Ci sia di un qualche lume questo confronto:
Denominazione
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Unciae
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Tarini
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Granae
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Summa
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Somme percette nell’intera provincia agrigentina per
le decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)
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261
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4
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8
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261,4,8
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Somme percette nell’intera provincia agrigentina per
le decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)
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87
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22
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10
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87,22,10
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Differenze
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173
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11
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18
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173,11,18
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Differenza in
percentuale
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197,58%
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Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi
il doppio di quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino,
per un quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310;
indirettamente nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono ilcanonico
agrigentino Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese,
il francescano Marco d’Assisi, [1] ebbe dal
collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non
sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato
dell’intera diocesi di agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci
direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo.
In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto
l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia
subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei
vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28
gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu
una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il
Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al
partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla
cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276.
Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostitu Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al 23
agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23 agosto
1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10 dicembre
1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti
rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio
in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da
Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato
dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a
lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile
e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei
primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria,
oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal persule
agrigentino; ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco
(presbiter Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un
balzello di nove tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue
decime o primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli
obbligatori d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo.
L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo
gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio
dell’avara povertà di Catalogna.
Verso il dominio dei Chiaramonte
Nel 1296, uno strano usurpatore - Federico III
d’Aragona - veniva incoronato re di Sicilia: era l’ex viceré che - officiato di tale incarico dal fratello
Giacomo, succeduto nella corona d’Aragona mentre era re di Sicilia - ardiva
ribellarglisi ed assentire alle trame autonomiste dei potetanti dell’Isola fino
alla ribellione completa, all’acquisizione del titolo regale.
Federico III potè detenere il regno di Sicilio per un
quarantennio, grazie a compromessi, ad abilità diplomatiche, a tregue, a
concordati ed altro. C’è chi afferma che tale quarantennio si stato comunque un
lungp periodo di lotta contro la Napoli angioina e c’è chi vuole il locale
baronato tutto preso dell’ideale dell’indipendenza dell’Isola. Per converso
Denis Mack Smith ha voglia di demitizzare: «in realtà, - scrive lo storico
inglese [2]-
interessi egoistici prevalsero in questa
guerra, e nulla se ne ottenne salvo distruzioni.» Valutazione estremistica,
inaccettabile se ci si avventura in inveramenti fattutali e puntuali. Non
crediamo, ad esempio, ne ebbe solo distruzioni: anzi, sviluppo demografico,
lavori pubblici per fortificazioni, profitti da commercializzazioni del grano,
necessario al vettovagliamento delle parti in guerra, sembrano i connotati
affioranti da questo travaglio della storia locale.
Federico III conclude nel 1302 una “pace di
compromesso”: gli bastò promettere di chiamarsi re di Trinacria, anziché di
Sicilia: un cedimento di poco conto, che peraltro neppure formalmente osservò.
La guerra ricominciò nel 1312 e durò, ad intervalli, fino al 1372.
Se vogliamo credere al Fazello, proprio in questo
intervallo di pace, un membro cadetto dei Chiaramonte avrebbe avuto voglia di
innalzare nell’attuale piazza Castello di Racalmuto una costosissima coppia di
torri difensive, apparentemente inutile e dispersiva. Francamente, la cosa non
convince molto: le fonti scritte tacciono, quelle archeologiche sono tutte di
là a venire.
Il povero Fazello, invero, non è che si sbilanci
troppo; si limita ad annotare: «A due miglia da qui [Grotte] si incontra
Racalmuto, centro fortificato saraceno, dove c’è una rocca costruita da
Federico Chiaramonte, a cui succede, a quattro miglia, la rocca di Gibellina e
poi, a otto miglia il villaggio di Canicattini.» [3]
Dal passo si evince che il Fazello comunque non aveva
dubbi sul fatto che la rocca racalmutese fosse stata “erecta a Frederico Claramontano”. Ma chi fosse codesto Federico non
è poi del tutto chiaro, potendo anche essere Federico Chiaramonte I, il
capostipite della famiglia, nel qual caso la datazione della fondazione del
Castello retrocederebbe e di molto.
Da dove abbia
tratto la notizia il Saccense, non è dato sapere: era comunque storico serio
per abbondonarsi a dicerie inconsistenti. Ci ragguaglia, però, in termini
circospetti e tanto deve spingere a cautele chi, a distanza di secoli, cerca di
investigare quelle vicende così basilari per lo sviluppo del centro abitato di Racalmuto.
Tinebra Martorana, ad esempio, non sa tenere strette le briglie e si
sbizzarrisce nella raffigurazione di improbabili indeudamenti da parte dei
Chiaramonte (pag. 63) o insostenibili sviluppi edilizi del Castello stesso
(capitolo X e in particolare pag. 71). Chi ha voglia di credergli, continui a
farlo. A noi sembrano solo giovanili fantasticherie, frutti acerbi di
irrefrenabile visionarietà.
Se poi diamo credito al San Martino de Spucches,
proprio in coincidenza dell’erezione del Castello, Manfredi Chiaramonte avrebbe
fatto erigere il vicino Castelluccio - ma qui crediamo che si tratti di un
abbaglio: c’è confusione con la rocca di Gibellina in provincia di Trapani. [4] Per il
San Martino, dunque, «IL FEUDO DI GIBELLINI è in Val di Mazzara,
territorio di Naro, da non confondersi con l'altro sito in territorio di
Girgenti, sul quale sorse poi la terra di Gibellina, eretta a Marchesato.
