Racalmuto durante i Vespri Siciliani
Dalle brume delle vaghe testimonianze scritte affiora
solo qualche brandello delle locali vicende in quel gran trambusto che furono i
Vespri Siciliani. Se non bastasse, vi pensò Michele Amari, tutto preso dalle
sue passioni irredentiste, a fare del “ribellamento” del 1282, una
fantasmagorica epopea della stirpe sicula eroicamente in armi contro ogni dominazione
straniera. Niente di più falso: i siciliani (ed ancor più i racalmutesi) sono
per loro natura remissivi, acquiescenti, indolenti, propensi a sopportare ogni
autorità, la quale - straniera, o indigena, o paesana che sia - sempre
sopraffattrice sarà; e va solo subita con il minore aggravio possibile, con il
solo, incoercibile, diritto al mugugno (al circolo, o in chiesa, o presso il
farmacista o nel greve chiuso della bettola).
Ancor oggi non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni del francese
Léon Cadier sull’amministrazione della Sicilia angioina. [1] Il
Cadier prende le distanze dall’Amari e secondo Francesco Giunta esagera, specie
là dove rintuzza quelli che considera attacchi e calunnie del grande storico
siciliano dell’Ottocento: «la ragione di questi attacchi - scrive infatti il
francese - e di queste calunnie è facile da capire. Il più bel fatto d’arme
della storia di Sicilia è un orribile massacro; per farlo accettare dai
posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro Siciliano’ come un avvenimento
glorioso dagli annali siciliani, si è fatto ricadere tutto ciò che questo atto
aveva di orribile su coloro che ne erano stati le vittime. Per scusare i
carnefici, i Francesi sono stati accusati di ogni sorta di crimini;
l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta con le tinte più
fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei tiranni.»
Ed a noi Racalmutesi del Novecento, il culto dei Vespri ci è stato
inculcato sin da bambini, specie con quel reliquario che è il brutto quadro raffigurato
nel sipario del teatro comunale. [2] Leonardo
Sciascia - che grande storico non lo fu mai - si produsse nel 1973 in una sua
cerebrale superfetazione sul mito del Vespro. [3] Di
rilievo l’inciso: «questo mito [quello del Vespro], che per lui non era un mito
ma la storia stessa nella sua specifica oggettività, Amari difese sempre: ma
certo rendendosi conto che più si confaceva al carattere della riscossa
nazionale che si andava preparando ed al sentimento e al gusto del tempo,
quell’altro della congiura dei pochi che accende il furore di molti.» Da parte
sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti della storia servono più della storia
stessa - ammesso possa darsi una storia pura, oggettiva, scientifica.»[4] Ad ogni
buon conto, «dirò - è sempre Sciascia che parla [5] - che
tra tutte le ragioni che adduce [l’Amari] per negare la congiura - di
documenti, di circostanze concordanti e discordanti - la più persuasiva resta
per me quella che dà come siciliano che conosce i siciliani: e cioè che nessuna
cosa che è preparata, può avere successo in Sicilia. In quanto non preparato,
ma improvviso e rapido e violento come una fiammata, il Vespro è riuscito.»
Se il Vespro fu quella “vampa” sciasciana, a Racalmuto non si avvertirono
neppure le più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di ribellarsi. Al
padrone Federico Mosca - siciliano, incombente, collerico, predatore - era
subentrato Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano, fiducioso nei suoi
messi partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi fu: in termini di
libertà, di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato, dopo il Vespro, il
grande disordine della generale ribellione, ai racalmutesi tornarono comodi il
caos amministrativo e la rapida fuga dei
loro sovrastanti: dal marzo al 10 settembre del 1282, poterono lavorare
i campi seminati, mietere, ‘pisari’, non spartire alcunché con il padrone,
immagazzinare, alienare, incassare e per intero. Il 10 settembre 1282, arriva
da Palermo una missiva [6]
indirizzata “Universitati Racalbuti” [alias Racalmuti] ed è un perentorio
ordine dell’aragonese re Pietro a svenarsi in tasse per armare e mandare 15
arcieri: una richiesta da sbalordire, visto che i locali non avranno capito
neppure che cosa s’intendesse con quel termine latino di “archeorum”. Ma era
una richiesta che un senso esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era
finita; i padroni ritornavano in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami,
imposte, angarie e sudditanze, non solo come prima, ma più di prima.
Racalmuto - si ripete - sorge dopo l’epurazione saracena di Federico II
di Svevia. Federico Musca, o un suo antenato, importa nel nostro Altipiano un
certo numero di famiglie, non si sa da dove; con tutta probabilità trattasi di
marrani sfuggiti, con repentine conversioni, alle rappreseglie della persecuzione
religiosa fridericiana. Sono famiglie di coloni, o divenuti tali per necessità
mimetiche. Il Musca non ne dispone come “villani”, visto che quella specie di
schiavitù è tramontanta, ma la loro condizione sociale ed economica è molto
simile. Hanno giacigli poveri in casupole che spesso coincidono con la
disponibilità offerta dagli ampi antri reperibili nel territorio a strapiombo
sotto il vecchio Calvario. Ne vien fuori una suggestiva fisionomia di abitato
trogloditico, per dirla alla Peri. Ma spesso era il pagliaio a sopperire alle
necessità abitative; sorsero le case “copertae
palearum” che qualche decina di anni dopo impressionarono l’arcidiacono du
Mazel, mandato da Avignone a rastrellare tasse aggiuntive per assolvere da un
incolpevole interdetto, comminato per le estranee vicende del Vespro. «Il pagliao - scrive il Peri non ad hoc ma
pertinentemente [7] - non richiedeva scavo in profondità per le
fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano in grossi pezzi sovrapposti
“a secco”, senza ricorso a materiale coesivo. La costruzione si alzava, quindi,
con paglia e fogliame impastato con fanghiglia. Costituito abitualmente da un
vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le bestie collaboratrici e
compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle intemperie e dava una pur
limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole. Gli hospitia magna e le mansiones fabbricate “a pietre e calce” (ad lapides et calces), anche nelle città erano e sarebbero
rimasti per tempo oggetto di ammirazione nella loro rarità. Non si pretendeva dalle abitazioni durata secolare.
E, del corso del tempo e dei tempi dell’esistenza, avevano nozione diversa
dalla nostra quegli uomini che l’esposizione ai rigori, la fatica prolungata e
l’assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle malattie, più precocemente
offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che la povertà escludeva anche
dal rito pietoso della conservazione nella tomba insieme a qualcosa di caro e
al viatico verso l’esistenza che non dovrebbe avere fine. Ritornavano, con
rapidità, in polvere la debole carne e le fragili abitazioni di quelle
generazioni.»
