LA STORIA DI RIESI - DALLE ORIGINI AI NOSTRI GIORNI di Salvatore Ferro BODY SALVATORE FERRO
LA STORIA DI RIESI
DALLE ORIGINI AI NOSTRI GIORNI
CALTANISSETTA
PREM. TIP. SALVATORE DI MARCO
1934 - XII
Stampa intera opera
INDICE DETTAGLIATO
CAPITOLI
Biografia di Salvatore Ferro
IScopo del libro
III feudi di Cipolla e di Riesi
IIILe investiture
IVtentativi di un casale
Vi magazzini – la parte intellettuale o i dirigenti – il
palazzo – la prima chesetta - le feste
VIgiudicato – caserma e carcere - municipio
VIIla chiesa della madrice – la baronia – delineazione del
borgo
VIIIfesta della madonna e di natale dal 1650 al 1700
IXla vecchia chiesa del rosario – le confraternite
Xil 1700 – clero e popolo – i conventi
XIi grandi massari, civili
XIIdal poeta contadino settecentista croce cammarata
XIIIla nuova chiesa del rosario
XIValtre grandi case di ricchi
XVla prima miniera di zolfo, buon andamento
XVIl’ 800
XVIIlo zolfo - la vigna
XVII bisfatti – lotte religiose
XVIIIla chiesa di san giuseppe – il colera del 1837
XIXla societa’ segreta – lotte politiche
XXil 1848
XXIMiseria e filantropia – colera del 54 – Aspettando, i
liberali si fortificano
XXIIil 1860
XXIIIla liberta’ – come dalla notte al giorno – i primi
sindaci dei nuovi tempi
XXIVil sindaco janni – colera del 67 – morte del quattrocchi
XXVil protestantesimo a riesi fin dal 1871
XXVI seguitando la vita del sindaco janni – la causa con la
baronia – il processo – condanna - morte
XXVIIsindaco l’avv. don pietro d’antona
XXVIIIla filossera
XXIXla disgrazia della miniera grande di sommatino
XXXil partito liberale dei pasqualino, del poeta Dr. don
carmelo lo stimolo
XXXIl’800 – la nuova vittoria del partito liberale dei
pasqualino
XXXIIscioglimento del consiglio comunale – R.commissario l’ex
prefetto debilio
XXXIIIla nuova amministrazione comunale sindaco in cav.
carmelo inglesi
XXXIVlo “stato di assedio” - 1894
XXXVl’arresto del cav. ingLesi - sindaco l’avv. p. di
benedetto – l’acqua potabile – causa degli usi civici –
sentenza favorevole
XXXVIl’avv. G. carlo golisano sindaco – il primo centenario di
garibaldi solennemente festeggiato
XXXVIIdal Cav. Inglesi, di nuovo sindaco a don luigi d’antona
XXXVIIIil suffraggio universale – caduta del potere d’antona –
vittoria strepitosa degli operai con a capo pasqualino
XXXIXuomini insigni e uomini grandi del secolo XVIII alcuni
dei quali vissero nel nostro secolo XIX
XLil senatore antonono d’antona
XLImafia e delinquenza
XLIIgravi delitti
XLIIIgli scioperi
XLIVla grande guerra
XLVla “spagnuola”
XLVIil bolscevismo
XLVIIla mitragliatrice (famosa repubblica riesina)
XLVIIIil fascismo
XLIXsindaco il com. G. c. golisano – il ritiro – giuseppe
martorana – la luce elettrica – vittoria del fascismo – il
com. d’antona sindaco
XLIX bisdai sindaci al podesta’
Lun commissario prefettizio modello
LIla ferrovia - mentre scriviamo, terminando
Biografia di Salvatore Ferro
Nacque nel 1870 da Francesco e da Maria Matera. Colpito da paralisi
infantile, era costretto a camminare con la gamba sinistra
claudicante e il braccio dello stesso lato tenuto teso all’insù e
con la mano immobile curvata al contrario. Per la menomazione del
suo fisico non gli fu possibile imparare il mestiere del padre e del
fratello Vito entrambi calzolai; avendo frequentato la locale chiesa
Evangelica Valdese, mercé l’assistenza e le lezioni che gli venivano
impartite dal pastore Giuseppe Ronzone, riuscì ad avere una discreta
cultura che gli consentì di trascorrere una vita comoda anche se a
volte raminga. Lo chiamavano "Maestro Ferro", ma per non confonderlo
con l’altro maestro Ferro che insegnava nelle scuole comunali,
veniva distinto col nomignolo "Manuzza" per la menomazione della
mano. Frequentando assiduamente la chiesa valdese, da quell’istituto
ebbe nel 1902 il primo incarico come insegnante della terza classe
elementare, ove in quell’anno lo scrivente fu uno dei suoi alunni.
Alla fine di quell’anno scolastico ebbe l’incarico di recarsi in
Svizzera e propriamente a Ginevra e da quella città a Genova: Nel
1907, come colportore da quello stesso Istituto fu mandato in Egitto
per vendere la Bibbia, libri del Vecchio e Nuovo Testamento con
testi Evangelici valdesi. Colà ebbe l’occasione di girare la città
di Alessandria, il Cairo e quasi tutte le località ove regnarono i
Faraoni. Nel mese di febbraio del 1920 lasciò l’Egitto e imbarcato
su un battello, dopo un lungo e pericoloso viaggio sul mare
Mediterraneo, riuscì ad approdare a Siracusa e di là poté proseguire
per Catania. Si recò poi a Grotte e da qui, come egli ebbe a
descrivere nel suo libro Nell’Egitto antico e moderno fu
"trabalzato" nell ‘Abruzzo-Molise. Avido di girare, accettò ancora
una volta l’incarico di colportore per conto della Società Biblica
Britannica e Foresteria con sede a Livorno il cui Presidente
onorario era il Principe di Galles erede al trono inglese. Scopo di
quella società era di far conoscere e vendere in tutto il mondo i
libri della Sacra Scrittura protestante tradotta in tutte le lingue.
Stanco di girovagare e per l’avanzata età, abbandonò ogni cosa e se
ne tornò a Riesi "per potere ritrovare il bel sole, gli amici e il
lavoro delle piccole lezioni" da impartire agli alunni privati.
Scrisse il suo primo libro Nell’Egitto antico e moderno edito nel
1932 e poi l’altro La storia di Riesi dalle origini ai nostri giorni
pubblicato nel 1934 e cioè dopo che poté raccogliere i fondi
ricavati dalla vendita effettuata dal suo primo libro. Per la
compilazione del suo secondo volume s’era avvalso delle notizie che
aveva potuto apprendere dai suoi parenti che ebbero lunga vita
terrena. Egli non si sposò, rimase con la mamma finché visse costei,
poi abitò a casa di sua sorella ove morì l’8 novembre 1942.
NOTA
Biografia copiata dal libro "UOMINI, FATTI E ANEDDOTI NELLA STORIA
DI RIESI" di Luigi Butera
Cap. I
Scopo del libro
Lo scopo per cui scriviamo questa pagine, è semplicemente quello di
far conoscere ai lettori le vicende più o meno storiche del nostro
paese, di Riesi, rintracciandone le origini narrandone la storia,
fornendoci di notizie, raccolte or qua, or là; siccome abbiamo
promesso, ci azzardiamo a pubblicare “La storia di Riesi” sperando
che possa essere bene accetta.
Sotto l’impulso di questo desiderio, sotto questo punto di vista,
nel narrare tutto ciò che sappiamo intorno al nostro paese, facciamo
assegnamento non solo sulle nostre povere forze, ma su ciò che ci
hanno detto e ci dicono gli altri. Per tradizioni udite, per
informazioni assunte, per ricerche fatte, siamo riusciti a sapere
qualche cosa: speriamo quindi che la nostra fatica non sia stata
vano. Se il fine però è buono, i mezzi, come appresso si vedrà, sono
scarsi.
Riesi, essendo uno degli ultimi paesi nuovi, anzi nuovissimo della
Sicilia non ha un vecchio Castello feudale, come ce ne sono tanti
negli altri paesi che ne attestano la paternità e il nome di
battesimo; non ha monumenti che indicano lo scopo per cui fu
fondato; non ha documenti, manoscritti di sorta onde poggiarsi.
Insomma Riesi non ha una vera e propria storia con la quale potere
narrare i fatti accaduti nelle diverse epoche: tutto questo lo
abbiamo architettato noi a furia di congetture. Gli è vero che il
Giusti dice che — i1 fare un libro è meno che niente, — ma noi
confessiamo di non essere all’altezza di tanto; tuttavia lo
facciamo, implorando la benignità del lettore. La storia è la
maestra della vita, ma essa va soggetta alla critica, la quale se è
ben fatta, porta buon frutto; ma se è mordace, fa più male che bene.
Trattandosi di un paese come Riesi, è bene che la critica ci sia, e
noi l’accoglieremo col beneficio dell’inventano bene inteso, va da
se; ma col fermo proposito di migliorare quanto diciamo.
Incoraggiati, sorretti da questo sentimento, ci facciamo lecito
stampare quanto diciamo, poiché queste pagine ci sono state
suggerite di scriverle per fare un’opera buona per il nostro paese;
del resto chi ne sa più di noi, faccia meglio.
I paesi non nascono come i funghi che si trovano or qua, or là non
seminati ma essi hanno bisogno di essere ricercati, coltivati e
sorretti. Noi quindi dobbiamo prima di tutto attingere, ricercare
delle notizie per sapere come e quando nacque il nostro paese;
secondo, chi sono stati i padroni; terzo, chi furono i primi
abitatori; quarto, lo sviluppo e lo accrescersi della popolazione;
quinto, gli uomini di genio e i grandi che onorarono ed onorano il
nostro paese; sesto, le lotte religiose e politiche, politiche e
religiose, per cui Riesi è diventato un paese scettico in fatto di
Religione; settimo infine il miglioramento, il progresso fino ai
nostri giorni. Nel compilare il presente libro, ringraziamo tutti
coloro che ci hanno dato una mano di aiuto, specialmente l’attuale
nuovo Parroco Rev. Cav. Ferdinando Cinque da Barrafranca, il quale
ci è stato largo di aiuto, mettendoci a disposizione l’archivio
della chiesa Madre.
Per sapere le origini di Riesi e chi furono i padroni di queste
terre, nelle quali si fondò il nostro paese, ci serviamo del libro
dell’avv. Don Gaetano Pasqualino Pasqualino con Il diritto nella
storia; faremo conoscere in seguito lo accrescersi della popolazione
mercé la chiesa Madrice per le nascite, i battesimi, matrimoni e
morti, non che del Municipio per le nascite e i morti di date
recenti, poiché i. Registri cominciano dal 1820; l’aiuto della Casa
Fuentes non ci è mancato in parte; circa la storia raccogliamo quel
che abbiamo saputo dagli antenati, dai nostri nonni,, dai nostri
padri, i quali per tradizioni avute, ci fecero sapere quel tanto che
ci è necessario; il progresso infine lo si è visto, lo si vede tutti
i giorni.
Dobbiamo dire ed inoltre fare osservare fin da principio che il
nostro paese essendo un paese interno della Sicilia, isolato, che
non ebbe nel passato mezzi di comunicazioni celeri, ha sempre fatto
da sè, progredendo. Come una pianta di giglio che in un vasto campo
attorniata di spine, lotta ed emerge, così si può paragonare il
nostro paese. E difatti fra le innumerevoli difficoltà della vita
stentata del popolo, si è riusciti a formare un paese simile agli
altri paesi della Sicilia; anzi, diciamo di più: oggi è un paese
degno del consorzio civile, invidiabile per la sua posizione, il
benessere e l’attività dei suoi figli. Nacque povero, ma a furia di
sacrifici, di lavoro, di miglioramenti, siamo giunti a questo punto.
Tutto ciò lo vedremo man mano che si presentasse l’occasione; per
ora diciamo che ogni riesino, dovrà conoscere l’origine e la storia
del suolo nato per vedere chi fummo, chi siamo; che ci insegna la
storia, la nostra storia. Chi n si interessa del proprio paese? chi
non ama la storia? Essa ci diletta, facendoci ripetere col poeta:
Il più bello di tutto il Creato
È il paese dove sono nato;
Qui ogni santa memoria s’aduna,
Ogni fiore e ogni beltà;
Qui di fiori ebbi sparsa la culla,
I miei padri qui sepolti stan.
Se l’uccello ama il suo nido, se le fiere amano le loro tane,
l’uomo deve amare il suo proprio paese; e l’amerà ancor più
apprezzandone i meriti per mezzo della storia, la quale ha per scopo
di farci conoscere i fatti accaduti e ce li poni innanzi per il
nostro ammaestramento. E i fatti che sono accaduti a Riesi, fin dal
principio della sua fondazione, sono tanti e tali che sono degni di
rilievo. Peccato che essi fatti non siano stati tutti registrati
epoca per epoca e noi ne ignoriamo una gran parte Però ci atteniamo
quelli che ci sono noti e crediamo che bastino per informare i
lettori di quanto si dice di Riesi, mettendoci al corrente del
passato.
Questo e non altro è lo scopo del nostro libro che ci è costato
tempo e fatica. Noi lo pubblichiamo sperando che ci si venga in
aiuto alle spese della stampa che ancora oggi costa cara; e facciamo
dei sacrifici, pur di avere un libro che ci parli della nostra
storia. La nostra divisa è: Dire il bene, ovunque si trova,
lasciando il male. Ciò posto incominciamo a vedere anzitutto
l’origine, il principio di Riesi, dando uno sguardo retrospettivo
alle terre che formano l’oggetto del nostro lavoro.
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Cap. II
I feudi di Cipolla e di Riesi
La prima cosa, che fa risaltare agli occhi di tutti, il nostro Don
Gaetano Pasqualino Pasqualino nel suo libro che a noi qui ci serve
di scorta è di sapere che Riesi e Cipolla, furono in antico, due
grandi feudi interni della Sicilia, la quale, diciamo noi, passata
dalla dominazione dei Saraceni agli altri governi, i sopra detti
feudi furono abbandonati a se stessi, senza che per lungo tempo, e
prima delle fasi del feudalismo, fossero cercati da alcuno.
Ignoriamo completamente donde derivano i nomi di Riesi e Cipolla,
perché tramandati dall’oscurità dei tempi. Giova pertanto sapere che
detti feudi molto distanti da Palermo, lontani da Caltanissetta e
dagli altri paesi vicini, come Butera, Barrafranca, Mazzarino,
Pietraperzia, Sommatino e Ravanusa; traversati dal fiume Salso, non
furono le terre cercate ne dagli Stati di allora, nè da singoli:
sicché erano delle terre incolte, che neppure forse, vi pascolavano.
mentre quelle dei su mentovati paesi, nei territori, erano
beneficate. Nessuno quindi vi penetrava. perché sconosciute al
demanio dello Stato: perciò possiamo dire, anzi affermare che Riesi
e Cipolla erano in preda dei lupi, i soli padroni. crediamo noi. Si
crede però, ed è probabile, che qui vi furono gli arabi o i
Saraceni, i quali regnarono in Sicilia due secoli e mezzo, dall’ 831
av. C. al 1072, epoca nella quale Ruggero il Normanno li cacciò via.
Essendo essi popoli nomadi, si sparsero dappertutto nell’isola;
stabilendosi or qua, or là, ebbero a ridursi anche da queste parti.
Vuolsi che sulla collina della Capreria fosse esistito un villaggio
arabo, i di cui abitanti invasero il territorio, come rilevansi da
alcune grotte dai ruderi di terra cotta, dai cadaveri che si sono
trovati, scavando in diversi punti; cadaveri che mostrano come erano
seppelliti in sarcofaghi di mattoni coi loro riti e costumi. Ad onor
del vero i Saraceni con la loro presenza non ci fecero del male,
anzi ci lasciarono le tracce della loro civiltà. E difatti ci
coltivarono le terre, ci importarono le piante di olivo, del
carrubo, del mandorlo, i fichi d’india e persino la palma che non
frutta. In prova di ciò si crede che i due boschi di olivi e
pistacchi nei territori di Riesi e Cipolla, siano stati opera dei
Saraceni; come credesi pure che l’arte di lavorar l’argilla, viene
da loro: inoltre al punto denominato la Sanguisuga esisteva una
fontana con una cupola di gesso detta Cubba. Ora la parola Cubba è
parola araba e significa luogo d’acqua abbondante. Spazzato via
questo di mezzo, che abbiamo voluto narrare sui Saraceni, ritorniamo
sui nostri passi. Venuti in Sicilia dopo i Normanni gli
Austro-spagnuoli, eccoci alle investiture dei due feudi in parola
Riesi e Cipolla, non ricercati, abbandonati, per cui il Pasqualino
si afferma storico ricercatore. Pria di andare avanti, è bene dire
due Parole qui intorno alle investiture, per avere un’idea circa il
feudalismo e le tali investiture che giunsero fino a Riesi. Entrato
Carlo Magno in Italia nel 1100, costui da Imperatore francese,
assoggettata tutta la penisola a sè, istituì nei Comuni il
feudalismo, dividendo le terre ai signori più furti. Nato il
feudalismo dalla proprietà, ne vennero fuori i principi, duchi,
marchesi e baroni coi loro castelli e i vassalli che erano i poveri.
Mentre i signori erano tutto, i vassalli erano niente: dovevano
ubbidire ai loro padroni, lavorando la terra, pagando le tasse,
senza nessun privilegio con tutti i loro doveri e dovevano star
zitti. I vassalli perciò erano dei diseredati della fortuna, i
signori erano dei privilegiati. Essi, profittando della legge, del
tempo e dell’oscurantismo, commettevano ogni sorta di abuso. La
Sicilia seguendo tale sistema divenne feudalista. Principi, duchi,
marchesi, baroni divennero feudalisti in virtù delle Investiture,
cioè della divisione delle terre ed è perciò che si fabbricarono dei
Castelli, ed è per ciò che dominavano nei loro territori sopra i
vassalli. Questi tigli della disgrazia generavano dei poveri coloni,
atti a coltivar la terra, senza nessun profitto, salvo quello di
mangiare e vivere stentatamente, nuotando nella miseria. Anco gli
operai erano soggetti ai padroni del feudo, vivendo senza i diritti
dell’uomo. E questo stato di cose durò tutta la lunga notte del
Medio Evo. A dir la verità i coloni di Riesi non conobbero tutte le
brutture del feudalismo che permetteva persino le primizie dei
padroni nei matrimoni; salvo qualche abisso o sopruso degli
amministratori locali, del campiere o di qualche signorotto che
approfittavano del tempo e della carica; a Riesi di grave, di
positivo, per quanto sappiamo, non ci fu nulla. Epperò è giusto
notare anche che le investiture per i feudi dì Riesi e Cipolla,
giunsero con ritardo qui. Fatta questa considerazione, rivolgiamoci
dunque alla storia allo scopo di apprendere chi furono i possessori
di queste terre. Da ciò vedremo lo svolgersi delle diverse
investiture dei diversi governi concedenti le dette terre a coloro
che l’hanno posseduto, facendone l’uso di cui si vedrà appresso.
Siccome furono concessi a dei padroni stranieri, così da
lontano,l’hanno fatto amministrare.
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Cap. III
Le investiture
Nel libro sul diritto nella storia, del dotto, vecchio avvocato
Sig. Gaetano Pasqualino Pasqualino, mancato ai vivi il 4 Giugno 1931
alla bella età di 82 anni, libro che scrisse a proposito della
Rivendica degli usi civici a favore della popolazione di Riesi nel
la causa contro i principi Pignatelli-Fuentes con azione privata di
singoli cittadini, formando la Società di Resistenza poscia assieme
al Comune, nel detto libro adunque troviamo la base, si può di re,
del nostro lavoro per le investiture di Riesi e Cipolla; con le
quali investiture si viene a capo di quanto vogliamo sapere circa
l’origine della proprietà che diede luogo al nostro paese. Con
questo suo interessante, pregevole lavoro di interessanti ricerche,
il Pasqualino ci fa conoscere le date e i nomi : le copiamo
acciocché i lettori ci seguano.
Secondo lui la prima investitura di Riesi e Cipolla, avvenne neI
1393 dal re Martino I°, che noi sappiamo essere venuto in Sicilia
nel 1394 dalla Casa Aragona (Spagna), Egli concesse questi due
grandi feudi a certo Federico Moac, spagnolo col titolo di Baronia.
Però stando al Pasqualino, lo stesso Re Martino tolse i due feudi
alla moglie del Moac, rimasta vedova, e li concesse a Palrmerio De
Caro, un soldato di Licata, per servizi prestati allo Stato. Ciò
“per ragioni politiche”.
Ma — sempre dietro la scorta del Pasqualino — gli eredi della
signora Ventimiglia dopo 56 anni, cioè nel 1453, reclamarono i loro
beni e ne ottennero l’investitura da Simone Bologna, Presidente del
Regno.
Andrea Ventimiglia perciò — seguendo il diritto nella storia — fu il
possessore dei su mentovati feudi. Alla morte di costui, siccome non
aveva figli, la proprietà passò al nipote Ingastone di Castellar, il
quale dovette ricorrere in Tribunale, perché dalla Regia Corte gli
si negava tale diritto; ma la Regia Magna Curia gli diede ragione e
nel 1476 ne ebbe l’investitura.
Il detto Ingastone di Castellar — continua a narrar l’A.— sposando a
Roma Donna Giovanna di Lanuzza, ebbe per figlia unica Eleonora, la
quale andò sposa a Don Giovanni De Roys de Calcena che ebbe in dote
i feudi di Riesi e Cipolla per la investitura del 1505.
E dopo venne la volta — informa Don Gaetano — di Don Pietro Altariva
che fu investito nel 1621, quale erede unico di Anna de Urries, la
quale morendo lasciò come erede universale sua figlia Beatrìce
Altariva Urries.
Costei sposò Don Diego Moncaio che fu investita nel 1607.
A lui gli successe il figlio primogenito marchese dì Coscoquela che
nel 1609 possedette i due feudi.
Indi passarono nelle mani dì Donna Francesca Heredia Ventimiglia per
rinunzia fattale dal padre nel 1737
Finalmente — conclude il nostro maestro e Autore — nel 18 Agosto del
1742 passarono a Dan Giovanni Pignatelli d’Aragona, principe,
primogenito di detta donna.
Fin qui a dunque il nostro Pasqualino che continueremo a citare.
Come si vede i proprietari di queste terre sono stati i principi
Pignatelli-Fuentes d’Aragona.
Questa potentissima, ricchissima famiglia viene da un incrociodei
nobili principi di Napoli con conti di Fuentcs, influenti signori di
Spagna, come leggesi nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni del
i6oo. Il duca di Solferino, uno degli eredi della predetta famiglia,
ci fa sapere che i suoi antenati furono dei guerrieri che
combatterono in Italia, specialmente contro i Mori; ed è per questo
motivo che hanno dei possedimenti a Cerignola (Puglia) e a
Solferino (Lombardia) Detta famiglia adunque è molta antica: nessuna
meraviglia, se in Sicilia ebbero tanti possedimenti, tra cui Riesi e
Cipolla.
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Cap. IV
tentativi di un casale
I primi possessori di queste terre, trovandosi nella Spagna, vi
mandarono qui dei Campieri, i quali facevano sorvegliare i su
menzionati feudi, facendoli coltivare come meglio potevano e
credevano: appresso vi mandarono degli Amministratori per rendersi
conto dei loro averi. Nei primi tempi il raccolto dovette essere
scarso, perché ci volle un po’ po’ di tempo per dissodare le terre
ed avere i confini. Sul vasto territorio poco alla volta cominciò a
delinearsi, a migliorarsi e a produrre; i proprietari, sebbene da
lontano, ne tennero conto, tanto vero questo che, come abbiamo
visto, la proprietà se la passarono di mano in mano nei matrimoni.
Ma non contenti di ciò, vi volevano far sorgere un Casale per meglio
amministrarla ed avere l’onore di possedere un abitato in questi
luoghi per contare di più presso i! governo spagnolo.
Avutola in dote il De Roys de Calcena, questi pensò di mettere mano
all’opera per un Casale nel feudo di Riesi allo scopo di concentrare
l’amministrazione diretta ed avere dei vassalli. E ciò in virtù d’un
privilegio accordato dal re Ferdinando d’Aragona, presso il quale
era impiegato come Segretario e che gli concedeva pure di
fabbricarsi un Castello all’uso dei tempi come risulta dal libro del
Pasqualino.
Il De Roys fece chiamare dei contadini a Riesi per lavorare anche a
Cipolla. Bisogna considerare che dopo la Casa d’Aragona, venne a
regnare in Sicilia la Casa d’Austria e Spagna. Siamo quindi al tempo
di Carlo V, 1500. Questo Imperatore ordinò di fabbricarsi il primo
ponte sul Salso, precisamente a Capodarso su due serre, detto “il
ponte del diavolo” per congiungere le terre di Caltanissetta,
Pietraperzia e Riesi; e un’altro ponte consimile doveva sorgere da
quest’altra parte del Saiso, a Tallarita con la serra dell’Aquila e
quella di Palladio con in mezzo un pilastro, detto “il Bastione di
Carlo V” che esiste tuttora, per congiungere le terre di Ravanusa
con queste di Riesi; ma esso ponte rimase all’inizio e non ne
sappiamo il perché: forse rimase in asso, perchè si cominciò più
tardi dopo la morte dell’ Imperatore.
Ad ogni modo il De Roys fu sotto buoni auspici per il suo Casale di
Riesi. I coloni di questa prima impresa — afferma il nostro
concittadino — si stabilirono a ridosso della collina santa Veronica
che noi chiamiamo “la montagna” e precisamente di fronte alla
Capreria dalla parte nord-ovest, dove a basso c’è il vallone di
S.Giuseppuzzo e il Margio; cosa che a quei tempi, ci fa supporre,
esservi acqua abbastanza.
Ad ogni modo il Casale sorse li. Una canzone contadinesca che si
accompagna con lo scacciapensieri, lo strumento tradizionale dei
nostri contadini, rispecchiando quei tempi e questi luoghi, nella
nenia si esprime proprio così;
Ci vo’ vaniri dda-banna Riesi,,
Unna cci su pagliara comu li casi
E d’intra ci su picciutti comu li rosi
Il che significa che il lavoro e l’amore attirarono altri a venire
da quella parte della collina “cci su pagliara comu li casi” vuoi
dire che il Casale per lo più era formato di pagliaia; che gli
abitanti, i primi abitatori di quell’epoca si accontentavano di
vivere in quella maniera, zappando la terra dei de Calcena, la cui
moglie Eleonora di Castellar di Lanuzza, si disse che desiderava,
spronando il marito avere non solo il Casale, ma eziandio il
Castello.
Crediamo che i primi ad arrivare in detto luogo furono i
pietrini(Pietraperzia), perché più vicini; poscia furono quei di
Caltanissetta e forse dalle parti di Palermo, giacchè ne avevano
avuto sentore a mezzo del ponte di Capodarso. E’ da supporre che il
nascente Casale nacque nei primi 25 unni d ‘500 e che si andava
formando.
Le famiglie però vivevano in continua agitazione per due ragioni;
prima, perché in mezzo ai lupi che infestavano le campagne, gli
abitanti privi di mezzi e senza armi nei boschi, non potevano
difendersi; secondo, li vagavano i Saraceni che andavano di notte
rubando i bambini col motto: “dove c’è fumo c’è cristiani”; motto
che si spiega col fatto che vedendo fumo nelle case e nei pagliari,
si avvicinavano per la preda. Essendo Riesi nella zona marittima di
Terranova, oggi Gela, era facile un simile caso.
Il Casale però non durò a lungo, si distrusse, non sappiamo quanto
durò, ne come e perché si distrusse, Don Gaetano ammette la malaria
ed altre cause che non spiega, qualcuno crede che vi sia stato un
terremoto: fatto sta che gli abitanti fuggirono e il feudo restò
deserto.
Nello arare la terra sabbiosa dietro la montagna si son trovati le
vestigia del distrutto casale tra masserizie, oggetti di terra cotta
e persino, si disse, le fondamenta di una chiesuccia. Nella oscurità
dei tempi in cui vissero quei primi abitatori, non ci permettono di
fare dei nomi, ne di andare più oltre.
Un altro tentativo riuscito più fortunato, di cui parla a lungo il
Pasqualino, del secondo Casale di Riesi, fu quello invece di Don
Pietro Altariva, “dopo 135 anni” . Di origine italiana, (i) egli,
dopo la di lui investitura ottenne il decreto dal viceré di Sicilia,
Filippo III° d’Austria di ripopolare il distrutto casale di Riesi, e
di esercitare sugli abitanti “il mero e misto impero”. A tal uopo
l’Altariva nel 1634, fece fare dal suo amministratore Cristoforo
Beninati, l’invito ai contadini degli altri paesi, concedendo loro
larghi privilegi, e cioè: le terre in gabella o a censito perpetuo,
col canone da pagarsi sul luogo; il diritto di legnare, gessare,
raccogliere erbe, lumache e di estirpare la liquirizia sulle rive
del fiume: insomma i diritti d’uso civico o promiscui.
Pare accertata la data che il nuovo Casale di Riesi cominciò nel
1612, perché si fece una masseria laggiù al Canale. Stavolta i nuovi
arrivati si collocarono ivi, da questa parte di fronte a santa
Veronica dove c’era molta acqua, sulla parte rocciosa nelle
vicinanze del Margio. Indi sorsero le prime casuccie povere, basse,
attorno alla masseria, alla meglio; i pagliara, le grotte, onde
ripararsi i contadini dal caldo e dal freddo. La vecchia canzone si
ripete anche qui e i contadini che venivano lavoravano la terra, che
è la gran madre di tutti, affezionandosi al suolo sotto la guida dei
campieri vi si stabilirono. Onde scansare la malaria si
allontanavano dal Margio, salendo in su sulla pietra e aumentavano.
La prima viuzza stretta, ripida a zig zag con l’agglomeramento delle
casuccie, nacque sull’altura di giù in su, dove ora c’è il Cinema
teatro: col nome di Donna Ciucella, da una donna faccendiera,
residente ivi. Come osservasi il neo Casale si andava formando con
altre vie più o meno larghette e lunghette dalla destra della parte
montuosa, giungendo fino alla Pietra piatta. Ivi sorsero due vie
larghe, una diritta in su, l’altra a sinistra verso la campagna con
un agglomeramento di famiglie numerose.
A prima vista credevasi che dovessero fermarsi la, ma l’abitato
cresceva mercé la prolificazione e altri nuovi arrivati, di guisa
che te casuccie aumentavano nei dintorni sulla pietra a venire da
questa parte; i coloni si sentivano più sicuri stando uniti in
quartiere.
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(I)Parma di Piacenza, prof. Gravina, Araldica
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Cap. V
i magazzini – la parte intellettuale o i dirigenti – il palazzo – la
prima chesetta - le feste
In quel primo momento l’amministratore dei feudi fece fabbricare per
conto della proprietà, ai piedi della montagna i magazzini per la
raccolta dei cereali e delle olive e un trappeto per la macinazione
onde avere l’olio: i primi furono fatti dove c’è la Flora dei Jannì,
il secondo nella straduzza di Donna Ciucella. Successivamente a ciò
vennero i due fratelli Rubbios dalla Spugna, uno dei quali nella
qualità di amministratore, l’altro per prendere delle terre a
censito. Essi, possedendo numerosi animali impiantarono una grande
masseria. Si fabbricarono il palazzo alla punta dell’altura, d’una
nuova via che va verso il poggio ove da una parte e dall’altra
sorsero delle casette, divenendo la via dei Rubbios lunga e larga.
La casa sorse coi balconi e delle camere sui dammusi; un gran
cortile aveva magazzini e stalle. Dentro il salone sontuoso fu un
lustro; al disopra fecero mettere lo stemma della loro famiglia.
Erano tanto ricchi i Rubbios che a quel tempo prestavano della
moneta al Municipio di Caltagirone. La prima piazzetta sorso avanti
la casa, duve i contadini coloni si riunivano la Domenica sera per i
loro affari coi signori Rubbios. Questa famiglia poi si apparentò
coi Golisano che furono dei primi massarotti, i quali incominciarono
a fiorire, ed erano venuti da Ravanusa. Dopo Venne uno dei baroni
Camerata di Piazza Armerina che stabilitosi qua prese a censito
tutte le terre che dalla montagna vanno a tutto Castellazzo. Messa
su casa, la famiglia si fabbricò il così detto altro palazzo
sull’altipiano del Crocifisso, composto di quattro camere, i dammusi
ed un cortile che dà alla Pinninata e all’altra via che scende pure
al canale. I Cammarata erano qui di dei nobili parenti con quei di
Butera. Appresso Venne certo Don Costantino Sanfilippo di Agira,
prov. di Catania. Ricco e intellettuale personaggio si stabili dalla
parte del Canale in su fabbricandosi delle camerette per la sua
famiglia, coltivandosi delle terre. Egli fu il primo borgomastro di
Riesi, cioè il Sindaco. Visto cosi la proprietà fece erigere la
prima chiesetta. sull’altipiano accanto ai Cammarata. Essa cominciò
a servire di Madrice, facendo Venire un prete da Mazzarino. Ma la
chiesetta trovando il terreno frollo, si diroccò subito. Allora
l’amministratore e i pochi, ricchi, i primi massarotti, pensarono di
far fabbricare la chiesetta del Crocifisso accanto alla diroccata .
E’un errore il credere che la prima chiesa sia stata quella del
Crocifisso, essa fu la seconda che servì poi di Madrice. I muratori
che la fabbricarono furono due fratelli Giambarresi, Daniele e
Salvatore, venuti da Modica, provincia Ragusa. Di piccola
dimensione, bassa venne di stile semplice con due merletti e due
entrate a scaloni. L’interno misura 24 metri di lunghezza con 7 di
larghezza, pari a mq. 148. Sotto. pavimento è vuoto per la fossa dei
morti; in fondo l’altare maggiore presenta l’aspetto d’una chiesetta
di campagna e di fronte ha l’organo: le pareti imbiancate a Stucco
mostrano quattro quadri e al disopra un cornicione. La piccola
Sagrestia l’abitazione del sagrestano di dietro indicano che la
chiesetta fin dal 1630 cominciò a funzionare bene; campanile e
campane non ce n’erano fino ai principio del i8oo. Aperta al
pubblico, nella piazzetta detta il piano, il sagrestano suonava una
Campanella a mano indicando l’ora della messa e le feste solenni.
Questa chiesetta che fu dedicata al Crocifisso serviva di Madrice
nei battesimi, matrimoni e sepolture. Il proprietario dei feudi vi
mandò in regalo un Cristo di avorio che è stato giudicato d’una
bellezza artistica. La festa del Crocifisso si cominciò a celebrare
ogni anno la seconda Domenica di Ottobre con la processione dal
piano del Crocifisso al palazzo Rubbios nell’ora del Vespro. Il
prete mazzarinese, visto che la festa era riuscita, fece balenare in
mente di celebrare l’altra festa principale di Pasqua con la
processione del Venerdì Santo. Allora una croce di legno fu piantata
su un piedistallo di gesso, laggiù al Canale avanti i magazzini. La
processione si faceva col prete alla testa, molti uomini con una
tovaglia di bucato al collo e le candele a olio, dette lumiere in
mano: solo in quella occasione le donne uscivano di casa, nella
primavera stagione dei fiori. La processione prendeva il piano,
passava dalla Casa dei Rubbios e se ne scendeva al Canale per la
Petrapiatta; al ritorno prendeva dall’altra Parte del Canale e
saliva in chiesa. Così ci sono state descritte le due feste. Il
Canonico Vincenzo D’Amico, nella sua pianta topografica della
Sicilia, vi annovera 400 case come si diceva allora nel feudo Casale
di Riesi, il che fa circa 2 mila abitanti.
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Cap. VI
giudicato – caserma e carcere - municipio
Il Governo di allora in Sicilia, informato di questo nuovo
villaggio, impose di istituire il Giudicato per la giustizia la
Caserma per le guardie e il Carcere per i rei. L’amministrazione
locale dell’Altariva, d’accordo col borgomastro provvidero a ciò,
prendendo i locali al piano del Crocifisso.
Per il Giudicato presero una cameretta dei Cammarata con l’entrata
dal cortile; Caserma e Carcere in due case terrane dello stesso
cortile di proprietà degli stessi Cammarata.
Il primo Giudice venuto a Riesi, fu un certo Liberto Gueli di
distinta famiglia da Mazzarino; come Cancelliere venne un certo
Antonino Ministeri da Noto (Siracusa), trascinandosi da Usciere Don
Angelo Ministeri proprio parente. Tutti e tre questi signori si
stabilirono a Riesi, prolificando, progredendo, tanto da diventare
proprietari. Il Giudice si fabbricò delle casette a pianterreno più
in giù del piano; il Ministeri una casetta al piano, dopo i
Cammarata e l’Usciere delle casette a basso verso il Canale.
Oltre le guardie, delle quali non sappiamo precisare il nome, i
Campieri della proprietà erano autorizzati ad arrestare i ladruncoli
nelle campagne e condurli legati con corda in carcere. Tutto era
concentrato quindi al piano del Crocifisso. in un libretto
pubblicato dalla Casa dei principi Pignatelli Fuentes, anni fa, sono
elencate alcune casette di villici con sentenze emesse dal
Giudicato. Cosi un tale per aver rubato una zappa fu condannato a
tre giorni di carcere e un franco di multa; fra due rissanti a 5
giorni; un marito per avere maltrattato la moglie a un giorno. La
punizione era pane ed acqua all’oscuro. Il Corpo delle guardie stava
a sorvegliare i condannati di giorno e di notte. Esisteva fino al
1850 la sedia del Giudicato, fatta venire da Licata; sedia ereditata
dai Cammarata, sedia a braccioli in legno.
Il borgomastro in seguito affittò una cameretta dai Ministeri per la
sede del Municipio. Là si ricevevano gli ordini dalle Autorità di
Caltanissetta per la parte amministrativa dal Luogotenente del
Vicere. Giustizia adunque, Municipio e amministrazione reggevano il
villaggio. In quanto alla chiesetta della prima Madrice, il prete
dipendeva dal Clero di Mazzarino, il cui Parroco veniva di tanto in
tanto.
Abbiamo potuto raccogliere tutte queste notizie accampate in aria,
senza metterci nulla del nostro, data prima epoca di confusione. Ci
si fa sapere che nella chiesetta del Crocifisso, precisamente in
Sacrestia, vi erano dei quaderni, in cui venivano registrati gli
atti di battesimo, di matrimoni e di morte; ma i topi roditori ne
fecero strage, di guisa che intorno a quella prima epoca siamo
perfettamente al buio, congetturando quanto diciamo. Però è bene
sapere che il villaggio cresceva di numero e di casuccie dalla parte
di Pietrapiatta verso il poggio. Quivi si cominciarono a formare due
file di casuccie creando una via molto larga a venire in basso.