Appartenne per antico possesso alla famiglia Chiaramonte, dove Manfredo
vi costruì la fortezza; in ultimo lo possedette Andrea Chiaramonte; questi fu dichiarato fellone, ed in Palermo a
giugno 1392 sotto il suo palazzo, detto lo STERI,
ebbe tagliata la testa.» Una qualche astuzia stilistica cela la confusione
in cui si dibatte il peraltro avveduto arabista. Con franchezza, dobbiamo
ammettere che nulla di certo sappiamo sulle origini del Castelluccio: solo a
partire dalla fine del secolo XIV possiamo essere sicuri della sua esistenza.
Il Tinebra Martorana ed Eugenio Napoleone Messana sono
facondi nell’enfiare le rare e malcerte notizie degli storici secentisti che
hanno scritto delle cose racalmutesi di questo periodo. Faremmo vacua
erudizione se si mettessimo qui a contestare tutte quelle inverosimiglianze: in
encomiabile sintesi le aveva già additate il padre Bonaventura Caruselli,
quello che che per primo ci dà una versione della saga della Madonna del Monte.
[5]
«Decaduta la
famiglia Barrese - scrive il frate di Lucca - e devoluto Racalmuto al Regio
Fisco fu concesso a Giovanni Chiaramonte Barone del Comiso. Federico secondo di
questo nome terzogenito di Federico primo Chiaramonte fabricò il magnifico
Castello tutt'ora in gran parte esistente. Onde si riuta l'opinione d'alcuni
che pretendono il Castello costruzione saracena. Il Fazzello, Inveges, il Pirri
confermano la nostra opinione. Dominò Racalmuto la famiglia Chiaramonte fino
all’anno 1307 passando, pel matrimonio di Costanza unica figlia del Barone
Federigo con Antonio del Carretto, a questa nobile ed illustre famiglia.»
Quel che resta da una rigorosa investigazione storica è
ben poco: non si può escludere l’impossessamento di Racalmuto da parte della
emergente famiglia Chiaramonte: avvenne, però, con usurpazioni che l’oblio dei
secoli impedisce di puntualizzare. Racalmuto passa, comunque, nello stretto
arco di tempo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, dalle libertà comunali alla
crescente sudditanza feudale: una sudditanza che si radicalizza solo a metà del
‘500 con la compera da parte di Giovanni del Carretto del mero e misto impero.
Il Caruselli va epurato dei falsi quali quello attinente all’inesistente
dominio dei Barresi, e quali quello che vuole Racalmuto preso da un ignoto
Giovanni Chiaramonte, barone di Comiso. Altri aspetti della ricognizione del
lucchese sono accettabili, purché meglio chiariti.
Quando, come, in che misura i Chiaramonte si
impossessano di Racalmuto?
Al tempo dell’intesa tra l’Angiò e Giacomo d’Aragona,
si è detto che Racalmuto venne a Napoli assegnato a Piero Di Monte Aguto e
siamo nel 1299: era promessa avventurosa ed il beneficiario spagnolo aveva
poche probabilità di vedere avverata la regale assegnazione. Qualche eco ebbe a
giungere in loco. La famiglia
agrigentina dei Chiaramonte rivolsero allora i loro occhi a queste terre
alquanto periferiche: Manfredi si assegnò il territorio del Castelluccio e potè
benissimo muninerlo di una fortezza; il fratello cadetto Federico II si
dichiarò padrone del casale e dell’agro circostante, non mancando di ergervi
l’attuale Castello, sia pure nella sua embrionalità costituita dalle due torri
cilindriche. Costruire torri cilindriche in quel tempo era divenuta ardua
impresa per il diradamento delle maestranze fredericiane. Ed allora? Un
interrogativo che può dissolvere la fondatezza della congettura che siamo stati
per raffigurare. Solo i futuri scavi archeologici potranno chiarire il mistero:
un mistero che si aggrava se i nostri privati ritrovamenti di ossame e di
ceramiche sotto gli interstizi tra le due torri dovessero segnificare presenze
abitative o necropoli medievolati antecedenti il XIV secolo. Le ossa non
sembrano invero umane; i cocci sono angusti per configurazioni significative.
La congiuntura feudale è icasticamente ricostruita da
Illuminato Peri [6] e noi ci accodiamo in tutta
umiltà: «Fu alle soglie del secolo XIV, quando, sotto gli Aragonesi, mancò un
controllo inibente da parte della monarchia, e le concessioni si
moltiplicarono, che i loro feudi e la loro influenza si allargarono; e fu
proprio allora che entrò nella vita cittadina un ramo dei Chiaramonte. Prima,
per tutto il secolo XIII, il feudo non ebbe il sopravvento, e particolarmente
nelle vicinanze della città, non ebbe larga parte neppure la grossa proprietà.»
Sulla famiglia Chiaramonte, si hanno varie trattazioni
di valore però più araldico che storico, specie per quanto attiene agli esordi.
Chi ha voglia di dilettarsi sulle mitiche origini di codesta nobile schiatta
può consultare l’Inveges o il Mugnos oppure accontentarsi della diligenza del
nostro Tinebra Martorana che non manca di ragguagliarci sulla discendenza da
Pipino o da Carlo Magno; sui tanti porporarti, alti dignitari e principi reali
che la avrebbero contraddistinta; sul suo valoreatto a 174infrenare l’orgoglio dei re e costringerli
ad umiliazioni.»