Il prisco insediamento - se ben comprendiamo i suggerimenti che i
successivi riveli sembrano fornirci - avvenne in quella contrada che dopo ebbe
a chiamarsi di Santa Margheritella, da sotto il Carmine all’antro di Pannella
incluso, dalla Madonna della Rocca sino alle
Bottighelle dell’attuale corso
Garibaldi, tra S. Pasquale e la Piazzetta. Poi, le abitazioni si estesero negli
altri tre quartieri: San Giuliano, Fontana e Monte.
I racalmutesi tengono molto alla
tradizione che vuole la chiesa di Santa Maria come la più antica, risalente
addirittura al 1108: una chiesa - si dice - voluta dai Malconvenant, che si
indicano come i primi baroni del casale. Non è facile farli ricredere. La
‘notizia’ ha per di più una fonte scritta: quella dell’abate Pirri. Gli storici
locali la danno per certa, ed anche i restauratori della chiesa, negli anni
ottanta di questo secolo, parlano di facciata “normanna”.
Il Pirri, palesemente, collega
la notizia ad un paio di diplomi che si custodiscono tuttora negli archivi
capitolari della Cattedrale di Agrigento. L’archivio fu oggetto di studio a
cavallo tra il secolo scorso e quello corrente per la nota questione delle
decime della mensa vesvovile agrigentina. Fu un feroce alterco fra giuristi
incaricati di difendere le ragioni dei grossi agrari della provincia,
riluttanti a riconoscere le antiche tassazioni ecclesiastiche, e giuristi,
canonici e storici di parte cattolica, tutti alle prese con la dimostrazione
che trattavasi di tasse dominicali e quindi di gravami ancora validi.
Nel 1960, il vescovo Peruzzo - ormai, nella quiete voluta dal concordato
del 1929 e nella sudditanza alle autorità ecclesiastiche propinata dal
consolidato regime democristiano - incaricava il grande paleologo Mons. Paolo
Collura di uno studio obiettivo e serio dei tanti vecchi diplomi. La
pubblicazione che ne è seguita è pietra miliare per ricerche del genere.[8] Noi
siamo andati a cercare quelli che riguarderebbero la chiesa di Santa Maria di
Racalmuto ed abbiamo scoperto che non possono attribuirsi al nostro paese. Vi
sono, sì, due diplomi del 1108 e vi si parla dei Malconvenant e della
fondazione di una chiesa dedicata a S. Margherita, ma è evidente che la località
nulla ha a che fare con la nostra Racalmuto .
Si riferisce evidentemente ad alcuni ben specifici di codesti diplomi, il
Pirri per fornire notizie su Santa Margherita di Racalmuto, come d'altronde
nota lo stesso Collura ([9]). Ma
come si può ben vedere, sia per le precisazioni del Collura sia per
l'ubicazione dei fondi sia per i toponimi, qui ci troviamo a Santa Margherita
Belice (o presso i suoi dintorni) e Racalmuto va senz'altro escluso. ([10]) E’,
poi, certo che Racalmuto non appare mai
in modo incontrovertibile nel carte capitolari di Agrigento che vanno dalla
conquista normanna al 1282. Non è chiaro se ciò sia dovuto ad un tardo
affermarsi del toponimo arabo del nostro paese o ad una sua indipendenza
fiscale nei confronti della curia agrigentina. Noi, come detto dianzi,
propendiamo per la tesi della tarda fondazione del paese di Racalmuto, qualche
decennio prima del diploma del 1271 su cui ci siamo soffermati sopra.
Caducata l'attendibilità della fonte documentale del Pirri, si sbriciola
la narrazione del nostro Tinebra-Martorana sull'argomento. Il Capitolo II ed il
III [11] che
contengono notizie sulla "signoria dei Malconvenant" e su "Santa
Margherita Vergine" che corrisponderebbe "alla nostra Santa Maria di Gesù" sono
destituiti di fondamento storico. Il Tinebra-Martorana mostra solo un'indiretta
conoscenza dell'abate netino. Egli si avvale dell'opera di «Padre Bonaventura
Caruselli da Lucca, La Vergine del Monte
a Racalmuto» e del «Lessico Topografico siculo di Amico - Tomo 2°,
pag.393-4». L'Amico è esplicito nel dichiarare la fonte delle sue notizie sui
Malconvenant e su Santa Margherita Vergine: è il Pirri della Not. Agrig. [12] Il
Pirri fu sicuramente indotto in errore dai suoi corrispondenti del Capitolo
agrigentino e nasce così la favola di Santa Maria chiesa del XII secolo.
L'avallo di Leonardo Sciascia al lavoro del Tinebra Martorana [13] ha
ormai canonizzato tutte quelle 'pretese' notizie della storia di Racalmuto e
non sarà facile a chicchessia rettificarle o raddrizzarle. Malconvenant e
chiesetta vetusta di Santa Margherita-Santa Maria saranno usurpazioni storiche
cui i racalmutesi non vorrano rinunciare, tant’è che, ancora nel 1986, il padre
gesuita Girolamo M. Morreale ribadiva quel falso scrivendo [14] che,
indubitabilmente, «frutto della rinascita
normanna fu per Racalmuto il riordinamento del culto. Il conte Ruggero conferì
l'investitura di signore delle terre di Racalmuto a Roberto Malcovenant che
dopo venti anni dalla liberazione vi fece sorgere la prima chiesa sotto il
titolo di S. Margherita vergine e martire, vicino l'attuale cimitero, dotandola
di fondi agricoli che convertì in prebenda canonicale. Rocco Pirro colloca
l'erezione della chiesa nell'anno 1108 e precisa che avvenne con licenza del
Vescovo di Agrigento, Guarino (+1108)» ([15]) Il
mendacio storico è proprio duro a morire, se anche un colto ed avveduto gesuita
vi incappa or non sono più di dieci anni fa.
Quanto a falsità storiche, ancor
più salienti sono quelle che confezionate dal Tinebra Martorana, furono
ribollite da Eugenio Napoleone Messana: sono le incredibili avventure della
Racalmuto nel crogiuolo della rivolta del Vespro. Vuole il Tinebra Martorana [16] che
nella lotta tra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò si accodò ai baroni
filofrancesi «Giovanni Barresi, signore
di Racalmuto. Il quale raccolta quanta gente potè dai suoi vasti vassallaggi di
Racalmuto, Petraperzia, Naso, Capo d’Orlando e Montemauro, volse le armi contro
il seno della sua stessa patria.» Scoppiata la rivolta del 1282, «Giovanni Barresi, che palesemente aveva
seguito la fortuna dei francesi, e durante il loro dominio era stato in auge,
ebbe la peggio allorché vennero fra noi gli Aragonesi. Premio meritato, fu
spogliato dei suoi domini, che passarono al reale patrimonio. Così la baronia
di Racalmuto appartenne per qualche tempo al regio Fisco e poi fu concessa alla
famiglia Chiaramonte.»
