghetai … [pag. 272]
[all’inizio è discorso
fra sordi … la musica prorompe …. Le
immagini scorrono accattivanti: ra è la Canicatti collinare dei vigneti ad
avere la meglio…… se fosse possibile filmare allevamenti di animali sarebbe congruocon quanto andrà a dire lo
storico, che finalmente ha il sopravvento.]
….. Strabone dice che le città
dell’interno ( e si riferisce a Canicattì e dintorni) restavano indigene ma
ormai quasi disabitate, eccezion fatta per Camico che si è concordi nel
ritenerla Sabt’Angelo Muxaro, specie dopo gli studi di Giovanni Pugliese
Carratelli nell’immediato dopoguerra. Camico è comunque nella parte Nord
dell’Agrigentino ed ha storia si dice minoica ma a noi parrebbe civiltà
influenzata dai Tirreni, come dire Etruschi. Ne parlamo spesso con una grande
archeologa francese, vera specialista di quella civiltà. Non ci segue molto,
anche se ammette che nei Peloritani gli Etruschi hanno lasciato tracce. Noi
obiettiamo che se gli etruschi con i loro zatteroni riuscivano nella traversata
Pyrgi Panormo, molto più agevole era poi
circumnavigare sino all’insenatura di Akragas o di Leocata (s’intende con le
approssimazioni che i posteriori toponimi hanno). Mi si chiederà che c’entrano
queste dissertazioni con la storia di canicattì: direttamente non molto, ma la
circolarità del sapere ci giustifica in queste divagazioni. Anche perché il
nostro intento è quello di suscitare polemiche che consentano investimenti
nella ricerca archeologica e storica. ECanicattì è per ora terra vergine al
riguardo, ma dalle potenzialità insospettate. Cerchiamo di sollevare qualche
velo, anche partendo da lontano.
Soggiunge Strabone – ed è passo
che strettamente riguarda l’interland canicattinese: «I Romani, resisi conto di questo di
questo stato di completo abbandono.
[ La professoressa cerca di leggere in greco le pag. 272 – ultime due
righe di pag. 272 e le prime righe di pag. 274, ma viene sommersa dal vocione
dello storico e dal sottofondo musicale anche se molto soft a commento delle
immagini della Canicattì più florida]
una volta che ebbero preso possesso delle montagne e delle
maggior parti delle pianure, le lasciarono all’allevamento dei cavalli, dei buoi
e dei montoni; per opera di questi pastori spesso l’isola corse grandi
pericoli. Perché essi dedicandosi dapprima sporadicamente alle rapine, più
tardi si unirono fra loro in massa e devastarono le città, come avvenne quando
le bande di Eunoo occuparono Enna.»
Entra
il presentatore: diciamocelo francamente: niente di nuovo dunque
sotto il sole. Certa delinquenza, certa organizzazione mafiosa da queste parti
non è dunque faccenda dei tempi nostri!
Lo
Storico: non so che dire? Strabone pare che voglia dare una mano a certa
nostra lodevole antimafia. Ma torniamo alla storia antica.
… Strabone è quindi lucido nel dirci
della fertilità di questi nostri luogi v. Vi,2,7] La fertilità sarebbe
superiore a quella dell’Italia quanto a «grano, miele, zafferano ed altri
prodotti».
Qui mi deve essere consentita una
digressione: ho una partita aperta con il Lenneo racalmutese – il dottor
Giovanni Salvo. Ho trovato in autunno una sorta di crocus sotto le grotte di
fra Diego a Racalmuto. L’abbiamo filmato in una puntata del nostro Le
Parrocchie di Girgenti. Il professore è tato poi caruccio a spiegarci che si
trattava di una specie rara di zafferano, lo zafferano giallo. Giallo per un
dna del bulboche seppe nutrirsi dei sedimenti solfiferi di quelle parti.
Sostengo che bisogna farne una coltivazione intensiva per lo sfruttamento
alimentare come avviene ad esempio dalle parti dell’Aquila. Con investimenti
europei , potrebbero nascere opifici e quindi lavoro per i giovani,
canicattinesi o racalmutesi che siano, poco importa. Naturalmente il nostro
Linneo, astratto teorico e puritano è ferocemente contrario. La natura, per
lui, vorrebbe che quei rari fiori autunnali sopravvivano alteri e solitari senza
contaminazione umana. Mi pare che stando a Strabone, la natura un tempo la
pensasse diversamente.
Come? A questo ed altri quesiti che
Strabone , questo storico che scrive in un greco classico, qua e là pone anche
relativamente alla nostra Canicattì, sicuramente una qualche risposta l’ha dato
un grecista del calibro di mons. FICARRA, canicattinese puro sangue, vescovo in partibus infidelium, come piace
scimmiottare a Sciascia e come controbatte Vincenzo Di Natale. Ma le sue carte
scientifiche non sono note, almeno a me.
Vi dovrebbero pur essere. Se eredi, letterati e storici, invece di sbranarsi
per una faccenda tutto sommato politica e quindi estranea allo spirit ed alla
sensibilità di Mons. Ficarra, si dedicassero al ritrovamento e alla
pubblicazione di quegli studi dell’insigne grecista, sia pure insignito delle
fibule arcìvescovili, ce ne avvantaggeremmo tanto tutti noi, e sicuramente la
storia antica canicattinese. Ho scandagliato gli archivi segreti vaticani su mons.