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Cap. VII
la chiesa della madrice – la baronia – delineazione del borgo
Qui a basso non ci si poteva venire, perchè vi era un ammasso di
acqua morta, roveti ed erbaccia; ma la mano d’opera dei coloni,
sotto la guida dei Campieri, fece si di sgombrare ed asciugare
tutto, fino a trovare il taio. Si va verso la fine del 1650 e le
cose si volgono al meglio. Quando il proprietario Don Pietro
Altariva intese nel 1645 che nel suo feudo di Riesi, il villaggio
aveva preso consistenza, incamminandosi a diventare un borgo sul
serio, ideò di far fabbricare la chiesa padronale della Madrice, non
bastando più la chiesetta del Crocifisso per i bisogni spirituali
della nuova, nascente, ancor piccola popolazione. A tal uopo nel
dettò anno 1645, si fece fare da un Architetto in Palermo un
progetto da eseguirsi sul luogo. Venuti i capi d’arte palermitani,
per la bisogna si scelse tutto il piano di circa due tumoli e mezzo;
la parte rocciosa servì per la costruzione del nuovo Tempio. Nel
progetto è detto che la chiesa doveva essere fatta a tre navate ed a
Croce greca e le nuove vie dovevano sorgere lunghe, larghe e diritte
come una canna,; cosa che non si fece ne per l’una ne per le altre,
ne il piano fu lasciato tutto intero, E di. essa chiesa venne fatta
a due navi ed a Croce cristiana. Dopo tre anni di indefesso lavoro
fu consegnata la muratura e pare che la facciata sia stata fatta in
gesso semplice. La storia di questa chiesa ‘Madre, è compendiata in
due lapidi marmo, poste all’entrata principale alle pareti di destra
e di sinistra. Esse lapidi, tradotteci dal Rev. Cav. F. Cinque, il
parroco, dal latino, ci dicono, quella di sinistra: A perpetua
memoria. Sia a lutti noto che l’ill.mo Don Piero Altariva, barone di
questo Stato, dopo che curò d’abitare questa eresse la chiesa
Madrice per il servizio di Dio e la salute delle anime; ed in essa
fondò un beneficio Curato di diritto padronale come si legge negli
alti del Notar Baldassare Calderaio in Palermo, 10 Luglio 1648.
Essendosi però diroccata la vecchia chiesa il 25 Marzo 1726,
l’Eccellentissimo signor Don Bartolomeo de Moncajo, Marchese di
Coscoquela, barone di detto Stato,per devozione a proprie spese,
questo magnifico Tempio riedificò. E siccome nell’anno 1734, la
maggior parte di questo Tempio per puro caso rovinò, l’ill.mo Don
Clemente ed il di lui figlio Don Biagio Vincules,nella qualità di
Procuratori generali, curarono di restaurarlo. Finalmente nel giorno
9 Maggio1747 Matteo Trigona, Vescovo di Siracusa, Prelato domestico
al sacro soglio Pontificio e Consigliere del re, per sua grazia con
rito solenne la consacrò elevando a Basilica, essendo Reggente Don
Antonio Guliana, Dottore in sacra Teologia. L’altra di destra dice:
Regnando Benedetto XIV Pontefice Massimo e Carlo di Borbone re delle
due Sicilie al tempo di Don Giovanni Pignatelli,conte di Fuentes,
fondatore di Riesi barone d’Altariva, essendo Procura/ori generali i
Vincales, Matteo Trigona Vescovo di Siracusa ecc. consacrò questa
Basilica eretta alla SS. Vergine della catena e devotamente dedicata
ai SS. martiri Clemente, papa e S. Sabina. E ricorrendo il giorno
della consacrazione, a tutti i cristiani fedeli in questo Tempio,
elargì 40 giorni di vere indulgenze per lo stesso giorno della
consacrazione prescrisse l’Ufficio e la Messa da celebrarsi. La
chiesa cominciò a dipendere dalla diocesi di Siracusa essendo queste
terre considerate nella valle di Noto. Riferendoci a questi due
documenti storici, sappiamo quindi che la chiusa della Madrice fu
rifatta, si può dire tre volte; che essa fu dedicata alla Madonna
della Catena, padrona di Riesi e ai compatroni San. Clemente e Santa
Sabina: per la Madonna in virtù d’un miracolo operato a Palermo, a
tre condannati innocenti che nel giorno del supplizio, accompagnati
dalle guardie, a cagione di un temporale si ripararono in una
Cappella di campagna dedicata alla Vergine pria di giungere al luogo
della forca, le guardie, stanche, si addormentarono e i prigionieri
si rivolsero alla Madre santissima e le dissero: Voi sola sapete se
siamo innocenti; liberateci Voi . La Madonna scese, tolse loro le
catene e quelli fuggirono. Svegliatesi le guardie non trovarono i
prigionieri, ma videro li. catene appese alle mani della Madonna e
gridarono al miracolo che si sparse in tutta l’isola: laonde i
signori d’Altariva vollero che la chiesa della Madrice di Riesi
fosse dedicata alla Vergine sotto il titolo della Catena. (Da un
sermone stampato dal Can. Don Vincenzo Butera nella chiesetta del
Crocifisso il 1845). Sappiamo poi che ‘nella chiesa della Madrice la
facciata venne rifatta con pietre da taglio di stile dorico
castigato; difatti la cornice, le colonne e i capitelli sono molto
semplici; che la Sagrestia venne dalla discesa, accanto alla quale
vi era un deposito per la cerimonia dei cadaveri, mentre la fossa
comune era nel sottosuolo del pavimento che è tutto vuoto. Essa
misura metri 40 di lunghezza con metri 10 e più di larghezza, il che
fa circa 500 mq. Dalla base al campanile misura metri 27. Al disopra
dell’entrata di mezzo ad una grande finestra fu posto lo stemma dei
principi Pignatelli Fuentes. L’interno della chiesa è a Croce,
abbiamo detto, ed è venuta un gioiello. In fondo vi è l’altare
maggiore di marmo porfido, finissimo, scolpito con disegni; al
disopra havvi la Cappella della Madonna, la di cui immagine, fatta
venire da Palermo, è una vera bellezza d’arte; ai due lati vi sono
le due statue di gesso al naturale dei compatroni S. Clemente e
santa Sabina; il cielo o la cupola è una meraviglia, perché grande;
ai quattro spigoli si vedono le statuette in gesso dei quattro
Evangelisti S. Matteo, S. Marco, S. Luca e S. Giovanni; a basso una
scalinata con cancellata di ferro, divide il popolo dal Clero per la
Messa e le funzioni religiose, il quale Clero per i sacerdoti ha
degli appositi sedili in legno finissimo; l’organo e il pulpito, di
fronte, stanno nel mezzo della chiesa per potere il popolo sentire,
udir bene. Passando nella Croce di destra, un altarino è dedicato al
risorto o il Sacramento: un’altra piccola scalinata e cancellata per
assistere una parte del popolo alle funzioni della essa detta dal
Parroco o da un sacerdote; nella parete a destra un altarino è
dedicato a S. Antonio, la cui statuetta in marmo è ben fatta; di
fronte alla parete, un bellissimo quadro in una cornice di legno
chiuso a porte mostra la Madonna Grazie che si crede opera d’arte
del 400. Nell’altra parte della Croce di sinistra, l’altarino è
dedicato al Cristo morente sulla Croce, con una statuetta in legno
espressiva. Anche qui una statuetta alla Vergine. Da questa parte si
immetteva nella Sagrestia per i paramenti e l’archivio , nonché per
salire nell’organo. Per i quadri e gli affreschi dello pareti e per
Il tetto fu fatto venire il pittore Gonzales da Madrid (Spagna).
Essi quadri ed esse immagini religiose sono d’una finezza tale che
attirano lo sguardo di tutti. La stuccatura ed altri lavori deI
cornicione sono opera di un certo Don Michele Grosso da Bufera un
artista dimorante a Gela che visse nell’ 800. Terminata la sopra
detta chiesa Madre di Riesi nel 1648, quando era ancora rustica, si
può dire, il proprietario Don Pietro Altariva. nel 1650 fu a Messina
per stipulare l’atto con cui donava al suo paese questa chiesa della
Madrice, dotandola di Are 6 di buona terra al Canale detta la chiusa
della Madonna. Indi dalla Curia Vescovile di Siracusa fece nominare
a primo Parroco, con una congrua parrocchiale di L.300 annuo, Don
Angelo d’Angelo da Barrafranca. Visto ciò il Governo spagnolo nominò
l’Altariva barone di Riesi e Cipolla, un grande di Spagna, che
poteva sedere al Parlamento a patto di pagare la somma di onze 120
all’anno pari a L 2130, fornendolo pure di 12 cavalli per l’uso
militare. Installatosi qui a Riesi il primo Parroco, subito dopo il
barone Don Pietro Altariva moriva, ma il borgo e la chiesa Madre con
il Clero, per quanto piccolo, restava. Quindi vediamo risorgere
l’abitato a migliori condizioni. E difatti due grandi vie si
partirono dalla chiesa Madre: una la detta piazza che fu poi il
Corso; l’altra la via di Porta Licata che divenne dipoi la via del
Rosario. Queste due vie con quella di via, grande che parte dalla
chiesetta del Crocifisso, fecero prendere un altro aspetto al centro
del borgo. Esse furono il principio di altre vie e traverse, facendo
crescere sempre più l’abitato di nuove casuccie, come appresso
vedremo. E al tempo dei Vincales con la stessa pietra da taglio fu
fabbricato il palazzo della Baronia per l’Amministrazione dopo il
1734 vicino la chiesa, il primo cantone delle due vie. Da queste vie
si delineò il borgo; esse furono il fulcro, il principio di nuove
casetta sorte più belle e più solide, lasciando i pagliaia,
tenendosi solamente, al di fuori, le grotte per i coloni più poveri.
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Cap. VIII
festa della madonna e di natale dal 1650 al 1700
Dal 1650 al 700 il Clero di Riesi, fornito di buoni sacerdoti,
istituì la festa della Madonna e di Natale. Così il popolino, oltre
quelle del Crocifisso e di Pasqua, aveva agio di svagarsi ancor di
più. La chiesetta del Crocifisso era una succursale della Madrice e
quindi funzionava pure. Quattro feste all’anno per un borgo di 3
mila abitanti, quanti erano alla fine del secolo XVI erano
sufficienti a far stare unito il popolino alle due chiese. Rileviamo
ciò dai battesimi, matrimoni e morti che si registravano nella
Madrice, ove la formula era: in queste terre di Altariva, in questa
chiesa sotto il titolo M. della Catena Parroci e Cappellani venuti
da fuori facevano a gara per accaparrarsi la simpatia del popolo.
Di. fatti i sacerdoti la facevano da precettori nelle famiglie
benestanti e i Parroci avevano una scuoletta nella Sagrestia per i
figli dei poveri. Dunque la festa della Madonna cominciò a
celebrarsi ogni anno la prima Domenica di Settembre. In principio il
concorso degli altri paesi fu scarso, ma poi poco alla volta, ogni
anno, i forestieri aumentarono a tal segno che la festa prese una
proporzione tale da far concorrere tutta la Sicilia e persino gente
dalla Calabria; intanto le casuccie aumentavano in queste vie
principali, donde le venne poi la via dei Santi al centro; tuttavia
la festa si celebrava in mezzo all’erba, alla ortica con pompa,
fasto e lusso. L’orchestra di Piazza Armerina e oggi l’antica Enna
venivano ad allietare la popolazione in chiesa; due musiche
arrivavano da fuori per fare la questua nelle vie e viuzze,
giungendo fino fuori le porte nelle campagne; due palchi rizzati al
piano, poggiati alla facciata della Madrice, la sera suonavano pezzi
scelti di musica classica, tenendo il popolo desto fino a tarda ora:
le famiglie si portavano le sedie di casa e stavano sedute fino che
la musica terminava di suonare: certamente che, data l’indole del
popolino, qualche baruffa, qualche ferimento succedeva, tanto vero
che si diceva: non c’è festa senza tamburini per significare che
qualcosa doveva succedere sempre. Otto giorni prima, la domenica
precedente si apriva la festa della Madonna con le corse dei
giannetti venuti da Catania e Messina, dedicate a S. Eligio Vescovo,
la cui statua in gesso al naturale, si vede a destra dell’entrata
della chiesa. Tutto il popolo accorreva alla testa della Corsa per
vedere correre i cavalli al suono dei tamburi, di dopo pranzo, dalla
Sanguisuga al Canale al punto dove c’era la Croce. Premi in denaro e
in drappi venivano dati ai migliori corridori. Il pieno della festa
era dal giovedì sera a tutto il lunedì, per la durata di quattro
giorni. Quindici giorni prima, dei negozianti in tutti i generi
venivano a piantare le loro capanne in mezzo al verde: ricche
gioiellerie da Palermo, drapperie, calzolerie, dolcerie da
Caltanissetta, stavano qui per tutto il periodo della festa. Così
gli abitanti avevano l’agio di fare le provviste necessarie per
tutto l’anno. Gli antichi dicevano che la festa della Madonna della
Catena di Riesi era cosi solenne e ricca che i forestieri se ne
andavano impressionati Due scherzi di fuoco con l’ossatura al piano
venivano sparati la sera della domenica e il lunedì. Il giorno della
festa, dalla mattina per tempo fino a mezzogiorno per la Messa
cantata, era un via vai di devoti e devote dai paesi a portare a
piedi scalzi doni e ceri, mentre alla chiusa si svolgeva la ricca,
fiera de!la Madonna. Uscendo nel pomeriggio il simulacro, la
processione assumeva un aspetto caratteristico: Clero, musiche e
popolo compresi i forestieri, appresso al simulacro con ceri accesi,
si ritiravano dopo l’Ave. Il lunedì era pure festa per i Paesani per
il grande traffico che avevano avuto durante gli Otto giorni; le
musiche restavano , mentre gli altri sfollavano: passata la festa .
E l’altra festa di Natale del 25 Dicembre, la chiesa della Madrice
cominciò pure a celebrare. Ogni anno il popolo vi accorreva per
vedere, alla mezzanotte, la nascita del bambino Gesù. Siccome prima
di recarsi in chiesa, gozzovigliavano, molti vi andavano con la
testa avvinazzata, di guisa che la funzione si svolgeva tra il
baccano, le grida e la confusione. Bella, caratteristica la
cornamusa, ciaramedda, strumento tradizionale dei pastori, che
uscendo di chiesa allietavano il popolo, specialmente i ragazzi, i
quali svegliandosi, si alzavano per sentirla. Non vogliamo lasciar
passare inosservata la festa di Carnevale a cui il popolo molto ci
tiene, tanto da dire: Pasqua e Natale farli con chi vuoi, ma
Carnevale farlo con i tuoi. Questa festa baccanale, ereditata dai
pagani, una festa di crapule e di brio. I buontemponi della vita ci
sono stati sempre per divertirsi e far divertire, scherzando,
chiassando; mangiando bene e bevendo meglio, si sollazzavano. A
Riesi, nei tempi antichi, tutti gli anni il Carnevale era aspettato
con ansia. Le maschere, i mascherati facevano a gara, ci si diceva,
per concentrarsi al piano della Madrice. Si ballava si scialava, si
rideva a crepa pancia le Domeniche di giorno. La sera di Carnevale
le famiglie, riunite coi parenti,la passavano allegramente.
L’indomani, primo di Quaresima, tutti in chiesa per il memento homo,
ricordati che sei uomo. La lunga Quaresima, come si sa, culminava
con la festa di Pasqua e il Venerdì Santo al Canale. Queste feste,
fin dai primi momenti, tenevano legato il popolo al Clero, il quale
si dimostrava premuroso verso la chiesa, la Baronia, le Autorità e
si cresceva di numero e di cosucce. In cinquant’anni, dal 650 al 700
i Parroci e i preti da fuori furono i seguenti: Don Angelo d’Angelo
ci stiede fino al 1657; lasciò Riesi e ritornò nella sua Barrafranca
perchè come dice il Don Gaetano Pasqualino, non ci poteva vivere con
lo scarso stipendio. 11 secondo fu il vice Parroco Don Paolo Caci,
di cui non si sa da dove venne, assieme ai Canonici l)on Taddemi e
Don Francesco Costantino e Gambacurta fino al 64. Lo sostituì Don
Giuseppe Lostimolo da Castel di Lucio, provincia di Messina. Altri
preti furono; Don Giuseppe Averna , Don Pietro Antoni; il quarto
Parroco fino al 70 fu don Michele Ferrigno con Don Filippo Margotta
, sesto Parroco fino al 74,Don Pietro Zancari rimase in carica fino
al 1707,aggiungendovi altri nuovi sacerdoti Cappellani. Il più di
tutti rimase in carica (17 anni) chiudendo il secolo e aprendo il
nuovo, l’ultimo parroco Don Pietro Zangari che dal cognome pare sia
stato proveniente da Gela.
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Cap. IX
la vecchia chiesa del rosario – le confraternite
Negli ultimi anni del secolo XVI o probabilmente al principio del
nuovo secolo, il Zangari animato da santo zelo, vista la religiosità
del piccolo popolo, fece fabbricare assieme agli altri, la vecchia
chiesetta del Rosario a metà della via di Porta Licata. La terza
chiesa, Per quanto piccola, servì a dare più importanza al borgo.
Essa bassa, povera, con un altarino, fu dedicata alla Madonna del
Rosario, dando il nome alla via. Posta dove ora c’è il Municipio,
nella discesa, dava nell’aperta campagna; ai lati sorgevano delle
caselle e la via si andava formando. Un’altra festicciola fu
istituita per la Madonna del Rosario la terza Domenica di Ottobre.
Essa veniva celebrata alla buona, senza pompa, con la sola
processione. Clero e popolo vi partecipavano con devozione. In detta
chiesa vi si celebrava una Messa ogni tanto di modo che era pure
aperta al pubblico. Con queste tre chiese il Clero volle fondare le
così dette Confraternite, per come erano negli altri paesi.
Associazioni di uomini devoti ai diversi santi, costituivano una
classe privilegiata sotto la guida di un prete che era il Canonico
della chiesa. Ogni socio pagava un contributo per il mantenimento
della propria Confraternita e per le spese occorrenti nella chiesa
alla quale apparteneva. Un Regolamento chiamato Verbo Regio faceva
godere dei diritti in caso di malattia o di morte; i funerali si
facevano con l’accompagnare il cadavere in chiesa con il prete, la
Croce e i membri, i quali indossavano la sottana bianca e il bavero
a colori, secondo la Confraternita alla quale si apparteneva. Ben
presto adunque a Riesi sorsero, prima che finisse il secolo, le tre
Confraternite della Madrice, del Crocifisso e del Rosario. Tutto
andava bene, ma.... c’ è un ma che ha bisogno di una spiegazione. La
chiesa del Rosario, dopo un quarto di secolo tra il vecchio e il
nuovo, si diroccò; non fu fatta più innalzare ne riparare, si
distrusse e rimase un casalino di lato al Comune. Essa chiesa fu un
ricordo, di cui solo i primi abitanti del 700 ne parlarono. Sicchè
Riesi, per lungo tempo, ebbe le sole due chiese, aspettando di
rifare altrove quella distrutta. Ad ogni modo, non pertanto i nostri
antenati di quell’epoca si scoraggiarono: la Confraternita della
Madonna del Rosario andò ad ingrossare quella della Madrice e quella
del Crocifisso; ne il Clero, che si faceva sempre più numeroso, si
tirò indietro, per il servizio di Dio e la salute delle anime. Il
locale distrutto della prima chiesa della Madonna del Rosario lo
chiamarono poi Il Rosario vecchio . Tanti e tanti dei nostri vecchi
l’hanno designato sempre con tal nome, significando che vi fu la
prima chiesa del Rosario. Essa non fu più neppure fabbricata a
casetta: rimase lì come un luogo comune.
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Cap. X
il 1700 – clero e popolo – i conventi
A cominciare dal 1700, Riesi fa un altro passo avanti nella via del
progresso numerico, industriale, edilizio. Il secolo XVII si apre
sotto buoni auspici. Alcuni fatti provano il nostro. asserto, poichè
siamo informati di quanto diciamo. L’immigrazione continua; dei
campagnoli si fanno avanti per diventar massari; altri uomini ricchi
Vengono a stabilirsi qui; degli operai affluiscono da tutte le parti
della Sicilia e persino dalle Calabrie; case e casette belle sorgono
attorno alla periferia ed al centro; spiccano i ricchi signori; il
popolo ama il lavoro; il Clero, sotto la guida di buoni Parroci,
diventa più numeroso: insomma il borgo passo passo, durante il corso
di un secolo, diventa un paesetto bello e formato con vie, traverse,
cortili e camerette. La Baronia dei Fuentes accoglie bene i nuovi
arrivati, agevolandoli. Nel narrare tutto ciò come meglio possiamo e
sappiamo, ci facciamo lecito di chieder venia, se possiamo cadere in
qualche errore; se vi sono dei lettori che non sono informati
meglio, ci possono mettere in carreggiata, compatendoci. Anzitutto è
bene riferire che da ora in avanti Riesi non è più un feudo, ma un
paesetto nelle terre di Altariva; il suo stato o territorio prende
il nome di feudo Calamuscini con le diverse contrade. Siccome
l’intero feudo di Riesi era abbastanza grande, così la proprietà lo
divise in altri sei feudi che sono: Tallarita, Gurretta, Palladio,
Spampinato, Contessa, in tutto 7 feudi. Dalla penna del nostro
concittadino avv. Gaetano Baglio nel suo volume di 6oo e più pagine
sulle ricerche dei lavoratori in Sicilia: lo zolfataio, riportiamo:
Riesi sorge sul declivio di un poggio di 300 metri sul livello del
mare.Il suolo che costituisce il territorio, fortunatamente
ondulato, di natura or calcareo, or argilloso, è povero d’acqua. Il
territorio confina a nord col feudo di Cipolla; ad est e sud col
territorio di Mazzarino e di Butera; ad ovest col fiume Salso. È
situato ,nel più importante bacino zolfifero della Sicilia e ne è il
più antico centro. Come bene osservasi, il territorio è abbastanza
ristretto, perchè Mazzarino e Butera sono vicinissimi, si può dire,.
alle porte di Riesi; oltre il fiume altre terre, di altri
proprietari ci dividono; Cipolla distante rimase tale e quale diviso
in Cipolla superiore e Cipolla inferiore: ed è per questo che i
riesani così chiamavansi anticamente gli abitanti di Riesi sono
stati costretti a coltivare le terre fuori territorio.
Dopo il settimo Parroco Don Pietro Parisello, dal 1707 al 1742 venne
da Caltanissetta Don Felice Amico. S. T. D. con altri sacerdoti e
dopo di lui. il nono fu Don Antonio Baldassare Giuliana, gia Parroco
di Vallelunga e qui Primo, Arcipresbitero fino al £746, di cui noi
già conosciamo.
Qui cominciarono a venire dei preti Cappellani di buone famiglie del
luogo, il che significa che il paesetto era in progresso verso
l’avvenire. In quell’epoca perciò fiorivano finanziariamente,
intellettualmente e moralmente. Esse famiglie si affezionavano alle
due chiese e ai preti. Ecco intanto alcuni nomi di famiglie che i
primi Parroci trovarono registrati in certi quaderni - dicono essi,
nella chiesetta del Crocifisso, per vedere chi furono coloro che
cominciarono e seguirono a popolare il feudo, cioè:
BALDACCHINO BIAGIO, SEMINERIO DOMENICO, PALERMO VINCENZO,
CANNAROZZO DOMENICO, SCARDINO FILIPPO, LA TORRE VINCENZO, VITELLO
DOMENICO, D’AMICO ROSARIO, CHIOLO FRANCESCO, BURGIO SEBASIANO, LO
GRASSO FELICE, PISTONE ROCCO, GOLISANO ROSARIO, RUSSO ROCCO,
RAMPANTI SALVATORE, VALENZA RAFFAELE, MULE’ PIETRO, LA MARCA
FILIPPO, GIULIANA PAOLO, SCIMONE FILIPPO, ARONICA PAOLO, TAGLIAVIA
PIETRO, MARCHESE FILIPPO, ATTURIO FILIPPO, GERBINO PAOLO, DI
SILVESTRO PAOLO, CUTAIA PIETRO, PIZZUTO PLACIDO, MAURICI NATALE,
BONSIGNORE NICOLA, JANNELLO ANTONIO, GRIMALDI ANTONIO, STUPPIA
MICHELANGELO, GALLO MODESTO, ASSENNATO MELCHIOR, CIULO MATTEO, FONTI
LUCIANO, GUELI GIUSEPPE, SABBIA ROCCO, BAGLIO ANTONINO, DI BUONO
ANGELO, CALI’ SALVATORE, CAPIZZI GIACOMO, SCIBETTA LORENZO, OLIVERI
GIUSEPPE, SESA GIOVANNI, GRIFASI GIACOMO, LA JACONA GIUSEPPE, LO
BLUNDO GIOVANNI, MEDICINA VINCENZO, DESTRO ANDREA, PELLEGRINO
ANTONINO, ALDUINO ANTONIO, CALASCIBETTA ANGELO, ZARBO LUCIO,
LAURICELLA ANTONIO, LA ROCCA ALESSANDRO, LUPO GIUSEPPE, TALIANO
ROCCO, ZUCCALA’ FRANCESCO, BURGIO FILIPPO, SFERRAZZA GIACOMO,
RIMBISI LUCIO, LA ZIA FILIPPO, GUASTELLA DOMENICO, CINARDO MARTINO,
CIANCI ROSARIO, SCIMECA LUIGI, BRUNITO DIEGO, COCITO MICHELE, GIGLIA
NICOLO’, LA PIANA MARIANO, PARISI FRANCESCO, FRANCESCO E SALVATORE
GIAMBARRESI, ECC, ECC.
Fra i nuovi arrivati, al principio del 700’ abbiamo: i DEBILIO
STEFANO, MATTEO e PAOLO, i VITELLO, i GIULIANA, i MARTORANA, i
GIARDINA, i SESA, ed altri.
Su questi e altri nomi che non abbiamo potuto raccapezzare si basò
la fondazione del paesetto al principio del secolo. Alcune famiglie
di questi nomi si sono estinte; altre ne vennero a sostituirle, e
fra i rimasti alcuni si sono elevati a Massarotti; come pure si
moltiplicavano.
Giunti a questo punto è bene dire due parole sui Conventi, sebbene
non esistono più da noi. Non c’è paese, non c’è popolazione per
quanto piccola che non abbia avuto i suoi Conventi per la parte
asceta.
Da noi ve ne furono due. Il primo sorse al poggio Grande a sud della
roccia. A memoria d’uomo nessuno si ricordò di esso, ne si seppe
quando fu fabbricato, nè se fu abitato e quanto tempo ci stiedero.
Il fatto sta che fin dal 1750 fu trovato distrutto. Esso era piccolo
e fu chiamato il Conventino. Aveva quattro cellette e i muri non
erano tanto solidi. Dacchè fu distrutto vi crebbe rigogliosa
l’ortica, poi divenne una mandra: i ragazzi fino alla metà del i8oo
vi andavano a giocare.
Nell’oscurità dei tempi in cui ci troviamo, è inutile fare delle
congetture, perciò passiamo all’altro.
Il secondo era più grande e fu fabbricato sopra la roccia forte e
grande di Porta Licata ad oriente e agli alti venti esposto, bene
arieggiato. Esso aveva 8 celle, oltre la chiesetta, il refettorio e
la cucina. Nella roccia furono scavate delle grotte per la stalla,
la cantina o dispensa e la legna.
Nell’atrio fu scavata una profonda, larga cisterna per raccogliere
l’acqua piovana. Di fronte all’entrata un orto per la verdura e la
frutta da servire ai monaci.
I Conventi erano opera dei PP. Benedettini di Palermo; questo di
Riesi fu dedicato a S. Antonio ed ebbe in dote tumoli otto di terra
adiacente per la seminagione dei cereali. Pare che esso sia stato
fabbricato dopo la distruzione d primo.
Ogni anno un Priore veniva da Caltagirone per fare gli esercizi
spirituali; il popolo vi accorreva. Fino al 1824 fu abitato da sei
frati, ma da quell’anno in poi i frati se ne andarono e non
ritornarono più; il Convento rimase deserto in balia del Clero per
conto della chiesa.
Onde completare la storia di questo Convento, mezzo diroccato,
facciamo conoscere che esso fu venduto a alla terra dal Parroco
D’Antoua a certo Filippo Livolsi nel 1876.
Il Parroco l’aveva acquistato dalla vendita dei beni ecclesiastici
dopo la legge del 6o che furono espropriati; il Rivolsi lo fece in
parte riparare per la sua abitazione, per affitto, facendovi
fabbricare altre casuccie accanto e scavare altre grotte di
abitazioni. Oggi il Convento è il centro di un grosso rione, di
guisa che il figlio del Livolsi, con l’eredità lasciatagli dal
padre, vive di rendita.
E questo fia suggel che …
Tutto ciò prova che il sentimento religioso c’era nel popolino
primitivo; che il Clero faceva causa comune con quegli abitanti.
Infatti alcuni frati riesini di Messa venivano in quell’epoca a
battezzare nella chiesa della Madrice o al Crocifisso.
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Cap. XI
i grandi massari, civili
Fra le grandi Case che s’innalzarono alla dignità di Massari e
poscia a civili, oltre i Golisano, già Rubbios, i Cammarata, i Gueli
i Ministeri, nella prima metà del secolo XVII cominciarono a
spiccare le seguenti:
La famiglia dei Rubbios di origine spagnola, come sappiamo, cedette
il posto ai Golisano che venuti da Ravanusa da semplici Massarutti —
leggesi nei matrimoni — ne sposarono le figlie e si nobilirono.
I tre fratelli Stufano, Matteo e Paolo Debilio venuti dalla vicina
Sommatine, al principio del secolo e precisamente nel 1701/2, si
stabilirono qui per le cave di gesso. Arricchitisi di molto,
lasciarono il loro mestiere e presero delle tèrre a cenasito,
impiantando una grossa masseria. I figli, mandati fuori a studiare,
divennero dei professionisti. Due di essi si fabbricarono i palazzi
nel centro della via che portò il loro nome. Detti palazzi furono
sontuosi con camere, saloni e due grandi cortili di entrata con
annessi la dispensa, i magazzini e i ripostigli.
La Casa dei Debilio gareggiò con quella dei Rubbios-Golisano. Erano
tanto numerosi gli animali che possedevano che allorquando il bovaro
li conduceva ad abbeverare al Canale, essi invadevano la via del
Rosario, passando per il piano della Madrice e si diceva che non
finivano mai.
Appresso, nel 1704, vennero i Vitello da Ravanusa, in principio
erano dei piccoli borgesì, ma poi a poco a poco si innalzarono a
Massari. Fabbricatasi la casa in questi paraggi. Vicino al piano,
ebbero terre ed animali, figurando accanto ai Golisano, Cammarata,
Gueli e gli altri.
Dal 1710 in poi comparvero i signori Giardina da San Cataldo. Essi
erano anche degli intellettuali,. di guisa che, oltre a badare alle
terre, studiando, divennero una famiglia di Notari. Un corpo di
casette sorte nella via Grande formarono una traversa. Essi
prolificarono e si .arricchirono.
Il primo Notaro però venuto a Riesi fu Don Giacomo Martorana da
Licata. Egli mise il suo studio nella stessa via Grande, dove si
fabbricò delle camerette ed un cortile. La famiglia dei Martorana si
sparse dappertutto a Riesi facendo buoni matrimoni.
Certo Giorgio Radosta, un contadino intelligente nato alla
Pietra-piatta, messosi a fare il misuratore di terre divenne
benestante, istruendo i figli. Così dicesi di un Giacomo Ciglia che
si elevò pure a benestante con un corpo di casette alla discesa del
Canale. E lo stesso fu Don Michele Brunito che diede il nome alla
via dalla parte opposta in su verso il poggio Grande; così dicesi
pure degli Scardino. Da queste famiglie nacquero dei sacerdoti del
borgo che abitavano in modeste camerette.
Un’altra famiglia benestante di quell’epoca furono i Sesa che si
fabbricarono una casa in cima alla via Brunito come pure, in sul
finire della prima metti del secolo, l‘altra famiglia del Massaro
Luigi Mirino la venne a prendersi a censito sei salme di terra, alle
Murgitella per una Masseria, fabbricandosi. la casa sull’ascesa ai
piedi del poggio Grande, all’angolo della quale casa ne venne dipoi
la via Gallè, altro nome di benestante, la quale via porta
all’entrata della figurella del Crocifisso verso Mariano dove ci
avevano molte terre i Vìtello. I Baglio venuti da San Cataldo furono
una famiglia di Massari, stabilitisi alla Pietra-piatta con un corpo
di casette onorando quel quartiere con il lavoro e l’onestà. Dal
Massaro Cataldo Baglio in poi, progredirono. La riuscita di questa
famiglia l’abbiamo avuto ai nostri tempi con un valente avvocato
civilista a Napoli, prima Segretario dell’ Università di Genova,
poscia R. Provveditore agli studi a Bari e ora pensionato; e con un
ex Colonnello in ritiro.
Ora tutti questi Massani ed altri ancora più o meno piccoli davano
lavoro ai contadini e agli operai che man mano venivano ad
ingrossare il borgo. Muratori ce n’erano; i Calamita dei
fabbri-ferrai vennero da Licata, i Muzzapica da falegnami ignorasi.
Il primo calzolaio fu un certo Giovanni Vinci da Barrafranca e fu il
papà di tutti i calzolai di Riesi. A quell’epoca gli abitanti
reclamarono i mulini ad acqua per macinare il grano ed avere la
farina per il pane e la pasta di casa; la Baronia fu sollecita nel
far fabbricare i mulini della Ciarla “ e di Jusu in riva al Salso.
Gli è vero che l via dalla Scalazza è scoscesa e brutta, ma è vicina
e gli abitanti non andarono piu a Piazza Armerina e all’antica e
nuova Enna, molto distanti.
Oltrepassata la prima metà del secolo, nei successivi cinquanta
anni si continua a prosperare di bene in meglio con altre famiglie
di ricchi e con altre belle e grandi case. Ma prima di continuare su
ciò, fermiamoci su due fatti: il poeta settecentista Croce Cammarata
e la nuova chiesa del Rosario terminando il secolo XII con la prima
miniera di zolfo. Vediamoli:
** Torna su **
Cap. XII
dal poeta contadino settecentista croce cammarata
Il poeta settecentista, il contadino Croce Cammarata, nacque a Riesi
nel 1695 da Filippo e Angela Scimeca. I suoi genitori erano poveri,
perchè discendenti da un certo Trentacoste, fattore dei baroni
Camerata di Butera, che andava e veniva da Riesi. Il padre viveva
con due tumoli di terreno ad orto alla Sanguisuga ed una casuccia
avuta in dote ai piedi del poggio ‘Grande in via Mirisola. Da
bambino il ragazzo di nome Croce, figlio unico, frequentò la
scuoletta della Sagrestia, ove apprese i primi elementi del leggere
e dello scrivere. Cresciuto in età, da giovane si mise al lavoro,
zappando la terra a giornata. Nell’anto, sul lavoro s’avvide che
aveva la vena poetica e deliziava padroni e compagni coi suoi versi
estemporanei. Tutti quindi lo conoscevano come un poeta e lo
stuzzicavano per sentirlo poesiare. I padroni lo amavano ed i
compagni erano felici di lavorare assieme a lui; di rado il Croce si
vedeva in paese e quando la Domenica andava a Messa, molti lo
attorniavano per sentirlo. Lu nnu Cruci Cammarata era devoto della
Madonna della Catena perciò di sera frequentava spesso la chiesa.
Nelle annate scarse, d’inverno, a cagione delle piogge continue, il
nostro Cammarata, con la sua sacchina girava per le masserie e i
mulini per avere qualche soccorso. I suoi genitori erano morti ed
egli si era accasato con una povera donna di nome Lucia Chiolo,
dalla quale ebbe un figlio: quindi il Croce doveva provvedere ai
bisogni della casa. Una volta stanco del cammino, con la pioggia,
pieno di freddo, entrando in paese volle ripararsi in Sagrestia. Il
Parroco Don Giuseppe Tagliavia che lo conosceva bene, lo accolse, lo
fece riscaldare, lo rifocillò. Indi lo invitò a dire qualche cosa.
Cosa vuole che le dico?
Nnaiu firriatu marcati e mulina
Nuddu m’à datu na impastata sana
Si nun fussi ppri la Bedda matri di la Catina
Arrifiutassi la fidi cristiana
Questi versi furono ripetuti dinanzi al Clero, e valsero al poeta
tutta la stima e la simpatia. I preti lo conducevano spesso nelle
loro campagne non solo per farlo lavorare, ma; anche per divertirsi
e nello stesso tempo lo istruivano nella, storia, geografia.
religione ecc. ed è per questa ragione che il poeta Croce Cammarata,
anche in prosa, ne sapeva più degli. altri. I contadini analfabeti
alle volte lo andavano a trovare in casa per farsi spiegare tante
cose intorno ai misteri della vita, Leggeva qualche libro che gli
prestavano e, avendo un fine acume, era contento di apprendere. Si
ricorda di lui questo fatto; propose questo enigma: “Io lo trovo
sempre, il re di tanto in tanto, Dio non lo trovo mai!…” Come?… gli
dissero: Voi si Io trovate e ,Dio no? Ebbene, spiegò egli: Io posso
trovare un altro uomo como me, il re può trovare un altro re, ma Dio
non può trovare un altro Dio. Tutti rimasero a bocca aperta; come
Sansone, di cui conosceva la storia, così il Cammarata se ne uscì
vittorioso. Ma sopratutto, egli si distinse in occasione della
venuta a Riesi del principe Don Giovanni Pignatelli Fuentes
d’Aragona per visitare i suoi beni. Saputa la notizia lu nnu Cruci,
il giorno dell’arrivo, siccome gli impiegati e dei curiosi vi
andarono incontro, così il poeta si confuse fra questi ultimi,
accorrendo anche lui. Giunti dietro al Canale, dove il principe
scese. dalla lettiga, il contadino Croce Cammarata salito sopra una
pietra, facendo fermare tutti, recitò i seguenti versi:
Principi ereditario di la Spagna,
Ca tiniti la spata ntra li pugna
E siti vistutu ccu la cappa magna.
Di stu paisi Vostra Eccellenza cchi ci guadagna?