Ciò che a noi preme sottolineare è solo il fatto che
nei primi del XIV secolo Racalmuto fu in effetti sotto l’influenza di Costanza
Chiaramonte. Chi fu costei? Non abbiamo elementi per contraddire l’Inveges [7] che
testualmente così la raffigura:
« Da questo
nobile matrimonio [ e cioè da Federico II Chiaramonte e tale Giovanna] nacque
Costanza unica figliuola, che nel 1307 nobilmente si casò con Antonino del
Carretto; Marchese di Savona, e del Finari, con ricchissima dote e facendosi il
contratto matrimoniale in Girgenti nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di
Terrana à 11. di Settembre 1307 doppo ratificato in Finari l'istesso anno. come
riferisce Barone, [De Maiestat. Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa
Carretto nel suo libro: l'istesso che ci confirma il testamento nel 1311. à 27
di decembre 10 Ind. e poscia publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di
Not. Pietro di Patti con tali parole: Item instituo, facio, et ordino
haeredem meam universalem in omnibus bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam,
Consortem Nobilis Domini Antonini, Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui
Dominae Constantiae haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditate
substituo, ita tamen, quod si forte, quod absit, dicta Domina Costantia absque
liberis statim anno impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum
Comitem Mohac, et Ioannem de Claramonte Milites, Fratres meos, legitime et
integre revertatur.
2. Venne Costanza
per la morte di Federico Padre ad esser Signora, e padrona dell'opolenta
eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del Carretto primo
genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di Rachalmuto:
come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30
d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del Carretto
possede. Frà breve spatio d'anni Costanza restò per l'immatura morte d'Antonino
suo Marito vedova nel Finari, e per ritrovarsi bella; nel fiore della sua
gioventù, e ricca, passò alle seconde nozze con Branca, altrimente detto,
Brancaleone d'Auria, alias Doria; famiglia nobilissima di Genova; e che nell'anno
1335 fù Governatore nella Sardegna: Riuscì cotal matrimonio fecondo di prole.
Poiche generò 1. Manfredo; da cui descese Mazziotta, 2. Matteo, 3. Isabella;
moglie di Bonifacio figlio di Federico Alagona; da cui nacquero Giancione, e
Vinciguerra Alagona. La quarta fù Marchisia; che fù moglie di Raimondo
Villaragut, delli quali nacquero Antonio, e Marchisia Villaragut; Nel quinto
luogo nacque Leonora, moglie di Giorgio Marchese. Doppo Beatrice; e la 7. &
ultima si fù Genebra.
3. Costanza, restando la seconda volta Vedova,
finalmente si morì in Giorgenti, havendo prima fatto il suo testamento, e
publicatoil 28 marzo 1350 nominando suoi esecutori testamentari il suo
primogenito Manfredi, il vescovo Ottaviano Delabro ed il priore del convento di
S. Domenico.»
Noi siamo certi che la suddetta Costanza Chiaramonte
ebbe la disponibilità di Racalmuto (sotto quale titolo, però, non sappiamo) per
la testimonianza che ricaviamo da un diploma originale del 1399 ove tra l’altro
si specifica che i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto patteggiano fra loro
il riparto dei beni che per taluni versi derivano dalla loro ava Costanza
Chiaramonte. [8] Si tratta dell’atto
transattivo in cui Gerardo cede al fretllo Matteo del Carretto, atitolo
oneroso:
«omnia iura
omnesque actiones reales et personales, universales, directas, mixtas
perentorias, tacita, civiles et expressas,
que et quas praedictus dominus Gerardus, tamquam primogenitus, habet et
habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice
domine Constantie de Claramonte eius avie, quam eciam hereditatis magnificorum quondam domini Antonij de Carretto et quondam
domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici domini Jacobinj de Carretto, eius fratris,
quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et
eciam quocumque alio iIure competente
domino domino Gerardo aliqua ratione, occasione vel causa et specialiter in baronia
Racalmuti ut primogenito magnificorum
quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris/ eius territorio castro et
casali, nec non in bonis burgensaticis videlicet territorio Garamuli et
Ruviceto Siguliana terminis, cum onere
iuris canonicorum civitatis Agrigenti ... .. ..et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate
Agrigenti iuxta hospitium magnifici
Aloysii de Monteaperto ex parte meridi, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum
quondam domini Frederici de Aloysio ex partem orientis/, viam publicam ex parte
occidentis et alios confines ac eciam in quoddam viridario quod dicitur ‘lu
Jardinu di la rangi’ posito in contrata Santi Antonij Veteris, cum terris
vacuis vineis, et toto districtu in p..io iacet flumen dicte civitatis ex parte
orientis, viam publicam ex parte occidentis, et alios confines cum onere iuris quod
habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento, nec non in omnibus et singulis
bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius
territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et
censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus (?) in
omnibus et singulis bonis stabilibus,
castris, villis baronijs feudalibus et burgensaticis ubique sistentibus.»