* * *
Il Fazello non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero
apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto.
Il colto storico è basilare nella storia di Racalmuto per avere ispirato due
tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II
Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire
l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse
accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il
Fazello è del tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia -
responsabili Vito Amico [17] ed il
Villabianca, quello della Sicilia Nobile [18] - su
un'evidente distorsione di un passo dell'opera storica del Fazello. [19] Questi,
parlando dei Barresi, aveva scritto [20]: Matteo
Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura di
Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri "oppidula"
(piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula
doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del
Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici
locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende
avventurose di quella famiglia.
Non è questa la sede per digressioni erudite: tuttavia ci pare di avere
fornito elementi sufficienti per comprovare la validità dei nostri
convincimenti in ordine alla nessuna attinenza dei domini feudali dei
Malconvenant e dei Barresi con Racalmuto, a ridosso del Vespro. Resta da vedere
se possa parlarsi della signoria degli Abrignano.
Il solito Tinebra Martorana (pag. 56 op. cit.) ci propina questa
successione:
«Alla morte del conte Ruggiero Normanno,
sia perché questa famiglia [cioè i Malconvenant] si fosse estinta, sia perché
fosse caduta la fortuna dei Malconvenant, noi vediamo essi perdere domini ed
uffici. Ciò che è indubitato è che il figlio del conte conquistatore, il gran
re Ruggiero, concesse la baronia di Racalmuto alla nobilissima famiglia degli
Abrignano[Minutolo: Cronaca dei Re]. E da questa passò ai Barresi. Degli
Abrignano però non è sicura notizia e di certo, se essi governarono Racalmuto,
fu per breve tempo, perché molti cronisti non ne fanno alcun cenno.» E
tanto è davvero un modo curioso di far storia: ciò che viene asserito come
“indubitato”, diviene subitaneamente - con contraddizione che non dovrebbe
essere consentita - “non sicura notizia”. E dire che Sciascia continuò a definire
quella del Martorana “una buona storia del paese”. [21] Eugenio
Napoleone Messana (op. cit. p. 49) non ha dubbi che «nella cronaca dei re di
Minutolo leggiamo che il re Ruggero II concesse la baronia di Racalmuto ai
nobili Albrignano o Alvignano prima e ad Abbo Barresi dopo. Della concessione
agli Abrignano ne fa menzione solo il Minutolo, altri la omettono e riportano
solo la concessione ad Abbo Barresi.» Evidentemente, né Tinebra Martorana, né
Eugenio Napoleone Messana avevano letto il Minutolo, diversamente non sarebbero
caduti nell’abbaglio. Forse avevano letto soltanto Vito Amico che nella
versione del Di Marzo specifica: «Minutolo Memor. Prior. Messan. Lib. 8 attesta
essersi [Racalmuto] appartenuto alla famiglia di Abrignano, dato poscia a’
Barresi.» Una certa eco vi è anche nel Villabianca: « e la tenne [Racalmuto]
pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8,
f. 273.» Francamente ci dispiace che nell’equivoco cadde anche il compianto
padre Salvo - nostro stimato amico. [22] Egli
sintetizza: «La famiglia Albrignano - Decaduta la famiglia Malconvenant,
Ruggero II concesse la Baronia di Racalmuto agli Albrignano o Alvignano nel
1130. Tale concessione è un po’ dubbia nelle storia o, se vi fu, ebbe a durare
pochissimo. Certo è che nel 1134 la Baronia di Racalmuto era già nelle mani dei
Barresi.» Un’evidente sunto, con quella aggiunta della data che vorrebbe essere
una precisazione e diviene invece una colpevole topica.
Il Minutolo fu un frate gerosolimitano di Messina che nel 1699 scrisse le memoria del suo “gran
priorato” [23] : raccolse le dichiarazioni
dei vari suoi confratelli sulle loro ascendenze nobili. Essere nobili era
indispensabile se si voleva essere ammessi fra quei frati cavalieri. Fra D.
Alberto Fardella di Trapani nell’anno 1633 asserisce - in buona fede o
fraudolentemente, non sappiamo - che un suo antenato era: «Hernrico Abrignano
dei Signori di Recalmuto, nobile di Trapani, e Regio Giustiziero, e Capitano»
nell’anno 1395. La falsità era talmente evidente da non doversi dare alcun
credito al mendace frate, ma il Minutolo non se ne accorgeed incappa in una
smentita a se stesso, quando trascrive l’albero genealogico dell’altro
confrate, il nobile “Fra D. Alfonzo del Carretto, di Giorgenti, 1617”, il
quale, in coincidenza della pretesa signoria di Racalmuto da parte di Enrico
Abrignano nell’anno 1395, colloca , correttamente, al posto dell’Abrignano, il
proprio antenato, il celebre barone Matteo del Carretto. Ma già un altro due
monaci della famiglia Fardella (fra D. Martino Fardella di Trapani 1629) si era
limitato a dichiarare quell’identico antenato come semplice nobile di
Trapani («Enrico Abrignano Nobile di Trapani»). In Appendice sub 3) forniamo
la trascizione di quegli intriganti alberi genealogici, per i curiosi o per i
diffidenti. Gli Abrignano con Racalmuto, dunque, non c’entrano affatto: forse
una qualche parente di Matteo Del Carretto andò sposa al “mercante” Enrico
Abrignano, attorno al 1391.
Quanto ai Barresi, è arduo ritenere che costoro davvero abbiano avuto il
dominio di Racalmuto, in tempi antecedenti al Vespro, anche se il padre Aprile,
scrivendo in epoca moderna, era propenso alla tesi affermativa. Si disse che
Abbo Barresi I o Senior ebbe concesse dopo il 1130 dal re Ruggero il Normanno
vari feudi, Naso, Ucria ed altri Castelli. Da Abbo a Matteo; da Matteo a
Giovanni, la successione in quei domini feudali. Il San Martino Spucches resta
sconcertato dalla contraddittorietà delle notizie fornite dal Villabianca. Si
limita allora a questa secca elencazione: «Il
Villabianca, nella Sic. Nobile, dice che Ruggero re concesse Racalmuto ad Abbo
Barresi (Sic. Nob., vol. 4°, f. 200).