Riesi è divintatu na cuccagna,
E l’impiegati si liccanu l’ugna
Il principe non ci capì nulla. Siccome con questi versi il
Cammarata toccava la suscettibilità gli impiegati, così fu lasciato
in asso in segno di disprezzo. Ma il poeta non si perdette ’animo.
Che fece? L’indomani si azzardò a voler parlare personalmente col
principe. Vestito contadinescamente calzoni corti, calze di lino
lunghe di fuori, giacca di braccio e la berretta, salì le scale
della Baronia. Qui il Segretario Sensalez, trattenendolo sul
pianerottolo, lo voleva rimandare, ma il nostro poeta col dito teso
gli sì piantò dinanzi; ed ebbe il tempo di recitargli questi Versi
che noi riportiamo, avendoli raccolti, come del resto altri che ci
sono stati tramandati dai nostri antenati, i quali se li ripetevano
ad ogni pie sospinto per parlare del poeta contadino riesano
settecentista Don Croce Cammarata. I versi sono così belli che
meritano la nostra attenzione, eccoli:
Adamu fu lu succu e nui li rami;
Di un fierru su stirati tanti Iami;
Di un linu su stirati tanti trami;
Di un critu su furmati tanti dami.
Un mari ricivi acqui di tanti fiumi,
La Vera nubiltà su li custumi!
In questo, sentito il rumore, si affacciò il principe. Persona colta
e gentile, invitò il ammarata ad entrare, ricevendo!o nel suo
appartamento. Subito dopo si annunziò il Parroco Giuliana, al quale
Sua Eccellenza domandò chi era questo contadino; e il Parroco le
rispose che era il nostro bravo poeta, un devoto della Madonna della
Catena, facendogli ripetere, spiegandole, alcune poesie, specie
quella della Madonna per la di lui fede. Bene, bene; bravo, bravo I
fece il Principe battendo la spalla al Cammarata. Ditemi buon uomo,
che desiderate? E al Cammarata, botta e risposta, gli fece dire che
voleva il posto di sagrestano della Madrice. Subito il principe lo
raccomandò al Parroco, il quale lo condusse in chiesa e lo vestì da
Sagrestano delle due chiese. In questa seconda fase della sua vita,
il Cammarata prese, il Don e poteva meglio sbarcare il suo lunario.
Tutti di Don Croce ne furono Contenti. Ora una Domenica, in
Sagrestia, i preti lo incitarono a dire una poesia in proposito ed
egli, senza farselo dare duo volte, declamò:
Chistu ie lu fattu di santu Agustinu
E di lu tempu quann’era paganu
Ca illuminatu di spiritu Divinu
Di turcu si fici cristianu
Mentri voli accussi’ lu ma distino
Di livarimi la zappa dili manu
Nun sugnu nnè monacu nnè parrinu
Mi misiru lu do’: fora viddanu ….!
La presente ottava trovasi inserita in un fascicolo della Antologia
nella Biblioteca di Palermo fra i poeti settecentisti della Sicilia
con la dicitura: “ Versi di Croce Cammarata di Riesi “. Il nostro
compaesano aveva un quaderno, ove scriveva tutte le sue poesie, ma
dopo la di lui, morte, la moglie ignorante, non solo non le
conservò, ma peggio ancora le stracciò, distruggendo i versi del
Cammarata di modo che la famiglia non ereditò nessuna poesia; a
stento ne abbiamo potuto raccogliere un’altra della prima fase della
vita del poeta. Quando fu in miseria si adattava pure a fare dei
liami per venderli e vivere. Con un suo compagno una volta si recò a
Caltanissetta a vendere i liami. Una donna curiosa gli si avvicinò
stuzzicandolo, disprezzando i suoi liami; ed egli:
A la mia liama mintiti difetta?
Ca cu l’accatta la riscedi tutta?
Nun s’avi a diri intra Cartanissetta
D’essiri criticata di na brutta
Togliamo da questa sestina gli ultimi due versi, perché osceni. La
donna se ne andò mortificata. Abbiamo parlato col vecchio nipote che
porta lo stesso nome del nonno e ci dice che non lo conobbe, ma che
la madre gli raccontava bambino le prodezze del di lei suocero. Per
altro il Cammarata era un tipo bislacco che di tanto in tanto, a
piedi, si recava a Palermo. Egli visse povero ed onesto e come tale
mori sazio di giorni il 1766 cd ebbe onorata sepoltura nella chiesa
Madre dal Parroco Don Giacomo Ballistreri da Caltagirone i cui
parenti facoltosi nei sette anni di Paracato, 66-72 vennero a
stabilirsi qui. I più vecchi che lo conobbero al principio dell’ 800
parlavano con ammirazione di Croce Cammarata, poeta, riportando i
noti versi che sono giunti fino a noi. Evocando la di lui memoria
con questa pagina, crediamo di aver fatto cosa grata additandolo a
coloro i quali lo ignoravano.Don Croce Cammarata fa parte della
nostra storia di Riesi.
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Cap. XIII
la nuova chiesa del rosario
L’altra nuova chiesa del Rosario fu fabbricata nella seconda metà
del secolo, probabilmente all’epoca di cui accenniamo, cioè dopo la
partenza del Principe e del poeta Cammarata per l’altra vita. Poiché
non abbiamo nessun documento. poiché non c’ è nessuna traccia, ci
serviamo dell’esistenza di essa. I muratori che la fabbricarono, ci
vien detto, furono i fratelli Pietro e Vincenzo Medicina, venuti da
Pietraperzia. Notiamo la presenza dei Medicina a Riesi fin dal 1745.
Essi da muratori seppero elevarsi a coltivatori di terre,
fabbricandosi una modesta casa laggiù alla via Larga con un
trappeto sulla roccia. Divennero anche degli intellettuali, avendo
avuto in famiglia due sacerdoti Vincenzo prima e Giuseppe dopo. Lo
stesso dicasi dei Piccadaci famiglia di contadini benestanti che
ebbero un sacerdote, dei Radosta e degli Scardino. Naturalmente la
nuova chiesa del Rosario si imponeva. Essa fu posta nella stessa
via, si può dire alla punta estrema. Bassa, piccola. di stile
barocco di fuori, dentro misura m.30 dì lunghezza con m. 6 di
larghezza, pari a mq. 180. Un altare, delle immagini alle pareti, un
fonte battesimale è tutto l’ornamento di questa chiesa. L’immagine
della Madonna del Rosario è alquanto bella. La sua festa si cominciò
a celebrare con pompa ogni seconda Domenica di Ottobre. Risorse la
Confraternita. Fuori la chiesa porta la data del 1775 con le parole
dell’Angelo: Ave Maria gratias plena. Fu sfornita di campanile fino
al 1877. Di fronte alla chiesa si aprì una larga, corta via con le
case dei Chiantia da mia parte e dall’altra; attorno e lungo la via
di detta chiesa si andavano fabbricando case, e camerette la discesa
diede il nome alla via Medicina; dopo la Sagrestia si cominciò pure
a fabbricare arrivando fino al punto detto del Serraglio che è un
buco lungo formato di case e casucce. In questa via del Rosario in
seguito sorgevano dei palazzi. La nuova chiesa diede luogo ad un
quartiere del proprio nome. Tutte e tre le chiese si divisero in
quartieri che aumentavano di giorno in giorno. Fu giocoforza quindi
avere un Municipio più grande, un nuovo Carcere, una nuova Caserma
ed un Giudicato più adatto. Per il Municipio si scelse il salone dei
Golisano, per la Giustizia la casa dei Di Benedetto; la Caserma fu
fabbricata in un dammuso al piano della Madrice e il Carcere in due
casette con sotterranei per le donne alla discesa del Canale dalla
parte del piano. Possiamo dire che dalla fondazione della nuova
chiesa del Rosario in poi, vale a dire dal 1775 Riesi prese
un’altro aspetto. Con l’andar del tempo però la chiesa si diroccò,
il tetto sprofondò e rimase un poco di tempo guasta: essa venne
riparata ai tempi nostri con elargizioni popolari mercè il Vescovo
di Piazza Armerina ed il Sindaco Cav. avv. Don Pietro Di Benedetto.
Stando a quell’epoca, dopo il 1775 gli eredi dei Golisano
fabbricarono altri palazzi, due al Corso e uno di fronte al Corso
che diede luogo ad una seconda via Golisano, non che il palazzo al
piano della Madrice. Oggi la chiesa del Rosario, è in piena
funzione, ha un Cappellano e Serve di parrocchia; cosa che non è la
chiesa del Crocifisso, la quale merita di essere riparata e rimessa
al suo primiero stato. Elevata a Parrocchia la chiesetta del Rosario
funziona bene, dividendo il paese in due parti.
** Torna su **
Cap. XIV
altre grandi case di ricchi
Seguitando a narrare gli avvenimenti dell’altra metà del secolo;
troviamo che altre grandi Case di ricchi vengono a fondarsi e sono
le più importanti. Negli ultimi 25 anni si progredisce ancor meglio,
con gli intellettuali.
Verso quell’epoca apparve a Riesi il primo dei Pasqualino. Stando
alla Araldica del prof. V. Gravina di Caltagirone, l’origine di
questa nobile famiglia discende da Parma di Piacenza (Emilia).
Perseguitati i membri dal duca di Mantova per ragioni politiche,
dapprima si rifugiarono a Bari nelle Puglie e poscia se ne vennero a
Palermo. Nella capitale dell’isola,’ sotto il vicere Caracciolo,
trovarono appoggi, onori, protezioni e alti gradi, fino ad arrivare
al titolo di marchesi
Uno di essi di nome Cav. Giuseppe, si ridusse a Riesi, da
sconosciuto, nella seconda metà del secolo. Tipo bislacco a quanto
ci si dice, si impiegò al Municipio. Fattosi conoscere, sposò la
figlia del Sindaco Maria Vitello che oltre appartenere a cospicua
famiglia, era un’ Ester formosa e di bello aspetto.
Da questa coppia fortunata, nacquero figliuoli e figliuole,
esprimendoci con la bibbia, che furono poi ben posizionati, ricchi
ed intellettuali. Un Giuseppe fu Giudice che promosso al Mandamento
di Gela non vi poté andare, perché morì. Egli, che si aveva
fabbricato il palazzo al piano del Crocifisso, lasciò la famiglia in
prospere condizioni; Don Salvatore, che visse da proprietario aveva
un corpo di case terrane dopo il palazzo; Don Francesco Pasqualino
fu un accreditato Notaio presso l’Amministrazione della Baronia.
Venuti i principi per visitare i loro possedimenti, avevano con loro
un Segretario di nome Don Francesco Lentini; siccome ci stiedero un
bel po’, così alla principessa venne in mente di voler sposare qui
il Lentini con una distinta giovane del borgo; ne parlarono al
Notaio, il quale mise avanti la nipote del vice. Parroco Don
Giuseppe Inglesi da Mazzarino di nome Caterina.
Il Pasqualino ebbe l’incarico di combinare il matrimonio, e andò a
trovare il prete che abitava in due camerette della così detta
piazza. Quando gli parlò dell’affare, il buon sacerdote lo apostrofò
dicendogli: “Non sia mai, caro Don Francesco, amico mio, ch’io dia
mia nipote ad un forestiero, allontanandola da me!...”
Allora il Notaio con una presenza di spirito gli disse: “Ebbene,
Reverendo, se lei non la vuole dare ad uno Sconosciuto, sposi sua
nipote con un altro Don Francesco di qui . Chi? “Io stesso, se...
“Accetto, se mia nipote vuole!...” Caterina accettò.
Saputo ciò i principi, montarono su tutte le furie, ma il Pasqualino
li lasciò cantare. Egli sposando la Inglese ebbe in dote dallo zio 4
mila onze (L. 50 mila) e quattro salme di terra dai parenti a
Mazzarino. Venduta quella proprietà, acquistò la tenuta di
Passarello, territorio di Butera: indi impiantò una Masseria e si
fabbricò il palazzo in linea dei due fratelli, dopo la traversa,
formando il primo cantone dei quattro canti, dove visse con la sua
famiglia da signore intellettuale.
I principi gli fecero dieci anni di causa per espropriargli le terre
della Oliva, ma inutilmente. Morendo lasciò detto ai figli di mai
avere a che fare con la Casa dei principi.
Così uno dei più vecchi intelligenti dei Pasqualino.
La famiglia dei Pasqualino quindi s’impose con l’ingegno e il censo
e cominciò a regnare nel borgo nobilmente. Gli eredi intelligenti,
studiosi, sia maschi che femmine, vivendo da signori, a quel tempo
erano riguardati dal popolino come persone altolocate. La storia ci
dice che i loro discendenti si sono sempre distinti, come in seguito
vedremo, nel senso in cui diciamo.
In seguito, durante il periodo della rivoluzione francese del
1789/93, venne qui la famiglia dei Napoletano, nascosta sotto questo
falso nome. Detta famiglia, perseguitata perché liberale di Napoli,
giunta a Palermo venne esiliata a Riesì. Il capostipite fu il conte
Don Gaetano, il quale fu imprigionato in questo carcere e pare sia
stato fatto morire. Lasciando la famiglia, questa si immiserì e i
figli si adattarono al lavoro.
Un’altra famiglia di origine nobile fu quella degli Inglesi.
Secondo il prof. Gravina, detta famiglia discende dai nobili
guerrieri di Alessandria della Rocca, provincia di Agrigento. Il
primo, Giuseppe, era venuto qui per sposare una Golisano, ma non fu
fortunato nel matrimonio, perché la moglie morì dopo breve tempo ed
egli se ne andò a Mazzarino, ove passò a seconde nozze.
Un erede di Don Giuseppe di nome Onofrio Inglese se ne venne qui
come Notaro, futurista presso lo studio di Don Luigi Pasqualino,
morto il quale rimase Don Onofrio come titolare con lo studio al
piano del Crocifisso. Nei paraggi abitava nel Cortile la famiglia
Butera in buona posizione di Massarotti.e il notaio Don Onofrio
Inglesi ne sposò la figlia Maria Anna. Da coniugi gli lnglesi-Butera
si fabbricarono un bel corpo di case al principio del Corso, la
piazza dall parte opposta della Madrice. Nella detta casa
prolificarono, accumulando ricchezze a ricchezze e acquistando
persino dei feudi.
E un’altra buona, ricca famiglia, fu la famiglia Batoli-Capizzi,.
della quale dobbiamo intrattenerci un po’.
Certo Dan Gaetano Capizzi, un ex frate di Mazzarino inteso l’Abate
Capizzi, volle venire a stabilirsi a Riesi. Uomo facoltoso,
intelligente e pio, nello acquistare molte terre nei dintorni di
Riesi e fuori territorio, si fece fabbricare una ricca, sontuosa,
bellissima casa. Il punto che scelse fu di fronte la casa Inglesi.
Mandato a chiamare un cupo d’arte da Caltagirone, questi si mise
subito all’opera. La solida costruzione col piano di sopra, col
giardino e tre portoni di entrata, abbraccia quattro vie;
nell’interno, oltre le sale e i saloni, vi fu una chiesetta ben
messa, bene adornata. Durante la muratura, tra una alcova ed
un’altra vi fece murare una cassa di sette palmi piena di monete
d’argento. Finita la costruzione, fece venire due decoratori da
Comiso per adornare l’interno. I fini disegni, le pitture erano
degne d’una casa principesca; già i gattoni sostegno dei balconi,
lavorati in pietra a forma di animali, mostrano ancor oggi il
lavoro.
Abate Capizzi era felice neÌle sue stanze dorate, col giardino, la
chiesa; egli conviveva con una sua nipote di nome Carmela, figlia
del fratello e la serva. Benefattore, religioso, ogni anno per la
festa di S. Giuseppe, il 19 Marzo, invitava tutti i poveri che
incontrava alla tavolata in onore del Santo per il quale si suole
fare l’altare e dopo averli satollati, riempiva loro le tasche di
baiocchi. La vita del signore Abate era considerata un tessuto di
beneficenze: egli non conosceva il male, ma piuttosto il bene.
Ma ohimè! una triste fine lo aspettava. La nipote andò sposa a Don
Vincenzo Bartoli, proprietario di Mazzarino, alla quale lo zio diede
in dote 4 mila onze e una salma di terra qui a Riesi. I coniugi si
stabilirono a Mazzarino, dove Donna Carmela Bartoli-Capizzi ebbe
otto figli maschi ed era incinta del nono, quando avvenne il
fattaccio.
L’Abate Capizzi invecchiato, fece il suo testamento a Riesi,
lasciando erede universale il fratelli. Ciò dispiacque al nipote Don
Vincenzo, il quale meditò un orribile delitto. In occasione della
festa della Madonna del Mazzaro chiamò lo zio per farlo divertire,
ma una notte lui e il figlio maggiore Giuseppe assassinarono il
povero Abate a colpi di pugnale e scapparono, avendo il tempo di
salpare le acque e ridursi a Livorno. Trovato il cadavere dietro il
portone immerso in una pozza di sangue, fu arrestata la signora
Carmela, La quale fu deportata nel carcere di Piazza Armerina, dove
partorì il di lei ultimo figlio Gaetano: gli altri sette rimasero i
balia dei parenti.
Fattasi, la causa al Tribunale, la signora fu assolta per innocenza;
rimessa in liberta, ritornò a Riesi coi suoi figli; morti i di lei
genitori, figlia unica, ereditò tutto il patrimonio.
La casa Bartoli-Capizzi quindi cominciò a brillare, ma alla morte
della madre si divisero tutta la proprietà, I. figli furono:
Vincenzo, Francesco, Lorenzo, Lucrezio, Baldassare, Stanislao e
Gaetano; Francesco Dottore e Lorenzo sacerdote morirono giovani. Al
piccolo Don Gaetano toccò la parte della casa dove era nascosta la
moneta.
Ora il muratore che aveva murata la cassa, prima di morire aveva
confidato al proprio figlio il segreto del tesoro nascosto questi
venne a dire a Don Gaetano se volesse smuruta la tabia previo un
compenso. Don Gaetano mangiandosi la foglia, come suol dirsi, gli
promise di mandarlo a chiamare; ma intanto da solo, tastando e
ritastando, tuonando e rituonando si disse di averla trovata: fu
quindi il più ricco di tutti. Compratasi la tenuta della Donna,
sposò poi Donna Antonina inglesi del Notaro Onofrio.
Fattore della Casa Bartoli-Capizzi fu u Massaro Vincenzo Mezzatesta
da Pietraperzia, il quale fabbricatasi una casetta con camere nella
traversa della via Giuliana, di fronte al portone dei Bartoli, diede
il nome alla via che va verso il poggio; un’altra via consimile
sorse contemporaneamente dalla parte della casa Inglesi nella via
Fiandaca verso lo stesso poggio con magazzini e casetta del Massaro
Calogero Di Letizia.
E questa è una storia che va dalla fine del 1790 fino al 1830.
Bisogna distinguere qui le altre due famiglie dei Capizzi e dei
Bartoli. La prima, di vecchia data, è stata una famiglia di
proletari. in tutti i mestieri; la seconda oriunda da Messina sullo
scorcio del secolo XVII, è stata una famiglia di lavoratori di
argilla i quali si son tramandati, di padri in figli, la lavorazione
della terra cotta. Trovata adatta, porosa la creta dietro la
Montagna, perfezionandosi e perfezionandola sono arrivati a farla
apprezzare, tanto che si dice “Creta di Riesi” mantenendo fresca,
chiara l’acqua nelle quartane, giarre e giarruna
Il Giornale di Sicilia in diversi articoli l’ha elogiato e gli
operai sono stati premiati; Ultimamente l’operaio Salvatore Bartolì,
avendo presentato nel 1931 alla IV Fiera Campionaria di Tripoli due
anfore e due vasi da fiori ben lavorati, ebbe il Diploma con
medaglia d’oro e medaglia di argento. Onore al merito!
Merita ora speciale attenzione la ricca, importante casa dei signori
D’Antona. Quattro fratelli, Cateno, Vincenzo, Luigi e Rocco da
Canicattì, feudatarii, avevano una Masseria a Castelluzzo e
Gorgazzi. Essendo vicini a Riesi, vollero piantare le loro tende qui
da noi. Dapprima si stabilirono ai piedi del poggio Grande sulla
parte orientale, con delle modeste case. Ivi il Massaro Cateno,
abile, intelligente agricoltore, sposò una certa Pasqua Di Legami,
di famiglia benestante a quanto pare. Da essa ebbe undici figli,
cinque femmine e sei maschi. Col lavoro dei campi, progredendo,
Scesero a basso e si fabbricarono la casa all’estremo limite della
via Grande; due dei figli, Don Gaetano e Don Salvatore presero la
carriera ecclesiastica mentre gli altri, istruendosi s’incivilirono
e nei matrimoni fecero fortuna; le donne furono ben posizionate.
Anche gli altri fratelli lasciarono il poggio Grande e vennero a
fabbricarsi i palazzi nella stessa via di fronte e accanto al primo.
La famiglia D’Antona, divenuta così numerosa e ricca, incominciò a
regnare pure.
Nello stesso tempo venne la famiglia Rindone da Raddusa, prov. di
Catania. Un Don Francesco Rindone per il primo si fabbricò il
palazzo sopra la via Debilio, avendo pure una Masseria.
La famiglia Accardi, proveniente da Mazzarino, impiantando una
Masseria, si fabbricò la casa vicino al Lago. Un Don Francesco sposa
una Federico di famiglia ricca nella stessa via che prese il nome
Accardi, stretta ripida che va verso il poggio Grande. Così dicesi
dei Riggio, dei Verso e dei Vecchio.
Chi diede un buon impulso al paesetto furono i Trapani. L’avv.
Giuseppe Gaetano Trapani da Canicatti venne a sposare qui Donna
Lucia Debilio Palacino. Essi si fabbricarono il palazzo accanto alla
vecchia chiesa del Rosario, facendo nascere la via Trapani che
scende a basso. in detta via del Rosario si formarono la via
Valanzola, la via dei Coniglio e la traversa Zagarella di case e
casette basse.
Il paese passo passo si andava arricchendo di case e casette. Tra
civili, Massari, campagnoli e operai li riisani popolavano il feudo
nelle terre di Altariva, di cui si diceva poi Comune.
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Cap. XV
la prima miniera di zolfo, buon andamento
Negli ultimi anni del 700, prima che finisse il secolo, fu trovato
lo zolfo al punto denominato Portella di Pietro, feudo Spampinato.
Questa scoperta fece rallegrare tutti, cioè i Rappresentanti dei
principi e la popolazioncina. La notizia li mise in moto,
constatando il fatto. I primi a portare la nuova furono i contadini
che arando quel pezzo di terra montuoso e pietroso, scorsero il
minerale. La prima miniera di zolfo dunque, nel territorio di Riesi,
fu Portella di Pietro. L’impresa di scavare più a fondo fu data in
economia; alcuni operai pratici venuti da Sommatino e da Ravanusa
fecero i buchi e i calcaroni, li riisani da manuali cominciarono a
divenire pratici. Bruciandosi lo zolfo, per quanto piccola fosse la
miniera, si ebbero dei guadagni seducenti che allettarono i
lavoratori. Trovandosi Portella di Pietro a 2 km di distanza dal
paesetto, la via la facevano a piedi, rientrando la sera a casa per
ritornare l’indomani a lavoro. Nelle vicinanze della miniera i
contadini, spinti dalla curiosità, andavano a vedere la lavorazione
dello zolfo. La proprietà vi manteneva un impiegato a posto fisso
onde controllare le giornate dei lavoranti che tra grandi e piccoli
ve ne potevano essere una dozzina. L’Amministrazione della baronia
ogni tre mesi mandava a vendere lo zolfo fuso a Licata sugli asini:
ecco quindi un’altro fornite di lavoro per le famiglie povere
paesane. Chi aveva un somarello poteva guadagnarsi una discreta
giornata: erano dei contadini che venivano adibiti a tale lavoro,
aspettandolo come la manna dal cielo. In questa prima miniera di
Portella di Pietro, altri andavano e venivano a cercar lavoro nello
zolfo, e quantunque essa miniera progrediva lentamente, qualcuno dei
paesani, levandosi la zappa dalle mani, impugnava il piccone,
stritolando il materiale nelle viscere della terra. Il lavoro era
più pesante, ma il premio della giornata fissa compensava la fatica.
Ve ne erano di quelli che lavoravano la notte al lume di una candela
di creta ad olio col meccio di cotone chiamata 1umera, nome che
viene dal francese, facendo luce, lumiére; e queste 1umiere usavano
nelle case la sera le famiglie basse; e queste 1umere tenevano
accese davanti la porta i bottegai e i macellai. I ricchi avevano i
candelieri di rame, di stagno o di latta, a seconda la loro
possibilità: erano i candelieri a uno, a due e a tre mecci
alimentati ad olio. Il paesetto quindi giaceva completamente
all’oscuro e in mezzo al fango. Nei casi di urgenza, la notte per
poter uscire si accendevano un pugno di frasche con busci dette
fonare avendo lo zolfo, era facile avere il fuoco per accendere la
legna. La vita adunque si svolgeva così miseramente, eppure lo
chiamavano: Buon andamento. Il vero buon andamento però si svolgeva
nella chiesa e nel lavoro. Durante tutto il 1700 si celebrarono più
di mille battesimi e 500 matrimoni. Dalla metà del secolo in poi i
sacerdoti erano quasi tutti paesani; i Parroci del 700 furono: Dal
1702 al 1712 Don Pietro Zangari; dal 13 al 29 Don Pietro Tagliavia;
dal 30 al 47 Don Giuseppe Medicina; dal 47 aI 64 Reggente Don
Baldassare Giuliana nono Parroco e primo Arciprete; dal 65 al 77 Don
Giacomo Ballistreri da Caltagirone; dal 78 all’ 81 Don Antonio Verso
da Palermo, secondo Arciprete; dall’ 81 all’ 86 Reggente Don
Giovanni Maglietta da Palermo, terzo Arciprete; dall’ 87 a11’ 88
vice-Rettore Don Giuseppe Inglesi, vicario foraneo; dall’ 89 aI
1802 Don Giuseppe Fernandè Reggente Arciprete caltagironese. E’ da
supporre che i signori Verso, attirati dallo zio Parroco, vennero da
Palermo a dimorare qui. Uomini intraprendenti, d’una certa
perspicacia e istruiti, sposarono delle figlie di Massari e
massarotti, fabbricandosi palazzi e case e acquistando delle terre
che coltivarono. Così dicesi dei Ballistreriri venuti da
Caltagirone, uomini facoltosi, ma semplici e alla buona. Vediamo
quindi clic il secolo XVII si chiude con un crescendo meraviglioso
di popolazione non solo rurale, ma anche intellettuale in tutti i
campi dello scibile umano. Il borgo per quanto ancora circoscritto,
da un calcolo fatto poteva contare un 4 mila anime, aprendo così il
nuovo secolo sotto migliori auspici.
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Cap. XVI
l’ 800
Affacciandoci al 1800, col secolo XVIII, un’era nuova di pace, di
prosperità, di benessere per tutti si inizia a Riesi col lavoro. Tra
lo zolfo la vigna, le case, i palazzi che crescono, gli altri
mestieri prosperano perchè, lavorando la muratura, tutti ne godono;
la moneta circola, quindi la popolazione aumenta; molti vengono da
fuori a trovare pane e lavoro e persino fortuna. Il lavoro incalza,
le case e casette aumentano e per conseguenza le nuove vie. Qui è
d’uopo smentire di sana pianta una diceria che alcuni fanno
circolare e cioè che Riesi fu una terra di domicilio coatto. Ciò non
è vero. Coloro i quali venivano qua erano attratti dal guadagno per
mezzo del lavoro. Certamente non si può negare che chi sta bene nel
proprio paese, generalmente non si muove; che dei facinorosi ve ne
furono; ma fra questo fatto e il dire che Riesi era una terra di
coatti, ci corre! Sfatata questa diceria per l’onore del nostro
amato paese, seguitiamo a narrare la storia, giacchè la luce in
questo secolo si fa più viva, noi ne siamo meglio informati. Col
secolo XVIII fioriscono gli ingegni, la politica si fa sentire, si
lotta per la liberta; i professionisti spiccano, una parte del
popolo li segue. Per quanto in principio col Governo dei Borboni
siamo ancora nell’oscurantismo, pure il paesetto di Riesi si fa
sentire, si fa notare fra i paesi attorno. Le scuole vi sono e ne
usufruiscono tutti, salvo le donne, le quali dipoi rompono il
ghiaccio; la chiesa della Madrice si abbellisce sempre più ed una
nuova chiesa cresce. Per contro nel detto secolo dobbiamo assistere
ad una sequela di disgrazie, una più terribile dell’altra; si rimane
scossi ma non si perde d’animo, si va avanti. Noi narrando
praticamente i fatti accaduti, abbiamo fatto appello ai nostri
vecchi ed infine alla nostra memoria. Un signore che rasenta il
secolo, nato nel 1840, intelligente, di buona famiglia, istruito, ci
fa notare la differenza tra l’epoca passata e la presente; un
operaio della stessa epoca passata, del pari intelligente, ci
racconta molte cose; un vecchio contadino di quel tempo si ricorda
dei suoi giorni passati nelle campagne: nato sul poggio grande in
mezzo alle mandre dei pastori, ci descrive la vita misera, stentata
del suo quartiere, come al piano della Madrice vi cresceva ancora
l’erba e vi venivano a pascolare le pecore.
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Cap. XVII
lo zolfo - la vigna
Al principio del 1800, fu trovato lo zolfo nel feudo Tallarita, alla
riva sinistra del fiume Salso, mentre all’altra riva vi era la
grande, ricca miniera del principe Trabia, in territorio di
Sommatino. La nuova miniera prese il nome del feudo e cominciò ad
essere pure importante simile all’altra vicina. Ecco la ricchezza.
Assieme a quella di Portella di Pietro, gli operai zolfatai
aumentano. Lo zolfo è un minerale utile che serve a tanti usi: alla
fabbricazione della polvere da sparo, all’acido solforico
medicinale, per le tinte dei tessuti, per i fiammiferi, per la vite
ccc.
La miniera Tallarita fu data in appalto ad una Società inglese per
39 anni. Dettà Società venne qui ad impiantare un cantiere. Operai
di Riesi e di altri paesi accorsero per la lavorazione, di modo che
la Domenica il suono dell’argento tintinnava nelle mani e nelle
tasche di tutti. Immettendosi l’acqua del fiume dentro la miniera,
abbisognarono delle sbarre di legno per tirarla fuori di notte e di
giorno e di conseguenza nuovi operai nella mano d’opera. Allo scopo
poi di agevolare gli operai, una piccola casuccia fu trasformata in
cantina di vino e per vendita di pane e cacio. Coloro che la sera
restavano in miniera, potevano rifocillarsi alla meglio.
La Società inglese lasciò la miniera Tallarita prima di scadere il
termine del contratto, nel 1825. Un operaio ardito di nome Giuseppe
Faraci, vero tipo di zolfataio, azzardò di prenderla lui e lavorando
e facendo lavorare, in 20 anni si arricchì di motto. Questo è lo
zolfataio di cui parla il Baglio nel suo libro, dicendo che “divenne
il più ricco proprietario del paese” .
Giuseppe Faraci nacque il 4 Dicembre del 1799 da Giuseppe e Filippa
Chiantia. Suo padre era un zolfataio, ma. il fratello del padre, Don
Salvatore, era un agiato agrimensore.
Giuseppe Faraci e il padre lavorarono da picconieri nella miniera
Tallarita. Lasciatala gli inglesi, il figlio Giuseppe, con, l’aiuto
dello zio che era ben quotato presso l’amministrazione dei Fuentes,
volle pigliarsi in appalto la miniera e siccome la fortuna gli
arrise, riuscì a farsi una buona posizione, disponendo di bella
moneta. Non contento di ciò, prese pure in affitto la piccola
miniera di Portella di Pietro e l’altra nuova di Strozzo nel feudo
Spampinato. Lasciata la miniera Tallarita, prese quella di Galati
nel territorio di Barrafranca, dove si arricchì ancor di più.
Don Giuseppe Faraci da ricchissimo si fabbricò la casa o palazzo
Faraci dalla parte del Lago, dando principio alla via che porta il
suo nome. L’amministrazione o Casa Faraci a Riesi divenne
importante. Da ricco sposò una certa Lucia La Marca di distinta
famiglia, i di cui parenti furono piu volte Sindaci.
Quando Don Giuseppe Faraci per la vendita dello zolfo andava a
Licata, Catania, Messina o Palermo, viaggiando sfarzosamente col suo
seguito, era Conosciuto e rispettato. A Palermo conobbe il Dott.
Rosario Vassallo da S.Cataldo, professore d’Università che era
vedovo. Il Faraci tanto fece, tanto disse che lo condusse a.Riesi
dove gli fece sposare la figlia dello zio Don Salvatore Faraci che
abitava di fronte la vecchia chiesa del Rosario.
Ecco un’altra famiglia benemerita del paesetto, dove insieme alle
altre si distinse; e oltre a queste famiglie, altre ne venivano e se
ne aggregavano, dando maggior incremento, spiccando, onorando questo
suolo col lavoro, la vita e l’ingegno,
Già nel 1804 si era laureato in giurisprudenza, a Catania, il Sig.
Matteo Sanfihippo, avvocato d’un certo valore che poi fu un
Amministratore della Baronia. Questa nuova, ricca famiglia, era
venuta da Palermo e non aveva a che fare con la prima, la quale era
in decadenza.
Nel 1806 venne qui come Notaro Don Gaspare Musarra. Egli, oltre ad
essere Notaro, fu amministratore dei principi di Casa Trabia.
Siccome il Musarra era molto ricco, rifiutò altre terre dei
principi, dicendo che quelle che aveva a Riesi erano più che
sufficienti. La famiglia Musarra viveva nelle case basse nei paraggi
del piano del Crocifisso e il piano della Madrice.
Dopo il Musarra nel 1810 venne Don Giuseppe Amarù da Pietraperzia,
nella qualità di Ricevitore. Sposando la figlia Rosaria con il
farmacista Don Francesco Correnti, si fabbricarono il palazzo in
questa via del Rosario.
Verso 1815 vennero da Delia i. tre fratelli Calogero, Rocco e
Francesco Riccobene. Essi erano uno calzolaio, uno sensale e uno
commerciante. Qui vi trovarono la fortuna e si fecero ricchi,
acquistando terre e fabbricandosi delle case con camere. il Calogero
sposò la figlia di un G. Pasqualino e si fabbricò la casa con il
fondaco di fronte al suocero al piano del Crocifisso e mise su una
piccola locanda con l’entrata dal cortile in via Grande.
Nel 1802 altri tre fratelli fabbri-ferrai erano da Barcellona Pozzo
di Gotto (provincia di Messina) per fare !a cancellata interna della
chiesa della Madrice, il Campanile e la Croce alla facciata. Essi
furono: Vito, Stefano e Luigi Matera. Tutti e tre presero moglie qui
e prolificarono.
Mastro Vito Matera fu il primo a mettere una botteguccia di merceria
ai Quattro canti di fronte alla casa Pasqualino, innalzandovi due
camerette al dammuso per fare il terzo Cantone di fianco al palazzo
Correnti Giuseppe, al quale il padre Antonino aveva fatto
fabbricare, sposandolo con Donna Vincenza Calafato. Rimaneva solo il
quarto Cantone dalle casette basse col cortile dei signori Gueli e
più in giù un altro cortile grande con la casa degli Scimena di
fronte alla casa dei Dì Benedetto, allungarono il Corso.
Nella merceria di mastro Vito Matera, per comprare i generi
affluivano da tutti i punti e siccome vicino vi erano le bottegucce
di generi alimentari, così gli abitanti si vedevano spesso in piana.
La Casa Correnti-Calafato poteva dirsi rispettabile per censo,
avendo molto traffico coi contadini.
Le miniere di zolfo intanto avevano preso un serio è grande
sviluppo: oltre Tallarita, Portella di Pietro e Strozzo, nel
territorio si aggiunsero Pacienzia e Vallone fonduto. La Moculufa
nel territorio di Ravariusa e Galati, vicine, diedero un buon
contingente di zolfatai: un terzo della popolazione lavoratrice,
possiamo calcolare che viveva del lavoro di dette miniere. Cli
zolfatai erano considerati degli operai. Il lavoro faticoso li
rendeva abbrutiti, ma in compenso, mentre per 6 giorni in miniera
mangiavano pane e cipolla, il sabato sera, la domenica e il lunedì
mattina in paese facevano una vita spendereccia. Nei giorni di festa
vestivano bene col berretto e il fiocco e le loro donne,
specialmente nei battesimi, in chiesa e nei matrimoni, sfoggiavano
in lusso con lo scialle e piene d’oro.
Lo zolfataio si distingueva subito nella vita. Andando in miniera,
lavorava nudo, estirpando lo zolfo a colpi di piccone, che veniva
trasportato fuori a spalla dai carusi, i quali erano pagati ad una
misera giornata, mentre il picconiere era pagato a cottimo e per
ogni cassa di un metro cubo riempita. I picconieri lavoravano a
cottimo ed a partite di quattro o cinque. Ogni picconiere aveva due,
tre o quattro carusi, i quali messi a quel lavoro per guadagnarsi la
spesa fin dall’età di sei anni, crescevano deformi, rachitici e per
lo più restavano carusi fino all’età matura e ignoranti. Entravano e
uscivano dalla miniera come tanti diavoli, sotto il peso del masso
grezzo, salendo le scale ripide, fetide e pericolose.
Adolfo Rossi nella Tribuna del 1893 paragonò i buchi delle miniere
di zolfo a tante bolgie dantesche. Quello che era vergognoso per i
carusi era il cosiddetto morto. Consisteva nel dare il picconiere un
anticipo alla famiglia del caruso; con una somma di lire cinquanta,
cento e persino duecento il caruso rimaneva vincolato col suo
principale fino a che scontava il morto: era difficile potersi
svincolare il povero caruso, perchè le famiglie erano in ristretto
bisogno. Picconieri e carusi nelle miniere ubbidivano al capo.
mastro, al quale portavano rispetto.
Questo stato d cose ora non c’è più, ma le miniere hanno continuato
a dar pane e lavoro a molti operai.
Un’altra fonte di ricchezza del secolo XVIII che si può chiamare il
secolo d’oro per Riesi fu la vigna. Trovata adatta calcarca la
terra, dal 1820 in poi tutti si misero a piantare la vite. Lo stato
di Riesi, ossia la proprietà, essendo divisa e suddivisa, ancora gli
operai erano dei piccoli proprietari, avendo, ognuno la loro vigna.