Ci pare di poter tradurre: «il predetto Gerado
vende e avendone il potere di vendita
concede e per tratto della nostra penna di notaio trasferì ed assegnò al
magnifico ed egregio don Matteo, milite, marchese di Savona, suo fratello,
presente e compratore, che riceve ed accetta per sé e suoi eredi e successori,
in perpetuo, tutti i diritti e tutte le azioni reali e personali, universali,
dirette, miste, perentorie, tacite, civili ed espresse, che e quali il predetto
don Gerardo, come primogenito, ha e può o deve avere, per diritto di
successione o ereditario riveniente dalla quondam magnifica donna Costanza di Chiaramonte sua
nonna, nonché per diritto ereditario riveniente dal quondam magnifico signore don Giacomino [Jacobinus]
del Carretto, suo fratello, così pure per diritto di successione ed eredità
riveniente da quondam magnifico Matteo
Doria ed anche per qualunque altro diritto spettante al detto don Gerardo
per qualsiasi ragione, occasione o causa e segnatamente in ordine alla baronia di Racalmuto - come
primogenito dei defunti suoi magnifici genitori ed erede di suo fratello
Giacomino - ed al pertinente territorio, castello e casale, nonché in ordine ai beni burgensatici siti nel territorio di Garamoli, Ruviceto [Rovetto ?] e Siguliana, con i gravami verso i
canonici della città di Agrigento, ed anche in ordine ad un tale palazzo
esistente nella città di Agrigento vicino al palazzo del magnifico Luigi di
Montaperto, dalla parte di mezzogiorno, nonché alla chiesa di S. Matteo ed ai
casalini degli eredi del fu don Federico di Aloisio nella parte orientale, e
prospiciente la via pubblica ad occidente, e con altri confini. Del pari, viene
venduto un giardino che chiamano “lu jardinu di l’arangi” posto nella contrada
di S. Antonio il Vecchio, con terre vacue, vigne, e l’intero distretto ove
scorre il fiume della detta città nella parte orientale e confinante con la via
pubblica ad occidente ed altri confini; e sopra di esso gravano gli oneri che
ha la chiesa di S. Domenico di Agrigento. Inoltre, il predetto atto si estende
a tutti e singoli i beni feudali, burgensatici e censi esistenti nella città di
Palermo e nel suo territorio con i suoi diritti su tutti e singoli beni
stabili, castelli, villaggi baronali, feudali e burgensatici ovunque esistenti
nell’intero Regno di Sicilia.»
E’ un passo che sancisce la storicità di Costanza di
Chiaramonte, prima signora di Racalmuto; il casale passa al figliolo Antonio
del Carretto - che Costanza ebbe dal
primo marito l’omonimo Antonio del Carretto - e quindi al nipote Gerardo del
Carretto per finire al fratello di costui Matteo del Carretto. Vero è altresì
che a Matteo del Carretto giugno anche i beni dello zio paterno Matteo Doria,
figlio del secondo marito di Costanza, Brancaleone Doria.
Resta quindi incagliata in questa griglia la vicenda
feudale di Racalmuto dal 1313 al 1392 e sembrerebbe che i Chiaramonte siano
estranei alle locali vicende di questo periodo, fatta eccezione del breve
perido in cui la baronia sembra im mano di Costanza Chiaramonte. Ma è così?
Purtroppo, un documento pontificio del 1376 - che avremo occasione dopo di
meglio esplicare - revoca in dubbio una siffatta impostazione. Forse le terre
racalmutesi furono di proprietà dei Del Carretto solo come beni burgensatici,
mentre l’egemonia feudale rimase una prerogativa dei turbolenti Chiaramonte del
XIV secolo. Racalmuto subì dunque i travagli che la famiglia agrigentina
procurò con la sua strategia politica e con i suoi ribellismi. In che misura?
anche qui un mistero.
E’ complessa la pagina della storia dei Chiaramonte di
Agrigento per l’intero secolo XIV. In sintesi, possiamo solo rammentare che
all’inizio della loro potenza fu rimarchevole soprattuto la figura femminile di
Marchisia Prefolio, sposata con Federico I Chiaramonte. I tre figli - Manfredi,
Giovanni il Vecchio, Federico II -
ebbero storie simili ma distinte. Manfredi avrebbe sposato nel 1296 Isabella Musca figlia del conte di
Modica, quello di cui abbiamo detto essere forse il barone di Racalmuto al
tempo di Carlo d’Angiò. La contea di Modica passa, quindi, a Manfredi Chiaramonte. Siniscalco del re
Federico III diventa signore di Ragusa. Nel 1300 succedeva alla madre nella
contea di Caccamo. Nel 1301 difendeva Sciacca. Stipulata la tregua tra i re di
Napoli e Sicilia (1302-1312), Manfredi avrebbe fatto edificare il palazzetto
della Guadagna a Palermo. Otteneva anche nel 1310 dalla chiesa agrigentina la
concessione enfiteutica di un tenimento di case per la costruzione di un’altra
sua dimora che si chiamò Steri
(l’attuale seminario vescovile). Ambasciatore presso l’imperatore Arrigo VII di
Lussemburgo nel 1312. E’ nominato nel 1314 capitano giustiziere di Palermo.
Muore attorno al 1321, lasciando come suo erede il figlio Giovanni I.
Giovanni Chiaramonte, detto il Vecchio, sposa Lucca
Palizzi. Nel 1314 comanda la flotta siciliana contro Roberto d’Angiò che
assediava Trapani. Nel 1325 coadiuva efficacemente Blasco d’Aragona nella
difesa di Palermo contro l’assedio delle truppe angioine comandate da Carlo di
Calabria. Diviene vice ammiraglio del Regno e poi capitano giustiziere di
Palermo. Il Picone [9] ci
assicura che «Giovanni possedette in Girgenti e nel suo territorio case palagi
castella, e terreni che egli economizzava, e nel 1305 permutava il suo casale Margidirami, o di Raham come leggesi in alcuni diplomi, colla chiesa nostra, e ne
riceveva in corrispettivo il casale Mussaro,
col suo fortilizio coi casamenti, e i terreni che locingevano, perché la chiesa
non bastava a mantenerlo e custodirlo. - Così egli aumentava le sue guarnigioni
nelle vicinanze della città.» Sarà stato per questo e mal leggendo il Musca
(Ruolo n.° 23) che i nostri storici locali hanno dato la stura a tutta una
serie di falsi, propinati ingordamente, sulla baronia di codesto Giovanni
Chiaramonte su Racalmuto. Quest’ultimo muore nel 1339.