Lo stesso autore dice altrove che l’Imperatore Federico II concesse, dopo il
1222, Racalmuto ad Abbo Barresi che sarebbe stato figlio di Giovanni (di Matteo
di Abbo seniore). A quest’ultimo successe il figlio Matteo: al quale successe
Abbo ed a quest’ultimo il figlio Giovanni. Questi visse sotto Re Giacomo di
Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo divenuto Re di
Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo
momento comincia una storia certa e noi cominciamo da questo momento ad
elencare i Baroni di Racalmuto con numero progessivo.» [24] Ma,
così facendo, l’esimio araldista, allunga la teoria delle successioni,
ricominciando il ciclo, per cui da Giovanni si passerebbe ad Abbo II iunior che avrebbe avuto dall’imperatore
Federico II Racalmuto nel 1222 (per noi, a quell’epoca, ancora da fondare); da
Abbo II a Matteo II e da questi ad Abbo III, cui sarebbe subentrato Giovanni
Barresi che è personaggio storico distintosi nelle vicende del 1299, di sicuro
signore di Pietraperzia, Naso e Capo d’Orlando.
Scettici sulle signorie
pre-Vespro dei Barresi, non possiamo escludere che, con la restaurazione
feudale di re Pietro, Giovanni Barresi possa essersi impossessato di Racalmuto,
stante la latitanza di Federico Musca, cui invero sarebbe spettata la
titolarità della baronia racalmutese. Con il passaggio tra le fila di re
Giacomo d’Aragona - quando questi dichiarò guerra al proprio fratello, Federico
III, che era stato proclamato re di Sicilia nella ben nota crisi di fine secolo
XIII - potè essersi pur verificata la perdita da parte di Giovanni Barresi del
recente feudo di Racalmuto alla stregua di quegli altri suoi possedimenti
siciliani, finiti sotto confisca.
L’Amari, nella sua guerra del Vespro siciliano, accenna ad
un diploma del 28 dicembre 1300 (1299) tredicesima indizione, anno 15° di Carlo
II d’Angiò, ove Racalmuto e Caccamo vengono concessi a Pietro di Monte Aguto. [25]
Ovviamente si trattò di promesse dell’angioino che non ebbero seguito alcuno.
Ma quella promessa sa di sonora smentita della tesi che vorrebbe feudatario di
Racalmuto Giovanni Barresi: questi, ora, milita accanto all’angioino, sia pure
sotto la bandiera di Giacomo d’Aragona; non è credibile che Carlo II d’Angiò
arrivasse al punto di confiscare a sua volta il feudo già confiscato dal nemico
Federico III. Credibile, invece, che nella cancelleria di Napoli figurasse
ancora la concessione a Pietro Negrello di Belmonte e che si pensasse di girare ora il feudo al
milite alleato Pietro di Monte Aguto.
* * *
Nell’Agosto del 1282 Pietro
d’Aragona sbarca in Sicilia con quel misto di albagia spagnola e di «avara
povertà di Catalogna»: a Racalmuto - come detto - giunge la prima martellatta
fiscale datata “Palermo 10 settembre”; il nuovo re esige subito che si paghi
per l’armamento di 15 arcieri.
Sotto la stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire la pillola
inviando al nostro periferico casele un resoconto delle sue recenti imprese.
Siamo sicuri che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene importava
nulla di sapere:
«Doc. X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI. [26] Re
Pietro dopo aver eenumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uoimini tutti di
Adrano le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di
Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per
terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea,
eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci,
vengano a prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti
i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lanceri, scudati si rechino, con armi e cavalli, in Randazzo, pel 22
Settembre al più tardi.
«Simili lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di là del fiume
Salso.»
«[......] Item et infra
fuit scriptum eodem modo videlicet.
« [...] [27] Burgio, Sacca,
Calatabellota, Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea, Sutera,
Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya, Busaxemo
[Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»
Nel successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene chiamato -
unitamente ad altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva: dovrebbe
approntare altri quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva parte da
Messina il giorno 26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al baiulo, ai
giudici ed a tutti gli uomini Rakalmuti.
Perché mai questa resipiscenza? Evidentemente, la base impobibile che era stata
calcolata a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i
racalmutesi tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata
ad una tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno
altri 20 fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla
guerra che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente -
contro l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti
racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380
(calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile
consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta,
bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e
quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri:
una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una
maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione
stimata di circa 456. (Nell’allegato n.°
5, forniamo ampi ragguagli su tali nostre ipotesi d’indole statistica.)
Re Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282 si
rivolge ai racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto
aspettatato suo arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in corso;
che quindi potevano e dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa giocondità”. Fidelitati vestre feliciter nunciamus.
«Felicemente l’annunciamo alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti
burocratici, i formalismi. Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici giuramenti “corporalia iuramenta” della debita fedeltà e dell’omaggio al re.
Nomini i suoi “sindici” si inviino davanti al cospetto della “celsitudine”
regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese pressoché
annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri, balestrieri, arcieri, uomini armati di tutto punto, di
scudi o di altri tipi d’armatura e s vengano presso di noi Re Pietro in quel di
Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi entro il 22 di questo
mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno disobbidisce, incapperà nella
nostra reale indignazione.
Non v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia accorato quei
siciliani del 1282 dinnanzi a quelle pretese del nuovo padrone. Neppure i
letterati, ci risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello sgomento.
Neppure Tommasi di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure quando sembra
farne accenno sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa sulla locale
storia, appena “descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari che, come in
ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno
predace “avara povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle
rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.» [28] E
questo sarà un bel dire, ma di scarso senso per quello che davvero avvenne, per
quella vita racalmutese che è più che “descrivibile”, che ci pare tanto
“narrabile”, tanto angosciante, tanto rimarchevole “storia”.
Chi spiegò quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come? Quali decisioni
furono prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era ma perico per la
vita e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi calamitosi e per
strade impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e “prosecuti”?
C’è da pensare che già sin d’allora, i notabili furono adunati in chiesa
al suo della campana, come sarà costume alla fine del ‘500. Un prete avrà
tradotto la missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si era
autoproclamato Baiulo e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il
farmacista-medico - che lo affiancavano. Un paio di “burgisi” - che disponevano
di giumente - avranno dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella
lontano Randazzo. Con la ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del
7 agosto del 1577.