Si soleva dire che: Chi ha una vigna, ha pane, vino e legna. E con
la vigna nasceva il lavoro per tutti i contadini braccianti: zappa,
potatura, vendemmia, l’allegra vendemmia e in mezzo alla vigna gli
alberi da frutta, i parmenti per pigiare l’uva, la casa per i
proprietari. Lavoro quindi non ne mancava, ed questa la ragione per
cui da noi non vi sono mai stati tanti accattoni per le vie.
La vigna!... la bella, rigogliosa vigna, dalle verdi pampine,
dall’uva nera, bianca, rossa, dai grappoli dagli acini grossi,
grandi, pesanti; e con l’uva i frutti abbondanti e il vino, il
rinomato vino di Riesi!
i contadini molto poveri (e ce n’erano a Riesi che formavano la
classe dei diseredati, campavano la Vita stentatamente vendendo
verdura di campagna: e cicoria, cardonì selvutìci, carciofi di
spina, finocchi, fichi pali ecc. Tutti allevavano il maiale in casa,
ma i detti contadini lo allevavano per risolvere il problema della
casuccia in fitto. Per un anno lo tenevano in casa, carezzandolo,
assieme con l’asino e le galline, poco curandosi de lo spettro della
civiltà, come ebbe a scrivere una volta Napoleone Colajanni, il
grande statista, parlando dei nostri paesi a proposito dell’animale
immondo che i proprietari tenevano nella stalla. Quando vendevano il
maiale che ammazzavano in casa propria, nella famiglia facevano
festa perchò si trattenevano le entraglie, robs d’intra, e solo
allora la povera gente poteva assaggiare la carne. Erano tempi di.
miseria anche quelli del secolo scorso in cui vissero i nostri
nonni. Relativamente a Riesi si stava bene, ma... contadini stavano
male dappertutto: essi un po’ per la loro ignoranza un po’ per
l’ingordigia padronale, sono stati sempre disprezzati. Col governo
borbonico, specialmente, tutto andava a rotoli.
Dal 1820 in poi con la legge napoleonica, nei Municipi si
istituirono i Registri per gli atti pubblici, nascite, morti,
matrimoni; parve che la vita doveva migliorarsi, ma fu un passo
lento, il primo passo della civiltà, frutto della Rivoluzione
francese coi diritti dell’uomo.
Bisogna considerare però che si era sotto il Governo dei Borboni che
lasciava i paesi del Regno delle Due Sicilie in completo abbandono e
di conseguenza, quantunque abolita la feudalità, i signorotti, con
le loro prepotenze, vi erano sempre. Venendo su gli anni,
inoltrandoci nella prima metà del secolo, da bambini si cresceva e
si diventava uomini nel senso vero della parola, atti a comprendere
la dignità della vita.
Ad ogni modo a Riesi tra lo zolfo e la vigna, col benessere, nella
classe operaia c’era una specie di indipendenza; il popolo riesino
si distingueva in tutto.
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Cap. XVII bis
fatti – lotte religiose
Per quanto da noi c’era quel che c’era, il paesetto di Riesi se da
una parte cresceva, se aumentava, se c’era la divisione di classe,
se i ricchi primeggiavano, se le scuole erano frequentate, si era
ancora come le talpe.
Onde provare in quale stato si trovava Riesi in quei. tempi, citiamo
dei fatti.
La viaggiatrice inglese Giovanna Pouwar che nel 1830 girò palmo a
palmo la Sicilia, lasciandoci una Guida dei paesi dell’isola, giunta
a Pietraperzia sul Capodarso, scrisse queste precise parole: “Al di
là del Finocchiero trovasi Riesi dove vi sono delle zulfare “. La
Pouwar divide il fiume Salso in tre nomi che sono:
Il Petroliero che dalle sorgenti delle due Petralie va fino a
Caltanissetta; il Finocchiero che bagna le terre di Pietraperzia,
Riesi, Sommatino e Ravanusa e il Fangoso che va da Ravanusa a
Licata, sua foce.
Non sappiamo perchè la detta viaggiatrice chiami il Finocchiero
questo braccio del fiume.
Due decreti uscirono nel 1836 e nel 1838 dal re Ferdinando di
Borbone per nostri paesi. Col primo decretò di fare una nuova
Trazzera Regia da Barrafrunca, Riesi, Butera e Terranova (Gela) per
agevolare il trasporto degli zolfi col secondo decreto aboliva la
feudalità, dando alle popolazioni i diritti d’uso civico. “Visto —
dice egli che aveva girato qua e là in Sicilia — le misere
condizioni in cui si trova il nostro amato popolo, abbiamo decretato
di dare i diritti d’uso civico, nascente dalle terre, spettante ai
Comuni .
La Trazzera Regia nominata Montagne e Marine che passa dalla
Finocchiara va fino a Messina.
Circa gli usi civici, una Circolare fu diramata dal vicerè marchese
di Satriano agli Intendenti Prefetti di Sicilia per cercare nei
Comuni se vi fossero tali diritti. E l’intendente di Caltanissetta
per tre volle si rivolse a questo Decuriunato del tempo e per ben
tre volte il Decurione (Sindaco) respinse la proposta dicendo che a
Riesi non esistevano usi civici.
Dopo questo fatto, un illustre sconosciuto fu di passaggio a Riesi.
Venendo a cavallo da Butera, che allora era suffraganeo di Riesi,
cerco alloggio nell’unica, piccola locanda dei Riccobene, ma non
trovando posto, lasciato il cavallo al fondaco, se ne venne in
piazza costernato. Certo Giorgio Ingrascina, uomo faceto, curioso e
liberale (famiglia estintasi) gli si. avvicinò, levandolo dalla
costernazione con dargli alloggio a casa sua. L’ospite illustre
accettò. Lo Ingrascina aveva una btteguccia di terraglie vicino gli
Accardi; sposato di recente, fece mettere alla moglie le lenzuola di
bucato, mentre mandò la stessa a dormire dalla madre, certa
Federico. Quella sera la cena si componeva di una minestra di
cicoria, due uova e il solito tradizionale fiasco di mezzo litro di
vino. Condivisero la cena e andarono a letto.
La dimane, alzatisi per tempo, si recarono al fondaco a rilevare il
cavallo dovendo il forestiero trasferirsi altrove, e anche qui il
riesino volle essere gentile, accompagnandolo alle porte del paese.
Giunti dietro la Montagna, nell’atto di dividersi, il forestiero nel
ringraziare Ingrascìna gli diede una carta. Era nientemeno il
Segretario del viceré, Cav. Ruggero Mistrangelo I°.
Rientrato in paese, Don Giorgio fece sfoggio dell’illustre nome e
saputolo il Decurione, montò su tutte le furie, dicendo che lo
doveva condurre da lui, ma il nostro compaesano mostrandosi
misterioso, si scusò. di non averlo conosciuto.
Ma la storia non finisce qui. Si disse che lo Ingrascina dipoi andò
a piedi a Palermo a trovare il suo ospite illustre, il quale lo
accolse gentilmente, tenendolo con sè alcuni giorni. Ritornato a
Riesi, mostrò il decreto di sensale Regio.
Mentre il paesetto si allargava da tutti i punti, facendosi strada,
diamo uno sguardo alla chiesa Madre e al Clero. Fin dal principio
del secolo la chiesa e il Clero di Riesi passarono sotto la Diocesi
di Caltagirone; perciò i Parroci venivano di li mentre i sacerdoti
Cappellani erano quasi tutti del paese. Fermiamoci un momentino su
Don Giuseppe Fernandez. Questo Parroco ci stiede 10 anni. Una sera,
mentre egli si trovava in Sagrestia, fu fatto segno, da mano ignota,
ad un colpo di pistola andato a Vuoto. L’indomani mattina il
Fernandez prese una cavalcatura, per far ritorno alla sua città e
arrivato alla figurella del. Crocifisso messosi a cavallo, rivoltosi
all’indirizzo di Riesi disse: “Mandra ti trovai, mandra ti lascio
mandra sarai…”. In sostituzione fu nominato Parroco Don Rocco
Veneziano, di indole buona, mite e di famiglia patrizia, parente dei
Jannl. Qui cominciano le dolenti note . Aspirando a tale carica il
Cappellano Don Giuseppe Golisano, il Clero si divise in due partiti
e malgrado il Veneziano avesse fatto fondere nel 1818 a Catania la
Campana di mezzo, pure fu avversato tanto che si voleva dimettere;
tuttavia rimase a quel posto fino al 1837.
Aspiravano alta Parracatura i due giovani sacerdoti Don Gaetano
D’Antona e Don Vincenzo Butera. Il D’Antona nato nel 1804 oltre ad
essere un sacerdote, era un ricco possidente che continuò a fare
l’impresa del padre nei feudi; il Butera era un principe della
Teologia, persona stimata,. Giustizia vuole però il dire che in
occasione della visita pastorale di Monsignor Menichini il prete
D’Antona fu nominato Vicario. La lotta religiosa non cessò sì
presto. Andato il D’Antona a Caltagirone, ritornò col titolo di
Parroco. Il Butera concorse al posto di Pietraperzia e vi fu
nominato, ma, oh ironia della sorte! anche il fu perseguitato,
deposto, .e quindi costretto a ritornare a Riesi..
Così ci disse il vecchio prete Don Salvatore Riggio, morto
ultimamente in età di 81 anni. .. .
Dal 1838 dunque fu Parroco Don Gaetano D’Antona. Egli diceva:
“Quanto mi dà a rendere quel tumolo di terra (la chiesa) nemmeno un
feudo”. Sotto di lui il Clero era ricco e numeroso. Generoso quanto
mai il Parroco D’Antona, senza trascurare la chiesa ne i parenti,
volle incettare pure nelle miniere di zolfo, prendendo in gabella
assieme ai fratelli Turco la miniera Taltarita, dove si arricchì
ancor di piu La Casa del Parroco D’Antona, gareggiando con la Casa
Faraci, divenne a Riesi motto importante il fratello Don Salvatore
era il Vicario; i suoi parenti tutti vivevano del prestigio della
Casa.
Per altro egli era molto coraggioso. Si racconta di lui, che una
volta trovandosi in campagna, a Castelluzzo, una compagnia di
briganti la sera lo andò a trovare per una visita. L’Arciprete
D’Antona apri loro le porte, li fece entrare, diede loro a mangiare
e mise avanti il suo portafogli dicendo: “ Servitevi”.
Quei galantuomini accettarono solo dei sigari, lo ringraziarono, si
licenziarono, gli baciarono la mano dicendogli: “Vossignoria può
camminare di notte e di giorno!”. Lasciamo per un momento il Parroco
e passiamo ad altro.
** Torna su **
Cap. XVIII
la chiesa di san giuseppe – il colera del 1837
Fu appunto in quei tempi che sorse, si fabbricò la simpatica chiesa
di S. Giuseppe a spese di un ricco signore. Un privato si rese
benemerito di questo grazioso dono, adornando al piccolo paese che
si accrebbe di un’altra chiesa, di un’altro quartiere. Il Dott. Don
Rocco Correnti, devoto di S. Giuseppe, pensò di lasciare questo
monumento storico. Egli abitava nel palazzo lungo il Corso, ed
essendo affetto da podagra, si faceva trasportare dai servi su una
sedia a braccioli nella chiesa della Madrice. Ricco, munifico
signore intellettuale, senza prole, tutta la sua proprietà, si può
dire, l’adoperò a beneficio di detta chiesa. Scelto il punto
sull’altura del poggio in linea retta del Corso che guarda la chiesa
Madre, si mise all’opera, facendo venire un capo d’arte da
Caltanissetta che fece il progetto da eseguirsi subito. Vi lavorò
nella muratura il giovane manuale mastro Rosario Puzzanghera, nato
il 1813 che, come vedremo in seguito, tanta parte ebbe negli
avvenimenti politici del nostro paese. La muratura cominciò nel 1836
e fu consegnata dopo un anno indefesso lavoro; la facciata che prese
la forma semplice con dei sostegni a metà della porta per
l’illuminazione a lanterne, col suo campanile i merli, parve una
cosa meravigliosa; su l’altura venne fatta una comoda scalinata per
la facilità del pubblico. Un decoratore-disegnatore venne da
Siracusa per l’interno della chiesa. Le ricche immagini, l’altare,
il cornicione, l’organo e il pulpito sono lavori fini dell’8oo. La
sagrestia accanto dava accesso ad un piccolo orto dalla parte di
dietro la discesa. Insomma la chiesa di S. Giuseppe che misura m. 40
di’ lunghezza con m. 10 di larghezza, pari a mq. 400 e capace di
contenere 2000 persone, fu aperta con un gran successo, accrescendo
a Riesi un’altra Confraternita col Cappellano. La festa di S.
Giuseppe si cominciò a celebrare la terza Domenica di Luglio; la
statua del santo in legno massiccio tocca la perfezione dell’arte
scultoria siracusana; un bastone di argento massiccio fu regalato.
Dopo la festa della Madonna, possiamo dire che la festa di S.
Giuseppe assunse ad una solennità tale da attirare numerosi
forestieri; con musica e fuochi di Bengala, con la processione e le
confraternite, si è sempre rallegrato il paese; l’illuminazione poi
nei primi tempi, dentro e fuori la chiesa, era meravigliosa,
fantastica. La Confraternita di S. Giuseppe fu la più numerosa di
tutte. Composta di operai benestanti aveva un buon fondo di cassa
che serviva per aiutare i confratelli nei bisogni della vita,
specialmente nei funerali. Le quattro Confraternite avevano ciascuna
il loro tamburo, quella di S. Giuseppe vestiva il bavero celeste. Il
signor Rocco Correnti per la nuova chiesa fece ancora di più: donò
quattro tumoli di buona terra al Margio come patrimonio del
Cappellano, a patto però dice il contratto - che esso doveva essere
un parente delle famiglie Correnti, Calafato o Golisano. E difatti
in prima ci fu un Giuseppe Correnti, uno dei Calafato e indi il
sacerdote Cappellano Don Luigi Molisano. E il Parroco D’Antona,
volendo essere riconoscente al donatore della chiesa di S. Giuseppe
Don Rocco Correnti, a nome della stessa, neI 1840 la processione dal
Canale cominciò a farla passare avanti la detta chiesa e la casa del
Correnti lungo il Corso. Fece fare una Croce di pietra, mettendola
sul comignolo del poggio Grande, che d’allora prese il nome di
quartiere della Croce. La festa del Venerdì santo prese un aspetto
solenne, meraviglioso con la discesa dalla Croce del Cristo su una
apposita urna di cristallo, tanto che si dice: Giunta di Terranova a
scinnenza di Riesi,. La processione sull’imbrunire, dopo la giunta
dei quattro canti tra l’Addolorata uscente dalla chiesa del
Crocifisso e il Cristo dalla Madrice, sembrava una ferie. Nel brio
della primavera tutto il popolo, senza distinzione di ceto, si
riversava ai piedi della croce a fare “il viaggio, e dopo le tre ore
dell’agonia, la processione bene ordinata, al lume delle candele,
comparendo il letto dalla chiesa di S. Giuseppe, lentamente per la
scalinata, attraversava il Corso per finire alla chiesa Madre. Ogni
anno questa festa si celebra così, aggiungendovi anche la musica che
suona marce funebri, ma le Confraternite da tempo non ci sono più.
La festa di Pasqua con la Giunta al piano della Madrice o del
Crocifisso o del Rosario, la mattina col Cristo risorto, il
Salvatore degli uomini, la Madonna parata a festa e due enormi
statue rappresentanti S. Pietro e S.Paolo, prendono la via dei
Santi, seguiti dal popolo. Non sappiamo spiegarci che c’entra S.
Paolo, il cieco fariseo, nella Resurrezione, come non sappiamo
spiegarci che il Clero, tanto intelligente, abbia fatto passare
questo anacronismo. Ad ogni modo, cosa fatta, capo ha; paese che
vai,usanza che trovi. Ora dalle feste, passiamo al lutto. Proprio in
quell’anno 1837 appena terminata la muratura della chiesa e si erano
iniziati i lavori decorativi, in tutta la Sicilia scoppiò fulmineo
il colera. Dappertutto si fecero i cordoni sanitari, sicchè nè la
famiglia del capo d’arte, nè il’ decoratore poterono partire. I
colerosi nei Comuni erano numerosissimi, i morti non si potevano
contare. Chi vuole avere un’idea del terribile colera del 37 in
Sicilia, legga nel bel romanzo di Giacomo Oddo su L’Apostata
siciliana, la pagina che riguarda Palermo. Non c’era famiglia nella
quale non vi fosse uno o due morti di colera; basti dire che i
becchini la sera non avevano il tempo di trasportare i cadaveri,
tanto che il Sindaco diede ordine di accendere un fanale avanti la
porta dei deccesi dl morbo crudele. Le notti scrive lo scrittore,
Palermo era tutta illuminata. Immaginiamo quel che ci poteva essere
nelle vie di Riesi, nelle case, fra le famiglie. Presi alla
sprovvista, non conoscendosi il male e senza mezzi di soccorso, la
povera gente non sapeva che cosa fare. I medici chiamati a destra e
a sinistra non sapevano nulla di nulla, cosicché anche i ricchi
morivano colpiti dalla peste; pochi erano coloro che si salvavano
dal colera morbus. Vi erano quelli che dicevano:
Ci vien dagli uomini, non vien da Dio
Molti credevano che il colera lo gettassero, certuni lo credevano e
lo credono tuttavia per ignoranza o in buona fede, altri lo facevano
credere allo scopo di rubare, come altresì si credeva al lupo
Mannaro per lo stesso scopo; e questa superstizione del lupo Mannaro
esiste nel popolo basso napoletano. Essa viene raccolta dal Dott.
Axel Munhte ad Anacapri nel suo meraviglioso libro: La storia di S.
Michele (voI. di 6oo pag. Fratelli Treves). Nessuna meraviglia
adunque se nei riesini, popolino sparso in fondo alla Sicilia, vi
era tale superstizione. ci viene dagli0. uomini il colera per causa
dell’igiene. Ad ogni modo il colera durò tre mesi: Giugno, Luglio ed
Agosto e fu il caso poi che i palermitani condussero seco loro il
giovane R. Puzzanghera, il quale, perfezionatosi nella muratura,
ritornò a Riesi e mise su casa. Questo operaio analfabeta, filosofo,
contribuì con la vita e il lavoro al liberalismo e all’incremento
del paese
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Cap. XIX
la societa’ segreta – lotte politiche
Riesi non progrediva solamente numericamente e finanziariamente, ma
progrediva anche intellettualmente e liberalmente. Formatosi il ceto
pensante con una schiera di buoni professionisti, alcuni di essi
volsero il pensiero all’idea della libertà politica, immischiandosi
nei Risorgimento italiano ed aprendo gli occhi ad una fazione dei
popolo tra operai, zolfatai e contadini. I nostri professionisti
liberali, cercando il miglioramento della vita sociale, si
affermarono lottatori intrepidi, coraggiosi e benefattori. Essi
ebbero di fronte il Governo, la chiesa e la Baronia, eppure non
retrocessero. Che importava se i loro padri la pensavano
diversamente? Che importava se ebbero umili natali? Bisognava
lottare.
Era ben naturale che i figli dei ricchi, degli agiati e persino
degli operai benestanti andassero fuori a studiare. I padri facevano
enormi sacrifici pur di riuscire i figli, ma le difficoltà erano
immense. Senza mezzi dì comunicazione, con le sole trazzere regie,
coi dirupi e scoscesi negli accorciatoi, con le piene del Salso, a
quei tempi era un problema molto difficile il viaggiare in
cavalcature. Aggiungete a tutto questo il pericolo degli amici, cioè
i briganti, che trovandosi alla passata vi domandavano o la borsa o
la vita e spesse volte vi levavano e la borsa e la vita. Gli è vero
che c’erano i Compagni d’armi che sorvegliavano le campagne, ma
costoro erano ladri di notte sbirri di giorno cioè complici dei
ladri. Il governo borbonico aveva la massima di reclutare i
vagabondi dei paesI per non farli rubare, vestendoli da militi a
cavallo, ma quegli erano l’uno e l’altro e salvo a pagare una grossa
taglia per aver salva la vita, i Compagni d’armi facevano quel
mestieraccio. Vestivano in divisa con una lunga sciabola, armati di
moschetto e pistola, andavano a cavallo e nei paesi del Governo dei
Borboni rappresentavano la forza pubblica. Detti sbirri, amici degli
amiici, odiavano i liberali. A Riesi ce n’erano una mezza dozzina.
Tutto questo lo abbiamo detto incidentalmente, per provare come il
viaggio degli studenti e dei loro padri, ai tempi dei quali
scriviamo, era un serio rischio. Bello l’esempio i Don Giuseppe
Correnti, il quale andò a chiudere i due suoi figli Antonino e
Giuseppe a Bronte (prov. di Catania) e mai volle farli venire a
Riesi, malgrado l’ardente desiderio della madre, fino a che
terminassero il Ginnasio.
A Bronte vi era un rinomato Collegio dei gesuiti e molti vi andavano
per studiare, ma si andava anche a Caltagirone, Piazza Armerina,
Caltanissetta, Catania e Palermo.
I laureati adunque, ritornati in paese esercitavano con onore la
loro professione. E bene sapere che i loro guadagni non erano tanto
famosi e per lo piu vivevano del proprio. Ci si informa che un
medico nelle famiglie ricche, pagato ad anno, aveva dieci lire e
spesse volte domandava l’anticipo di sei mesi; una visita agli
ammalati era tre turi, pari a una lira e 25 centesimi; nelle
famiglie povere un galletto che costava una lira o qualche altro
regaluccio.
Alcuni di essi laureati nel 1840 fondarono la Società segreta “La
Giovane Italia” a cui faceva capo il grande pensatore genovese
Giuseppe Mazzini, l’apostolo della libertà italiana. I primi furono:
il Dott. Don Giuseppe Matera, il Dott. Don Gaetano Giuliuna, l’avv.
Don Calogero Accardi, il farmacista Don Salvatore Bartoli, il
negoziante DOn Salvatore Di Lorenzo, mastro Rosario Puzzanghera, lo
zolfataio Leopoldo Turco il falegname Michelangelo Mazzapica e i
contadini Calogero Chiolo, Rocco Scimeca e un certo Santo Balbo.
Anima della Società segreta era il giovane studente Giuseppe
Quattrocchi del fu Dott. Luigi e Mara Anna Pasqualino, nato nel 1830
Nipote del Giudice Don Onofrio Pasqualino, che fu il più piccolo dei
figli di Don Francesco e Caterina Inglesi; il giovane Quattrocchi da
ragazzo fu inviso allo zio per l’ingegno, la politica e la vivacità.
Il Dott. Matera, nato nel 1809, era figlio di mastro Vito e Saveria
Sarpietro. Contrariamente alla volontà del padre che lo aveva
mandato a Caltagirone a perfezionarsi nel mestiere di chiavettiere,
il figlio fuggi a Catania dove, studiando, si laureò in medicina.
Il Dott. Giuliana. figlio del Massaro Salvatore e di Filippa
Giuliana, nacque nel 1810. Avendo da bambino dimostrato di avere
buon ingegno ed appassionandosi nella medicina, la famiglia lo
assecondò nelle di lui aspirazioni, per cui divenne un bravo melico.
L’avv. Accardi era figlio del Massaratto Giuseppe e di Provvidenza
Verso. Nacque nel 1807 e studiò legge a Catania. Irruente nelle
difese, era un uomo coraggioso.
Il farmacista Don Salvatore Bartoli, figlio di mastro Giacomo,
cretaio, e di certa Di Benedetto, nacque nel 1818. Contrattò
matrimonio con Crocifissa Di Lorenzo ed apri la sua farmacia in via
Grande.
Di Lorenzo fu un negoziante di tessuti. Venuto da Lipari. sposò qui
Maria Catena Butera e fece fortuna, fabbricandosi la casa in via
Grande.
I membri della Società segreta si riunivano in una cameretta di
certa Maria Lupo nel cortile del piano del Crocifisso che dava nel
Corso. Ivi la notte si congiurava, leggendosi le lettere di Mazzini
e di Garibaldi. Si dice che le lettere erano scritte col sugo di
limone e che bruciandosi la carta, il contenuto si leggeva
perfettamente bene, indi si distruggevano.
Ben presto però la polizia borbonica venne a sapere i nomi degli
affiliati della Giovane Italia, che ne erano spiati continuamente.
il giovane Quattrocchi, trovato sospetto, fu arrestato a Catania e
mandato a domicilio coatto a Favignana, per sei mesi. Lo zio avv.
Don Luigi Pasqualino vi andò a tenergli compagnia cercando di
dissuaderlo, ma Peppino, negando, si mantenne serio. Siccome lo zio
era un pezzo grosso della Polizia, cosi lo liberò. Venuto a Riesi,
abbracciò la madre cercò i compagni e’ riparti per Catania, onde
continuare a frequentare l’Università ramo legge. A Catania una
volta in una villa si incontrò con Mazzini che lo baciò alla
presenza degli affiliati catanesi.
La Società segreta qui era terribilmente avversata dal potere
giudiziario, di cui era Giudice, dopo la morte del fratello l’avv.
Don Onofrio Pasqualino; dal potere amministrativo i cui Decurioni si
aggiravano fra i Martorana, i La Marca, i Debilio e i Pasqualino;
dal Clero con a capo l’Arciprete D’Antona che era una potenza e
dalla baronia, i cui amministratori erano qualche cosa. Gli altri
civili, se non facevano della politica, erano ligi ai su detti
signori; il popolino seguiva i grandi, e perciò i liberali erano
odiati e chiamati dei pazzi.
La lotta era impari; la politica fra travedere e intravedere giunge
alla personalità; la sbirruglia borbonica era a disposizione dei
Comandanti, quindi i liberali erano continuamente bersagliati,
perseguitati; ma quei sognatori che seguivano la politica generale
dell’Unità italiana, stavano fermi, la ridevano sotto i baffi e
lasciavano dire e lasciavano fare. L’odiato straniero in casa nostra
col “bastone tedesco” imparento cui borboni, adoperava tutti i mezzi
per reprimere il movimento avversario, ma la Società segreta in
tutta Italia lavorava con accanimento; il foglio di Mazzini su la
Giovane Italia arrivava ovunque; in questo estremo lembo vi
penetrava e si leggeva, sebbene nascostamente.
Le lotte politiche così si acuivano: gli sbirri facevano il loro
mestiere di spiare e rapportare. Il vecchio Dott. Rosario Vassallo
col Sig. Faraci, per quanto se ne stessero in disparte,
disapprovavano la condotta dei clerico-giudiziario-baronali.
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Cap. XX
il 1848
Scoppiata la Rivoluzione in Palermo ai 12 di Gennaio di quell’anno
memorabile 1848 con a capo il Conte Ruggiero Settimo e l’Avv.
Giuseppe La Masa per avere lo Statuto dal Governo delle Due Sicilie,
i Comuni dell’isola avendo saputo che le truppe borboniche
fuggirono, insorsero. Il momento fu grave. La ribellione dappertutto
diede luogo ai saccheggi, agli omicidi, alle vendette private; la
teppa approfittò del momento par fare man salva. Non tutti cercarono
l’idea della liberta politica; i capi rivoluzionari ne furono
compromessi: si sparse del sangue.
A Riesi però non fu cosi. I partiti contrari presero prima, armando
i loro amici che fecero fuggire i liberali, i quali si ridussero
nascosti nelle campagne.
Costituitosi in Sicilia il Governo provvisorio, i nostri se ne
vennero a casa: sicche da noi non successe nulla di nulla. Col
Parlamento siciliano di Ruggiero Settimo e La Masa, le cose parvero
migliorarsi: i clericali e i partiti affini, stettero zitti; i
liberali dal canto loro pacificamente, credettero di aver preso il
terno. Ma ohimè, fu un sogno.
La stessa rivoluzione successe a Napoli un mese dopo. Ferdinando di
Borbone spaventato di ciò, affacciatosi dal balcone del palazzo
reale, promise al popolo napoletano di dare lo Statuto. Ma questo.
lo sappiamo dalla storia fu un inganno, il re divenne spergiuro:
egli dopo alcuni giorni, di notte tempo fece arrestare tutti i capi
liberali del suo Regno e fu peggio di prima.
Gli arrestati a Riesi furono:
1. Il giovane Giuseppe Quattrocchi, L’arresto avvenne in modo
drammatico. Piombata la sbirraglia borbonica dietro la porta, egli
fu svegliato dalla madre: ebbe il tempo di vestirsi, immettersi
nella pugliarola all’entrata del portone dei Pasqualino, dove c’era
un fosso in fondo. Saliti gli sbirri, cercarono dappertutto la casa,
non trovandolo se ne scesero; ma tal Giovanni Calamita fabbro
ferraio, spia segreta, li condusse dietro al portone facendo aprire:
gli stessi parenti dei Pasqualino pér intercessione della madre,
glielo consegnarono. Condottolo al Carcere, lo consegnarono e lo
chiusero dentro, facendolo guardare da un compagno d’arme.
2. Poi passarono al piano del Crocifisso nel cortile dei Butera, per
l’abitazione del Dott. G. Matera da un scala, esterna che ancora
esiste diruta e triste ricordo di quel fatto. Bussati
alla porta, svegliatosi il Dottore, questi dissi di aspettare un
momento, inteso il rumore delle sciabole. Uomo socratico, accesa la
candela, si vestì, baciò la moglie, figlie e figli ed aprì.
Egli fu condotto al carcere assieme all’altro.
3. Di corsa si recarono al Lago nella casa Accardi l’avv. Don
Calogero, più Vivace ed energico, aveva tentato scappare dal
tettaccio, ma un colpo di pistola a scanso, sparatogli da un
antiliberale, che non nominiamo per amor del prossimo e per carità
di patria, fece atterrire la famiglia; fu gioco forza arrendersi.
4. Indi passando dalla via del Parroco, venendo giù salirono da Don
Salvatore Di Lorenzo che svegliatolo lo fecero levare e lo
arrestarono. La moglie ignara del perché, affacciatasi al balcone si
mise a piangere e a gridare: “Hanno arrestato mio marito… hanno
arrestato mio marito…”.
Fattosi giorno si seppe la notizia dello arresto. Scesi in piazza
(quattro Canti) Don Giuseppe Faraci e Don Giuseppe Correnti
criticarono l’operato della polizia; il popolo rimase muto, triste,
atterrito.
Gli arrestati la mattina stessa furono fatti partire per Palermo.
Arrivati a Caltanissetta li fecero sostare nel carcere del Centrale
fra i delinquenti volgari. Bella la tirata di Don Calogero Accardi
con un capo mafioso. Un recoluto della mafia, si presentò ai quattro
nuovi arrivati dicendo che dovevano pagare il diritto giusto il
Codice della Mafia. Lo Accardi si fece spiegare in che cosa
consisteva questo pizzu e questo Codice e di botto domandò:
— E se non lo vogliamo pagare?
Botta e risposta:
— Allora c’è la tirata....
—Come ?....
— Con i coltelli
— Con chi?
— Col Capo...
— Quando?
— Domani mattina all’aria.
Ebbene accetto i disse Don Calogero risoluto.
— A domani e, li lasciò.
E difatti l’indomani, all’ora che i carcerati dovevano andare a
prendere una boccata d’aria, nell’atrio, vi doveva essere la tirata.
Don Calogero, uscendo dalla cella, seguito, dai compagni, nel
corridoio, vedendo un grosso ciottolone, lo estirpò e se io mise in
mano sotto la giacca. Il capo mafia, si presentò con un lungo
coltello di coscia acuminato, pronto alla sfida; ma il riesino fatti
due passi indietro, mostrando il ciottolone, in atto di tirarlo
contro il mafioso, disse Largo! ..; Ma i carcerati presenti
gridarono: No... no... non è cosi che si fa la tirata — L’avy
Accardi; “io cosi sono abituato a tirare ai buoi della mia
Masseria”. Il mafioso rimase perplesso; i suoi amici gli fecero
cadere il coltellaccio dalle mani e lì fecero conciliare; la onde il
liberale di Riesi esclamò: “Come! noi siamo di passaggio qui, perché
arrestati politici e voi ci volete far pagare il pizzo?”
Infatti essi furono deportati alla Quinta casa, carcere di Palermo,
insieme agli altri arrestati politici dell’isola.
Il processo non fu tanto lunghetto, la Sentenza non si fece tanto
aspettare: tutti i capi furono condannati alla pena di morte “rei di
avere fomentata la Rivoluzione contro lo Stato e di avere fatto
commettere saccheggi e uccisioni “. Giusto in quel momento si
trovava in Palermo il Giudice Pasqualino, il quale recatosi alla
Quinta casa, fece chiamare i compaesani, ai quali disse loro:
“Sapete, mi dispiace il dirvelo, è stata firmata la vostra
Sentenza”.
Giunta a Riesi la notizia, le povere famiglie si chiusero nel lutto,
gli amici esterrefatti, repressero il dolore. Donna Maria Anna
Pasqualino, la madre di Peppino, pazza dal dolore, risolvette di
andare a Palermo, facendosi accompagnare da un parente. Per fortuna
ivi si incontrarono con il prete concittadino P. Ercole Volpe dei
Gesuiti di Casa Professa: il quale era amico del Rettore, Cappellano
di Corte, confessore della vice regina. D’accordo combinarono di
andare dal vice—re, marchese di Satriano per chiedergli la grazia
sovrana con una Supplica. Cosi fecero.. Il vice re ascoltò con
deferenza la nobile donna e, sfogliate le carte, visto che a Riesi
non c’era stato niente; ascoltato il parere del Segretario di Stato,
uditi i PP. gesuiti accordò la grazia ai quattro riesini. Il
Segretario di Stato volle conoscere il Quattrocchi accompagnando la
madre al Carcere. Li, avvenne la scena che riportiamo, informati da
una donna liberale del 48
Il carceriere chiama ad alta voce:
— Giuseppe Quattrocchi fu Luigi da Riesi? — presente — Siete libero;
qui c’è vostra madre che vi aspetta.
Peppino si preparava ad uscire.
Dottor Giuseppe Matera, idem; avvocato Calogero Accardi; Don
Salvatore di Lorenzo, idem potete uscire, siete in libertà.
Il primo ad uscire fu Peppino che volò fra le braccia della madre
che se lo strinse baciandolo: Libero... libero, figlio io, ti ho
salvato dalla morte; si sei libero…
A questa scena il Segretario di Stato, mirando il figlio:
—. Imberbe giovanotto, abbaia per l’osso; glielo daremo!
E Peppino Quattrocchi, svincolatosi dalle braccia della madre
guardandolo con disprezzo col dito teso, gli fa:
L’osso lo faremo mangiare a te, noi liberali sbirro sfottuto! E la
signora messagli la mano in bocca:
— No... no, figlio mio, non dir così! E rivotasi al Segretario:
— Lo compatisca, signore lo compatisca!....
Quegli scrollando le spalle, se ne uscì.
Gli altri tre furono pronti e se ne uscirono dalla prigione tutti e
cinque. Ebbero il tempo di andare a ringraziare il P. Ercole,
prendere un boccone e venirsene a casa; già la notizia era arrivata
a mezzo del Sindaco che in quell’anno 48 era il Sig. Giuseppe
Martorana, uomo piuttosto dei fatti suoi. I nostri liberali
mostrandosi in piazza, furono adocchiati da tutti e specialmente
fatti segno dai contro partito, Già un’altra volta il Quattrocchii
fu arrestato ed egli disse allo zio: inutile quel che fate, anche se
mi infilate dentro un fiasco quel che sono sono; quel deve avvenire,
deve avvenire....!
Siccome il Governo borbonico si intitolò poi il Buon ordine, così i
siciliani ripresero la vita normale; e il Governo del Bonordine
avendo bisogno di moneta ricorse ad un prestito Nazionale per far
fronte alle spese, previo il titolo di barone; a Riesi concorsero il
Notaro Onofrio Inglesi e Don Giuseppe Faraci, i quali furono
nominati baroni; ma il Faraci non volle mai esser tale per modestia
nella sua grandezza continuando a lavorare, anzi… una volta sceso di
notte nella miniera Galati si levò la giacca e tracciò egli stesso
una galleria, insegnando al capo mastro come doveva fare.
Questo era l’uomo di quel tempo!…
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Cap. XXI
Miseria e filantropia – colera del 54 – Aspettando, i liberali si
fortificano
Dopo il 1848, seguirono tre anni di carestia a cagione della
siccità. Il paesetto faceva circa 7 mila abitanti. La massa dei
contadini soffriva la fame; le fave si vendevano a sei un grano la
cicoria si mangiava cotta senza olio; la povera gente non aveva
lavoro. La miseria era estrema.
Allora i proprietari aprirono i magazzini per soccorrere i
bisognosi. I primi a dare l’esempio furono Don Giuseppe Faraci, Don
Giuseppe Correnti ed il Parroco D?Antona. Il frumento si distribuiva
generosamente a seconda la famiglia che ne aveva bisogno; Don
Giuseppe Faraci scendeva in magazzino e dava persino del la moneta
per il macino. Il Municipio dal canto suo prestava anch’esso l’opera
assistenziale contribuendo con una data sommetta, dando ordini
precisi in sollievo della popolazione sofferente; i liberali dal
canto loro nascostamente facevano il loro dovere senza mostrar la
mano alla plebe, la quale in simili casi non sa quale santo votarsi.
Questi atti di filantropia stringevano il popolo coi ricchi, i quali
erano larghi di cuore, specialmente i Massari che amavano i
lavoratori della terra. I filantropi, benefattori, erano segnati a
dito dai beneficati, i quali si mostravano riconoscenti ad ogni piè
sospinto. La chiesa o meglio le chiese erano affollate per ricevere
non il pane materiale, ma la dolce parola del conforto spirituale.
Certamente che in mezzo alle rose vi erano le spine pungenti che
qualche volta facevano il sangue, ma in generale si possa dire che
la miseria veniva alleviata.
Per ben tre anni durò questa brutta miseria, cioè fino al 1852; dopo
la siccità cessò, la pioggia venne; ì lavori della campagna si
riaprirono, i contadini ripresero la vita normale mancando il lavoro
manca tutto, il commercio si paralizza col lavoro viene
l’abbondanza; la miseria nera non si fa sentire, si sopporta la
povertà. Nascer poveri non è un delitto, ma la povertà spinge a mal
fare. Ecco perché succedevano dei furti: salvo i ladri di mestieri,
i ladruncoli o i pagliarolara erano arrestati, imprigionati,
condannati e le famiglie soffrivano di più.
Nel 54 scoppiò un’altro colera più fulminante del primo, quello del
37. Stavolta l’infezione la portarono i terranovesi venuti a vendere
del frumento comprato da un bastimento indiano, si disse; sicché
esso colera fu isolato in pochi paesi attorno.