Il terzo dei figli - Federico II - ci tocca
direttamente: signore di Favara, Siculiana e Racalmuto, muore nel 1311,
lasciando erede la figlia Costanza.
Il figlio di Manfredi - Giovanni Chiaramonte - eredita
la contea di Modica, la signoria di Caccamo ed altri beni feudali nel 1321;
sposa Leonora d’Aragona, figlia illegittima del re Federico III e diviene
ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ludovico IV il Bavaro, di cui
ottiene signorie e privilegi in Ancona e Napoli. Nel 1329 una svolta:
aggredisce Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, reo di avere ripudiato la
moglie Costanza che era sorella appunto di Giovanni Chiaramonte. Deve scappare
in esilio per sfuggire al castigo del re. Si rifugia alla corte di Ludovico il
Bavaro ed offre quindi i suoi servigi a Roberto d’Angiò. Passato così al
nemico, partecipa nel 1335 alle scorrerie degli Angioini nelle coste siciliane.
Muore frattanto Federico III ed il successore Pietro II lo richiama nel 1337
dall’esilio e lo reintegra nei beni ad eccezione di Caccamo e di Pittinara.
Giovanni Chiaramonte assurge nel 1338 alla carica di giustiziere di Palermo.
Ora combatte contro gli Angioini e riconquista i territori siciliani ancora in
loro possesso. In una battaglia navale, combattuta nel 1339, cade prigioniero
degli Angioini ed è costretto a vendere al ricchissimo cugino Arrigo, maestro
razionale del regno, i suoi beni per pagare il riscatto. Muore nel 1343 senza
eredi maschi.
L’intreccio avventuroso di Giovanni II Chiaramonte
travolge l’intera Sicilia e quindi anche Racalmuto, ma è tale per cui il fulcro
politico di quella famiglia egemone passa di mano e perviene ai tre cugini Manfredi II, Arrigo e Federico
III, figli di Giovanni il Vecchio. Gli altri due cugini - Giacomo e Ugone -
hanno o vaga apparizione (Giacomo è governatore di Nicosia e vi batte moneta) o
al di fuori del nome (Ugone) non se ne sa nulla.
Manfredi II si ammoglia due volte; eredita dal cugino
Giovanni II tutti i suoi beni in virtù di una clausola contenuta nel testamento
di Manfredi I. Assurge alla carica di giustiziere di Palermo (1341) e quindi
receve l’investetura degli stati dopo averli riscattati dal fratello Arrigo
(1343). Anche Racalmuto vi rientra? Non abbiamo elementi dosrta per articolare
una qualsiasi risposta. Nle 1351 Manfredi II diviene vicario generale del
Regno, Gran Siniscalco e Gran Connestabile. Muore nel 1353, lasciando eredet il
figlio Simone avuto dalla seconda moglie (Mattia di Aragona).
Arrigo Chiaramonte compra (1339) da Giovanni II la
contea di Modica e diviene maestro razionale del Regno. Sempre nel 1339
partecipa con il fratello Federico III alla riconquista di Milazzo per il re
Pietro II.
Federico III Chiaramonte sposa Costanza Moncada e
diviene governatore di Agrigento. Nel 1339, come si è detto, partecipa alla
conquista di Milazzo per il re Pietro II. Il re Ludovico nel 1349 lo nomina Cameriere
Maggiore, Vicario generale e Maestro Giustiziere del Regno. Nel 1353 partecipa
con il nipote Simone alla sollevazione di messina contro Matteo Polizzi.
Concorre alla chiamata in Sicilia del re di Napoli e partecipa alle distruzioni
a danno dell’Isola. Nel 1356 succede al nipote Simone nel titoli dei
Chiaramonte, conti di Modica e Caccamo, per privilegio del re Federico IV.
Possiamo solo congetturare che Racalmuto
- stante anche la lontananza dei Del Carretto, forse sulla carta
titolari della baronia - sia in questo torno di tempo ricaduto nelle mani dei
Chiaramonte. Federico III sale ancora nella scala degli onori pubblici
divenendo nel 1361 Pretore di Palermo e poi (nel 1362) Governatore e Capitano
Giustiziere di Palermo. Muore nel 1363 lasciando erede il figlio Matteo.
Simone Chiaramone, figlio di Manfredi II e Mattia
Aragona, costitusce cuna parentesi che si apre e si chiude con lui nel gioco di
potere di quella schiatta trecentesca siciliana. Sposa Venezia Palizzi ma la ripudia dopo la
sollevazione di messina del 1353 e l’uccisione del suocere Matteo Palizzi e
della sua famiglia, voluta da Simone, dallo zio Federico III e da altri
congiurati. Nel 1353 eredita i titoli ed i beni dei Chiaramonte. Diviene
signore di Ragusa. Trovatosi a capo della fazione dei Latini, allo scopo di
avere il sopravvento sulla fazione dei Catalani, congiura contro il sovrano e
chiama in Sicilia il re di Napoli, in nome del quale egli presidia Lentini e
Federico governa Palermo. Chiede a Luigi d’Angiò di sposare Bianca d’Aragona,
sorella del re Federico IV che lo stesso Luigi teneva prigioneriero a Reggio.