La libera universitas di Racalmuto:
1282-1300 ca.
Ne siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi
un ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi
di una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto,
la cosa si risolse in una vacua promessa, non potuta in alcun modo realizzarsi.
Si è pure detto come la notizia secentesca di una assegnazione feudale di
Racalmuto a Brancaleone Doria, sia frutto di un plateale falso, ostando
irrefutabili ragioni cronologiche.
Una signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe,
sì, una qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova,
Costanza Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni
trenta del XIV secolo.
Nessuna fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che
- dome detto - preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché
si tratti dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il
milite, denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un
Federico Musca , comes Mohac, si
rinviene tra i diplomi di Pietro I. (cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc.
IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag. 687). Su tale Federico
Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca scrive:
«....[PAG. 4] entrati che
furono gli Aragonesi nel governo di
questo Regno, appa re in tal tempo essere stato signore di questo Stato
[Modica] Federigo MOSCA, quello
stesso che fu Governatore della Valle di
Noto sotto il Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e
fuoco gran numero di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d
.
«Essendo stato anch'egli uno de'
quaranta Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux;
così per fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter
quos - egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad
monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte
bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum
reciperet.» Ma se sia stato costui
discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovata, o forse da altro modo
comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però,
ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo
dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi
successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè
Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non
meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di
Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato
ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli
seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»
[29]
Esplosa la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma
subito soggetto, agli appetiti tassaioli
del sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i
notabili racalmutesi del’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A
presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici
eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di
Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici
dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che
incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri,
Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La
Licata, de Messana, de Santa Lucia.
Ebbero a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla
Madonna, quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di
certo che, comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella
che ancor oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né
da qualche suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel
tempo, come si disse, Racalmuto non era ancora sorto.
Intercolutoria ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei
balzelli imposti dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli
fra quegli imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole
per intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala,
viene nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis
Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo. [30] Il 17
settembre, il Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i luogi di
sua giurisdizione ad un celere invio del “fodro”
(vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed
i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite
giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare Maestri Giurati di sua
fiducia: il re, da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non
volersi intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese,
dei Conti e Baroni, elezione che si era riservata» (cfr. DSSS, vol. V, cit. p.
66 doc. n.° LXVIII). Per di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire
contro lo stesso Berardo di Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i
marsalesi dei loro beni: manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da
Messina per reintegrare quegli abitanti nel possesso dei loro beni. (ibidem,
pag. 131 - doc. n.° CXLI).
Occorre pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di
ottomila once: con decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro
... stabilisce che le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre
al di là del Salso siano corrisposte ai regi tesorieri.» (ibidem,
doc. n.° CCXXIX). Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con
provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non
risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto (v. ibidem pag. 203).
Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le
tasse: da Messina, il 15 novembre 1282, ingiunge «a Berardo de Ferro,
Giustiziere del Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere
dalle Terre di sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel
termine di 8 giorni per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e
al di là del Saldo, la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due
grandi circoscrizioni, circa alla promessa del sussidio.» (Ibidem pag.
231 - doc. n.° CCLXXVII). Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo ancora
alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala di
sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento dalle Università al di là del
Salso.» (Ibidem, pag. 293 - doc. n.°
CCCXCIV). Racalmuto risulta tassato per 15 once (ibidem pag. 295),
preceduto da:
Licata: unc.
238;
Delia unc. 3;
Naro unc. 166;
Calatarapetta
(sic) Mons maior unc. 6;
Tusa
unc. 2;
Misiliusiphus unc. 4;
Sciacca unc. 250;
Calatabellottum unc. 122;
Agrigentum unc.
380.
Il successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è
chiamato ad armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.
Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una cinquantina
d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella sua storia
del Vespro, ne fa quasi una diuturna rievocazione. Ancor oggi è viva la
polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi
nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un
indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una nefasta
frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di essere
originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e scomposta
fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una vorace
conquista di un rappresenatnte dell’ «avara povertà di Catalogna». Certo, al
papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche, che si ripeterono più
volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne fu totalmente
assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il nostro paese da meritarsi
un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne siamo oltremodo
sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica - quella del 1713 - le anime
credenti racalmutesi patirono il terrore dell’inferno per ribellioni (al francese
Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia, nel 1282) e per diatribe
tra vescovi ed autorità civili (insorte nel 1713 per una faccenda di tasse su
un alcuni rotoli di ceci del vescovo di Lipari), di cui francamente non ebbero
né coscienza e neppure significativa conoscenza.
Racalmuto, decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del
Vespro; non capì cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese
conto - o non immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì passivamente
la politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei nobili che
corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò di vivere il
10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del successore
Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe forse
qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non riuscì a
comprendere le ragioni che spingevano i du potenti fratelli (Federico E
Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche
papali, in loco non sene intuirono le
ragioni; i racalmutesi non si ritennero colpevoli di nulla (non lo erano); si
smarrivano nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti e francescani si
sforzavano di propinare nelle loro infuocate prediche. Per fortuna, le tante
guerre e guerricciole si combattevano lontano, vicino ai posti di mare, in
Calabria, a Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento
aveva un mercato; qualche guadagno si riusciva a conseguirlo; la pesante fatica
dei campi non era ingrata. L'universitas
si accresceva con nuovi immigrati e con con fertili nozze.
Nel 1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due
religiosi di riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà
rifugiatosi nel 1309 - arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri
per quelle due precorse annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le
registrazioni di quei prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato
sulla Universitas di Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro
«Rationes Collectoriae Regni Neapolitani
- 1308 - 1310», Collect. n.° 161 f. 96 abbiamo:
«Martutius de Sifolono pro ecclesia
S. Mariae de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»
In altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S.
Maria di Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel
retro del foglio n.° 97 ( 97v):
«presbiter Angelus de Monte Caveoso
pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro
utraque tt. ix.»
Il che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose
per il suo ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove
tarì. Racalmuto non viene segnato come castrum
anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto,
la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba
pontificio.
Coteste ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti
officianti a Racalmuto all’inizio
del XIV secolo. Sono religiosi e non appaiono neppure autoctoni; l’uno,
Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di
S. Maria, ed è chiamato
a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310);
l’altro, è il “prete” Angelo di
Montecaveoso, ed è tassato per nove
tarì in relazione all’ufficio
sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo
neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S.
Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna
è mero arbitrio. Il “presbiter” Angelo
de Montecaveoso [31] ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di
Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava proventi che
dovevano essere di poco più di un terzo rispettp alle ricche prebende di chi è
titolare della chiesa di Santa Maria (dopo, l’arcipretura di Racalmuto diverrà
molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.).