Ficarra. Vi è un top secret perché non sono decorsi i canonici settant’anni.Da
quello che ho potuto appurare, la politica o i pruriti democristiani di Patti
c’entrato poco nella vicenda di mons. Ficarra. Ebbe allora il sopravvento la
preoccupazione di un papa come Giovanni XXIII di non tenere più oltre a Patti
un prelato che grande studioso non non era molto versato nella gestione delle
cose di questa terra in un vescovado piuttosto ribollente. Ricordiamoci che un
Sindona in quelle parti nacque e nell’immediato dopoguerra già si avventurava
in uno smercio non protocollare del grano di queste nostre parti. Leggere Soldi
Truccati di Lombard per credere.
Il
presentatore: Dottore, non divaghiamo. Prima dei romani come era Canicattì?
Lo Storico: allora
rifacciamo a TUCIDIDE.
Lo Storico non
indigeno Ma Canicattì e dintorni sono sicani: lo sono sin dal momento in cui l’homo sapiens sapiens riesce a cavar
tombe dalle friabili rocce di talune collinette disseminate nel suo territorio.
A Racalmuto preferiscono questi nostri antenati una parete a strapiombo – la
così detta Grotta di Fra Diego ed il frate agostiniano dello strano ordine di
Centuripe non c’entra nulla; una topica di Sciascia quella – e vi scavano
classiche tombe a forno o a grotticella. Tra Sicani, Siculi ed Elimi gli
antichi storici vi persero la testa e molte frottole ebbero a raccontarci. La termoluminescenza
(versione coars grain) dell’Università
di Catania sta spazzando via tante di queste frottole. L’autorità di un
Tucidide ci aveva zittito un po’ tutti e tutti a dire che quei Sicani –
cacciati dai Siculi da quel di Catania settecento anni prima della guerra di
Troia – erano immigrati “Iberi ,
stanziati presso il fiume Sicano in Iberia, da dove i Liguri li cacciarono.”
[Qui la professoressa comincia a biascicare un improbabile
greco: quello leggibile in Tucidide Sikanoi de met’autous … Tucidide VI 2,2]
Lo Storico …. Ma
Tucidide sbaglia quando dice che “secondo la verità che è stata scoperta”, i
nostri antenati erano quei poveri Iberi
scacciati dai Liguri dal fiume Sicano”. No, caro Tucidide: avevano
ragione i nostri antenati quando affermavano che a Canicattì e dintorni vi
abitavano da tempo immemorabile e non era vanteria se dicevano che, dopo gli
omerici Lestriconi, “i primi a stabilirsi nell’Isola sono stati i Sicani” e ciò
“per il fatto di essere indigeni”. Diciamola tutta: passato l’ominide in Homo Sapiens Sapiens nelle ubertose
terre del canicattinese vi avevano fatto salubre dimora i nostri Sicani, i
nostri progenitori. Quelle pietre amigdaloidane trovate a iosa da altri e da me alle falde del Castelluccio a Racalmuto
(e tante sicuramente a Canicattì) stanno a testimonare che oltre trentamila
anni fa vi era presenza umana nelle nostre terre. Quanto ai Sicani, i
ricercatori di Milena hanno comprovato che ceramiche sicane ritrovate in quelle
località potevano risalire a sette mila/seimila cinquecento anni B.P.. E se vi
erano lì, ancor di più vi si devono trovare qui, per non dire a Racalmuto ed in
altre località nei dintorni canicattinesi.
Noi storici – piccoli e grandi – facciamo ammenda per
esserci troppo avvinghiati alle teoriche tucididee e rispettiamo la rivoluzione
della ricerca archeologica. Scatta il problema delle origini dei popoli che
tanto sta dando filo da torcere agli scienziati francesi. Un apporto importante
può darlo Canicattì con ricerche finalizzate nel suo territorio e soprattutto
nelle importantissime necropoli sicane del suoi dintorni, in atto manco
inventariati dai Beni Culturali. Ad Agrigento rivestono somma importanza i
templi, nessuno osa metterlo in dubbio. Ma ciò non deve impedire di convogliare
risorse umane e finanziarie alla valorizzazione della civiltà sicana
canicattinese. L’oblio plurisecolare deve essere fugato. E questa trasmissione
vuole darne una prima spinta, speriamo proficua.
Post Scriptum: non credo che il
materiale sopra segnato
[Parte
da qui un documentario bene recitato e ben musicato. Le telecamere debbono
seguire l’itinerario del Mauceri, l’ingegnere nisseno che percorse l’itinerario
sicano da Favarotta a Canicattì – e non badiamo al capello se il centro sicano
più affascinante fu scoperto a Pietralonga, erroneamente segnato dai BB.CC come
in territorio racalmutese. Fornirò il testo pubblicato nel 1880. La recitazione
deve essere affidata ad attrice avvenente. La musica: classica: mi piacerebbe
la seconda di Malher.]
[In
conclusione un breve dibattito tra lo storico racalmutese e gli studiosi
canicattinesi come Augello e la titolare di Vito Soldano ed altri se
disponibili o ancora vivi.]
CALOGERO TAVERNA
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