Non venendo accolta la sua richiesta, pare che si sia avvelenato, oppure che
gli sia stato propinato il veleno. Muore senza lasciare successori legittimi
nel 1357. La meteora di Simone Chiaramonte pare non avere neppure lambito
Racalmuto: altrove era il teatro delle gesta di questo turbolento personaggio.
Negli anni ’60 altri sono i protagonisti chiaramontani.
Cominciamo da Giovanni III. Figlio di Arrigo, figura Governatore del castello
di Bivona nel 1360 e quindi nel 1366 signore di Sutera e conte di Caccamo.
Ricadono sotto la sua signoria Pittirano, Monblesi, Muscaro, S: Giovanni e
Misilmeri. Diviene Siniscalco del regno. Muore nel 1374.
E’ quindi la volta del cugino Matteo, figlio di
Federico III: sposa questi Iacopella Ventimiglia. Nel 1357 eredita la contea di
Modica, la signoria di Ragusa ed altre terre. Gran Siniscalco e Maestro
Giustiziere del regno nel 1363, nel successivo 1366 gli viene concessa la città
ed il castello di Naro e di Delia. Muore nel 1377 senza eredi maschi e gli
succede nel contado di Modica Manfredi III.
E’ costui un personaggio centrale, di grande spicco a
mezzo del Trecento. Abbiamo documenti vaticani che compravano che il vero
padrone di Racalmuto è ora lui: Manfredi III Chiaramonte appunto, avendo in
subordine i Del Carretto o avendoli estromessi, non sappiamo. Figlio naturale
di Giovanni II /secondo La Lumia, Villabianca e Pipitone Federico), sposa in
prime nozze Margherita Passaneto e poi Eufeminia Ventimiglia. Nel 1351 domina
in Lentini e Siracura. Partecipa alla congiura contro il re con Simone
Chiaramonte. Nel 1358 chiede aiuti al re di Napoli contro il re di Sicilia ed i
Catalani. Finalmente, nel 1364 si riconcilia con il Sovrano, riporta Messina,
ancora in mano degli Angioini , all’obbidienza di Federico IV (detto il
Semplice) dal quale viene onorora della carica di Grande Ammiraglio. Nel 1365
ottiene dal re la contea di Mistretta, la signoria di Malta, della città di
terranova, di Cefalà. Fu padrone delle terre di Vicari, Palma, Gibellina,
Favara, Muxaro, Guastanella, Carini e Comiso, Naro e Delia, oltre altri feudi
intorno a messima. Manfredi III si trasferisce nel 1365 da Messina a Palermo.
Nel 1374 eredita dal cugino Giovanni III il contado di Caccamo e i feudi di
Pittirana, S. Giovanni e Misilmeri. Ma in quell’anno è divenuto tanto potente
da impedire al re Federico IV di sbarcare in Palermo per l’incoranazione
ufficiale. Nel 1375 può conciliarsi con il Re e gli viene concessa la signoria
di Castronovo con Mussomeli, che da lui prende il nome di Manfreda. Nel 1377,
alla morte di Matteo, viene investito dal Sovrano della contea di Modica,
comprendente vari feudi. Nel 1378 fu uno dei quattro Vicari che governarono la
Sicilia durante la minore età della regina Maria. Conquista nel 1388 l’isola
delle Gerbe e viene investito dal papa Urbano VI del titolo di Duca delle
Gerbe. Nel 1389 dà la figlia Costanza in sposa al re Ladislao di Napoli, il
quale ripudia la moglie dopo la rovina dei Chiaramonte. Muore nel 1391
lasciando eredi delle sue sostanze le figlie. Per un bastardo, il destino ebbe
in serbo una sequela di ascese da
capogiro. Con chi non fu concepito in legittimo talamo il potere di una
sola famiglia tocca l’acme: ma subito dopo fu il tracollo, per imprevidenza,
per intrusione nelle cose di Sicile di case regnanti aragonesi, per il gioco
della politica a dimensioni divenute sovranazionali. E Racalmuto tornerà
nell’alveo di una dimessa baronia delcarrettiana.
Alla morte di Manfredi III spunta un Andrea Chiaramonte
di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni e ititoli dei Chiaramonte
comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale
Tetrarca del Regno; riufiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza
la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronovo
nel 1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martini. L’anno
dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e
decapitato dinanzo allo Steri il 1°
giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle
vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando
più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti catalani. Racalmuto può finire -
o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di
Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico,
appare sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si
sottomette a Martino e dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e
amici nel castello di caccamo, che successivamente dovette abbandonare per
andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna
mai più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel
Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non
sono i Del Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una
intermittente incidenza la ebbero i Doria (in Particolare, Matteo Doria); per
il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo
contadino; quello sulle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche;
quello stesso che investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese,
confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due
belle torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per
quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto,
quasi si fosse trattato di benefattori.