La chiesa di Santa Maria rendeva dunque per tre volte rispetto alle
primizie spettanti all’arciprete Angelo di Montescaglioso: troppo per essere
soltano un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di feudi o
di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino, e da
qui potè nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta documentato solo
a partire dalla fine del secolo XIV. Ma potè trattarsi anche di un convento,
forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo agricolo e per
l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal mercato
a causa dell’endemico stato di guerra.
Da qui, quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei
suoi Capibrevi dei BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211». II Pirri descrive il Cenobio con annessa chiesa di san
Benedetto che trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna concordare
con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo Sportivo. Una
volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un convento di s. Benedetto a
Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane traccia,
dei sospetti lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I sospetti si
basano sulle fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo nel mezzo,
che furono quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico Macaluso al
comune, secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per adibirla a
stadio.» Il Messana cita anche un testo di Illuminato Peri, (Manfredi
Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto il foglio
211 che recita «MONASTERIUM SANCTI
BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter inter
Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in: Rayelmutum]
existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il padre Calogero
Salvo nel suo libro Ecco tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S.
Benedetto in termini
del tutto critici nei confronti degli storici locali che hanno trattato l’argomento.
Non sappiamo quanto di vero ci sia nel pregevole lavoro di padre Salvo.
I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete
Angelo di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie
corrisposti dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque
averlo. Quattro tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo
migliaio di abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un
centro che non poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico,
costruito da Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione
tramandataci dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre,
pensiamo là dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè,
secondo noi, in piazza Castello, in quarterio
Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani
spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che
gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo
in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a
Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da
studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale [32]. A Casalvecchio, già alla fine del XIII secolo,
c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in pieno
quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:
«Antica è
l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla
peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si
trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio.
Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile,
si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. » [33]
I dati che possiamo ricavare dalle ravole delle
collette pontificie dle 1308-1310 non consentono fondate ipotesi sullo sviluppo
demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le
altre località che riusciamo a desimere ( Agrigento, Butera, Caltabellotta,
Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo
Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa
rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte
papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì nonerano poi pesi intollerabili, ma pur
sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva
dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si
sconoscevano persino le denominazioni.
Gli emissari pontifici si erano già recati
nell’agrigentino per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo
sotto il dominio di Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu
elevata rispetto a quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il
1310 - in quella sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza
aragonese.
[1] ) Léon
Cadier - L’amministrazione della Sicilia angioina, a cura di Francesco Giunta -
Flaccovio editore Palermo, 1974 -
[2] ) Sul
sipario non è poca la letteratura sinora accumulata. Citiamo a caso: Gaetano
Restivo: quel sipario abbandonato, in Malgradotutto, novembre 1993, f. 2MT;
Aldo Scimé: Perché rinasca, in Malgradotutto, settembre 1994, f. 3MT; Leonardo
Sciascia su l’Espresso (1978?) citato dallo Scimé;
[3] )
Leonardo Sciascia - Il mito del Vespro, Sciacca 1982, pag. 21.
[4] ) ibidem,
pag. 13.
[5] ) ibidem,
pag. 14.
[6] ) Ci
riferiamo al documento VIII che Giuseppe Silvestri pubblicò nel 1882 tra i
“Documenti per servire alla storia di Sicilia” - Prima Serie - Diplomatica -
vol. V - Palermo 1882 - “De rebus regni Siciliae” (9 settembre 1282-26 agosto
1283). Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona d’Aragona -
Documento VIII - pag. 8 (Palermo 10 settembre 1282, ind. XI) - «....
universitati RACALBUTI. Archeorum XV».
[7] )
Illuminato Peri - Uomini, città, e campagne in Sicilia, dall’XI al XII secolo -
Bari 1978, pag. 12.
[8] ) Paolo
Collura: le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Agrigento -Agrigento
1961
[9]) Come
ebbi a scriverti a pag. 5 e seguenti del mio precedente malloppo si tratta del
seguente passo della Notitia contenuta a pag. 697 della Sicilia Sacra del
Pirri: «XIV. Warinus,
sive Guarinus eiusdem coenobii monacus ... in episcopatu Agrigenti, Dragoni
successit an. sal. 1105. uti ipsemet memoriae prodidit in quondam privilegio. Anno
incarnationis dominicae 1108 praesulatus mei anno IV. Rogerii junioris
consulatus, forte comitatus, anno III. Robertus Malconvenant cum
Giliberto consanguineo suo milite perfecis in praedio suo sub honore S.
Virginis Margaritae templum, illudque multis auxit praediis. ac Gilibertus
clericali tonsura decoratus illa bona in praebendam Canonicatus Ecclesiae Agrigentinae
dedit, dummodo tres libras incensi anno quolibet 15. augusti in festo S. Mariae
persolveret. De hoc Roberto Malconvenant domino praedii, quod nunc est oppidum Rayalbuti
[sottolineatura nostra, n.d.r.], atque eius filio
Guillelmo Malconvenant Magistro Justiciario Magn. R. C. ....
[10]) Gli
altri due accenni del Collura alla nostra chiesa di S. Margherita sono: a)
Documento n. 27 [pag. 63-65] e b) Libellus
(c 16 A [rectius c.17 a], n.d.r.]), pag. 304.
Il Documento sub a) non ci
è di molto aiuto per la nostra ricostruzione: esso si limita ad includere in
uno scarno elenco [pag. 65] la "Ecclesia Sancte Margarite virginis, incensi
libras. III". Per il Collura non vi sarebbero dubbi: si tratta per lui
del beneficio dei nostri due documenti nn. 8 e 9 sopra riportati [cfr. nota n.
2 di pag. 65 del Collura]. L'elenco si intitola CENSUUM INDICULUS e viene datato prima del 1177. Quell'accenno
all'onere delle tre libbre d'incenso sembra dargli ragione.
Molto più complesso è il
discorso sul documento sub b). Il riferimento è al «Libellus de successione pontificum agrigenti et
institutione prebendarum et aliarum Ecclesiarum dyocesis, sicut ex relatione
cognovimus precedentium seniorum et ipsi inspeximus in eodem statu». Il
Collura data questo la stesura di questo
Libellus nel "1250 o comunque,
giacché il documento più recente (n. 74) è del 1252, non più tardi del
1260" [pag. XXII]. Il passo che ci interessa è il seguente: «Sancta Margarita [e qui il Collura
annota: "S. Margherita Belice (cfr. docc. nn. 8-9), n.d.r.] beneficium cuius est
terra sua et burgenses in spiritualibus et temporalibus cum platea et
mercedibus». Al riguardo non son proprio certo che il Collura abbia
ragione. Il precedente passo recita: «Quatuordecim debet habere Ecclesia Agrigentina et non amplius.