Era l’andazzo della vendemmia, tra gli ultimi di Agosto e Settembre,
la gente si trovava in campagna e nessuno volle ritornare in paese:
La frutta si gettava. Anche nelle campagne il colera faceva strage;
c’era chi seppelliva i cadaveri sul luogo stesso, chi li portava sui
muli o su di una scala a pioli avvolti nei materassi o stracci.
Nulle fosse delle chiese in paese erano i parenti stessi che
venivano a gettare i loro cari, perché i becchini non avevano il
tempo di seppellire i morti. Aggiungiamo che le piogge torrenziali
di Settembre e di Ottobre rovinarono il raccolto del mosto e per le
trazzere, viottoli e sentieri, resi impraticabili, nemmeno si poteva
trasportare.
Il colera cessò nella prima quindicina di Ottobre.
Quando i proprietari rientrarono in paese, trovarono gli abitanti
superstiti desolati nelle loro case, decimati dal morbo crudele; ma
poi si riprese la via dell’ascesa.
I proprietari infatti istituirono il Monte frumento pei venire in
auto ai piccoli mezzadri, anticipando loro le sementi. Il magazzino
era gestito dal Municipio fino al 1915, ed ora, con decreto
luogotenenziale si chiama: Cassa Comunale di CrediLo Agrario.
Passata questa jattatura, venne la calma. E’ bene pensare un pò ai
liberali che si fortificano, poiché l’alta politica di Vittorio
Emanuele II, nuovo Re del Piemonte, col Conte Camillo Benso di
Cavour, pensando ai destini d’Italia, dava molto a sperare. Ma,
oltre ad essi, altri liberali vennero ad ingrossare le nostre file
dei lottatori ; buoni propagandisti oculati, guadagnando terreno
nella Società Segreta, aspettavano.
Due buoni elementi furono:
1) Don Girolamo Caramanna da Marineo (Prov. di Pa lermo), figlio di
un farmacista che apprese il mestiere di sarto nella detta città: il
48 si trovò fra gli insorti, perseguitati dal famoso Generale
borbonico Del Carretto, fu ferito alla gamba destra sotto Acireale,
e, messosi fuori combattimento, si ricoverò in una casa di campagna
dove fu curato. Guaritosi - andò girovagando fìnchè nel ‘55 si
ridusse qui a Riesi, dove trovò lavoro nella sartoria di Don
Giuseppe Alfano, venuto da Racalmuto (prov. di Agrigento), che
sposatosi con una Golisano, fece fortuna.
Il Curamanna, che aveva avuto il battesimo di sangue, conobbe i suoi
amici politici coi quali entrò in relazione. A poco a poco sì rese
pratico del paesetto: frequentando la famiglia Di Benedetto sposò la
figlia a nome Grazia. Allora smise di fare il sarto e mise su un
negozio di tessuti; oltre a ciò ricettava dei cereali guadagnando
bene. Nella Società Segreta contribuiva largamente e nei negozi, tra
una parola e l’altra, seminava il germe della libertà. Quel che fece
poi lo vediamo fra breve.
2) Giuseppe Bruno o don Pippo fu un’altro membro, affiliato, attivo,
entusiasta, ricco: contribuì non solo al partito liberale, ma con
l’ingegno della famiglia onorò Riesi..
Don Pippo Bruno era oriundo da Nicosia (prov. di Catania). Egli, di
famiglia patrizia, per il suo liberalismo era odiato da un fratello
monaco e dai suoi. Un giorno, stufo dei disprezzi, fuggi da casa e
prese la via della campagna; incontratosi coi briganti, si uni con
loro per vivere e scorazzare di qua e di là, giunsero nel feudo
Tallarita, alla miniera. Qui Don Pippo, lasciata la masnada, si
impiegò come contabile presso l’amministrazione del Parroco.
Ciò fu nel ‘57.
Conobbe la ricca famiglia dei Buttiglieri e ne sposò la figlia
Lucia, la quale gli portò una vistose dote. Mettendo su casa, se la
fabbricò dentro il cortile di Via Verso con la prospettiva dalla
traversa Chiantia, al Rosario.
Il Bruno, morti i di lui genitori, ebbe la parte spettategli della
ricca proprietà. Ricco intellettuale, mantenne i suoi figli .e le
sue figlie agli studi a Napoli.
Uomo liberale, Don Pippo Bruno fece causa comune con la Società
Segreta. i tempi si andavano maturando; le battaglie di San Martino
e di Solferino, con esito favorevole all’Italia per aver cacciato lo
straniero dalla Lombardia, facevano guadagnar terreno, giorno dopo
giorno, ai liberali.
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Cap. XXII
il 1860
Dal 1848 al 60, dodici anni passarono in un fiat. L’alba del 12
Maggio 1860 spuntò bella, radiosa per tutta l’isola dì Sicilia. Si
disse che il Generale Giuseppe Garibaldi con mille uomini volontari,
era sbarcato a Marsala; i clericali, baronalì, realisti si
affrettarono a voler smentire la notizia, ma dopo il proclama di
Salemi – 15 Maggio - quando Giuseppe Quattrocchi volò da Catania a
venirlo a leggere non vi fu piu ritegno. Un movimento insolito ogni
giorno si notava; i liberali scesero in piazza; la casa del
Quattrocchi era frequentata con un via vai di persone d’ogni ceto;
la battaglia di Calatafimi, in cui la spada fiammeggiante dell’Eroe
dei due Monti mise in rotta i soldati borbonici, fu appresa con
soddisfazione; e il 27 Maggio l’entrata di Palermo convinsero Don
Giuseppe Faraci e Don Francesco D’Antona, fratello del Parroco, a
stringere la mano al Quattrocchi e comprimendosi a loro.
L’entusiasmo ognora crescente, avvinceva l’animo dei riesini: gli
indifferenti, i tiepidi si affiancavano ai liberali, mostrandosi in
pubblico contenti; il Clero, gli increduli, gli interessati se ne
stavano lontani, spettatori.
Ma Garibaldi scriveva a Don Calogero Accardi che aveva bisogno di
uomini per passar lo Stretto di Messina e giungere a Napoli onde
snidare la dinastia dei Borboni. Allora si formò un Comitato di cui
risultò presidente Don Giuseppe Faraci. intanto il Generale Nino
Bixio era giunto a: Terranova (Gela) per fare l’arruolamento dei
volontari. Un Sergente dei garibaldini venne per lo stesso scopo
qui.
Si iscrissero e partirono:
1. Francesco Matera, figlio del Dottore;
2. Francesco D’Antona di Francesco;
3. Antonino Correnti Di Giuseppe, chierico;
4. Giuseppe Celestri di Giuseppe, studente;
5. Francesco Infantone, pittore;
6. Giuseppe Ferro, musicante;
7. Luigi Matera, fabbro ferraio;
8. Matteo Mercurio calzolaio;
9. Nicolò Scibetta, barbiere;
10. D’Aleo Carmelo, stagnino;
11. Francesco Mulè, figlio del sagrestano della Madrice;
12. Francesco Lo Grasso, zolfataio;
13. Giovanni Giuliana, agricoltore;1
14. Antonio Zagarella, contadino;
15. Giovanni Dilegami, tamburinaio.
Ne sarebbero partiti di più se non fossero stati trattenuti dalle
madri, dalle mogli, dai figli. L’Avv. Don Calogero Accardi volle
accompagnarli fino a Terranova per entusiasmarli.
Bello esempio dei due suoi figli, Giuseppe e Calogero, che, venendo
dal mulino del Rizzuto con le mule cariche di farina, affidate le
bestie a dei contadini, seguirono gli altri. Non tutti però
partirono col desiderio di combattere per la libertà: al alcuni vi
andarono per secondi fini; laonde arrivati a Leonforte, quando Nino
Bixio mise l’ordine: “Chi ruba va fucilato”, i tali di tutti i paesi
se ne ritornarono alle loro case. Da Gela ritornarono Don Calogero e
i figli; Don Giuseppe Correnti si parti da Riesi e andò a cavallo a
rilevare suo figlio a S. Caterina, presentandosi a Garibaldi che si
era unito con Bixio per marciare alla volta di Messina. E il
Generale fu ossequiente alla volontà del padre. Laonde Antonino
Correnti si strappò il collare, non volle più farsi prete - e
questo fu un bene perché divenne quel che divenne, e che a suo tempo
vedremo.
Coloro dei nostri paesani che vestirono la camicia rossa a Messina,
furono chiamati d’urgenza di rinforzo nella terribile battaglia di
Milazzo del 20 Luglio, descritta da Alessandro Dumas (padre) nel suo
romanzo I GARIBALDINI dove Caribaldi perdette il meglio dei suoi
Ufficiali e soldati, senza punto scomporsi, dicendo: “La mia palla
ancora fusa”. I borbonici, comandati dal Generale Bosco, siracusano,
si erano nascosti dentro il vallone, fra i fichi-pali; i garibaldini
venivano da Palermo, il Generale mandò le guide per vedere se si
poteva passare da Milazzo; esse passarono inosservate facendo segno
di venire avanti; ma l’agguato, il tranello fu che al petto del
vallone incominciò la fucileria; i garibaldini cadevano numerosi e
in breve l’esercito fu decimato. Intanto, mentre ai borbonici
andavano esaurendosi le munizioni, ai garibaldini giunsero dei,
rinforzi non solo da Messina, ma anche dai paesi vicini, e così la
posizione fu salvata. I borbonici furono presi prigionieri: Bosco,
il bravo generale, tra fischi e urla, fu accompagnato bordo dl un
battello. I garibaldini andarono avanti verso la città del Faro,
onde passare la Stretto ed incamminarsi per le vie delle Calabrie.
Dopo questo fatto d’armi, Francesco Matera scrisse al padre: Caro
papà, abbiamo avuto a Milazzo uno scontro coi borbonici ed abbiamo
vinto, presa la fortezza della cittadella, ora dobbiamo marciare
verso Napoli, con la speranza di abbattere i borboni; col Generale
Garibaldi non si perde mai, I ma si vince sempre. I nostri
compaesani stanno tutti bene. Dirai alla nonna che Luigi (zio) è
stato fatto trombettiere. Io e Ferro saremo caporali; tutti
salutano le famiglie. - (Messina 30 Luglio 1860) .
Avuta questa lettera nelle mani, il IDott. Matera la comunicò prima
a la signora Antonina Ferro che abitava di fronte alla di lui casa
nello stesso cortile, dicendole che i nostri avevano fatto urna
scaramuccia coi regi, e poi, tutto contento si recò dalla matrigna
dicendole che Luigi era stato fatto trombettiere. Sia l’una che
l’altra donna si misero a vociare e a piangere, credendo chi sa che
cosa, in modo che le altre famiglie dei garibaldini in breve si
allarmarono e il paesetto fu sottosopra. Allora Don Girolamo
Caramanna e Don Pippo Bruno girando le famiglie, le rassicuravano,
apportando anche degli aiuti materiali alle più bisognose.
La notizia della battaglia decisiva sul Volturno non si fece tanto
aspettare. La dinastia d borboni era distrutta il Regno delle due
Sicilie era crollato. “Garibaldi fu d’un gran popolo Redentore;
compiendo il sogno di molle età”.
Don Girolamo Caramanna, pazzo li gioia, andava gridando: “Cadi, cadì
la mula!”.
Con l’incontro di Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano salutato
il primo Re d’Italia, Riesi si decise di partecipare al plebiscito.
Quindi si allestirono le coccarde tricolori da fregiarsi il petto.
Don Girolamo Caramamma le appuntava, proferendo il motto: “Chi non
la mette è sorce”. Allo spiazzale della Madrice, battezzato “Piazza
Garibaldi”, si ballava, si cantava; fra i dimostranti vi erano anche
i due preti: Don Rocco Peritori e Don Gaetano DAntona, per far
dispetto al Parroco, perché dissidenti.
Sindaco era Don Carmelo Bartoli Capizzi; Giudice, invece, era il
Notaro Don Giuseppe Calogero Verso: il primo era uomo di buon senno,
remissivo, e lasciava fare; il secondo, borbonico, non volle
arrendersi; allora il popolo riunitosi sotto la di lui casa, gli
gridò “abbasso”, e fu costretto ad andarsene a Pietraperzia, presso
i parenti della moglie.
Calmatesi le cose, col nuovo Regno di Vittorio Emanuele II, si
istituì subito a Riesi la Guardia Nazionale, detta “La civica”. Buon
numero di cittadini dovevano sorvegliare, giorno e notte, l’interno
del paesetto, che allora contava piu dì sei mila abitanti. Il loro
Capitano era Don Francesco D’Antona e tenente il Caramnanna. Fu in
quel periodo che, davanti la casa Faraci, con un colpo di pugnale al
cuore, venne assassinata la Guardia Nazionale V. F., mentre si
recava ad accompagnare un nipotino dalle sorelle, in Piazza
Garibaldi. Caduto vittima il povero F., il nipotino piangendo andò a
riferirlo ai genitori. Con essi accorsero molti, e il cadavere fu
piantonato dalle guardie fin l’indomani mattina. Movente del
delitto? Mistero. Gli autori? Mistero ... E durante il periodo
della rivoluzione del ‘6o venne fucilato sopra la montagna, certo
Gangitano, vagabondo da Canicatti, perche chiedeva con lettera
minatoria denaro al Faraci. Nessuno dei riesini volle sparargli, e
fu un forestiere che li tirò.
Eccetto questi due fatti di cronaca nera, niente altro di grave
avvenne a Riesi; furti, risse, ferimenti ve ne furono, ma poi....
** Torna su **
Cap. XXIII
la liberta’ – come dalla notte al giorno – i primi sindaci dei nuovi
tempi
Venuta la libertà, parve “come dalla notte al giorno”, e questa è
un’espressione d’un vecchio garibaldino che di ritorno con gli
altri, ci intratteneva spesso con racconti dei passato e del
presente. Per comprendere meglio il valore di questa bella
espressione, giova qui narrare qualche fatterello che ce ne da
l’idea.
Un giudice palermitano a nome Pirrotta, di sangue borbonico,
sorvegliava, spiava minutamente gli atti delle persone. Un giorno,
incontrato un cittadino, che a caso aveva comprato “Le mie prigioni”
di Silvio Pellico, glielo strappò di mano dicendogli: “Non sapete
che questi libri non si possono leggere?”. E glielo stracciò. lui si
recò dal libraio e lo rimandò. La legge la faceva con la taglia,
come suoi dirsi : al migliore quotato dava la sentenza di favore.
Nella Rivoluzione il popolo voleva far giustizia sommaria di quel
giudice ma i liberali lo salvarono, accompagnandolo alle porte del
paese. Il tracotante disse di ritornarvi col ritorno dei Borboni.
I ricchi così ne approfittavano contro la povera gente. Un tale che
voleva vendere una mula, chiamava un uomo e gli diceva: “Voi
stimatemi quest’animale cent’onze, e, il compratore, doveva per
forza acquistarla per tanto”. I ricchi perciò, abusavano fin troppo
dei tempi borbonici; i poveri erano soggiogati.
I preti erano non solo rispettati, ma temuti. Essi, nelle scuole,
bastonavano di santa ragione, talché gli scolari, disertavano la
scuola restando ignoranti per tutta la vita. Il Clero, mano forte
del potere politico, dominava le coscienze. La Baronia, d’altro
canto, non si accontentava di riscuotere i censii ma vessava gli
abitanti.
Con la libertà tutto questo non vi fu più.
Don Francesco D’Antona, nella qualità di Capitano delle guardie, una
domenica entrò in chiesa a cavallo per far dispetto al Parroco. Il
Quattrocchi, per quanto si fosse appartato dai liberali, perché
dalla scuola di Mazzini, pure era l’avvocato dei poveri qui e a
Caltanissetta.
La libertà che sembrava un sogno, aveva messo tutto e tutti a posto.
Però il paesetto era ugualmente pieno di fango e privo
d’illuminazione. Per potere d’inverno camminare per le vie bisognava
cospargere di paglia, e poi, a suo tempo, venire raccolta e farne
fimo. Nelle scuole vi era qualche insegnante laico che si
distingueva.
Intanto gli abitanti crescevano e si sentiva il bisogno di
respirare. La nuova Via Drogo, lunga e larga, dalla vicina casa
Accardi, si andava popolando, la Via Schifano verso la Sanguisuga,
la Via Larga, erano indice di progresso. Dei proprietari come i
Drogo, i Rotella, i Vecchio, si erano fortificati; altri erano
caduti in basso. Cosi, la nobile e prima casa di Riesi, era in
decadenza, avendo commessa un assassinio: certa Cangiola Maria,
mantenuta dal cosi detto baronello (sic), fu trovata assassinata
nella di lei abitazione. La moglie e la suocera del detto barone
scapparono a Delia dove furono nascoste; lui fuggì; i figli e le
fìglie del baronello Don Felicetto rimasero ricchi: essi si
fabbricarono i palazzi al centro, nel corso e in piazza; essi
palazzi erano imponenti: uno diede il nome alla 2. Via Golisano,
un’altro fu quello del farmacista Correnti che sposò Donna Rosaria
Amarù. Ma poi tutti, eccetto uno, si ridussero alla malora e furono
costretti a vendere. E i Camerata, anch’essi, perché imputati due
fratelli di un omicidio in campagna, i ridussero poveri.
Era i ricchi primeggiavano i D’Antona, i Pasqualini e gli Inglesi, i
Vitello, i Bartoli Capizzi, gli Amarù, i Jannì, il Dott. Riccobene,
i Di Benedetto, i Verso e i Federico.
Bisognava cercare un Sindaco dei tempi nuovi, dopo iL ‘6o, A dir la
verità, nessuno dei liberali brigò di andare a quel posto, di modo
che, il Prefetto di Caltanisselta fece cadere la scelta sul Cav. Don
Carmelo Inglesi.
I fratelli Giuseppe Antonio e Carmelo erano figli del Notaro Onofrio
e di Maria Anna Butera. Essi furono mantenuti agli studi a Palermo,
comparendo da nobili, tanto che li chiamavano i “I Baroni della
Sicilia”. Morti i genitori, ereditarono il feudo del Pantano ed una
buona q quantità di moneta; le sei sorelle avevano avuto la loro
dote, tutta in denaro.
Il Pantano fu dato ad ortaggi ai fratelli Lo Giudice, i quali,
coltivandolo, abbondarono la verdura in paese. Dipoi, si
fabbricarono i due bei palazzi attigui. Don Giuseppe Antonio, che si
fa sempre chiamare “barone”, sposò una ricca Molisano,Teresa ; il
fratello ebbe il titolo di cavaliere dal Re Francesco di Borbone nel
1856. La figlia Donna Giulia ci disse prima di morire: che il padre
avendo un bel cavallo inglese col quale si pavoneggiava. in
occasione della venuta del Re a Canicattì volle andarvi,
confondendosi cogli altri nobili dei paesi vicini. E siccome il
cavallo era ben sellato ed egli era d’una bella Presenza, tale da
sembrare un vero “Sermala” (nobile toscano del Medio Evo), gli occhi
del Re si posarono sul bel cavallo e chiamato il cavaliere gli disse
— Che bel cavallo, me lo vuoi vendere?
— Maestà... regalato, si... venduto. no...
— Bene, bene, si tenga il suo diletto!
Arrivato a casa, lo Inglesi, fu nominato Cavaliere. Questi, nel
1863, fu dunque il primo Sindaco di Riesi dei tempi nuovi. Egli, da
brav’uomo, iniziò a fare un pò di bene al suo paese, chiamandosi a
Vice-Sindaco il Dott. Don Giuseppe Riccobene.
La prima cosa che fece il nuovo Amministratore Comunale, fu di far
collocare un orologio pubblico al campanile della Madrice, dando al
paese un aspetto civile; fece ciottolare
il Corso, rendendolo transitabile; fece collocare una dozzina di
lampioni a petrolio nelle vie principali; badò alla pulizia, e,
sopratutto, lui di persona sorvegliava l’Annona.
Questo a tutta prova, il Cav. Inglesi non cercò piu il suo interesse
Personale, ma bensì il bene dei suoi amministrati. Ricco di casa
sua, badò pure alla proprietà. allestendo neI ‘63 il palazzo che
riuscì il migliore di tutti, perche aveva un grazioso giardino col
pozzo per le aiuole. Se egli qualche volta lasciava fare al
Vice-Sindaco, non significava trascuranza verso il Comune, giacché
poi, voleva sapere tutto dai pochi impiegati.
Dopo due anni e mezzo, stanco di questa vita, si dimise ritirandosi
a vita privata; lasciò in carica il Dr. Giuseppe Riccobene.
Era costui un’animella, buono a nulla, che per quanto ricco, a quel
posto ci teneva. Il Prefetto lo esortava in tutti i modi a
dimettersi, ma lui faceva orecchio da mercante. Naturalmente, ciò
irritò a tal punto il capo della Provincia che per decreto reale gli
ordinò la destituzione.
Don Salvatorello Giuliana, Segretario Comunale, nel comunicargli a
casa il decreto, siccome era un dilettante di v’ersi, gli
canterellò:
Tuttu a stu munnu muta e stacca,
Lu poviru pacchiana e lu sublimi abbunca;
Lu Re ca lu jornu ammazza e spacca,
La sira ‘ntra un taguriu si va giucca
Questi versi il Giuliana li aveva composti per il Re Fraccischello
di Borbone, quando fuggì da Napoli; all’occasione li adottò per il
Riccobene destituito.
Ora viene la volta del Sindaco liberale, Cav. Dott. Giuseppe Janni,
eccellente chimico farmacista al quale gli dedichiamo li seguente
capitolo.
** Torna su **
Cap. XXIV
il sindaco janni – colera del 67 – morte del quattrocchi
Il Sig. Giuseppe Janni nacque nel 1818 da Don Giuseppe e Crocifissa
Di Natale.
I Janni discendono, da semplici agricoltori e da farinai; con il
loro ingegno, lavoro e l’onestà sono arrivati a farsi strada,
imponendosi per la loro intelligenza.
Giuseppe, rimasto orfano di padre, fu mandato a Catania a compiere
gli studi; si specializzò in chimica per essere farmacista.
Laureatosi, rientrò a Riesi dove apri la piccola farmacia nella Via
del Crocifisso che va a Donna Ciucella. Sposatosi con Filippa
Martorana, in breve rimase vedovo senza prole. Non volendo più
risposarsi, prese a carico i figli e le figlie del defunto suo
fratello, il Dott. Rosario, per istruirli ed educarli.
Nel suo laboratorio, l’eccellente chimico farmacista sperimentò il
citrato cristallizzato; che, resolo raffinato, divenne di facile
presa. Questa sua invenzione gli fruttò onori e diplomi in Italia e
all’estero,e, con gli onori, ebbe anche i guadagni della privativa.
La sua sua farmacia, quindi, si allargò.
Uomo benefattore, di tempia liberale, amico dei poveri, il
farmacista Jannni era divenuto non solo l’idolo dei suoi parenti, ma
anche del popolo.
Fu per questi meriti che il Prefetto di Caltanissetta, nel 1865, gli
offrì la carica di Sindaco del Comune di Riesi; carica che lui
accettò ben volentieri: null’altra ambizione ebbe il bravo
chimico-farmacista che quella di fare del bene. Da buon funzionario
si attenne a tutto quanto il suo dovere. chiamò a funzionante il
giovane Avvocato Don Francesco Trapani, il quale i dedicò alla legge
Provinciale e Comunale.
Vediamo quali furono le opere pubbliche che tuttora ci parlano di
quell’uomo la di cui memoria è benedetta, avendoci lasciato il
ricordo di un grande nome. Possiamo dire con orgoglio che tutto
quello che oggi noi vediamo, lo lasciò in embrione il Sindaco Cav.
Giuseppe Janni.
Tre belle opere furono deliberate ed approvate nel 1866: la Casa
Comunale o Municipio, lo stradale Riesi-Sommatino e il Corso
Vittorio Emanuele II lastricato. L’Ing. Musimci, che ne esegui i
progetti, non volle essere pagato Per riguardo al Sindaco Janni. Per
costruire il Municipio si prese la vecchia Chiesa del Rosario e fu
dato in appalto ai caltanisettesi; per lo stradale l’appalto parve
esorbitante, ed allora si stabili di farlo eseguire in economia
sotto la direzione dello stesso Ingegnere, a condizioni che dalle
economie dovevasi lastricare il Corso.
Si erano iniziati i lavori, quando l’anno dopo, nel ‘67, scoppiò il
colera. I lavori furono sospesi per dare aiuto alla popolazione.
Quello che fece il Sindaco Janni in quella occasione fu veramente
ammirevole, sotto tutti i punti di vista. Anzitutto fece aumentare
l’illuminazione di trenta fanali; teneva aperta la sua farmacia di
notte e di giorno; ogni mattina correva in Piazza Garibaldi a dare
ordini per la disinfezione; correva dalla casa al Municipio, per le
vie, visitando e soccorrendo i colerosi. Per la calca dei cadaveri
nelle Chiese, fece scavare una fossa comune, fra la roccia, dietro
le mura della Chiesa S. Giuseppe.
Al solito, i ricchi se ne andarono in campagna; ma il Sindaco e i
liberali rimasero in paese a soccorrere i colerosi. L’esempio dei
due dottori Matera, padre e figlio, che uscivano di casa la mattina
e non rientravano che per il pranzo e al calar del sole,
consultandosi sul da fare e dividendo i quartieri, vale per tutti,
La gente moriva anche da spavento; i cadaveri venivano gettati alla
rinfusa. Avvenne che una donna ammalata, presa da sincope, fu messa
in cataletto e portata di sera nella chiesa di S. Giuseppe. La
notte, la poveretta, rinvenuta, ebbe la forza di alzarsi, afferrare
la corda delle campane c suonare ma nessuno accorse ; e l’indomani
fu trovata esanime, distesa a terra, fuori dal cataletto, con le
lenzuola il cuscino rovesciati.
Nel colera del ‘67 vi trovò la morte in un modo pietoso, il
compianto Giuseppe Quattrocchi e la moglie, lasciando i figli in
tenera età.
Egli era sposato con una cugina mazzarinese che si trovava con la
famiglia, dai parenti; là, infettatosi di colerina, voleva recarsi
al paese natio della moglie, ma arrivato a Maimone, presso le sue
terre, non poté andare più avanti e cadde vittima. Avvisata la sua
signora, questa corse ad inginocchiarsi dinanzi il marito, e,
nell’atto di baciare il cadavere, cadde fulminata. Ivi furono
seppelliti entrambi.
Leopoldo Turco, appresa la notizia, corse lì e in un attimo fu di
ritorno a portare la triste nuova: purtroppo era vero …!
Cosi si distrusse a Riesi la proprietà di quella ricca, rispettabile
famiglia, il colera cessò. Quel benemerito Sindaco, nel ‘68, fu
insignito dal Governo italiano della Croce di Cavaliere: la prima,
almeno per Riesi. -
I lavori furono ripresi. Nel ‘69 il Cav. Jannì pensò di far
costruire il primo Cimitero del borgo, atto per 8 mila abitanti.
Espropriò 600 mq. di terra ai Due Parmente, la fece recintare da
muri, vi fece innalzare una chiesetta e scavare una fossa comune,
abolendo l’uso di seppellire i morti nelle fosse delle chiese e
dando così onorata sepoltura ai defunti.
A poco a poco il Cimitero fu adornato di viali, di graziose tombe e
di fiori.
Anche questo fu un passo del vivere civile, segno della nuova epoca.
Ma il Sindaco cav. Jannì diede prova del suo liberalismo in
occasione del XX Settembre 1870 La Presa di Roma con la Breccia dì
Porta Pia, entusiasmò l’animo degli italiani, inneggiando alla
Capitale d’Italia. Riesi, con un simile Sindaco, non poteva restare
indifferente. Che fece egli? Chiamata una orchestrina di violinisti,
contrabbassi e flauti, iscenò una bella dimostrazione, con bandiere,
mettendosi lui a capo. L’avvocato Trapani con la sua fiorita parola,
in Piazza Garibaldi fece comprendere il significato del grande
avvenimento, il coronamento dell’Italia con Roma Capitale. Così, il
popolo abbracciò il liberalismo senza paura, non dando retta ai
preti.
Ratificata, nel ‘70, la legge del 1866 sulla soppressione d beni
ecclesiastici, messi all’asta pubblica, molti comprarono delle
terre; lo stesso Arciprete D’Antona acquistò una tenuta dei feudo
Brigadieci, il Convento e la terra e diversi fondi, fra cui le
Schette col Lago di Papardone. Per il suo censo, il Parroco di Riesi
poteva fronteggiare col miglior proprietario della Provincia; la sua
casa era diventata veramente signorile; quando usciva fuori col suo
seguito, tutti gli cedevano il passo e veniva sommamente rispettato:
ed ecco perché era pure temuto, lottando anche in nome della Chiesa;
ma il Cav. Jannì, nella qualità di Sindaco, seguiva imperterrito la
via intrapresa.
Ed a questo punto, tralasciando per un momento la vita del beneamato
Sindaco, per descrivere un’altro avvenimento.
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Cap. XXV
il protestantesimo a riesi fin dal 1871
Per le questioni politiche tra il Sindaco e il Parroco, nel 1871 ne
derivò a Riesi il Protestantesimo. Narriamo ciò per conoscenza di
causa, perchè siamo stati informati da coloro i quali parteciparono
alle lotte.
Dunque:
Viveva a Catania, da impiegato Comunale, il concittadino Don
Giovanni Giuliana, Fratello del Dottore. Egli frequentava le
conferenze evangeliche di quella Città e ne scriveva le i
impressioni al fratello al fratello Don Gaetano. Questi faceva
leggere le lettere al Sindaco il quale gli fece scrivere di dire al
Pastore se poteva recarsi a Riesi, per tenere delle conferenze di
propaganda protestantesimo. Il Pastore rispose che occorrevano
almeno una dozzina di firme.
il Sindaco Janni, Capo lista, raccolse 150 firme e mandò la
petizione al Pastore. Quando quegli ebbe nelle mani la carta si
mosse per venire a Riesi, accompagnato dal Giuliana. Giunti a
Barrafranca telegrafarono. Allora, Sindaco, partito liberale,
firmatari e curiosi con bandiera, il pomeriggio del 24 Maggio 1871
andarono incontro a lu pasturi prutistanti. Arrivati alla Spatazza
fecero sosta. Siccome le due guardie Campestri Calogero Bruno
Giuseppe Calafato vi andarono a incontrarli fino al paesetto, ed
avendoli preceduti apparvero dalla collina di Spamupinato dandone
l’avviso, così la folla cominciò a muoversi ; mentre gli aspettati,
passato al Vallone fondato di Spampanato, scesero da cavallo per
agranchirsi le gambe. Fatta la salita vi furono le debite
precauzioni.
La folla dei dimostranti seguita da altri curiosi, entrò in paese.
Nella Piazza Garibaldi, il Pastore evangelico, visto il popolo
dinanzi a se disse che occorreva un locale chiuso per la conferenza.
Ma dove trovano?... Lì per li l’Avv. Trapani propose la Chiesa di S.
Giuseppe. Tutti si riversarono nella Chiesa, ma essa era chiusa, e
le chiavi li teneva il Canonico Don Luigi Golisano che trovava si in
campagna. La folla sostava lì sull’altura quando il Sindaco, cinta
la sciarpa, ordinò ai RR. CC. presenti di fare scassinare le porte.
Chiamato il fabbro ferraio mastro Stefano Matera, questi aprì la
chiesa e tutto il popolo vi entrò.
Il Pastore, Sig. Teofilo Malan, valdese, salito sul pulpito, invitò
tutti a scoprirsi alla presenza di Dio; indi tenne un conferenza in
occasione del XX Settembre. Alla fine volevano applaudirlo, ma il
Pastore glielo impedì invitandoli a riunirsi l’indomani alla stessa
ora e nel medesimo locale.
Difatti, a! segnale della campana, suonata dall’Avv. Don Calogero
Accardi, la Chiesa fu gremita di uditori d’ogni Ceto.
Per quattro giorni consecutivi la folla accorse a sentirlo; l’ultimo
giorno avvisò che l’indomani sarebbe ripartito per Catania e
ritornare la Settimana prossima; ma se non venisse lui avrebbe
mandato il fratello da Messina.
I clericali si quietarono, credendo che si fosse trattato solamente
di un pò di chiasso e nient’altro. Ma qua! fu la loro sorpresa
allorché videro arrivare l’altro fratello?
Il Sig. Augusto Malan si presentò al Sindaco, e, la Stessa sera
l’Avv. Accardi suonò la campana di S. Giuseppe chiamando il popolo a
raccolta.
I clericali allora si mossero e riferirono l’accaduto al Vescovo di
Caltagirone. Questi si rivolse al Prefetto di Caltanissetta, il
quale scrisse al Sindaco Janni di eseguire l’immediato rilascio
della Chiesa di S. Giuseppe perchè destina al culto cattolico.
Il Pastore protestante però non si diede per vinto, affittandosi la
camera di lu massaru Paolo Mirisola, sita al principio della
scalinata della stessa Chiesa. Ivi si tennero le conferenze ogni
sera. I due fratelli Malan si alternavano di modo che ne nacquero
delle dispute. Fu chiamato dai clericali il filosofo Don Francesco
Debilio per confutarli; quegli vi andò e dopo averli ascoltati se ne
uscì dicendo: “Sono magazzini di scienza teologica, non si possono
confutare”. Poi venne la volta del giovane Sacerdote P. Placido
Altovino che appena uscito dai sacri recinti del Seminario, volle
spezzare una lancia contro il Protestantesimo.
Il Sig. T. Malan, rispose alla lettera aperta con un opuscolo
intitolato: “UN CANONICO PRESO AL VOLO PER T. MALAN”.
Sicchè il Protestantesimo fin dal 1871 piantò le sue radici a Riesi;
tant’è che in seguito si affittarono i dammusi sotto il palazzo
Inglesi, nominarono un pastore a posto fisso e vi impiantarono le
scuole evangeliche finché, nel 1897 acquistarono il palazzo Faraci
per farne un bel locale proprio, con l’istituto delle scuole
elementari d’ambo i sessi che ha sempre furoreggiato.
Il Prof. Gravina, nel descrivere la storia dei Comuni siciliani,
nota a Riesi: “ Una Chiesa evangelica” e ‘”Il Prof. Francesco Paolo
Martillaro nella storia e geografia del loco natìo” dice che in
Sicilia, Riesi è chiamata: u paisi di li prutistanti.
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Cap. XXVI
seguitando la vita del sindaco janni – la causa con la baronia – il
processo – condanna - morte
Ed ora, seguitando le fasi della vita del Sindaco Cav, Giuseppe
Jannì, il chimico farmaceutico per eccellenza, vediamo la causa con
la Baronia per gli usi civici; il processo contro di lui, la
condanna, l’assoluzione, la morte.
Pria di tutto è bene far conoscere che nel 1872 tutta la proprietà o
Stato di Riesi fu divisa a Torino in quattro parti, cioè una parte
toccò al Duca di Solferino, una parte agli eredi del Conte Fuentes,
e due quote alla Principessa Donna Maria Giron Pignatelli.
Questo precedente fece sì che vi introdussero qui l’Amministratore
generale Don Gaspare Dado da Mazara dal Vallo (Trapani), mentre
prima vi era il barone Tumminelli da Caltanissetta.
Don Gaspare Dado, installatosi qui nella qualità di Arnministratore
generale, regnava, si può dire, da compaesano. Egli ci viene
descritto da un suo intimo conoscente “uomo dotto, di modi
signorili, coi costumi di un angelo” dedito alla botanica, compose
un volume interessantissimo su ciò.
Per questi suoi meriti, e perché Amministratore della Ecc.ma Casa
dei Principi Fuentes, sposò la vedova di Don Giovanni Golisano che
abitava nel palazzo attiguo alla Baronia. La ricchissima signora,
oltre al palazzo, gli portò in dote sei salme di terra tutta
bonificata, con ricchi vigneti e casina, sita alla “Contessa”,
imparentatosi con i Golisano, il Dado viveva a Riesi una vita molto
comoda e signorile, ed era amato e stimato da tutti.
Non avendo prole, adottarono come figlio certo Michele Di Nolfo di
Girolamo, nato da famiglia di poveri contadini, che abitavano nel
cortile all’entrata del palazzo.
Ma il sabato sera della Madonna del 1874 la Signora Golisano, mentre
stava affacciata al balcone morì d’un colpo.
Sicchè il Sig. Dado, rimasto vedovo, fu servito dalla famiglia Di
Nolfo. Morto lui nel ‘97 tutta la proprietà passò a Michele, il
quale, fuggito con una prima attrice drammatica vendette tutto ed
espatriò.
Venne ad occupare il posto del Dado da Cerignola (Bari) la famiglia
dei signori Malleone, che stabilitasi da noi, nel 1880 le figlie
apparentarono con la casa del Notaro Giardina, il maschio Peppino
sposò pure una loro parente, considerandosi tutti concittadini.
Difatti i loro antenati riposano in questi cimiteri, in tombe di
famiglia.
Prima di scomparire dalla scena della vita, Don Gaspare, fu in lotta
aspra col Sindaco Cav. Jannì, che ebbe la peggio, a causa degli usi
civici.
Ultimati i lavori della Casa Comunale, nel 1873, nel trasportare le
carte dalla Casa Golisano alla nuova sede del Municipio, fu trovata
una Carta di memoria per i diritti d’uso civico agli abitanti di
Riesi. Sindaco e Giunta, esaminatala intentarono una causa contro la
Baronia, autorizzando l’amministratore a stare in giudizio. Il Dado
s’impuntò.
Nell’autunno di quell’anno, alla raccolta delle olive, il Cav.
Jannl, avendo un fondo al bosco vicino il paese, vi mandò un o
fattore per fare eseguire la raccolta; ma Don Gaspare aveva già dato
ordini ai campieri Angelo Lamonaca e il giovane Giuseppe Di Tavi. di
non far raccogliere le olive, perché riservate al Barone; e difatti
il fattore fu rimandato indietro e minacciato. Allora il Sindaco,
cinta la sciarpa, accompagnato dalle guardie si recò sul luogo e
fece arrestare i due campieri, i quali condotti in caserma e
interrogati dai Carabinieri furono tosto rilasciati.
In questo caso gli avvocati del Principe, presero la palla in balzo
e si querelarono contro il Sindaco di Riesi per abuso di potere. Ciò
diede del filo da torcere al Cav. Janni. Difatti nel ‘74, istruito
il processo dal Tribunale di Caltanissetta, fu condannato a tre anni
di reclusione e alle spese. La Corte di Appello di Palermo gli
confermò la sentenza, ma la Cassazione di Roma lo prosciolse
dall’accusa cancellandogli la Condanna.