Giammai notato v’è un inciso nei processi d’investitura
dei Del Carretto, che si custodiscono negli archivi di Stato di Palermo, di
grandissima importanza per la storia di Racalmuto: nell’agglomerato di atti
notarili che Matteo del Carretto esibisce a fine secolo XIV nell’improba fatica
di far credere del tutto legittima la sua baronia racalmutese, affiora una
dichiarazione di Gerardo del Carretto ove, come si disse dianzi, si afferma una
provenienza ereditaria di beni da Matteo Doria. E’ questi un personaggio che ha
l’attenzione del Chronicon Siculum
(CVIII) e del Villani (XI, 108). [10] Nel
novembre del 1339 la flotta siciliana tenta di contrastare quella napoletana
che sosteneva un corpo di spedizione sbarcato a Lipari. E fu una débâcle. Il cronista
coevo ci racconta che i Siciliani «furono debellati, e presi così che non uno
di essi sfuggi, se non quelli soltanto che gli stessi nemici dopo tale disfatta
vollere rilasciare e rimandare». Fra i nobili catturati furono Giovanni
Chiaramonte (di cui abbiamo detto prima), il comandante della flotta, Orlando
d’Aragona fratello naturale del re, Miliado d’Aragona figlio naturale del dento
re Pietro d’Aragona e di Sicilia, Nino e Andrea Tallavia da Palermo, Vincenzo
Manueòe da Trapani. E, per quello che anoi più preme, Matteo Doria. Questi per
adempiere all’impegno contratto per il riacquisto della libertà dovette vendere
la tenuta di Fontana Murata del valore di 1500 onze per 500 onze. [11] Matteo
Doria era figlio di Brancaleno Doria e di Costanza Chiaramone, proprio quella
che aveva avuto per marito di primo letto Antonio del Carretto con cui aveva
generato il nostro Antonio II del Carretto. Questi e Matteo Doria erano dunque
fratelli sia pure soltanto uterini. Matteo Doria aveva per fratello germano
Manfredo (ribelle a Federico III, ma reintegrato nei beni; esule e poi
stabilitosi ad Agrigento) e le tante sorelle: Isabella, Marchisia, Leonora,
Beatrice e Ginevra. Costanza Chiaramonte fu dunque donna molto feconda: tre
figli maschi da due diversi mariti e ben cinque figlie femmine (per quello che
se ne sa). Nelle tante doti che dovette fare rientrò mai Racalmuto? Davvero
venne assegnato in esclusiva ad Antonio II del Carretto? Ed il riafflusso dei
beni di famiglia da Matteo Doria ai nipoti di cogmone Del Carretto annetteva anche la nostra baronia? Misteri
del Trecento che lo storico obiettivo non è in grado di dipanare. L’Inveges va
invece a briglia sciolta. Chi ha voglia di seguirlo, faccia pure.
Se seguissimo l’attendibile Fazello, dovremmo pensare
che Manfredi Doria abbia spostato l’asse del suo potere feudale a Cammarata. Il
De Gregorio [12] ci pare in definitiva
piuttosto perplesso. Ai fini della nostra storia, i Doria non ci paiono,
comunque, di particolare rilievo, ragion per cui non abbiamo dedicato molte
ricerche su tale ceppo di mercanti e navigatori genovesi, approdati ad
Agrigento che fu provvida pedana per una fortuna feudale che li fa assurgere a
cospicui rappresentanti della nobiltà sicula trecentesca.
Dalle brume degli esordi racalmutesi della sciatta dei
Del Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I
Del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza,
quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo
escludere, sulla base che gli agiografici alla Inveges o alla Giordano, ogni
effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio
Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla
morte di Matteo Doria, il titolo pervenne ai carretteschi. E ad investigare
sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna
fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone
Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose
enfiature araldiche può farvi ricorso.
Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del
Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio
Antonio II Del Carretto. Vi è però una sola fonte e sono le carte
dell’investitura di Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o
parzialmente falsificate che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo
secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli eventi.
Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in
seguito per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione
sulla circostanza di un Antonio II Del
Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì far fortuna in compagnie di
navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del
marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza
fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua
nell’egemonia di quei luogi liguri senza neppure un convolgimento formale di
codesto figlio di un legittimo titolare.
Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano
dal marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio
sembra che si siano divisi quel marchesato in tre parti; A Corrado andò
Millesimo, ad Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che
sarebbe stato stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri”
succedvano, pro quota, al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e
signore di Finale, che è presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C...
contessa di Savona, morì nel 1263. [13]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi
ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del
padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292
stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che
sposa Catterina dei M.si di Clavesana; antonio che sposa Costanza di
Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto
avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di
Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli
prestarono giuramento di defeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da
venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali appare tutrice nel 1361. Gli
succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote Lazzarino II
operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre
Antonio del carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo
indicato come Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza
Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, il
primo cui si accredita la baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi
nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di
padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dall madre
Racalmuto nel 1344 per atto del Notar
Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle
notizie dell’’Inveges prima riportate.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del
Carretto ad un certo punto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato a
Genova, come detto. Là si sarebbe arriccchito con partecipazioni in compagnie
navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del
citato atto ove possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del
Carretto. «Infine il predetto don Gerardo
promise, sotto il vincolo del giuramento, di inviare da Genova in Sicilia tutti i privilegi, le scritture e i rogiti
relativi ai beni venduti come sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto,
che rimasero presso lo stesso don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam
don Antonio del Carretto, suo padre, che ebbe a morire in potere e presso il
detto don Gerardo, per consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto
ipoteca ed obbligazione di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli,
mobili e stabili, posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente
quelle tenute date ed assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione
della detta vendita.»
[1] ) Su
tale collettore pontificio vedi la comunicazione di M.H. Laurent O.P.: I
vescovi di Sicilia e la decima pontificia del 1274-1280, in Rivista di Storia
della Chiesa in Italia, anno V n. 1 - gennaio aprile 1951, pag. 75 e segg. Lo
studio serve anche per notizie sui vescovi agrigentini dell’epoca e per
rettifiche di errori del lavoro di P. Sella: Rationes decimarum Italiae ...
Sicilia [= Studi e testi, 112], Bibl. Vaticana 1944. Gli spunti critici vengono
rispresi dal Collura (Le più antiche carte ...], libro dal quale traiamo le
note sui vescovi agrigentini che soprintenderono alla tassazione ecclesiastica
di Racalmuto a cavallo dei secoli XIII e XIV.