Subsequencia fuerunt beneficia: ..» e segue l'elenco dei benefici tra i
quali quello citato di Santa Margherita. Non si può quindi escludere che prima
del 1250 vi sia stata una generale ristrutturazione di tutti i benefici
canonicali della curia Agrigentina (prima infatti di parla di una prebenda «insituta de camera pro auctoritate legis»)
e in quel frangente si attribuì ad un canonicato (che sappiamo dal Pirri essere
stato nel XVII secolo il XVIII°) il beneficio di Racalmuto, denominato più o
meno appropriatamente di Santa Margherita nel ricordo o falsando il vetusto
beneficio del Malcovenant, che peraltro si riferiva a S. Margherita Belice.
Un'astuzia curiale non è poi tanto impensabile ed inconsueta.
[11] )
Nicolò Tinebra-Martorana - Racalmuto, memorie e tradizioni - Racalmuto 1982,
pagg. 55-57.
[12] ) Cfr.
l'Appendice al volume del Tinebra-Martorana, pag. 199.
[13] ) Addirittura elogiativo
asserendo il grande scrittore che «il libro, per i racalmutesi, per me
racalmutese, va bene così com'è: col gusto e il sentimento degli anni in cui fu
scritto e degli anni che aveva l'autore, con l'aura romantica e un tantino
melodrammatica che vi trascorre» (op. cit. pag. 9).
[14] ) P.
Girolamo M. Morreale, S.J - Maria SS. Del Monte di Racalmuto - Racalmuto 1986,
pag. 23.
[15]) In
effetti si ignora l'anno della morte del Vescovo Guarino o Warino che
addirittura potrebbe essere avvenuta attorno al 1128 (Cfr. Collura P. , Le più
antiche carte..., op. cit. pag. XII)
[16] ) N.
Tinebra Martorana, Racalmuto, op. cit. pag. 60 e segg.
[17]) Vito Maria Amico Statella - Lexicon Topographicum Siculum - Tomi
secundi pars altera, Panormi 1757-60 - voll. 6. [Biblioteca Nazionale V.E. Roma
pos. 1.24.C. 19/24] In proposito, il passo in latino di pag. 115 è il seguente:
« ... Barresiis subinde datum [Racalmuto,
cioè]; Joannes subinde eiusdem familiae ad Andegavensium partes deficiens, secum opida sibi subdita
traxit, Petrapretiam, Nasum, Rahalmutum et alia.» Gioacchino Di Marzo ne fece questa
traduzione: « .... dato poscia a' Barresi;
poichè Giovanni della medesima
famiglia essendosi ribellato in pro delle parti angioine, seco trasse i
soggetti paesi Pietraperzia, Naso, Racalmuto ed altri.»
[18]) F. M.
Emanueli e Gaetani - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore [copia
anastatica dell'edizione Palermo 1759 - Parte II, libro IV, pag. 199 e segg.
Invero, l'A. sembra voglia far ricadere la colpa al padre Aprile. Noi, a dire
il vero, non abbiamo avuto modo di consultare l'opera di questo storico
siciliano che scrisse nel 1725. Disponiamo solo di una bibliografia del Bresc
ovè è così segnato: Francesco Aprile, Della
cronologia universale della Sicilia, Palerme, 1725, XXIV-808 p. [centré sur
Caltagirone]. Vedi Henri Bresc: Un monde méditerranéen - économie et société
en Sicile - 1300-1450 - Palermo 1986, pag. 48. Ad altri studiosi
quindi il compito ed il gusto di correggerci ed eventualmente integrarci.
[19]) Anche se non l'artefice
primo della fantasiosa baronia racalmutese dei Barrese, il Villabianca è
responsabile degli abbagli storici degli ereduti di Racalmuto - a cominciare
dal padre Bonaventura Caruselli da Lucca [Sicula], non proprio indigeno,
dunque, ma pur sempre autore principe del racconto della 'venuta' della Madonna
del Monte. Questi a pag. 2 del suo libretto Maria
Vergine del Monte in Racalmuto, Palermo 1856, testualmente annota:
«L'ultimo di questa dinastia fu Giovanni Barrese, il quale al riferire del padre Aprile (Cron. Sic. cap. 1 f. 164)
[corsivo ns.] si rese indegno del dono, oscurando col più turpe tradimento la
fede siciliana. Nella guerra tra Carlo d'Angiò Conte di Provenza e Manfredi lo
Svevo Re legittimo del regno di Sicilia e Napoli fu il primo che vilmente
desertò le bandiere del suo Re, e passò al partito Angioino acquistandosi il
nefando nome di traditore della patria e del suo Re, una marca indelebile di
eterna infamia, e la perdita totale di tutti i beni, giusto e ben dovuto premio
dei traditori. Ma l'infamia a chi tocca: il vespere Siciliano manifestò al
mondo il valore dei figli di Sicilia, e la lor fedeltà ai legittimi Sovrani.»
La frase che abbiamo riportato in corsivo svela la totale sudditanza del p.
Caruselli dal Villabianca (a parte la diversa pagina: 164 al posto di 144,
evidentemente un mero errore). Ecco infatti cosa aveva scritto il celebre
autore della Sicilia Nobile a pag.
199 e ss. - parte seconda, libro IV: Racalmuto «credesi indi concessa dal Rè
Ruggieri Normanno figlio del liberatore testè accennato ad ABBO BARRESE in
consuso con quelle Terre, che sotto l'aggettivo di pleraque oppida per conto di
esso Barrese numera FALZELLO nella sua Stor. di Sic. dec. 2. lib. 9. cap. 9 f.
184 avvegnachè sullo spirare del secolo decimoterzo stava ella in potere di
Giovanni BARRESE, il quale al riferire
del Padre APRILE Cron. Sic. f. 144 c. 1 [corsivo nostro] fu il primo tra i
Baroni del nostro Regno, che nelle guerre fatte dall'armi dei Collegati
Angioini in quest'Isola passasse al loro partito col suo vassallaggio
consistente nelle Terre di PIETRAPERZIA, NASO, RAGALMUTO, CAPO D'ORLANDO, E
MONTEMAURO, terra oggi disfatta, situata in quel monte, che si alza fra la
Città di Piazza e 'l MAZZARINO presso il fiume Braeme. Sicchè dichiarato
fellone esso Giovanni, cadde Tal Baronia nelle mani del Reg. Fisco.» (Vedasi:
F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore
[Copia anastatica dell'edizione Palermo 1759] - RAGALMUTO - [pag. 199 e ss.