Durante l’Appello, dopo la condanna, nel 1875, il Sindaco fu
destituito, e, ritiratosi a vita privata, continuò a fare del bene.
Ma un vespaio, ribelle alla scienza chirurgica, il 9 Gennaio del
1879 Io trasse alla tomba all’età di 62 anni.
Riesi è stata trascurata a non avergli innalzato un monumento
davanti il Municipio a ricordo dei meriti e delle virtù dell’uomo
insigne che onorò e civilizzò il paese.
Giacché ci siamo, dobbiamo parlare di un’altro bravo chimico
farmacista, contemporaneo al primo, che si fece onore col suo
ingegno: egli fu Don Francesco Celestri.
Nato ne 1833 da Don Giuseppe e Genoveffa Sanfilippo, prosegui gli
studi in Palermo, a furia di sacrifici, facendosi distinguere per
l’ingegno e la vivacità.
Laureatosi in chimica farmaceutica, venne ad aprire una piccola,
modesta farmacia in un dammuso sito nella Piazza Garibaldi. Per i
suo saper fare e l’intelligenza, sposo la ricca Sarina Calafato.
Allargando i suoi padiglioni, divenne proprietario oculato, amoroso
della casa e della famiglia.
Nella guerra del 1870, la Francia avendo bisogno d’uno specifico per
la polvere, indisse un concorso fra gli scienziati, con un milione
di franchi di premio. Il Prof. Blanche vi giunse per il primo e dopo
il nostro concittadino farmacista. Egli inventò il solfato
Buompensiere servendosi delle materie trovate in quel paesuccio,
vicino Caltanissetta.
Le accademie di Palermo e di Torino, esaminatolo, lo trovarono
eccellente. Inviatolo in Francia, la Città di Parigi conferì al
cittadino di Riesi una grossa medaglia d’Oro e il Diploma.
Il farmacista Celestri poteva impiantare uno Stabilimento sul luogo,
ma occorreva una grossa somma e spostare la famiglia, cosa che egli
non volle fare.
Nel 1877 fu nominato ispettore delle farmacie provinciali, ma per il
troppo lavorio di girare vi rinunziò.
Il chimico farmacista Don Francesco Celestri, visse fino all’età di
anni 71, morendo il 1904, lasciando il bel palazzo fabbricatosi e la
famiglia in prospere condizioni.
Riprendiamo la politica, ora.
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Cap. XXVII
sindaco l’avv. don pietro d’antona
Subito dopo aver caduto da Sindaco il cav. Giuseppe Janni, il
Parroco D’Antona mise avanti il nipote Pietro, figlio del fu Don
Luigi e Teresa Debilito, nato nel 1836, il cui genitore morendo
raccomandò i suoi tigli al fratello P. Arciprete, che assolvette il
suo compito educando ed istruendo i nipoti in casa sua.
Perciò, Don Pietro D’Antona laureatosi in giurisprudenza, fu
proposto a Sindaco. Col Trapani e il Parroco si recarono a
Caltanissetta ove l’Avv. Principe Do Giuseppe Correnti li
Accompagnò dal Prefetto. Nominato Sindaco D’Antona, tornarono a
Riesi col Vice Sindaco Trapani. Da qui ne nacque il partito
D’Antona: forte numeroso e ricco.
Innalzato al potere il nuovo Sindaco, si formò una buona Giunta
Amministrativa, chiamando come Assessori -suoi col laboratori –
L’Avv. Don Pietro Di Benedetto Manderà, l’Avv. Francesco Rindone,
l’Avv. Di Lorenzo e Don Giuseppe Verso.
Il giovane Avv. Don Pietro Di Benedetto Manderà era tiglio di Don
Salvatore e Teresa Manderà una sorella del Giudice Pietro, venuto da
Nicosia dopo il ‘60. Il Giudice abitava nelle case del Di Benedetto,
attigue alla Pretura, d’onde ne venne l’arco di Menderà.
Colto, intelligente, il Di Benedetto poteva stare accanto al Trapani
e al D’Antona.
Gli altri nomi li conosciamo. la Giunta era a posto.
L’Amministrazione D’Antona ossequente a quello che fece e che
doveva l l’Amministrazione passata, aggiungendo nuove importanti
opere. Però fu lasciato in asso il teatrino, annesso al Municipio e
si fece la transazione della causa degli usi civici con la Casa
Fuentes. Il Corso V. E. fu subito lastricato, come pure in seguito,
furono lastricate la Via del Parroco chiamata Corso Principe
Umberto, la Via del Rosario col nome di Principe Garignano e le Vie
Debilio e Carlo Alberto.
A proposito della Via Principe Garignano facciamo rilevare che
vicino il Municipio sorse il bel palazzo del massaro Giuseppe
Vecchio, il quale servi a dare eleganza e vita a detta Via. E
ancora, furono lastricate la Via Cavour e le traverse interne.
Ora il paesetto contava circa otto mila abitanti ed aveva bisogno di
altre opere. Il Sindaco D’Antona fece sbassare le due creste di
pietra: quella della discesa della Sagrestia della Madrice e quella
della Via o Corso Umberto, in fondo alla di lui casa. Esse, mentre
prima si presentavano assai scoscese e intransitabili, divennero poi
accessibili e belle, tanto l’una che va laggiù alla Via Timoleonte,
quanto l’altra che conduce allo stradale di Ravanusa.
Lo scannatoio pubblico o Macello al Canale, fu opera deI Sindaco
D’Antona, eliminando così lo sconcio di vedere scannare gli animali
nelle pubbliche vie, davanti la porta degli stessi macellai,
specialmente quelle del Corso, ove le sporcizie si ammassavano. Fece
collocare laggiù al Canale, all’angolo del Macello, una pompa a mano
per attingere l’acqua dalla sorgente ivi esistente, sorgente che ora
non esiste più, essendo stata coperta per maggiore igiene e pulizia,
affidando la sorveglianza alle guardie.
Anco alle campagne pensò il buon Sindaco: aveva fatto costruire al
vallone del Figotto un ponticello per il transito dei contadini che
si recavano a Figotto e Brigadieci quando le acque erano abbondanti,
ingrossando il detto vallone.
Inoltre fece costruire gli abbeveratoi nelle fontane di Mariano,
Sanguisuga e Figotto, facendone spurgare e incanalare l’acqua; al
Canale e a Mariano vi fece costruire due lavatoi pubblici di modo
che le lavandaie di mestiere tutti i giorni vi andavano a pulire e
sciorinare il bucato.
Lo stradale che va a Mazzarino e il nuovo Carcere Mandamentale al
Lago, ritenuto necessario, furono costruiti sotto la reggenza del
D’Antona. Esso non arrivò a vedere compiuto quest’ultimo, e il
perché lo vediamo dopo.
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Cap. XXVIII
la filossera
Fu sotto la sindacatura del D’Antona che si verificò a Riesi, nel
1881, la Filossera che causò la distruzione dei vigneti.
Ecco come si palesò il male:
Quel tale Giovanni Calamita, di cui parlammo a proposito del 1848,
da fabbro ferraio era diventato un grosso proprietario. Egli
acquistò il fondo Cicione vicino al paese, sul margine di sinistra
dello stradale di Ravanusa. Vi impiantò un bel vigneto; vi fabbricò
una casina, in modo da formare all’intorno una magnifica
passeggiata, tanto da conquistarne la denominazione: “allo Stradale
di Calamita”. Dall’altro margine comincia il bosco degli oliveti che
va fino a Tallarita.
Quest’uomo, delizioso della sua vigna ove vi trascorreva tutto il
tempo, recandosi spesso a Palermo e a Catania, ebbe occasione di
comprare alcune magliole d’una qualità speciale che trapiantò fra le
sue viti. Le magliole, per caso, erano infette da filossera perché
provenienti dalla Francia ed in breve tutto il vigneto fu assalito
dal morbo.
Si palesò il caso in primavera osservando alcuni ceppi nella
fioritura che mostravano le figlie bianche e senza uva. A tale
fenomeno il proprietario in parola, ignorando la causa del male,
andò a chiedere consiglio al Circolo dei civili ove si trovava anche
il Sindaco.
il Circolo dei civili fu fondato dal partito D’Antona ed era posto
nel dammuso della vecchia Caserma, restaurato tale uso a cura del
Comune, mettendovi una grata di ferro al principio del marciapiede
sull’angolo della piazza e il Corso.
Ivi dunque, il Sindaco, Trapani ed altri decisero di farsi una
passeggiata e constatare il fatto. Ritornati in paese il Sindaco
compilò il rapporto per il Ministero dell’Agricoltura, industria e
Commercio. li Governo mandò subito sul luogo un Professore di
filossera, certo Macagno, il quale constatò che purtroppo c’era il
male.
Bisognava estirpare le viti e gli alberi dalle radici e bruciarli,
circoscrivendo le viti infilosserate. il Calamita non era d’accordo,
di modo che, quando arrivarono i filosseristi appositamente mandati,
si oppose; ma accorrendo i Carabinieri, lo allontanarono dal fondo
minacciandolo di arresto.
L’uva delle piante non filosserate era matura ed anche essa fu
estirpata. Si bruciavano le radici con l’acido solforico; si
estirpavano gli alberi senza pietà.
Don Giovanni si recò a Roma a protestare, ma inutilinente; il
Governo pagava solamente L.5 al ceppo e L.25 l’albero. La filossera
è un insetto microscopico, invisibile ad occhio
nudo; attaccandosi alla radice della pianta la corrode facendola
diventare colore di tabacco; conseguentemente la vite secca e muore.
L’insetto vola e produce migliaia di uova ogni ora, quindi si
propaga presto e dappertutto. L’unico rimedio per ucciderlo è di
bruciare le piante assieme alle radici.
Esso insetto ha avuto origine in Francia ed occorrono 50 anni per
distruggersi; il terreno infetto da filossera non produce più viti.
Distrutto il fondo Calamita, si passò ad altri fondi vicini e indi
alle altre contrade, lo Stato di Riesi divenne tutto infilosserato.
Uffici filosseristi; depositi di solfuro; squadre di operai e
guardie con casotti si formarono a causa della filossera.
I proprietari facevano l’ira di Dio. Un reggimento di truppe venne a
stabilirsi qui per il mantenimento dell’ordine.
Però, circolava il denaro, che si guadagnava bene: un contadino
aveva L.3, il caporale L.4,50, gli impiegati una buona mesata; oltre
una dozzina di professori specializzati comandavano delle squadre
che andavano in cerca della filossera, girando per le campagne.
Stavano in continuo movimento, passando di campo in campo, e dove
trovavano l’insetto vi piantavano bandierine tutt’intorno e il
proprietario non poteva più disporre del la terra.
Il malumore e il malcontento dei proprietari intanto aumentava di
giorno in giorno. Finalmente scoppiò la sommossa. .
Sulla montagna S. Veronica, certo Francesco Di Termine, vi possedeva
una ubertosa vigna ; avvisato che l’indomani dovevano esplorare quel
campo, lui e i due suoi figli, si armarono di fucile decisi di non
fare entrare i filosseristi. E difatti arrivati ivi il Prof.
Zerpellone con gli altri, furono puntati; invano cercarono di
convincerli, fu inutile Allora mandarono a chiamare la P. S, una
compagnia di soldati accasermati a S. Giuseppe e i Carabinieri i
quali, incastrata la baionetta partirono in tutta fretta; dietro vi
corse il popolo.
Lo stretto e ripido viottolo, capace appena. di far salire ad uno ad
uno, dava l’aspetto che sì andasse a conquistare una fortezza.
Arrivati sulla vetta, i Di Termini, con i fucili spianati, non si
mossero dal loro posto; il popolo corse in loro aiuto vociando:
“Abbasso la filossera!”. Qualche Pietra volò dalla folla ; la cosa
man mano diventava più terribile. Ond’ è che per evitare un eccidio,
i filosseristi e soldati se ne ritornarono, seguiti dalla folla che
continuava a gridare abbasso tirando colpi di pietra all’indirizzo
della squadra filosserica che camminava in mezzo ai soldati.
La folla si fece più grossa e minacciosa. All’imbocco della strada,
la sassaiola si fece più fitta e una pietra colpì alla testa lo
Zerpellone, producendogli del sangue; qualche soldato fu pure
ferito. Le donne si aggiunsero alla sommossa e le grida abbasso la
filossera si moltiplicarono. Indi la folla si dileguò nel Corso,
Quella stradetta poi prese il nome di; “Lo Stretti di Zerbellone”.
Lui, rientrato a casa, fu medicato e si curò; i lavori della
filossera furono per il momento sospesi sicchè si credette che la
cosa dovesse passare liscia. Ma dopo dieci giorni e precisamente la
notte del 20 Dicembre di quell’anno, 1882, venuti altri rinforzi di
Carabinieri, assediato il paese, circondate le vie e le case, furono
arrestati:
1) I Di Termini, padre e figli; 2) Don Giuseppe Accardi dell’Avv.
Calogero; 3) Calogero Riccobene; 4) Calogero Giuliana; 5) Giuseppe
Lo Jacona; 6) Rosario Maurici, quali promotori della sommossa. La
notte stessa, legati e messi sui carri, furono deportati nel Carcere
di Caltanissetta.
Tra il pianto delle famiglie, l’indomani si aprirono di nuovo i
lavori; le viti impregnate di filossera si bruciavano assieme
all’uva; la ricerca continuò senza tregua. Fra i campi meravigliosi
si distrusse il vigneto dell’ex Sotto Prefetto Francesco Debilio al
Lago, il quale, da uomo sennato, non disse nulla.
Il Sindaco P. D’Antona, per la sua energia dimostrata nel fare
eseguire i lavori ordinati, fu nominato Cavaliere della Corona
d’Italia. Concentrati i pagamenti nelle sue mani, egli fu imparziale
con tutti, dimostrandosi vero uomo politico, specialmente con gli
operai.
La morte dello zio Parroco, nel 1882, fece sì che il Cav. Don Pietro
D’Antona, ereditandone la maggiore proprietà, divenne un ricco
proprietario di prim’ordine. Il Parroco aveva acquistato il Lago di
Patria presso Napoli che gli fruttava una somma considerevole. li
Cav. Pietro aveva per sposa la cugina Francesca e quindi.... nel
palazzo ereditato c’era la nobile famiglia D’Antona. La prima
carrozza a Riesi fu fatta venire da essa famiglia; ma il maggior
lusso proveniva dal fratello del Sindaco, Senatore Antonino.
Conviene a questo Punto lasciare da parte la Chiesa, in balia di se
stessa, col suo numeroso e ricco Clero, dato che dopo la morte del
Parroco Don Gaetano D’Antona essa perdette il suo prestigio e
occupiamoci degli altri avvenimenti.
Il Cav. P. D’Antona era dunque ben quotato, ben stimato come
funzionante.
Riguardo ai carcerati della sommossa, dopo circa un anno di
processura, comparsi dinanzi il Tribunale di Caltanissetta furono
egregiamente difesi dal papà degli Avvocati del Foro nisseno,
Giuseppe Correnti, nostro concittadino, essi imputati furono tutti
assolti “per insufficienza di prove”.
Siamo agli ultimi sgoccioli della filossera, i vigneti dello Stato
di Riesi furono tutti distrutti ; la terra venne restituita ai
proprietari i quali pensarono di sostituire alla vigna il mandorlo;
si impiantarono boschi di mandorleti persino sulle serre rocciose.
Così lo Stato si arricchì di mandorle per la industria della intrita
che ogni anno faceva incassare dei milioni. Il vino veniva importato
da Vittoria, facendosi di necessità virtù giaccliè non era più il
mosto.
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Cap. XXIX
la disgrazia della miniera grande di sommatino
Sotto la Sindacatura D’Antona, nel 1883, avvenne la disgrazia della
Miniera Grande di Sommatino. Questa terribile sciagura colpì Riesi,
tanto che per la sua importanza fu d’uopo narrarla.
Gli zolfatai riesini che lavoravano nella Miniera Grande di
Sommatine, il 26 Luglio si recarono al lavoro con lo scopo di fare
una doppia giornata. Era giusto l’antivigilia della festa di S.
Giuseppe, per cui dovevano riposarsi il sabato. Fatta la prima
cacciata la notte, continuarono il giorno a lavorare assieme ai
sommatinari. Avendo scavata una profonda mina, accesa la miccia,
gridarono di allontanarsi tutti. Caduto lo zolfo gli operai si
apprestarono a volere uscire dalla miniera, ma la fiamma della
polvere aveva acceso il pulviscolo dello zolfo ivi esistente
incendiando tutto il locale di lavorazione mentre il fumo, impedito
dal vento a potere uscire, aveva otturato le porte di entrata. I
minatori, nel salire le scale, cadevano terra asfissiati,
carbonizzati, senza potersi dare aiuto. Fuori, che nulla sapevano
dell’accaduto, ne attendevano l’uscita. Dopo lunga e vana attesa
impiegato fatto discendere in miniera dentro un vagone l macchina
vide il lugubre spettacolo. Subito diede l’allarme, vi fu uno
spavento generale fra tutti i presenti, compresi quelli della
Miniera Tallarita. Fu telegrafato al Prefetto che rispose subito
inviando in aiuto soldati e Carabinieri dai paesi vicini.
Appena giunta la notizia a Riesi fu un accorrere sul luogo non solo
delle famiglie degli zolfatai, ma amiche di cittadini di ogni età e
classe. Lo spettacolo si presentò atroce, enorme e commovente… La
notizia subito si propagò richiamando sul posto del sinistro gli
abitanti di Sommatino e Ravanusa. Chi piangeva il marito, chi il
tiglio, chi il padre, chi il fratello, chi il parente o l’amico....
Ad ogni cadavere che si estraeva si rinnovavano le grida di terrore
e di dolore! Insomma, le scene di quella memorabile giornata, sono
indescrivibili.
Tutti gli impiegati, operai e militari si distinsero molto nel
porgere aiuti e confortare le famiglie dei sinistrati.
I morti furono 37 di cui 24 riesini. Il buono e generoso Re Umberto
I, fu talmente commosso che mandò la somma di L.14.000 da elargire a
favore delle famiglie colpite dalla disgrazia.
Il Sindaco Cav. Don Pietro D’Antona, aggiunse del suo per venire
incontro ai bisogni degli orfani, delle vedove e dei genitori dei
defunti; inoltre, fece sospendere la festa, rimandando la musica di
Delia, che era arrivata la sera precedente, per riguardo al lutto
della cittadinanza.
Il paese, in preda al dolore, si associava a quello di Casamicciola
(1883), non sapendosi dar ragione della terribile sciagura toccata a
Riesi e i paesi limitrofi.
Il poeta zolfataio Liborio Ministeri della Miniera Tallarita, che
accorse ad incoraggiare ed aiutare i compagni, compose un poemetto
in vernacolo, in cui fra l’altro dice:
A li vintisetti di Luglio,
Precisi, precisati, senza sbagliu
Subitu la morti fici trugliu
E dissi:ala, amara a ccu ‘ncaglia.
Poeta estemporaneo, Liborio Ministeri, nacque nel 1856 da Vincenzo e
Crocifissa Russo. Da bambino all’età di sette anni fu messo al
lavoro nelle miniere come caruso presso il di lui padre. Con l’andar
degli anni, intelligente com’era, comprese che il saper leggere e
scrivere per lui era una necessità, giacchè ideava versi che faceva
piacere a sentirti.
Da giovanetto, Liborio Ministeri, frequentando la scuola serale
valdese, allora in voga, ebbe modo di compiere la III classe
elementare. Così incominciò a scrivere i suoi versi e pubblicarli,
giacchè a quei tempi la stampa costava poco. Affermatosi come poeta,
il Ministeri compose e pubblicò diversi poemetti, fra i quali bello:
“LU DIALUGU TRA N’A VANGELICU E UN PARRINU” che comincia proprio
così:
Divertitivi genti un mimintinu,
Ccu sti versi ca fici stu babbunu
Ca ficiru un terribili baccanu;
L’avangelicu avia un librittinu
E spiegava a lu populu l’arcanu.
Si parti lu preti di superbu chinu
E cci strappa lu libru di li manu
In questa guisa continua la zuffa. Il poeta popolare, la domenica
vendeva i suoi libretti in piazza. Una volta alcun contadini gli
dissero che non compravano i suoi libretti perchè non sapevano
leggere, il Ministeri di colpo rispose loro:
Lamintativi di li vostri patri e matri
Ca ‘nveci di la scola vi mannavanu a metiri.
Di simili versi ne compose molti, chec se fossero stati tutti
raccolti, se ne avrebbe fatto un bel volunte ; ma bastano i pochi
che abbiamo letto per caratterizzare il nostro concittadino. Essendo
egli un picconiere alle dipendenze di una ditta francese e dovendo
reclamare per la sua partita, scrisse il relativo reclamo per del
suo contenuto in versi, tanto che veniva amato e stimato
dall’Amministrazione.
Il suo nome divenuto noto in tutta la Provincia, il Prefetto volle
conoscerlo di persona. Il Ministeri, profittando di quella occasione
chiese al Prefetto che gli accordasse un posto di cantoniere
stradale al fine di togliersi dal faticoso lavoro di minatore. Il
Prefetto accolse benevolmente la domanda orale e dopo breve tempo lo
fece nominare cantoniere allo stradale di S. Cataldo.
Disgrazie ne succedono sempre nelle miniere, ma oh... ironia della
sorte, essa toccò anche al povero Ministeri: la vigilia della sua
partenza, era andato a licenziarsi dall’Amministrazione francese e
con i compagni, sceso in miniera, prese gli arnesi per portarseli
definitivamente a casa, mentre passava dal cantiere di lavoro,
staccatosi un masso improvvisamente dall’alto, gli fracassò il
cranio.
I suoi funerali furono imponenti; L’Amministrazione francese agevolò
di molto la famiglia, nonostante ancora non esistesse la legge sugli
infortuni.
Liborio Ministeri fu poeta riesino, bello di gioviale, buono,
intelligente e amabile con tutti. Egli lasciò una buona memoria di
se.
Questa ricca Amministrazione di Parigi, di cui abbiamo parlato, fu
quella che impiantò le prime macchine per l’estrazione dello zolfo
coi vagoni, dall’interno all’esterno, della miniera Tallarita.
Venuta essa nel 1887, rinnovando periodicamente l’affitto, vi siede
quasi 60 anni, tanto che si consideravano come resini. Uno di essi,
certo Emile Bacillon, sposò una ricca riesina della famiglia dei
Janni.
Per ultimate questo capitolo, come coda aggiungiamo il fatto come
venne modificata la parola “riesino” da “riisanu” ad opera della
chiesa.
Sdoppiatasi la grande Diocesi di Caltagirone, nel 1885, fu fondata
quella di Piazza Armerina. La Chiesa ed il Clero di Riesi
conseguentemente furono annesse a questa nuova Diocesi. Il dotto
Vescovo Monsignor Gerbino, proveniente da Lipari, corresse la
stonatura del nostro aggettivo.
Così si ebbe il nome di riesino, riesini.
** Torna su **
Cap. XXX
il partito liberale dei pasqualino, del poeta Dr. don carmelo
lostimolo
Ritorniamo ancora di alcuni passi indietro, per vedere come si
svolse la politica locale dell’Amministrazione D’Antona-Trapani col
partito liberale dei Pasqualino-Pasqualino.
Alternatesi al potete i D‘Antona e Trapani, si trovarono di fronte
al nuovo partito liberale dei Pasqualino, dal 1875.
Sotto il partito liberale dei fratelli Giuseppe e Gaetano
Pasqualino-Pasqualino, questi non si perdettero d’animo e
cominciarono a lottare da leoni. Essi erano figli dell’Avv. Onofrio,
il Giudice che non conosciamo, il quale aveva sposato la figlia del
fratello Giuseppe da vedova, dalla quale ebbe quattro maschi e due
femmine. I due fratelli Giuseppe e Gaetano si diedero a studiare,
mentre Luigi e Pietro si dedicarono al fondo di Passerello.
Intelligenti e studiosi, Giuseppe e Gaetano si diedero alla politica
locale, affiancati dai parenti; Giuseppe arrivò a laurearsi, ma
Gaetano, ottenuta la licenza liceale, non volle frequentare
l’Università accontentandosi di studiare i libri del padre,
mettendosi al corrente di tutto lo scibile umano.
Questi furono i due fratelli Pasqualino-Pasqualino che si imposero
all’attenzione dei riesini. Fondato il partito liberale davano del
filo da torcere all’Amministrazione D’Antona-Trapani e compagni.
L’Avv. Don Giuseppe, sposatosi a Sommatino, lasciò le redini al
fratello, il quale da capo partito col suo saper fare, col suo
sangue freddo, stava di fronte a quell’Amministrazione Comunale.
Formatesi le due liste: politica e amministrativa del Comune di
Riesi, gli elettori non arrivavano mai a superare il numero di
trecento. Erano elettori tutti coloro che pagavano lire cento di
tasse e gli ex militari; sicchè il partito popolare Pasqualino
doveva presentarsi in lotta con circa cento elettori. Al Consiglio
Comunale e al Consiglio Provinciale riportava sempre la disfatta.
L’Avv. Don Giuseppe Correnti era diventato Il Presidente del
Consiglio Provinciale di Caltanissetta e quindi, come capo della
Provincia, teneva tutti i paesi in un pugno. Nella Prefettura, il
Correnti, coadiuvato dalla P.S. dominava tutti. Figuratevi perciò
con chi aveva da fare il Pasqualino.
Eppure egli non temeva; nel Consiglio Comunale, alla minoranza, le
invettive partivano da sinistra a destra, da una parte all’altra,
giungendo alle personalità; e nel rinnovare ogni tre anni il 6
percento dei consiglieri, il Pasqualino non arrivava a tirare un
ragno dal buco, rimanendo quale era. Alle elezioni generali, poi, la
disfatta era completa per cinque anni; ma i suoi cento elettori gli
erano fedeli.
Le elezioni politiche per i Deputati si svolgevano così: Siccome il
partito Pasqualino militava con l’estrema sinistra, e appoggiava i
Deputati avversi al Governo, così in questo caso la lotta si faceva
sempre piu aspra, piu terribile, affrontando la fora e anco il
denaro. Col trasformismo di Agostino Depretis i voti si compravano,
di modo che quando il partito liberale credeva di guadagnar terreno
otre i cento elettori, la corruzione in ambo i casi lo avvinceva.
Bisogna quindi far rilevare che, il ponte sul “Salso”, tanto
necessario per i zolfatai che con la piena non potevano
attraversarlo e quindi impediti di scendere al lavoro o, al
contrario, costretti a rimanere in miniera per diversi giorni, era
la piattaforma di candidati politici che promettevano e
ripromettevano, ma poi, passate le elezioni, il Ponte restava...,
nel campo delle promesse da rinnovarsi.
Se era necessario il ponte sul Salso o fiume Imera, lo dimostra il
fatto avvenuto nel 1886, quando, alcuni zolfatai riesini, tornando
dal lavoro della miniera Gallitano, si trovarono broccati nel fiume,
senza poter passare. Siccome ivi, al passo detto della Caldaia il
fiume si bifolca in due rami, così, passato il primo tratto e
sopraggiunta all’improvviso la piena restarono sullo scoglio senza
potere andare nè avanti nè indietro. Alle grida di aiuto i carusi c
he avevano passato prima corsero a dare la notizia a Riesi. Molti
accorsero sul luogo, e non solo dal paese ma anche dalle due
miniere.
Nella notte, la moglie di un zolfataio diede alla luce una bambina.
Era il 2 Febbraio, faceva molto freddo, con lo scioglimento delle
nevi era venuta la piena.
L’indomani ai quattro malcapitati gli porsero i cibi con la corda.
Nel pomeriggio l’acqua cominciò a scemare e così poterono passare.
Questo pietoso fatto ci è stato raccontato da uno dei quattro
malcapitati di quella terribile, memoranda notte; così possiamo
formarcene un’idea della vita fino a quasi tutto il 1800. Come era
difficile andare a Caltanissetta. La posta non si aveva che ogni due
e magari ogni tre giorni; essa veniva a basto di un mulo che
proveniva parte da Mazzarino parte da Ravanusa e si che si era
abolito il procaccia che a portava a piedi, partendosi da
Caltanissetta, Pietraperzia, Barrafranca, Riesi, Butera, Terranova e
viceversa; più tardi poi, si attuò uno sfasciume di carrozza per il
servizio postale e sembrò una grande novità; ma anche questo
servizio lasciava molto a desiderare, perché, o si sfasciava la
carrozza o i cavalli non potevano andare avanti per la via
Sommatine-Delia, onde raggiungere Canicatti.
Altro se non era necessario il ponte sul “Salso”.
Certamente che il Cav. D’Antona, il cui prestigio aveva aumentato
presso il Governo mediante l’appoggio del fratello, Senatore del
Regno, lavorò molto per il su menzionato ponte ed arrivò a farlo
mettere in deliberazione; ma essendo interprovinciale, bisognava
mettere di accordo le due Provincie di Caltanissetta ed Agrigento.
Ad ogni modo, tanto il partito liberale che il dominante nelle
elezioni sia politiche che amministrative facevano assegnamento sul
ponte. Il partito Pasqualino che si aveva creato , sperava con ciò
di dare un colpo al D’Antona, e, tira e ritira, alla fine si trovava
sempre lì.... Laonde il Dottor Don Carmelo Lostimolo, da poeta,
riferendosi alle elezioni Pasqualiniane, compose una ottava, tutta
di avverbi, dal titolo “Per le elezioni tomaie a vuoto”. La
riportiamo perché è una bellezza, una meraviglia, un gioiello:
Dunque, perciò, sicchè, così, talora,
Perché, quantunque, nondimeno, intanto,
Imperocché, giacchè, come talora,
Qualora, fintantoché, fuori che, frattanto,
Ciò, conciosiachè, benché, pertanto,
Di guisa che, anche, per ora,
Onde, di modo che:dov’è cotanto?
Il Dott. Lostimolo nacque nel 18i6 da Giuseppe e Agata Janni,
agiati, che lo mantennero studiare a Palermo. Lì; oltre la medicina
curò il canto e la poesia; dotato d’una bella voce tenorile, calcò
le scene assieme alla Carolina Lungher nel Teatro Bellini,
riportandosi onore.
Venuto a Riesi laureato, sposò la ricca Maria Catena Correnti
Calafato, per c ui divenne un proprietario; cognato del Cumm. G.
Correnti, di conseguenza doveva essere avverso, al
partito liberale di Pasqualino. Poeta estemporaneo, pubblicò alcune
sue poesie in un libretto stampato a Catania nel 1886. Nei suoi
versi il Dott. Lo stimolo si rivela umoristico e faceto.
Infatti, leggiamolo in quest’altra bella poesia su:
Oh! Come fugge il tempo e vola e passa!
Come si spegne sfavillando il lampo!
Così la vita mia corre e trapassa
L’ore, i minuti, percorrendo il campo.
Miete la morte ogni etade e lassa
Senz’appello, o timore, indugio o scampo.
Distruggendo il Creato in parte e in massa,
Mondo malfatto: Ah! Che di rabbia avvampo!!
Nel sonetto su Riesi che chiama Altariva, la definisce: “vile e
indegna, che Gesù Cristo maledisse, madre di odio e di rancori:
senza Religione, ma infamia in usura ”, Terminando: “E non son
queste d’Altariva le mura?”.
Gli altri versi su svariati soggetti, sono tutti in vernacolo cioè
in siciliano nostrale. Eccone un saggio di essi: così finisce
“lagno” della sua vita:
Mi putia truvari senza sciatu
Quannu lassavu lu cantu d’allura.
Il Dott. Lostimolo mori nel 1893, all’età di 77 anni. Dei suoi figli
si distinsero l’Avv. Rosario, valoroso penalista, fecondo parlatore;
lo zio voleva farne un avvocato del foro nisseno ma egli preferì
star qui con la sua famiglia. Nominato Pretore a Calatafimi
(Trapani), vi rinunziò per le stesse ragioni.
L’Avv. Lostitnolo, nato nel 1848, occupò da noi il posto di Vice
Pretore. Pubblicò le sue idee politiche dimostrandosi un liberale.
In una requisitoria contro il Consiglio Comunale di Riesi
(D’Antona-Trapani) fece il ritratto del Segretario Don Vincenzo
Zagarella, figlio del Dott.. Don Giuseppe che, sedente. da P. M. lo
chiamò sconclusionato, scollacciato, ecc,ecc.
Se la morte non l’avesse baciato in fronte in eta prematura, l’Avv.
Don Rosario Lostimolo, sarebbe stato uno dei tanti. Il fratello
Luigi, Notaio, che la spagnuola portò via come una freccia, visse
modesto, cultore di scienze notarìli.
Apprendiamo queste notizie dai superstiti.
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Cap. XXXI
l’800 – la nuova vittoria del partito liberale dei pasqualino
Finalmente, dopo 14 anni di lotte continue, degenerate anche con la
stampa di lettere aperte contenenti invettive personali, nel 1889 vi
fu la completa vittoria del partito dei Pasqualino.
A nostro parere due ragioni principali concorsero per la disfatta
dell’altro partito dominante. Esse sono state:
1) La morte del Sindaco titolare Cav Don Pietro D’Antona, avvenuta a
Napoli nello stesso anno 1889, per cui ne assunse il potere il ff.
Trapani che sperava molto essere nominato titolare, essendo il
partito ben compatto; 2)La riforma della nuova legge comunale e
provinciale dell’On. Crispi, salito al potere del Governo dopo la
morte del Presidente Depretis.Con questa riforma, in base
all’art.100, potevano essere elettori tutti gli operai che avevano
compiuto il 21esimo anno di età e che si trovavano in possesso del
certificato della 4 classe elementare.
Qui il Pasqualino, cogliendo, come suol dirsi, la palla n balzo, si
mosse a far scrivere elettori quanti più ne poté, fra il popolo, che
ora contava 11 mila abitanti; la gioventù operaia gli teneva dietro,
il modo che lui guadagnava sempre terreno mentre i Cappedda erano
scossi. Le liste elettorali, ingrossatesi, arrivarono a 500
iscritti.
Aspettavano tutti il tempo del liberalismo, perciò, era naturale che
i Pasqualino acquistavano prestigio, nonostante il Correnti mettesse
dei bastoni fra le ruote nella politica riesina. Ma ciò, i Cappedda
alla loro volta si agitavano cercando a destra e a sinistra nuovi
elettori.
La lotta politica quindi si era ingaggiata seria. Approssimandosi le
elezioni amministrative, nelle domeniche i comizi succedevano a
comizi, al fine di fare intendere agli elettori lo scopo della
lotta. Come abbiamo detto, il Pasqualino con la sua popolarità, da
buon parlatore, lottatore calmo, riscuoteva applausi. Egli era
coadiuvato dal giovane avvocato, suo nipote Rosario Pasqualino
Vassallo che, intelligente parlatore, iniziava la sua carriera
politica, con l’essere candidato al Consiglio Provinciale.
Anche il Trapani con la sua facondia sapeva ben parlare al pubblico,
ma per quanto facesse e dicesse, alcuni dei suoi, vista la cosa mala
presa, lo abbandonarono.
Perciò, con i cento elettori pasqualiniani fermi, uniti ai nuovi di
giorno in giorno crescenti, non c’era da dubitare che la vittoria
doveva arridere al partito liberale.
La lista dei 30 consiglieri comunali era composta in maggior parte
di buoni operai; i due consiglieri provinciali erano i Pasqualino
Gaetano e Rosario e dei partito contrario Correnti e l’Avv.
Civilista Gaetano Giardina. Gli elettori d’ambo le parti erano
preparati dunque alla battaglia elettorale:l’arma era la scheda.
La settimana del 28 Ottobre era molto movimentata.
I galoppini dei due partiti, che aspettavano il giorno delle
elezioni come l’acqua nel mese di Maggio, si affaticavano di qua e
di la in cerca di voti.
Bisogna spiegare un pò cos’era il galoppinismo dell’epoca passata,
per conoscere come si svolgevano le elezioni politiche ed
amministrative. Fra gli elettori e non elettori vi stavano i mezzani
di voti che, a seconda del caso, li compravano a caro prezzo; gli
elettori deboli si intimorivano; si formavano delle squadre per
pattugliare e sorvegliare la sera; i capi se ne stavano a casa dando
ordini e denaro, col quale i messeri gozzovigliavano. Incontrandosi
i galoppini prò e contro, si baruffavano. Un distaccamento di
soldati e rinforzi di Carabinieri venivano per il mantenimento
dell’ordine pubblico.
Faceva parte del partito liberale il giovane a 21 anni Don Carmelo
Inglesi di Giuseppe Antonio che, sposata la figlia unica dello zio,
era diventato il più ricco proprietario di Riesi ereditando tutta la
proprietà del defunto zio e la porzione dei suoi genitori; perciò la
di lui casa era il refrigerio dei galoppini.
La vigilia delle elezioni, essendo di sabato, il lavoro si
intensificò, si raddoppiò; la notte specialmente, l’attività di
questa specie di bravi — direbbe il Manzoni - fu sorprendente; nei
diversi quartieri si sparava, si scambiavano schede, si impauriva:
un capoccia del partito dominante, battagliero, ebbe assediata la
casa e per tutta la notte non fu fatto uscire.
Tutto ciò si commetteva in barba alla Forza Pubblica, la quale
accorrendo, sbandava la mischia per il momento, ma poi.... le lotte
civili ricominciavano.
Il giorno di quelle elezioni, domenica, dalla mattina si vede il bel
tempo, l’animazione era insolita. Nessuno mancava degli elettori.
Formatosi il Seggio provvisorio, nelle due Sezioni del Municipio e
della Chiesetta del Crocifisso, sotto magistrati della legge, gli
elettori affluivano a depositare le schede dentro le urne, il popolo
gridava viva e abbasso: viva, per i Pasqualino; abbasso, per gli
altri. Nelle sale delle elezioni, voci e proteste echeggiavano a più
non posso.
S prevedeva la completa disfatta dell’altro partito.
Lo scrutinio risultò a favore dei liberali; allora questi,
incoraggiati dalla prima vittoria riportata, organizzarono una
grande dimostrazione con bandiere alla testa, percorrendo le vie
del paese. La notte, saputosi il risultato definitivo, le donne,
affacciatesi, gridavano pure evviva. L’indomani, con la musica. alla
testa e bandiere più numerose, si rinnovò ancor più solenne la
dimostrazione. Per più giorni il giubilo non cessò.
Appena saputasi la notizia a Caltanissetta, anche lì il partito
liberale inscenò una calorosa dimostrazione col grido di Viva Riesi!
Possiamo affermare, senza tema di esagerazione, che tutti gli occhi
dei paesi della Provincia si rivolsero con simpatia al partito
liberale dei Pasqualino in Riesi.