[2] ) Denis
Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari 1973, vol. I, pag.
101.
[3] )
Tommaso Fazello - Storia di Sicilia - Presentazione di Massimo Ganci -
Introduzione, traduzione e note di Antonino De Rosalia e Gianfranco Nuzzo -
Vol. I - 1990, Regione Siciliana - Assessorato Beni culturali - pag. 482.
L’originale recita in latino: « Ad duo hinc p.m. Rayhalmutum sarracenicum
oppidum [pag. 231] occurrit: ubi arx est à Frederico olim Claromontano erecta,
quam Gibilina arx ad 4.p.m. excipit. Et deinde 8.p.m. Cannicatinis pagus....» da
F. TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRADICATORUM
- DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT
TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS Panormi ex postrema Fazelli authoris
recognitione. Typis excudebant, Ioannes Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara,
in Guzecta via, quae ducis ad Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini
M.D.LX. mense iunio. Il testo latino distoglie da azzardate ipotesi sulla
fortezza “saracena” che la non felice traduzione del passo potrebbe
solleticare.
[4] ) Non
c’è ombra di dubbio che il Fazello parlando di un castello costruito da
Manfredi Chiaramonte in Gibillina, intende riferisrsi alla località del trapanese.
«da Misilindini ... verso ponente è lunge tre miglia Saladonne, e poi dopo un
miglio si trova Gibellina castello, dove è una fortezza fatta da Manfredi di
Chiaramonte,» secondo la vetusta traduzione del P.M. Remigio Fiorentino (Della
Storia di Sicilia ... volume primo, pag. 625). E l’Amico (op. cit. pag. 267) sembra alquanto
perplesso ma in definitiva si capisce bene che parla della Gibellina trapanese:
«Et paulo infra Sala Donnae et M. postea pass. Gibellina, ubi arx a Manfredo
Clamonte erecta adhuc extat.» Non sappiamo perché il T.C.I. nella sua guida
della Sicilia del 1968 attribuisca invece il castello a Enrico Ventimiglia, che
l’avrebbe edificato nella 2a metà del ’300 (pag. 241). Del pari si
attribuisce il caselluccio racalmutese ad Abbo Barresi: «a 5 km. Si sale a d.
sul monte, ove si trovano avanzi notevoli di una fortezza del Chiaramonte, del
sec. XIV, ma fondata nel ‘200 da Abba (sic) Barresi.»
[5] ) P.
Bonaventura Caruselli, minore osservante di Lucca, Maria Vergine del Monte in Racalmuto, Palermo 1856, pag. 18.
[6] )
Illuminato Peri, Per la storia della vita cittadina e del commercio nel Medio
Evo - Girgenti porto del sale e del grano - in Antichità ed alto Medioevo -
Studi in onore di A. Fanfani I - Milano 1962 - pag. 598.
[7] ) A.
Inveges - La Cartagine Siciliana, Palermo 1651, pag. 228-9. Le psotume notizie
dell’Inveges sono comunque da accogliere con le pinze. Anche i diplomi citati
possono essere dei colossali falsi. Il Peri mette sull’avviso quando scrive
(vedi op.cit. prima, pag. 607 n. 43) «La natura del libro dell’Inveges lascia
dubitare che la sospetta falsificazione ebbe fini araldico-celebrativi
piuttosto che giuridico patrimoniali.» Il sospetto, il Peri ce l’ha per il
documento di dotazione del monastero di S. Spirito da parte della madre di
Federico II Chiaramonte, Marchisia Prefolio. L’illustre storico, quel documento
segnato dall’Inveges con tanti elementi indicativi, non riuscì a trovarlo né
nei citati archivi del vescovado e del capitolo di Agrigento e neppure tra le
pergamene del monastero di Casamari, «che, a stare al testo del doc., ne
avrebbe ricevuto copia.»
[8] )
ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni
1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181 -
[9] )
Giuseppe Picone - Memorie storiche agrigentine - Agrigento 1982 - pag. 479.
[10] ) Chronicon Siculum = Anonimy Chronicon
Siculum ab anno DCCCXX usque ad MCCCXXVIII (...) et ad annum usque MCCCXLIII, in Bibliotheca, II, pp. 107-267. Giovanni,
Matteo, [Filippo] Villani, Cronica,
ed. di Firenze 1823-1825 (Margheri), in 8 voll.
[11] )
A.S.P., Notai, I, 117 - Bartolomeo de Bononia, (ff. 71r-73r dell’8.6.1345, 105r-106r
del 13.5.1345 e atti allegati non registrati).
[12] )
Domenico De Gregorio - Cammarata, Agrigento 1886, pag. 127. Il colto studioso
anota: «il Fazello parla di Manfredi: “venne intanto il re Ludovico a Camerata
al governo della quale era Manfredi Doria il quale era stato fatto anche
ammiraglio, essendosi estinta la contumacia di Ottobon suo fratello” [Fazello
o.c. p.475]». Sottolinea le opposte tesi degli altri storici di Cammarate
e, dubbioso, soggiunge «forse la cosa potrebbe risolversi
ricorrendo all’uso di nominare dei governatori in nome del vero signore, forse
allora Manfredi era governatore e castellano di Cammarata a nome del fratello
Corrado.» Per la genealogia dei Doria, noi abbiamo seguito - acriticamente - il
Picone.
[13] ) G. A.
Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola - Cenni
e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
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