Parte II Libro IV).
Il padre Caruselli sicuramente non consultò
il p. Aprile, come noi del resto. Ma fu abbaglio suo personale quello di
credere che Giovanni Barrese sia stato privato delle sue terre per aver tradito
Manfredi a favore di Carlo d'Angiò, grosso modo tra il giugno del 1265 ed il
febbraio del 1266. Le turbolenze di Giovanni BARRESE avvennero invece nella
contesa tra i due fratelli Federico III e Giacomo II d'Aragona e cioè tra il
1298 ed il 1302, circa vent'anni dopo il Vespro siciliano: Illuminato Peri
(vedasi La Sicilia dopo il Vespro -
uomini, città e campagne 1282/1376 - Laterza Bari 1982, pag. 39) data la
dissidenza di quel nobile attorno al 1299 (ed era solo signore di Pietraperzia,
Naso e Capo d'Orlando, come da pag. 39 e nota 44). Il padre Caruselli non era
ovviamente ferrato nella storia medievale della Sicilia, e l'intrigo degli
eventi lo giustifica. Ma quell'accenno ai Vespri Siciliani ebbe grande fortuna.
Il Tinebra Martorana, con la sua «aura romantica e un tantino melodrammatica»,
per dirla alla Sciascia, vi si buttò a capofitto vergando il capitolo IV su
Racalmuto e la famiglia Barrese (pag. 58 ed. 1982). Eugenio Napoleone Messana
diviene incontenibile - da pag. 54 a pag. 58 - nella sua storia su Racalmuto
(ed. 1969). Purtroppo anche il valido padre Calogero Salvo cade nella trappola,
in ispecie a pag. 25 del suo Ecco tua
Madre - Racalmuto 1994. Non si
lascia ingannare, invece, da quell'ambiguo parlare di un passaggio "ad
Andegavensium partes" dell'Amico l'avv. Francesco San Martino De Spucches:
Egli bene inquadra la congiuntura storica: «Questi [Giovanni Barrese] - scrive
a pag. 181 del quadro 783, op. cit. -
visse sotto Re Giacomo d'Aragona e seguì il suo partito. Re Federico,
fratello di Giacomo, divenuto Re di Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e
gli confiscò i beni. Da questo momento comincia una storia certa e noi
cominciamo da questo momento ad elencare i baroni di Racalmuto con numero progressivo...»
[20]) F.
TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRAEDICATORUM - DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC
PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS -
Panormi ex postrema Fazelli authoris recognitione. Typis excudebant, Ioannes
Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara, in Guzecta via, quae ducis ad
Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini M.D.LX. mense iunio. [Biblioteca
Nazionale - manoscritti e libri rari - 10.7.E.5] Barrese (origine e genealogia)
pag. 592 - De rebus .. posterioris decadis liber nonus - cap. Nonum
Hic genus suum ad Abbum Barresium, cuius pater ex proceribus, qui cum
Rogerio Normanno ad propulsandos
Sarracenos in Siciliam venerunt, unus fuit, ut Rogerij Regis diplomate
constat, hoc ordine refert. Ex Abbo, qui Petrapretiam, Nasum, Caput Orlandi,
Castaniam, et pleraque alia oppidula à Rogerio Rege adeptus est, Matthaeus.
[21] )
Leonardo Sciascia - Morte dell’Inquisitore - Bari 1967, pag. 181.
[22] ) Sac.
Calogero Salvo - Ecco tua Madre - Racalmuto 1994 - pag. 24.
[23] )
MEMORIE DEL GRAN PRIORATO DI MESSINA - RACCOLTE DA FRA DON ANDREA MINUTOLO dei
baroni del Casale di Callari, e feudi di Boccarrato - Cavaliero Gerosolimitano
1699 - dedicate all'illustrissimo Eccellentissimo Signo mio Padrone
Colendissimo il Signor Fra D. Giovanni Di Giovanni de Principi di Tre Castagni
; Gran Priore di Messina, e già di Barletta, Capitan Generale della Squadra
Gerosolimitana, e Condottiero di quella di N.S. Innocenzo xij nel 1692-1693. In
Messina - Nella stamperia camerale di Vincenzo d'Amico 1699 - Con licenza de'
Superiori.
[24]) Avv.
Francesco San Martino de Spucches - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari
di Sicilia, dalla loro origine ai nostri giorni (1925) - vol. VI, Palermo 1929,
pag. 181 e segg.
[25] )
Michele Amari - La guerra del Vespro siciliano, vol. i - Milano 1886, pag. 386.
[26] ) Cfr.
l’opera precedentemente citata del Silvestri, Vol. V Palermo 1882, pag. 9 e
segg.
[27] ) cfr. ibidem pag. 12.
[28] )
Leonardo Sciascia, presentazione della mostra di Pietro d’Asaro, Racalmuto
1984, pag. 20.
a ) [Vedensi
le Allegazioni del Dottor don Emanuele
lo Giudice fog. 8. e 96. fatte a favore del Principe della Riccia per
l'esecuzione della Chiaramontana reintegrazione stampate in Palermo 1755. f.
96].
[29] )
Francesco M. Emanuele e Gaetani, marchese di Villa Bianca - DELLA SICILIA NOBILE - Palermo 1759 - Parte Seconda - lib. IV,
pag. 4 e segg.
[30] )
Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V 1882, cit. doc. XXI p. 24.
[31] )
Montescaglioso (Matera), comune: 9900
ab., a 352 m s.m. Centro agricolo tra la valle del fiume Bradano e la gravina
di Matera. Anticamente si chiamava
Severiana. La contessa Emma vi fondò verso la fine del XII secolo un monastero
intitolato a San Michele. L’imperatore Federico II lo dotò nel 1222
[32] )
Girolamo M. Morreale, S.J. - Maria SS. Del Monte di Racalmuto, Racalmuto 1986,
pag. 23 ove, tra l’altro, leggesi: «La distanza tra Casalvecchio (Racalmuto) e
la Chiesa di S. Margherita, circa tre chilometri, fa pensare che a Casalvecchio
ci fossero altre chiese officiate da Sacerdoti.»
[33] )
DIZIONARIO COREOGRAFICO DELL'ITALIA a cura
del prof. Amato AMATI - Milano (Vallardi) - (1869) voce: Racalmuto.
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