La caduta del Correnti provocò del malumore, delle critiche; ma il
giovane Avv. Nino Verso Mendola, in proposito, scrisse un articolo
di cui fra l’altro diceva: “ Riesi, Signori Sagrestani, è stato in
Provincia l’antesignano di ogni nobile fatto che se fosse stato
meglio amministrato, oggi sarebbe all’altezza di uno dei Comuni del
Settentrione d’Italia
Insediatosi al Municipio il nuovo Consiglio Comunale, con a capo il
Sindaco Avv. Don Gaetano Pasqualino Pasqualino, Consigliere
provinciale in Caltanissetta, assieme al nipote, sollecitarono la
costruzione del sospirato ponte Imera sul “Salso”. Verificatasi un
poco di miseria a cagione della crisi zolfifera nel 1890, si diede
lavoro a tutti nella detta costruzione. Quest’opera d’arte fu
completata dopo due anni, nel 1892.
Il primo atto energico del Sindaco liberale fu quello di aver fatto
togliere la grata di ferro dal Casino dei civili, rendendo liberi la
Piazza Garibaldi e il Corso V. E.
Il paese però rimase come prima. Il Pasqualino, con le sue idee
politiche, incominciò ad essere avversato per le seguenti ragioni:
1) Perché nel 1890 patrocinò al Parlamento Nazionale la candidatura
dell’On. Colajanni, contrariamente alle disposizioni Prefettizie;
2) Perché neI 1892, nella candidatura di Tommaso Palamenghi al
Collegio di Gela, lui si dichiarò personalmente contrario, lasciando
liberi il Consiglio e gli elettori.
Il partito caduto, profittando di questo, si insinuò presso il
Governo a mezzo dell’On. Palamenghi Crispi. E difatti, il Marchese
Zuliani venne ad ispezionar il Municipio di Riesi. Si disse che
trovò tutto in ordine; ma la verità fu che le sorti del Consiglio
Comunale si decisero dopo, in casa del Sotto Prefetto Debilio.
Intanto il Pasqualino, credendosi forte, continuava impavido la sua
via. Nel frattempo le liste elettorali gli si erano accresciute di
1200 elettori, quasi tutti da parte del popolo; e quindi fidava su
se stesso e sugli altri.
Don Gaetano commetteva degli errori per non ascoltare i consigli dei
suoi amici.
Durante il suo potere si ultimò il nuovo Carcere; si accomodò la
lunga saia, pericolosa, che partendo davanti la casa Accardi e
passando per il detto Carcere, va a sboccare al Vallone della
Sanguisuga.
A proposito di detta Saia rammentiamo che una sera di Ottobre d
1901, mentre pioveva forte ed era piena, una povera donna del
quartiere, volendo passare all’altra sponda, vi cadde e fu
trascinata dalla corrente. Alle grida accorsero il marito, i figli,
i parenti, i vicini coi lumi; si sparò chiamando soccorso, ma fu
inutile. L’indomani fu trovata morta al vallone della Sanguisuga,
vicino al Cimitero.
Sotto la Sindacatura del Pasqualino, il paese cresceva, s allargava
di nuove case, formandosi delle nuove vie verso lo stradale di
Mariano, al nuovo Carcere, lo stradale di Ravanusa, Calamita ; verso
la via Scifano, alla via Larga, dov’è la lunga via che dal punticino
della Saia va fino al Canale e che ora è divisa in due nomi:
Vittorio Veneto e via del Littorio; l’altra lunga, diritta via
Cairoli che dallo stradale scende fino a Schifano. Ivi sono sorte
delle belle case con camerette fra le traverse le nuove case dei
contadini, zolfatai, operai e commercianti continuano a sorgere
camode, pulite.
In conseguenza di tutto ciò, il paese coi suoi diversi quartieri, e
i rioni, al tempo di Pasqualino contava 12 mila abitanti.
il popolo quindi si muoveva, si istruiva, migliorava aspettando
nuove opere pubbliche, ma... è meglio non parlarne. Narriamo
piuttosto il fatto doloroso di un uomo idrofobo, avvenuto nel 1889.
ln una pagina triste della storia di Riesi.
Tal Giuseppe Vinci, zolfataio, fatta la sua giornata di lavoro, se
ne veniva con i suoi compagni dalla miniera Tallarita.
Tranquillamente discorrendo si mangiava un tozzo di pane ed aveva in
mano un coltello. Tutto ad un tratto vedono scendere dal punto
denominato dalla Portella, un cane idrofobo. Siccome il Vinci era
avanti ed aveva smesso di mangiare, chiuso il coltello, il cane
quando gli fu vicino gli si avventò e lo morse alla mano; gli altri
si guardarono, si allontanarono, lo cacciarono a colpi di pietra. I
contadini dei dintorni si allarmarono e prima che l’animale
giungesse alla miniera l’uccisero.
L’operaio morsicato vistosi un poco di sangue, se lo sugò
asciugandosi la ferita col fazzoletto; seguitando a camminare
andavano scherzando credendo che fosse una cosa da nulla. Giunto a
casa disse ridendo alla moglie e ai figli che era stato morsicato da
un cane arrabbiato e che dovevano guardarsi. Non ci si badò e non se
ne preoccuparono, tanto piu che la ferita era rimarginata.
Ebbene, ai 40 giorni precisi, quell’uomo a mezzanotte, svegliatosi,
ebbe i primi sintomi dell’idrofobia. La moglie vistolo guaire,
saltando giù dal letto in camicia, trascinandosi i bimbi, va a
svegliare i suoi genitori, i quali accorsi gli chiusero la porta a
chiave. Al rumore, svegliatisi i vicini di via Parroco, accorsero
constatando il caso orribile, pietoso: dietro la porta ascoltavano i
guaiti come un cane. Fattosi giorno. informate le Autorità, una
folla di curiosi si riversò la. Il Sindaco Pasqualino ordinò
immediatamente di fare una grata di l’erro e murarla davanti la
casa, atterrando la porta. Il povero uomo idrofobo in tutta la sua
deformità, pieno di bava alla bocca, non riconosceva i fratelli, gli
amici; non voleva nulla,
Per diversi giorni, il paese rimase in preda al terrore, sotto
l’incubo della trepidazione, tanto che una sera un burlone
lasciandosi dire che l’uomo idrofobo era scappato, in un momento
tutte le porte si chiusero, temendo un malanno. Finalmente la
Prefettura ordinò di fucilarlo; laonde per evitare questo triste
spettacolo al popolo, decisero di farlo avvelenare dai parenti. In
una fetta di mela, a debita distanza, lo indussero . mangiarla:
appena messesela alle labbra, Giuseppe Vinci cadde come “corpo morto
cadavere”.
L’Amministrazione Comunale del Pasqualetto allora mise in Bilancio
la somma per un accalappiatore.
Questa Amministrazione Comunale ebbe vita quattro anni.
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Cap. XXXII
scioglimento del consiglio comunale – R.commissario l’ex prefetto
debilio
Con Regio Decreto del 5 Aprile 1893 venne sciolto il Consiglio
Comunale di Riesi. L’accusa fu trovata nell’aver firmato il Sindaco
alcuni espropri all’Esattore, ingiustamente. Gli imbastirono un
processo che a dir dell’On. Colajanni (Avvenimenti di Sicilia) fu
per esito politico; difatti proseguendosi l’istruzione, l’ex Sindaco
Gaetano Pasqualino fu prosciolto poi dall’accusa.
A R. Commissario fu nominato l’ex Sotto Prefetto Avv. Dott.
Francesco Debilio, nostro concittadino.
Il Cav. F. Debilio, era figlio di Don Rosario e Anna Inglesi.
Laureatosi in giurisprudenza nel 1860, andò da giovane a fare gli
esami di Pretore Mandamentale a Gela e vi restò. Con un altro esame
fu nominato
Sotto Prefetto col nuovo Governo italiano, Da Catania fu mandato ad
Aci Reale, trasferito a Nicosia, ivi distrusse il brigantaggio;
poscia a Caltagirone, e per breve tempo Prefetto a Cosenza.
Dopo trent’anni di lodevole servizio si ritirò in questa sua patria,
curando la sua estesa proprietà e la sua famiglia.
Durante la sua breve gestione di sei mesi, il Cav. Debilio, diede
prova di saper fare; oculato Amministratore, oltre a lasciare
l’intero stipendio a beneficio del Comune, con le sue economie,
l’onestà, la rettitudine, si dedicò a delle opere pubbliche. La
prima cosa ch’egli fece fu di far recintare di muri il nuovo
Cimitero, facendo togliere le tavole, perché il sacro luogo sembrava
una mandra e i cani vi saltavano dentro, asportando i resti dei
cadaveri. Fece in economia riattare le strade del Carcere vecchio,
Pietrapiatta e Nocilla. Il bravo funzionario fece fare, in tubi di
ghisa, le condutture delle acque al Canale e alla Sanguisuga, per
l’igiene.
Il tempo gli mancò al R. Commissario Debilio, perchè le Elezioni
Amministrative furono puntate per la terza Domenica di Ottobre. In
questo mentre i Cappedda si riorganizzarono per dare addosso al
partito liberale; d’altra parte il Pasqualino, forte del suo
partito, contava sui suoi elettori. Ma si ingannò! Il Cav. Don
Carmelo Inglesi lo abbandonò, passando alle file dei signori; egli
denaroso prodigo che aveva fatto il banchetto all’On. Palameghi
Crispi, ci teneva ad abbattere il Pasqualino.
Quindi si mise in campo la corruzione elettorale su larga scala. Gli
elettori del Pasqualino, poveri operai, si vedevano per le vie e si
vendevano il voto per una mangiata di pasta; vi furono di quelli ben
pagati. Sembra una esagerazione il dire che un Consigliere della
Lista pasqualiniana, si vendette e andò a votare contro se stesso.
Eppure vero. Il galoppinismo in questo caso, vedendo che c’era da
rodere dalla parte dei signori, raddoppiò di zelo. Pochi, pochissimi
furono coloro i quali si mostrarono fedeli al partito liberale.
Il giorno delle Elezioni i due partiti scesero in lotta. Don Gaetano
si accorse del mal tempo, ma pure bisognava lottare, non per
vincere, ma per perdere. Nelle sale delle Elezioni le sue proteste
erano accolte con urli e fischi. Il risultato fu la completa
disfatta. Il ‘93 cancellò l’89. La politica fece restare al suo
posto di Consigliere Provinciale il giovane avvocato R. Pasqualino
Vassallo, mentre io zio rimase fermo nelle sue idee, continuando a
lottare. Egli sapeva star bene all’opposizione. Riguardo all’ex
Sotto Prefetto, rimase estraneo alla politica locale. Visse fino ai
1894 morendo alla bella età di 74 anni.
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Cap. XXXIII
la nuova amministrazione comunale sindaco in cav. carmelo inglesi
L’Avv. Don Francesco Trapani che reggeva il timone del partito,
propose a Sindaco il Cav. Don Carmelo Inglesi, resosi stavolta
benemerito al partito dei Cappedda, e Vice Sin lui, nelle cui mani
era concentrata l’amministrazione.
In seguito alla nomina a Sindaco titolare e al prestato giuramento,
si formò la Giunta Comunale con l’Avv. Di Benedetto, certo Mario
Auci e Don Francesco Rindone. Indi incominciarono le lotte.
Con i nuovi ordini si doveva fare un po di chiasso. Eccoli pensare
alla manutenzione delle strade, allo spurgamento delle sorgenti, ed
altro.
Passato questo primo impeto, si ritornò allo stato Primiero: opere
nuove non ne sorsero più; miglioramenti, niente.
Il Cav. Inglesi, da Sindaco, era accerchiato da tanti satelliti, i
quali lo sfruttavano maledettamente. Egli, di carattere debole
sebbene onesto, dava retta ai suoi amici che lo traviavano come
volevano.
Ma, e il paese?... Restava lo stesso, senza fare un passo avanti
nella via del progresso civile.
Al Municipio, ritornarono a governare i Cappedda, come una volta, Il
Pasqualino vedendo ciò, al Consiglio Comunale faceva l’ira di Dio;
ma veniva spesso soffocato dalle voci. La opposizione che aveva
sempre ragione.... non aveva ragione. Il popolo cominciò di nuovo ad
affiancare il Pasqualino. Questa lottava in nome dei principi
estremi. Si erano istituiti in Sicilia i fasci dei lavoratori, con
programma spiccatamente socialista, contro il Governo e contro i
Signori.
Don Gaetano fondò il fascio di Riesi, a scopo locale, per avere i
voti degli elettori. I Signori, spaventati, si accanirono
maggiormente contro di lui; la P.S. guardava di mal occhio non solo
il Capo, ma anche i gregari. Eppure il fascio dei lavoratori di
Riesi contava 700 uomini. La bandiera rossa, le coccarde, le
conferenze; tenevano desta l’attenzione della popolazione.
Quindi la lotta era diventata aspra quanto mai. I capi del partito
socialista andavano predicando per tutta l’isola il finimondo. Lo
stesso Governo dell’On. Di Rudini era incapace di frenare, di
reprimere il movimento rivoluzionario. E qui a Riesi, il Sindaco
Inglesi era furibondo contro i socialisti. Però, ad onor del verità
da noi si predicava la calma; ma con tutto ciò si temeva chi sa che
cosa!...
L’Amministrazione Comunale stava all’erta; Sindaco, consiglieri e
proprietari non dormivano tranquilli; il Pasqualino, nella qualità
di presidente del Fascio, tutte le sere, nel dammuso sotto la casa
di Donna Maria La Rutella adunava operai, contadini, e zolfatai,
tenendo loro conferenze. Carabinieri e guardie pattugliavano,
sorvegliavano continuamente i locali senza che si verificasse il
benché minimo incidente; il fracasso prodotto di battimani si
sentiva di fuori, ciò che adontava maggiormente il Cav. Inglesi, che
ad ogni costo voleva la testa del Pasqualino.
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Cap. XXXIV
lo “stato di assedio” - 1894
La propaganda socialista si degenerò in tumulti, rivolte, saccheggi,
incidenti; l’On. De Felice e Compagni andavano predicando che: siamo
al principio della fine; i contadini, ai quali si era dato ad
intendere la divisione delle terre, si armarono qua e là successero
dei disastri e danni. A Monreale atterrarono i casotti daziari e li
incendiarono; a Gibellina vi furono delle uccisioni; a Valguarnera
appiccarono il fuoco al Municipio, fecero scappare Sindaco e
proprietari; a Pietraperzia i contadini si attaccarono con i soldati
e vi furono morti e feriti. Il male era contagioso. La Sicilia era
in fiamme. Bisognava reprimere, arrestare la rivoluzione.
Come?
Ogni giorno se ne sentiva una. Tutti i paesi della Sicilia e della
Lunigiana (Toscana) erano in subbuglio.
Richiamato al potere l’On. Crispi, con mano di ferro strinse i
freni, mettendo lo Stato di assedio. Mandò subito il conte generale
Morra di Lavriano a Palermo. L’indomani stesso il Comandante del
12” Corpo di Armata, fece arrestare in Palermo l’On. De Felice e
Comp. Nelle città i ci furono arrestati; indi proclamò il disarmo.
Vi fu il fuggi fuggi.
A Riesi che non c’era stato niente, che anzi il Fascio fu dichiarato
apocrifo, sconfessato dagli stessi socialisti, perché di mire
locali; che anzi si predicava la calma, si era tranquilli; lo stesso
Pasqualino diceva di non aver paura; ma venuti i soldati per il
disarmo, non fu così. La notte del 14 Gennaio .1894 furono
arrestati: il giovane Avv. Gaetano Debilito; Don Salvatore Di
Benedetto, sarto; Gaetano Fasula, armaiolo; Francesco Giaquinta,
proprietario; Cataldo Girgenti, contadino: Francesco Golino,
falegname. L’Avv. Gaetano Pasqualino, il Notaro Giuseppe, Giovanni
La Leggia, zolfataio e certi altri, avvisati, scapparono.
Figuriamoci quindi la costernazione delle famiglie. La nota degli
arrestati formata in casa del Sindaco cav. Inglesi, era di 120,
anche i sospetti, gli amici del Pasqualino, dovevano essere
arrestati. La sera essi prendevano il largo fra le campagne, al lume
di giornali accesi: soldati e carabinieri, di giorno e di notte
erano in moto: le grette nella notte erano piene di fuggiaschi.
A poco a poco, fatto il disarmo, le cose si andavano quietando. Il
generale Murra informato esattamente delle cose di Riesi, dopo 22
giorni fece uscire i carcerati, dando ordine di lasciar liberi i
cittadini. Don Gaetano Pasqualino che era stato a Palermo, nascosto,
a cercar documenti sulla rivendica degli usi civici, ricomparve a
Riesi come se nulla fosse stato per lui; gli amici gli si strinsero
di nuovo intorno. Ben presto ricominciarono le lotte dei due
partiti. Egli con la solita sua calma, con la sua facile, bella
parola, metteva scompiglio all’Amministrazione Comunale dello
lnglesi ma non per questo il partito dominante cessava di
amministrare il Comune a modo suo. Esso coi cappedda era unito e si
credeva forte. Allora il Pasqualino, per attirarsi di più la
popolarità, iniziò la causa degli usi civici, fon la Società di
Resistenza contro gli ex baroni di Riesj. Con essa si andò prima
dinanzi al Prefetto ripartitore e dopo davanti il Tribunale Civile.
Gli Amministratori dei principi andavano e venivano da Caltanissetta
per le comparse dei loro Avvocati.
Siccome nel 1886 tutta la proprietà fu divisa in tre rami di
Amministrazione così gli Amministratori erano tre: il duca di
Solferino che si fece fabbricare il palazzo in piazza Garibaldi; la
principessa Giron e i Principi Piguatelli Fuentes. Lo Stato di
assedio, come conseguenza, portò la causa degli usi civici.
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Cap. XXXV
l’arresto del cav. inlgesi - sindaco l’avv. p. di benedetto –
l’acqua potabile – causa degli usi civici – sentenza favorevole
Il secolo XVIII si chiude con l’arresto del Sindaco Cav. Don Carmelo
Inglesi e si apre con altri avvenimenti importanti. Vale la pena
narrarli alla generazione presente, acciocché sappia valutare uomini
e cose.
Coinvolto in un processo per Associazione a delinquere il
Cav.Inglesi fu arrestato un pomeriggio del mese di Maggio del 1900,
mentre veniva .dal Pantano in carrozza assieme alla famiglia. Giunti
al bivio di Mariano, il Maresciallo e due Carabinieri, intimato il
fermo, lo fecero scendere, conducendolo in Caserma, da dove fu fatto
partire per il Carcere di Caltanissetta.
Per quanto si vociferava in paese egli cercava scansarsela,
l’arresto dello Inglesi fu sensazionale. La famiglia i numerosi
parenti, gli amici, fecero di tutto per liberarlo, per ottenergli la
libertà provvisoria, ma fu inutile,
Imputato per favoreggiamento ad una banda i falsi monetari catanesi,
patì la processura di circa un anno e alla causa fu assolto “per non
provata reità”. Uscito di carcere, ritornò a Riesi, dove gli si fece
una dimostrazione.
Il posto di Sindaco intanto lo aveva occupato il Sig. Pietro Di
Benedetto Manderà di cui conosciamo i meriti. Per non sconquassare
il partito, il Trapani pensò bene di far nominare il detto signore
che oltre all’essere intelligente e colto, era ben censito. Uomo
energico, accorto, si fece amico dell’ex Sindaco che gli era
favorevole.
All’opera il Sindaco Di Benedetto si dimostrò perito nel sapere fare
e agire. Vide che il paese aveva bisogno dell’acqua, perché quella
del Canale non bastava più ed inoltre non era potabile. Allora
scelse quella del Pantano, il cui bacino era sufficiente e potabile
per i bisogni dei cittadini; d’accordo con Inglesi, si cominciò a
lavorare per l’impresa di quella bella e grande opera. Qui il
Sindaco si trovò in disaccordo col Trapani, e il Pasqualino capo
dell’opposizione, i quali mettevano dei bastoni nelle ruote i non
far succedere la venuta a Riesi dell’acqua Pantano perché ci
volevano pure le fognature, altrimenti il paese era nel fango e
perché ci voleva una grande
spesa. Ma il Di Benedetto insistendo sosteneva che bisognava
dissetare un popolo di 13 mila abitanti per la penuria che c’era
d’acqua: difatti al Canale succedevano continue baruffe per questo;
l’acqua di Mariano della Sanguisuga si vendeva a caro prezzo, beato
chi la poteva avere; gli acquaioli o saccari, erano presi di
assalto. Ad ogni modo l’acqua nel 1904 venne, bella, limpida,
scorrevole per le. vie con le fontanelle e in tutte le case, i
rubinetti. Parve un sollievo pei il popolo; il Sindaco si rese
benemerito.
Visto così il Trapani, al fatto compiuto si arrese, scrivendo la
magnifica dicitura alla vasca ed il Pasqualino per non perdere la
popolarità si diede anima e corpo alla rivendicazione degli usi
civici, insistendo nella causa. E il bravo Sindaco, fece un passo
avanti, mostrandosi liberale con l’unirsi col Pasqualino contro la
Baronia. Così la causa fu avocata anche dal Consiglio Comunale.
L’unione dei due Capi fu accolta con giubila dal popolo. Essi si
recarono a Napoli per consultare i due grandi avvocati Gianturco e
Salandra in merito ai diritti, mettendo in campo la Carta di
memoria.
Ritornati qui, si disse che la vittoria era sicura. E difatti il
Tribunale Civile di Caltanissetta, dando ragione ai cittadini del
Comune di Riesi nella causa degli usi civici, ne ordinava
l’immissione in possesso dei feudi Palladio e Spampinato, salvo a
provare, i principi, la falsità della Carta di memoria.
La Sentenza fu accolta con giubilo. Una grande dimostrazione
d’affetto si fece ai due patrocinatori dei diritti del popolo
l’entusiasmo giunse al colmo. Il Sindaco Di Benedetto in questo caso
aveva rivendicato l’onta dello zio Cav. Janni, poiché aveva la
nipote Donna Giovannina.
Bisognava ora prendere possesso delle terre, ma si mise pane e
tempo. I principi mandarono ad offrire al Comune, à mezzo dell’Avv.
Gaetano Baglio che allora trovavasi a Caltanissetta quale Segretario
dell’Assicurazione zolfifera, la somma di 450 mila lire a patto però
di fondare un Ospedale per la popolazione riesina, ma i due uomini
rifiutarono, aspettando miglior tempo per il possesso. In questo
mentre i principi, a mezzo dei loro avvocati sporsero appello per
falso incidente, impugnando la CarIa di memoria presso la Corte di
Appello di Palermo, la quale diede ragione ai principi, perché i
periti calligrafi trovarono falsa la sopradetta Carta; Municipio e
società ricorsero alla Cassazione di Roma.
Lasciando correre le cose della causa nelle mani della Giustizia,
occupiamoci di politica paesana.
Continuando l’unione del partito liberale col Sindaco,, in seno al
Consiglio Comunale erano scoppiati dei dissidi; alcuni consiglieri
si erano distaccati dal partito Di Benedetto—Pasqualino, di modo che
la barca municipale tentava di naufragare. Il consigliere
provinciale Avv, Pasqualino Vassallo, clic teneva il timone a
Caltanissetta, consigliò al Di Benedetto, nominato cavaliere, di
formarsi la maggioranza del consiglio e dimet tersi, facendo
nominare un’altro al suo posto; anche Don Gaetano approvò tale
proposta, occupandosi per la ricerca di un nuovo Sindaco per
governare liberalmente il paese.
Il Cav. Di Benedetto e il Pasqualino Gaetano, di comune accordo,
scelsero fra i consiglieri chi poteva essere il miglior quotato, per
metterlo al posto di Sindaco.
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Cap. XXXVI
l’avv. G. carlo golisano sindaco – il primo centenario di garibaldi
solennemente festeggiato
A succedere al posto di Sindaco, in sostituzione del Cav. Di
Benedetto, fu designato l’Avv. Giuseppe Carlo Golisano. Tale nomina
fu accolta con soddisfazione dal paese.
L’Avv. G. C. Golisano, figlio di Don Rosario e di Donna Teresa
Pasqualino, si laureò in giurisprudenza, assieme al cugino R.
Pasqualino Vassallo. Fu per breve tempo Vice Pretore. Apparentato
con l’ex Sotto Prefetto Debilio, ebbe due doti, poiché gli morì la
prima moglie. Datosi alla frutticoltura, migliorò il suo fondo di
Birrigiuolo dove vi fece nascere una graziosa villa, dedicata alla
figlia Rosina. La preziosa acqua, una vasca ed una grotta
artificiale, nonchè una bella casina, ne fecero un eccellente
ritrovo.
Fu per queste migliorie che meritò la Croce di Cavaliere.
Appassionato del suo fondo, amante della famiglia, di rado si vedeva
in paese. Amava la musica, le arti belle, la poesia e la
letteratura.
Nominato ed accettata la Sindacatura, si propose di voler fare
grandi cose per il suo paese; ma il tempo gli mancò.
Però fece costruire dei bastioni lungo la Via Vittorio Veneto, già
Timoleonte; badò alla pulizia, alla illuminazione, all’Annona.
Nello stesso anno (1907) il 7 Luglio ricorreva il primo centenario
della nascita del leggendario Eroe dei due Monti, del fatidico
Condottiero delle camicie rosse.
Questa data si doveva festeggiare dal partito liberale di Roma, ma
si ostacolava seriamente da parte del Governo, di modo che nei paesi
si era costretti a tacere.
Ma qui però, un gruppo di giovani operai liberali, arditi,
lanciarono l’idea di far qualche cosa a qualunque costo.
Essi furono presi per pazzi, ostacolati, minacciati; ma non si
scoraggiarono. Formatosi un comitato, andavano raccogliendo fondi
per le spese. Presentatisi al Sindaco, questi diede il suo obolo
personale, dicendo: “Fate, fate…! Io sarò con voi nello” spirito ».
Scesi nelle due miniere, ingegneri e impiegati contribuirono
largamente, entusiasticamente. Eppure occorreva ancora della moneta
per potere arrivare a far suonare la musica, almeno in quel giorno.
Ci si rideva in faccia, ci si minacciava, ma pure si lavorava ogni
giorno senza tema.
Avvicinandosi la data, dopo tanto chiasso dei Deputati estremisti
alla Camera, finalmente il Governo italiano decise di festeggiarsi
il primo centenario di Garibaldi.
Una lettera del Prefetto invitava il Sindaco a festeggiare il
centenario, largheggiando nelle spèse. E allora il caro funzionario
fece chiamare quel comitato, al quale partecipando la notizia, mise
a disposizione le somme necessarie e la sala del Consiglio per
riunirsi e deliberare sul da farsi.
Vi erano ancora otto giorni per la ricorrenza e in questo tempo si
concertò tutto. Qui sorse una questione, se il Presidente della
festa doveva essere il Sindaco, che rimase estraneo al movimento, o
il Pasqualino che si prestava in tutto.
Chi partecipava, per l’uno o chi per l’altro,ma infine si tagliò la
testa al toro, eleggendo il presidente della festa il preposto più
vecchio garibaldino Sig. Giuseppe Ferro negoziante, Consigliere
Comunale, dandosi incarico all’Avv. Gaetano Pasqualino di fare il
discorso d’occasione. Tanto l’uno che l’altro accettarono commossi.
il Sindaco fu ossequiente alla decisione, accogliendola
entusiasticamente purché si riesca alla solennità disse, inneggiando
all’Eroe, lodando il Comitato.
Il giovane pittore pieno d’ingegno, Luigino Patrì di Francesco, di
sua iniziativa, aveva modellato in gesso un mezzo busto naturale di
Garibaldi, da erigersi nella piazza omonima scoprendolo il giorno
della festa. Si pensò adornare la piazza di festini e fiori, ed
illuminarla. Per tutto il giorno e la sera si incaparrò la musica
cittadina. Di più, si allestirono una dozzina di camicie russe per
i garibaldini superstiti e si decise di offrire un pranzo ai più
poveri.
Il 7 Luglio cadde di Domenica: tutti erano a casa. La mattina
all’alba furono sparati 21 colpi di bombe a mano, svegliando gli
abitanti dei diversi quartieri; alle ore 8 la musica incominciò a
suonare; le bandiere sventolando annunziarono la festa; il movimento
era insolito.
Un lungo corteo si formò al Municipio, con a capo il Sindaco e la
Giunta, seguiti da cittadini e popolo; davanti sfilarono i
garibaldini in camicia.
Alle ore io, sotto la sferza del sole, si percorsero le Vie
Principe Carignano, Umberto I° e il Corso V. E. per trovarsi in
piazza ove si svolse la cerimonia. Nel pomeriggio vi fu il
pellegrinaggio delle scolaresche comunali ed evangeliche, recandosi
davanti la statua, cantando il fatidico inno:
Si scopron le tombe, si levano i morti.
Una lapide di marmo fu posta al cantone della piazza, accanto al
casino dei civili. L’epigrafe, dettata dal Sindaco
G. C. Golisano, dice:
PERCHÈ SIA AFFERMATO A PERENNE RICORDO
IL PRIMO CENTENARIO DELLA NASCITA DI
GIUSEPPE GARIBALDI
CUI LA PATRIA NOSTRA DEVE LA SUA PRECIPUA REDENZIONE
OGGI 7 LUGLIO 1907 CITTADINANZA E MUNICIPIO
IN SOLENNE ENTUSIASTICO ACCORDO
QUESTO MARMO
POSERO
La sera si chiuse la bella festa civile, riuscitissima, con concerti
musicali, fantastica illuminazione e le passeggiate sotto gli archi
trionfali.
Possiamo dire con orgoglio che in quella occasione Riesi dimostrò di
essere un paese liberale e patriottico, superando se stessa.
Il più soddisfatto di tutti fu il Sindaco, il quale: mostrò il suo
liberalismo in fatto di idee politiche; ma egli di poi non fu
assecondato dal Consiglio; la compagine Di Benedetto-Pasqualino non
poteva andare d’accordo: laonde fu sciolto il Consiglio e un R.
Commissario venne a reggere, per .un pò di tempo, le sorti del
paese.
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Cap. XXXVII
dal Cav. Inglesi, di nuovo sindaco a don luigi d’antona
Ed ecco un’altra volta coalizzarsi i signori Cappedda per dure
addosso al partito Pasqualiniano. In questo caso scese in lizza il
nobile Don Luigino D’Antona, tiglio del fu Pietro e Francesca
D’Antona, la imponente e rispettabile famiglia che noi conosciamo di
già.
Don Luigino D’Autona da giovane, venuto dagli studi da Napoli, dove
c’era lo zio, sposata una Di Lorenzo, cugina, ereditò la casa del
nonno, al piano, dove fondò la Banca Agraria. Ben quotato quindi e,
per la sua tradizione, era un nome a Riesi.
Le Elezioni Amministrative del 1910 si presentavano triste assai
laonde il Pasqualino credette opportuno di non lottare. Egli
consigliando i suoi elettori ad essere prudenti, se ne stette a
casa.
La vittoria perciò fu tutta del partito avverso.
L’Amministrazione Comunale potò di nuovo a Sindaco il Cav. Don
Carmelo Inglesi; ma la morte del Trapani avvenuta nel 1904, che era
il perno di tutte le Amministrazioni, scombussolò i Capi, Sindaco fu
nominato il D’Antona; affiancato col Pasqualino Vassallo,
Consigliere principale, visto che gli affari della banca gli
andavano bene e che per il paese era un sollievo, specialmente agli
agricoltori, fu nominato Commendatore.
Da Sindaco il Comm. D‘Antona era imponente: bene accettò al partito;
il rispetto che aveva per lo zio Senatore, le Autorità lo avevano in
grande stima. Con la Banca Agraria, la casa del Comm.. Don Luigino
D’Antona era ben frequentata di persone amiche personali e clienti.
L’Amministrazione Comunale del Sindaco D’Antona era tenuta in buon
conto, Il suo partito era compatto; i Consiglieri Comunali gli erano
tutti favorevoli. La casa e il Comune per Don Luigino erano la sua
vita; agli affari di campagna, ci badava pure, ma per lo più c’erano
i Campieri; censito com’era con le terre di Brigadieci, Schette,
Figotto e Calamuscini aveva molta servitù. Buon padre di famiglia,
con le sue aderenze, col suo prestigio, il Sindaco di Riesi, aveva
fama di saper stare a quel posto; i suoi amici personali gli erano
ammiratori: i suoi parenti ne erano lieti. Dotato di intelligenza,
con la sua cultura, era anche un consigliere in materia di diritto
penale ed Amministrativo. Non era avaro di consigli; generoso con
gli operai che lavoravano sotto di lui, ne parlavano di bene. Di
carattere serio, piuttosto chiuso, chi lo avvicinava, riportava
l’impressione che un favore, se lo poteva fare lo faceva, ma se non
lo poteva fare era irremovibile.
Nell’Amministrazione Comunale era anche così. Se aveva degli amici,
si era creato anche nemici. Succede sempre così nella vita pubblica
di un uomo: c’è chi lo porta ai cieli e c’è chi lo sotterra.
Noi che vediamo il lato buono delle cose, non sappiamo spiegarci il
fatto che col poeta:
Ciascun non piace saper da chi sia amato.
Quando felice in su la ruota siede.
Credeva il Comm. D’Antona di restare al suo posto di Sindaco come
suo padre, ma... non fu così! Un caso speciale diede la scalata al
suo partito, e fu proprio il partito liberale.
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Cap. XXXVIII
il suffraggio universale – caduta del potere d’antona – vittoria
strepitosa degli operai con a capo pasqualino
Si discuteva alla Camera italiana la legge sul suffraggio
universale; i Deputati di Estrema sinistra facevano il diavolo a
quattro per ottenerla; ma il Governo dell’On Calandra concesse, o
meglio fece approvare il voto allargato a tutti i cittadini italiani
che ne avevano il diritto.
Secondo ed in virtù di questa legge erano ammessi a votare anche
gli analfabeti che compiuti 21 anni non erano macchiati dalla
Giustizia. Così per dirla con una frase tipica dell’Ing. G. Accardi
anche li cardurara erano elettori.
Il Pasqualino Gaetano allora riapparve sulla scena politica dicendo:
“Ci rivedremo alle urne sul suffraggio universale!” E in questa
maniera incitava tutti a farsi iscrivere. Un movimento insolito si
notava a misura che si avvicinavano le Elezioni Amministrative del
1914. Le Liste ammontavano a circa 4.000 elettori. I signori
cercavano di far argine a questa marea popolare, ma non poterono.
Gli elettori imbevuti di sufiraggio universale fanatici del loro,
voto, aspettavano il momento per andare alle Urne e votare; stavolta
non si poteva parlare di corruzione ,elettorale, perché il numero
era stragrande e poi le follie rosse avevano invaso le menti di
tutti gli operai.
Dato il momento, il Sig. Pasqualino formò una Lista di Consiglieri
popolari tra cittadini, zulfatai ed operai; i soli che vi entrarono
a far parte furono l’Ing. Giuseppe Accardi e l’Avv. Gaetano Debilio,
liberali: il Pasqualino Vassallo da On. Deputato al Parlamento
Nazionale se ne stava a Roma disinteressandosi dei fatti nostri o
meglio da lontano faceva l’occhio di triglia.
Concorse a dare maggior furia al Pasqualino il nuovo partito
popolare, bolscevico del propagandista Giuseppe Butera, il quale
predicando contro tutto e tutti voleva la divisione delle terre.
Costui era un giovane contadino che essendo stato a Roma come
bidello d’una Sezione Socialista, intelligente com’era, apprese le
solite frasi del Repertorio del tempo che fu. Venuto a Riesi formò
il suo partito, conquistando la massa dei contadini, nonché una
buona fazione del popolo. Dapprima era molto spinto, intransigente
anche contro il Pasqualino chiamandolo “falso, traditore del popolo
ecc…”; nelle vie, sotto la case, fra le famiglie, ovunque la sua
parola era bene accetta; ma poi finì con l’unirsi con lui, sicché il
partito popolare era forte ed esasperato.
C’era al potere centrale l’On. Giolitti, il quale non potendo
frenare i partiti estremi, lasciava correre tutto alla deriva. La P.
S. era impotente in questo caso a reagire: nessun appoggio poteva
dare quindi ai signori Cappedda per misura di prudenza.
Il Butera continuava ad inveire maledettamente contro la proprietà
ed i proprietari: la ciurma del popolo lo seguiva schiamazzando per
le vie: egli era diventato un idolo, la sua parola tagliente
incuteva spavento.
Gli animi erano preparati alla rivolta. Nelle Elezioni del 4 Agosto
i signori si videro perduti. Non solo ebbero il Voto contrario, ma
fischi, insulti, e tirandogli delle pietre li accompagnarono a casa,
specialmente il Sindaco che dovette ripararsi in una casa onde
schermirsi le pietrate. Quelle Elezioni, se da una parte diedero la
strepitosa vittoria agli operai, d’altra parte fu una vergogna che
la cronaca del nostro paese registra.
Insediatisi al potere i popolari, si formò una baraonda. Non usi
alla vita pubblica, amministrativa, dei Consiglieri comunali, non
andavano più a lavorare. Se bisogna essere giusti, niente per il
paese facevano; essi si cullavano nella politica ed alcuni vi
trovarono al Municipio la greppia. Il Pasqualino che aveva
conquistato il popolo, alla sua volta fu conquistato da esso, cioè
dai Consiglieri e non sapeva cosa fare.
La Barca Municipale del popolari navigava senza remi. Visto ciò, il
Butera si distaccò dal Pasqualino e seguitò la sua via,
trascinandosi di nuovo il popolo.
In questo caso i signori ritirandosi a vita privata, lasciarono
lottare il popolo diviso in due. Le cose andavano così di male in
peggio.
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Cap. XXXIX
uomini insigni e uomini grandi del secolo XVIII alcuni dei quali
vissero nel nostro secolo XIX
Giacchè ci siamo inoltrati nel 1900 è bene ora segnalare, prima dì
riprendere la politica, gli uomini insigni e gli uomini gradì che
ebbero i natali nel 1800 e che onorarono ed onorano il nostro paese.
Oltre quelli che abbiamo mentovati attraverso le pagine di questa
storia fin qui, si distinsero come uomini insigni del paese, in
medicina Matera e Giuliana: il primo, oltre ad essere un valente
medico fu un matematico ed un eccellente linguista; fu il maestro
dei suoi figli e di altri professionisti. Il dott. Don Gaetano
Giuliana figlio del massaro Giuseppe e di Maria Filippa Giuliana,
nacque nel 1811 e morì il 24 Gennaio 1880. Medico valoroso
omeopatico, si fece una grande fama, tanto che dai paesi vicini e
lontani lo venivano a prendere in lettiga. Nella letteratura
classica abbiamo avuto il Notaro Don Luigi Pasqualino, figlio di Don
Francesco e Caterina Inglesi, nato nel 1816 i suoi studi furono
profondi. Divenuto cieco, il suo diletto era di recitare a memoria i
classici in latino ed in greco. Gli amici andavano spesso a trovano
per sentirsene ammaestrati e nello stesso tempo tenergli compagnia e
confortarlo. Il filosofo Francesco Debilio Palacino, nato nel 1820
da Don Pietro (allora Sindaco) e Teresa Palacino, di distinta
famiglia mazzarinese, si impose all’attenzione nella Provincia e
fuori, merce i suoi scritti, col suo ingegno e il suo sapere, tanto
che lo chiamarono il filosofo. Da bambino fu mandato a studiare a
Palermo, dove si distinse fra i suoi compagni. Dotato d’una ferrea
volontà, di fertilissima memoria, fu detto il secondo Pico della
Mirandola. Giovane, giunto alle porte dell’Università, ramo legge,
nei muri scrisse:
“Nostro é l’ingegno
E l’avvenir siamo noi”.
Era amato dai professori, stimato dagli studenti. Scrisse un Saggio
critico ad una predica del P. Tommaso d’Acquisto. Rettore dei
gesuiti di Morreale, chiamandolo un panteista. Lo stesso D’Acquisto,
sapendo chi era, venne a baciarlo alla presenza di tutti dicendogli:
“Tu solo, figlio mio, potevi affrontarmi la critica. Laureatosi in
diritto, se ne venne fra i suoi a studiare, a meditare, circondato
d’alletto e di libri di tutto lo scibile umano. Qui. pubblicò un
Saggio sulla storia del l’incivilimento umano, libro che gli valse
l’ammirazione di quanti lo lessero. Sono pagine meravigliose, d’una
bellezza e stile che conservano la freschezza senza appassire. Nel
1848 scrisse un proclama al popolo degno della sua penna; per questo
proclama doveva poi essere arrestato, ma i suoi parenti lo fecero
passare per pazzo. Quando andava a Caltanissetta, il filosofo
Debilio di Riesi veniva accolto nel Circolo dei civili, con simpatia
e rispetto, pendendo dal suo libro. Siccome era trasandato nel
vestire, così qualcuno volle criticarlo ma egli saputolo disse
questa frase: ‘L’uomo si conosce quando esce da una Società, non mai
quando vi entra. In un Congresso di dotti della provincia, non mancò
l’invito al nostro concittadino che vi andò! Fra i congressisti un
signore lesse un componimento poetico, per la libertà il Debilio
alzatosi disse che lo aveva ratto lui, recitando a me moria i versi.
Tutti rimasero stupiti, l’autore protestò Don Francesco baciandolo
aveva fatto uno scherzo. Il filosofo il pazzo passava la sua vita a
Riesi a casa dando lezioni gratuite ai giovani; fra gli amici, nel
Circolo dei civili, apprezzato consultato. Coprì la carica di
delegato scolastico fino al 1883. Amò i suoi figli ai quali lasciò
il suo ricco patrimonio. Mori all’età di anni 61 nel 1883.
L’insigne Dott.Rosario Vassallo, figlio del vecchio Dottore e di
Giuseppa Faraci,nacque nel 1838. Tale padre tale figlio. Studiò
medicina a Catania e divenne celebre. Era l’idolo dello zio Don
Giuseppe Faraci il quale avendo in casa la sorella della moglie
Filomena La Marca, volle sposarlo con lei. La Casa Faraci-Vassallo
divenne un via vai di gente venuta da fuori in cerca del giovane
Dottore. Fattosi un nome, Concorse alla Cattedra Universitaria di
Palermo; ma le ingerenze lo fecero risultare il secondo. Allora
ricorse al Ministero che gli fece giustizia; ma andato là si dimise
favore del suo competitore dicendo che lo aveva fatto per onore.
Quest’uomo ricco d’ingegno, di virtù, di meriti, ricco di casato,
sul più bello della sua vita,dopo di aver messo al mondo tre figli,
due maschi e una femmina, fu preso dal male che non perdona, la
tisi. Egli cercò di curarsi con tutti i mezzi della scienza, ma…
Negli ultimi tempi, vedendo che perdeva passi, per contentare la
famiglia fu trasportato in lettiga padronale (Faraci) a Catania .
Lo specialista saputo che erano da Riesi Disse: Come !.... A Riesi
avete il gran Vassallo e, venite da me?...Scusi Dottore, rispose
l’ammalato con un fil di voce: io sono il Vassallo...! la
famiglia!.., e incrociò le mani. Dicesi che al Medico gli calò una
lagrima e fece segno di ricondurlo a casa presto. Il bravo,
impareggiabile Vassallo si contò le ore e i minuti della sua fine.
Difatti giunto a casa, messo sul letto, chiuse gli occhi nel 1886.
La mattina annunziatasi la morte, vi fu un lutto generale a Riesi.
L’oculista Prof. Antonino Correnti, era nato nel 1839 da Don
Giuseppe e Vincenza Calafato. Quel giovane che straccò il collare di
prete, perché voleva vestire la camicia rossa, se ne andò a Palermo
a studiare medicina; specializzandosi nella malattia degli occhi,
divenne celebre oculista. Mise una clinica per conto suo nella
stessa città, ove i professori lo incoraggiarono. In breve si
acquistò la celebrità: gli ammalati d’occhi accorrevano dai paesi ed
erano guariti; di rado veniva a Riesi per rivedere la famiglia, i
parenti, gli amici. Chiamato in caso di professione, veniva quando
non poteva dir di no a qualche persona influente o amica della sua
famiglia. La sua fama, la sua dimora era nella Capitale dell’isola.
Concorse per la cattedra di Firenze, vuota, e vi riuscì. Allora si
allontanò totalmente e non si rivide mai più. Nella città dei fiori
contrasse molte buone amicizie, fra cui quella del Principe Miele di
cui era compare per averle guarita una bambina con una operazione
difficile. I coniugi lo amavano e stimavano come un fratello. Avuto
il prof. Correnti un accesso alla coscia sinistra, suo compare Io
condusse a Parigi per l’operazione. Viaggiò in Olanda, nei paesi
bassi, conoscendo le lingue. Guaritosi, ritornato a Firenze, scrisse
ai suoi: Vengo da Parigi con mio compare l’operazione è riuscita; il
male è sparito, ma temo che si ripercuoterà altrove, ,, ecc. Pare
che così fu il germe, si riprodusse agli intestini e questa malattia
lo condusse alla tomba nel 1874. Le sue numerose opere e trattati
parlano di lui. Del fratello comm. Giuseppe, poco ci resta a dire.
La sua brillante carriera forense e politica ne fecero un pezzo
grosso a Caltanissetta, lo sappiamo già. Nato nel 1832 visse nella
città 40 anni, morendo nel 1900; lasciò una vistosa proprietà ai
tigli, abitanti nel gran palazzo Correnti al Corso. In occasione
della di lui morte l’Avv. Cascino nel discorso funebre, pronunciò
queste precise parole: è morto il Comm. Giuseppe Correnti da Riesi,
terra di fervidi ingegni. Viveva pure in città a quei tempi
l’Avv.Gaetano Giardina del Notar Gaetano e Teresa Gueli , civilista
esperto. Il fratello dott. Rocco Giardina, fu un insigne medico
chirurgo che si fece onore qui ; Rosario Pasqualino Vassallo e Nino
Verso Mendola. in tempi più vicini a noi, abbiamo avuto gli avvocati
Rosario Pasqualino Vassallo e Nino Verso Mendola. Entusiasti ne
facciamo la biografia, poiché ci siamo stati a contatto ne siamo
stati ammiratori del loro ingegno fecondo, della facile, eloquente
paroia, della vita. Rosario Pasqualino Vassallo o Sarino col suo
vezzeggiativo,nacque nel 1861, frutto del medico-chirurgo Don
Gaetano e Crocifissa Vassallo, la figlia del compianto dottore. Fin
da bambino messo nel collegio-confitto di Gela,vi fece il ginnasio;
passato a Caltanissetta si prese la licenza Liceale; apertesi le
porte dell’Univerità catanesi, frequentò i corsi legali. Laureatosi
venne a Riesi;fu per breve tempo vice pretore, ma poi passò il suo
studio a Caltanissetta. Nel foro Nisseno si fece largo come
penalista.Ivi lo conosciamo come Consigliere provinciale per la sua
carriera Politica. Di vasta cultura in questa materia, collaborando
nella Commedia Umana di Milano accanto a Bovio Impriani, Cavallotti
ed altri, lo resero famoso come liberale. Il nostro Pasqualino
Vassallo aspirava andare alla Camera dei Deputati; ma il nostro
Collegio elettorale fu tanto tempo infeudato prima ai Riolo di Naro
poi al duca di Monteleone, principe Pignatelli di Terranova. Contro
di lui lottò tante volte, il Pasqualino Vassallo, tanto che i
giornali avversi della provincia, lo chiamavano.: L’eterno
Candidato ; ma stanco il duca della vita pubblica, ritiratosi, rese
i lettori liberi. Allora nel 1905 tutti gli occhi si rivolsero verso
il riesino. E difatti fu eletto a Deputato al Parlamento Nazionale.
Andato a Roma d’allora in poi, gli venne riconfermato il mandato,
giacché Gela e Riesi erano unanimi per lui. E accedo un altro passo
avanti, nel 1916 fu nominato Sottosegretario di Stato col Ministero
Boselli, sotto dcll’On. Sacchi alla Giustizia. Nel 1920 con
Giolitti, occupò il posto di Ministro delle Poste e Telegrafi.
Sciolta la Camera, lui venne in Sicilia assumendo la direzione
delle Elezioni politiche; malgrado l’aspra lotta fattagli dal
Giornale L’Ora , il Pasqualino riportò dappertutto la vittoria.
Venuto il Fascismo nella nuova Camera dei Deputati (1924) con
Mussolini, fu compreso nel Listone; ma non ci stiede molto,
ritirandosi dalla politica. Siccome si era stabilito nella Capitale,
ivi esercita la sua professione di grande civilista e penalista. Un
suo collega lo definisce: mente quadrata; che ha tutto: generoso,
di cuore, per donatore. benefico. Parlandosi del fratello, il Notaro
comm. Giuseppe, morto nel 1928 all’età di anni 77. egli fu un grande
letterato ed un psicologo, oltre ad essere un cultore di discipline
giuridiche. La sua parola facile, bella, talvolta tagliente, piaceva
anche agli avversari. Si può dissentire dalle idee politiche, ma la
verità vera non si può negare. Coloro che leggeranno questa nostra
storia dovranno per forza convenire con noi che i Pasqualino a Riesi
sono stati dei lottatori intelligenti. Viye pure a Roma il poeta
Giuseppe Veneziano fu Calogero, impiegato in una Banca. Studioso,
intelligente; i suoi versi sono stati salutati, apprezzati da tutta
la stampa italiana. Rivolgiamo ora uno sguardo, un pensiero alla
memoria di Nìno Verso Mendola, l’altro famoso avvocato, collega dei
Pasqualino Vassallo. Nacque neI 1862 dal Notaro Giuseppe Calogero e
Margherita Mendola da Pietraperzia. Vispo e intelligente, i genitori
che erano molto agiati, lo mandarono a Studiare a Caltagirone. Da
Caltagirone andò a proseguire gli studi in Caltanissetta. Giovanetto
irrequieto, liberale, fece succedere ivi una sommossa, per la
penuria dell ‘acqua aizzando i cittadini in una festa di Carnevale
con la sua facile fiorita parola; e l’acqua venne. Scappato a
Catania si mise a frequentare l’Università, studiando legge. Il suo
primo componimento poetico, giovanile, fu appunto la rivolta nissena
in cui dice che:
…..del fatto politico,
ne parla il giornale democratico
ed ognuno se ne forma un cenno critico.
Mentre era a Catania pubblicò “La scuola in Italia,,; libro che gli
valse l’ammirazione del Ministro della P. I. Francesco Paolo Perez.
Nel 1888 a Caltanissetta, da Avvocato, pubblicò: Gente gentarum ,
(La gente delle genti, gli italiani) e anche in questo libro si
rivela un conoscitore della storia e della vita. Ma il Verso, ne
come scrittore, ne come professionista, ne politico fu fortunato.
Egli abbracciando i principi del socialismo, con la sua calda,
smagliante parola, da oratore travolgente, teneva delle conferenze
persino a Palermo. Per queste sue opinioni ebbe delle noie, fu
perseguitato. Trasferitosi a Bologna, anche lì non ebbe requie, subì
due volte il carcere e una terza volta fu sfrattato da Bologna e di
carcere in carcere giunse a Riesi, al tempo del Ministro Pelloux. A
Bologna sposò la letterata Giulia Rossi, figlia dell’ex Questore
della Città. Sfrattato che fu, ottenne di andarsene a Caltanissetta,
ove pubblicò il suo volume di poesie su svariati soggetti letterari,
poco parlando della sua vita; detto volume lo dedico al suo compagno
di scuola cav. Gaetano Bartoli Inglesi di Riesi. Fra sonetti e
poesie, riveduti dalle sue vecchie carte , scegliamo la prima strofe
de I CORIBANDI per gustare i lettori il verso, lo stile e il tema:
Salgono dalle fosse i Coribandi
Nella pia settimana del dolore;
Essi sono gli asceti, sono i santi,
I prediletti figli del Signore.
Cessata la reazione, ritornò a Bologna dalla sua diletta compagna,
la quale sopportava con rassegnazione religiosa una terribile
malattia. Marito affettuoso, il Verso Mendola le dedicò un suo
volume su: “Il Serafico in ardore “ parlando di S. Francesco di
Assisi con vera competenza, lo dice in questo libro - che per
decenni mi ero fermato alle idee contrarie del santo, ora sono
convinto del bene che ha fatto: Durante la grande guerra, l’Avv.
Nino Verso Mendola fu un’interventista. I compaesani che passavano e
ripassavano da Bologna, esperimentarono la bontà dell’uomo scomparso
anzi tempo dalla scena della vita. Anch’egli era ammalato, anch’egli
soffriva d’una malattia di stomaco. Venuto l’ultima volta in Sicilia
il 26 a posare la sua candidatura, se ne ritornò sconfitto, ma non
abbattuto moralmente. Intanto la sua malattia lo trasse alla tomba a
58 anni il 1927.
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Cap. XL
il senatore antonono d’antona
Grandeggia su tutti la grande figura dell’illustre Senatore Antonino
D’Antona, chirurgo di fama mondiale, al quale gli dedichiamo il
presente capitoletto a parte. È con orgoglio che lo facciamo,
quantunque crediamo che la nostra povera penna sia insufficiente a
trattare la vita di questo grande figlio di Riesi che onorò tutta la
Sicilia e l’Italia. L’anno 1842 ebbe i natali Antonino figlio di Don
Luigi D’Antona e Concetta Debilio. Morto il padre, prima di chiudere
gli occhi1 raccomandò la sua prole al fratello Parroco dicendogli: A
voi, P. Arciprete, raccomando i miei figli e le mie figlie pensateci
voi. E Io zio-prete assolvette il suo compito. Ragazzo irrequieto,
Antonino fu chiuso nel Collego di Bronte. Terminati gli studi
secondari andò a Palermo a frequentare l’Universjtà in medicina,
specializzatosi nella chirurgia. I suoi contemporanei ce lo
descrivono da giovane molto amante del la caccia; quando andava coi
compagni al lago di Papardone, uccidendo una beccaccia o qualche
altro animale, li scorticava con le dita, facilmente, esaminando
minutamente le singole parti. Era nato, ci dice un suo discepolo,
per adoperare il coltello. Laureatosi, brillò nella patologia. Ma
qui a Riesi, nel suo paesetto natale, non sapeva cosa fare; non
poteva dimostrare la sua abilità: laonde decise di espatriare. Il
Dott. D’Antona si recò a Napoli, nella metropoli partenopea c’era
posto anche per lui, ma comprese che ci voleva del tempo per farsi
il nome ed avere una estesa clientela. Coi mezzi che aveva
disponibili, decise di viaggiare. Girando negli ospedali di Parigi,
Londra, Berlino, Milano apprese a maneggiar bene il bisturi.
Ritornato a Napoli, vi aprì la sua clinica. Ben presto la sua fama
s’impose all’attenzione di tutti. Egli in questo caso si acquistò la
stima dei professori universitari il rispetto dei cittadini.
Nominato libero docente, ancor giovane, all’Università, con la sua
clinica di Gesù e Maria, gli studenti da tutte le parti d’Italia
accorrevano a Napoli per le operazioni del Dott. Prof. Antonino
D’Antona, il cui braccio fermo, sicuro, dava la vita, facendo veri
mirali. La sua fama si sparse in Europa ed egli accorreva ovunque
era chiamato. Inventò il francipietra, strumento col quale si
liberarono i sofferenti di arenella o mal pietra; mentre prima ne
morivano il 50 per cento, col francipietra si salvano il 90 per
cento. Nominato Senatore verso il 1881 venne a dar lustro alla casa
D’Antona; lo zio Parroco visitandolo spesso, acquistò ivi il lago di
Patria presso la Città, lago che costituisce una bella rendita. Gli
invidiosi del Prof. D’Antona gli intentarono nel 900 un processo a
cagione della morte del conte Buon Martino, pugliese, il quale
trovarono un pezzetto di gazza nel fegato. I giornali ne fecero
tanto chiasso, ma l’alta Corte di Giustizia, assolse il Senatore
D’Antona perchè innocente, estraneo al fatto. La fama non gli fu per
nulla oscurata, anzi gli si accrebbe, rifulgendo i meriti del nostro
grande concittadino. Nel congresso chirurgico di Berlino fra gli
scienziati (1893), egli fu ammirato congratulato, parlando del
processo infiammatorio delle ferite. Amante della famiglia, Don
Antonino veniva di tanto in tanto a Riesì, dopo la morte del
Parroco, per visitare i suoi parenti; il Giornale di Sicilia,
sapendolo, lo chiamava l’illustre scienziato siciliano. Sapendolo
qui, molti dei paesi vicini, venivano ad ossequiarlo, invitarlo. La
festa. della Madonna, mentre era affacciato di giorno al balcone del
fratello Rosario in piazza, un terribile omicida rese un povero
calzolaio Riesino, con le viscere di fuori. L’esperto chirurgo
sceso, fattosi largo tra la folla, levatasi la giacca, prese il
grave ferito, gli ritirò gli intestini, in un attimo gli cucì la
larga ferita di trincetto e lo consegnò ai medici del paese.
Quell’uomo riebbe la vita per il pronto intervento della mano
chirurgica del Senatore D’Antona. Guarito che fu il calzolaio,
vistolo di passaggio Caltanissetta, gli si buttò ai piedi,
baciandogli le mani, offrendogli quel che poteva; ma il carissimo
professore non solo non volle nulla, ma andato a casa, vista la
disagiata posizione, lo beneficò. Chi passando per Napoli, dei suoi
concittadini che lo andavano a trovare, non ebbe accoglienze, onori
e soccorsi in caso di bisogno?Chi non protesse egli? Beati coloro
che muoiono seguiti dalle loro buone opere; ma gli uomini non durano
eterni. Il Senatore D’Antona, a 74 unni, scese nella fossa a Napoli
nel 1916. Ad eternare la di lui memoria, per ricordare ai posteri il
nome del Prof. Antonino D’Antona, un Comitato nel 1826 si formò
Sotto la presidenza del Dott. Mumuli, Direttore dell’Ospedale civico
di Mazzarinuo per innalzargli un monumento. Detto rnonumento, in
mezzo busto in bronzo con un piedistallo di granito8 venne scoperto
in mezzo ai fiori nella piazzetta omonima dinanzi la casa paterna il
29 Giugno del 1929, alla presenza di S. E. il Prefetto, di altre
Autorità della provincia e di tutto il popolo riesino. L’epigrafe,
dettata dal Cav. Ugo Rossi Commissario Prefettizio del tempo, dice:
NEL BRONZO SUBLIME
RIESI
NOME E GLORIA PURISSIMA
CONSACRA
DEL SUO GRANDE FIGLIO
ANTONINO D’ANTONA
SENATORE DEL REGNO
FARO LUMINOSO
DELLA CHIRURGIA ITALIANA
Piazzetta e monumento adornano il centro dell’abitato ed è
l’ammirazione dei forestieri, i quali, fermandosi a guardare la
statua, ne apprendono chi fu colui che lasciò un nome grande.
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Cap. XLI
mafia e delinquenza
Riferendoci a quell’epoca, della quale abbiamo parlato dei nostri
uomini, cioè del secolo scorso, dobbiamo dire che fiorirono anche la
mafia e la delinquenza fino al primo quarto di questo secolo nuovo.
Non possiamo esimerci quindi di non parlarne. Questa è la cronaca
nera.
Dunque:
La mafia, figlia della camorra napoletana, ci venne importata dalla
Spagna. I “mafiosi” somigliavano ai bravi descritti da Alessandro
Manzoni nei Promessi Sposi. Ebbe facile presa in Sicilia,
specialmente nei paesi interni; nei paesi solfiferi fu peggio
ancora.
Molti scrittori si sono occupati del fenomeno della mafia,
spiegandola, definendola il terrore della gente dabbene. Chi ha
assistito alla rappresentazione della commedia del Rizzotto su: I
MAFIOSI DELLA VICARIA DI PALERMO, sa gia cosa vogliono dire i nomi
di “pampina, mezza pampina, rinculutu, spacchiusu, ecc”. L’alta
mafia era formata dai signorotti, cioè i proprietari, i quali per
non essere danneggiati negli averi, proteggevano la bassa mafia.
La classe solfifera, a cagione del lavoro brutto, pesante, spesso
volte maltrattato, dava il piu contingente alla mafia. Lo zolfataio
fin da bambino cresceva mafioso La massima della mamma era: “Fatti
mancare il pane, ma il coltello mai”. Vi erano delle donne mafiose,
le quali si imponevano con le armi nelle questioni, nelle risse; ad
ogni pie sospinto succedevano dei ferimenti; anche per una parola
mala detta, le baruffe erano all’ordine del giorno.
La mafia perciò era rotta ad ogni specie di delitto. Le bettole la
Domenica rigurgitavano di mafiosi pronti ad attaccare brighe per un
nonnulla, per mezzo bicchier di vino. Il tocco, il famoso tocco,
faceva nascere delle questioni; dalle parole si veniva ai fatti;
indi c’era la tirata al largo, fuori le porte: ferimenti, omicidi
era il resoconto della giornata, armi da fuoco e da taglio non ne
mancavano ed erano facilmente adoperate: famiglie rovinate, i morti
al Cimitero, i vivi alla prigione, ecco tutto. Il principio
dell’omertà era, se non rispettato, imposto.
I testimoni dei fatti, fattacci e fatterelli, non dovevano dinanzi
alla giustizia deporre contro il mafioso, pena la vita: ecco perché
i delitti spesse volte erano impuniti. Uscito dalla prigione il
mafioso ritornava ad essere tale, anzi maggiormente temuto. Chi
soffriva era l’uomo dei fatti suoi “nato senza artigli e senza
zanne”,. Non solo nella vita era minacciato, ma nella famiglia,
negli averi, appena si arrischiava a fare qualche minima offesa alla
mafia.
Fatto questo quadro abbozzato alla meglio, alla buona, esso ci fa
vedere cume la delinquenza da noi era una mala pianta difficile da
estirparsi. una sera d’estate del 1887, sabato della festa della
Madonna, vicino al Carcere nuovo, due vicino si questionarono a
parole per un ferro da stirare. La comare non volle prestare
all’altra il detto ferro per stirare la camicia al marito mafioso,
venuto il quale fu riferito il caso. Costui si arma e chiama i suoi.
Soddisfazione, conio al marito, ai parenti della comare. Il fatto
sta che le fucilate, revolverate, coltellate destarono l’allarme in
quel quartiere. Accorsa la benemerita Arma dei RR. CC. e la folla,
trovarono tre morti e dei feriti, uno dei quali è morto in carcere.
Le due famiglie Rizzo e Gueli si rovinarono, si distrussero.
E’ rimasto come motto a Riesi; “per un ferro, sette casate
distrutte”.
Ora questo, grazie a Dio, non c’è più, mercé la ferrea volontà
dell’UOMO che ci governa, l’On. Benito Mussolini. La delinquenza
ebbe una seria stoccata, la mafia non esiste pia, un ricordo dei
tempi passati che speriamo non ritorneranno mai più.
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Cap. XLII
gravi delitti
Fra i numerosi, gravi delitti che succedevano, ne scegliamo alcuni
avvenuti sulla fine del secolo scorso, ai nostri giorni; non già per
impressionare, ma per narrare dei fatti di sangue. La penna si
rifiuta a descriverli, ma nostro dovere di notarli, giacché sono
stati di dominio pubblico; essi appartengono alla storia, alla
nostra storia: purtroppo, non possiamo negarli ne tacerli, è così!
Il primo e quello del 1891, delitto avvenuto nella miniera Tallarita
la sera d 22 Agosto.
Tal Giovanni Piantone, borgomastro, dalla Lombardia, era venuto qui
con la famiglia come sorvegliante dei lavori interni ed esterni
della miniera presso l’Amministrazione francese. Uomo buono,
lavoratore, era alla mano di tutti e i superiori lo stimavano. La
domenica in Riesi, amava farsi il bicchiere con gli amici zolfatai.
Col frutto del suo lavoro si aveva fabbricato la casetta di fronte
al Carcere vecchio; manteneva la famiglia discretamente, si era
affezionato al nostro paese. Pero durante la settimana il più delle
volte si restava in miniera, dormendo in una misera casuccia sopra
un pagliericcio. Sincero, generoso offriva da bere a questo e a
quello degli amici. Tutti lo salutavano e lo rispettavano.
Or una sera, terminato il suo lavoro, Don Giovanni Piantone sali
alla botteguccia ordinando la Cena. Egli si sedette al fresco sulla
panca, aspettando di prendere il boccone. Apparecchiata la
tavoluccia, messa su la bottiglia, il Piantone cominciò a mangiare.
Quando meno se l’aspettava, un colpo di pistola lo prese in pieno
petto, facendolo stramazzare a terra senza poter dire: Cristo
aiutatemi. Alla detonazione, nessuno vi fece caso, usi come si è a
sparare dentro e fuori la miniera: solo il trattore scese abbasso
gridando: “Hanno ammazzato a Piantone!...”. Erano verso le undici,
svegliatisi impiegati, Direttore e Ingegneri, videro il cadavere
disteso a terra, immerso in una pozza di sangue; in questo mentre
salirono gli operai dall’interno, e visitando il freddo cadavere, se
ne vennero a casa spaventati, addolorati.
La triste notizia giunse a Riesi dopo la mezzanotte. Moglie e figli
di piangenti, corsero sul luogo. Fattosi giorno, dopo le
constatazioni di legge, il cadavere venne trasportato a Riesi, dove
fu seppellito nel nostro nuovo Cimitero che trovasi alla passata
della miniera. Una croce e il nome ricordano il delitto del povero
Giuvanni Piantone che non fu rivendicato dal la giustizia umana.
Quale il movente del delitto chi sono stati gli autori? Non si seppe
nulla!. Si fecero degli arresti ed indizi, ma non si venne a capo di
nulla.
L’altro delitto ancor più efferato avvenne la sera dell’8 Ottobre
1901 in persona del cav. Gaetano Bartoli Inglesi, suo figlio e il
campiere. Il Bartoli, che aveva sposato la figlia del Sindaco
D’Antona, ereditando il palazzo e la estesa proprietà dei genitori e
una vistosa dote, era il più ricco del paese. Messa su casa,
accudiva alla famiglia e ai suoi averi.
Ma dei masnadieri – chiamiamoli cosi, con questo nome - i
delinquenti nati, ne insidiarono l’esistenza. Essi con lettere
minatorie, gli chiedevano del denaro, pena la vita. Il cav. Bartoli
a queste minacce fece l’orecchio da mercante, non mandando la moneta
al punto segnato, ne dando passo alle Autorità della Giustizia. E i
masnadieri giurarono di vendicarsi. Già una volta fu assalito per la
via di Spampinato, ma la scampò, lasciando la giumenta e perché
sull’imbrunire vi erano delle persone ; gli amici si dileguarono,
fingendo di non cercarlo più; ed egli si era un po’ rassicurato,
sebbene stava sempre guardingo. Quando andava in campagna, bene
armato e col suo Fattore, la mattina partiva tardi e prima della
sera ritornava a casa. Ma i masnadieri lo appostavano come il
coniglio.
Dopo circa un anno, lo assaltarono. Era l’epoca della collocazione
delle mandorle, il cav. Bartoli aveva un bel fondo alla Contessa,
contrada di Mazzarino; con la sua ciurma si restava alla Casina,
venendo ogni due o tre giorni per la spesa.
La sera di. quel giorno fatale 8 Ottobre, ritornava a casa assieme
il figlio, al Campiere e le donne coglitrici, un pò più tardi del
solito, cacciavano perché c’era lo scuro allo stretto sentiero delle
due colline di Santo Isidoro, nelle vicinanze del paese, furono
fatti segno al tradizionale “faccia a terra!” da persone
“infacciulate”, dalla collina. Il figlio tredicenne che era avanti
sull’asina disse al Campiere: “Via cacciamo, non avete paura” ma un
colpo di fucile alla nuca lo stramazzò a terra cadavere; spaventati
sì fermarono; indi i masnadieri scesero ed uccisero il Campiere:
preso il cav. Bartoli per mano, gli levarono il Weter e glielo
scaricarono al fianco. Impaurendo le donne colla faccia a terra,
ebbero il tempo di legare le bestie agli alberi, accompagnare le
donne atta Casina, farle chiudere in silenzio, minacciandole,
trasportando alcuni oggetti, fra cui il Weter in una grotta al
vallone di Castellazzo sopra il giardino di Faraci. Vi fu in quella
notte una fucileria allo scopo di spaventare la gente dei dintorni.
Intanto la Stessa sera del misfatto, una scena drammatica, dolorosa,
si svolgeva in casa della signor Bartoli D’Autona. Ella, visto
venire il cane avanti, mise la pasta, apprestandosi ad apparecchiar
la tavola. Affacciatasi al balcone, il marito non veniva; un’altro
momento e... nemmeno! Agitata, fece mangiare i figli che lasciò in
balia della serva e corse dalla madre.
Questa la confortò dicendole che a quest’ora sarebbe ritornato, ma
che!... Ebbe il triste presentimento, fece coricare i bambini e via
di nuovo dalla madre. La signora D’Antona, credendo che si fosse il
genero restato in campagna, svegliò il servo e lo mandò alla Casina.
Si erano fatte le undici e il massaro Luigi, a malincuore, ma di
corsa, prese la via della Contessa; giunto sul sentiero, immerse i
piedi su un cadavere, imbrattandoli di sangue, ma con la furia e lo
scuro, non ci badò non se ne accorse; affrettando ìl passo, giunse
alla Casina. Bussando, sulle prime non risposero, credendo che
fossero i briganti, impaurite mute dal dolore, dallo schianto; ma
alle grida, alla voce; Aprite!... sono io! la prima ad affacciarsi
fu la moglie del Campiere che vociando rotta dal pianto annunzia “
Hanno ammazzato mio marito, il padrone, il figlio!...” Senza por
tempo, il massaro Luigi, rivoltati i tacchi, se ne ritornò più morto
che vivo! Ripassando dal sentiero vide la strage: sudato, trafelato,
la prima notizia la diede ai Carabinieri, passando dalla Caserma.
Sparsasi la brutta nuova in paese, fu un movimento continuo di
andare e venire sul luogo dell’infame orribile delitto; incontratesi
le donne, sembravano delle Marìe, delle Maddalene. Era Sindaco il
cugino dell’ucciso, cav. Don Carmelo Inglesi, il quale con le
lagrime agli occhi, interessava la Giustizia. Alla vista dei
cadaveri distesi sul ciglione, si commossero anche le pietre; le
bestie ancora legate, furono i testimoni dell’orrenda carneficina ma
le bestie non parlano. Per tutto il giorno, la folla non cessò il
via vai. Verso la sera i morti furono portati al Cimitero.
La stampa di tutti i paesi, occupandosi giornalmente del delitto,
faceva l’ira d Dio per scoprire i rei. C’era di mezzo il Senatore
D’Antona, stretto parente della famiglia in lutto, per la Giustizia
occuparsene minutamente. Una taglia di 500 lire fu messa per chi
scopriva i delinquenti, gli autori dell’assassinio.
Più di quindici giorni passarono, senza che degli assassini si
mostrasse nessuna traccia; ma un caso volle che fossero scoperti,
assicurati alla Giustizia, sebbene il capo sia stato ucciso.
Sentite come, o lettori:
La guardia Campestre Pietro Debilio Sferrazza, trovandosi in
perlustrazione nelle campagne di Castellazzo, per via incontrò un
certo Rosario Cammarata, sarto straccione, ubriacone, che aveva un
pezzetto di terra di fronte alla grotta, dove si riunivano i
masnadieri, e dove costui portava loro i sigari, il formaggio e il
vino per banchettare. Nel salutarlo, il Debilio si fece dire dove
andasse e quegli sbigottito gli disse che era innocente, ma...
che... Allora la guardia, scesa da cavallo, lo costrinse a fagli
rivelare il resto e quello abboccò all’amo. Esperto il Debilio lo
rimandò indietro imponendogli di non dir nulla e lui, rimontato a
cavallo, andò ad appostarsi dietro un albero davanti la grotta col
fucile spianato.
Essendo giorno di Domenica, non vi era nessuno; a mezzogiorno
passato i masnadieri aspettavano ancora il Cammarata che non venne.
La guardia Debilito per più di un’ora stiede lì fermo. Il Capo della
masnada, Filippo Terranova, un reduce delle patrie galere che aveva
scontato 20 anni di prigione per due omicidi, affacciatosi col Weter
in mano, scorta la guardia, si mosse in atto di... ma un colpo di
palla lo prese in un occhio, ferendolo mortalmente; gli altri
fuggirono dall’altra parte della grotta.Il Debilio, spronando il
cavallo, venne a portar la nuova ai Carabinieri che assieme a tutta
la F. P. corsero alla grotta di Castellazzo, dove vi fu un accorrere
di curiosi. Messo il brigante, ferito grave, su una scala a barella,
fu portato al Carcere, ove, dopo alcuni istanti, mori.
Il primo ad essere arrestato fu Don Rosario Cammarata, il quale
confessò chi furono gli autori del delitto, sebbene lui non prese
parte al fattaccio. Fra gli arrestati come compagni vi erano il
figlio del Fattore di casa Bartoli e un certo Pesce, mazzarinese.
L’impressione fu enorme!. Il signor Debilio venne Premiato con lire
500 e la nomina a Capo delle guardie Campestri a vita: il Prefetto
volle conoscerlo di presenza per il brillante servizio.
Chiudendo la parentesi della cronaca nera del nostro paese, non
dobbiamo tanto stupirci, perché Riesi non è stato il solo unico
paese, in cui la mafia e la delinquenza abbiano fatto simili gesta.
Lo abbiamo detto, lo ripetiamo: oggi questo non succede più; quei
tempi di triste memoria sono passati. Col Governo di Benito
Mussolini, siamo entrati in un’era di pace, di tranquillità, di
benessere. Egli stesso lo disse e lo fece; venendo in Sicilia
comprese che ci voleva da noi l’assetto per le popolazioni.
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Cap. XLIII
gli scioperi
Accanto alla mafia alla delinquenza c’erano anche gli scioperi che
venivano a funestare il paese. Il conflitto tra capitale e lavoro
veniva ad aggiustarsi con lo sciopero che fu detto “ un’arma a
doppio taglio”; tante le volte erano gli operai che si ferivano;
tante le volte che essi scioperi portavano turbamenti e conseguenze
gravi: ed è perciò che il Fascismo fece cessare del tutto gli
scioperi, talché S. E. Riccardo Ciano nel 1924 tuonò a Livorno con
queste parole: “Gli italiani non vedranno più la via degli
scioperi!...”. (1)
Nei paesi zolfiferi era facile ogni momento fare degli scioperi. Gli
zolfatai alla minima occasione scioperavano per l’aumento del prezzo
giornaliero o per un abuso: allora occorrevano soldati e Carabinieri
per il maimteiìinlento dell’ordine pubblico, giacché si temevano
disordini, saccheggi, delitti.
Due colossali ne ricordiamo noi a Riesi che meritano di essere
riferiti per la portata grave che ebbero. Lo facciamo, consapevoli
dei fatti avvenuti, per dire cosa erano gli scioperi, perché si
facevano e come terminavano.
Il primo fu quello del 1884 a causa del ribasso dello zolfo.
L’Amministrazione francese voleva scemare il prezzo ai picconieri
che lavoravano a cottimo; essi non accettarono il ribasso, quindi si
misero in sciopero. Da una parte e dall’altra non possibile
comporlo, di modo che si prolungava. Subito una Compagnia di soldati
e rinforzi di Carabinieri vennero qui.
Gli operai delle due miniere resistettero il più che poterono senza
punto sottomettersi; ma poi si diedero a schiamazzare per le vie,
gridando: Pane e lavoro!... La fame spinge il lupo ad uscir dalla
tana e darsi a scavar la terra per mangiarsela; a frotte gli
zolfatai uscivano in piazza e nelle vie, rubacchiando nelle
botteghe, bussando dai proprietari: le Autorità civili e militari
invano si misero di mezzo per far cessare lo sciopero, di guisa che
gli animi degli zolfatai si inasprirono ancor peggio.
Un pomeriggio, usciti fuori a dimostrazione, si ridussero in massa a
chiassare nella piazza Garibaldi; ad essi si uni buona parte del
popolo: Accerchiati dai soldati, tumultuando, presero anche delle
pietre, ingrossando le grida. Per farli sciogliere, visto che la
dimostrazione era seria, il Delegato di F.S., ricevendo una
pietrata, ordinò i primi due squilli di tromba; ma in luogo di
calmarsi i dimostranti si accanirono di più: al terzo squillo ordinò
il, fuoco, ma il Capitano si oppose all’ordine, intimando i soldati
a star fermi, a non sparare, evitando così l’eccidio. Allora il
Delegato tolta la sciarpa declinò la responsabilità, lasciandola al
Capitano e partendo per Caltanissetta. E il bravo Ufficiale
dell’esercito italiano, salito al balcone del Casino dei Civili,
arringando la folla disse che non era venuto per uccidere dei
fratelli; che la responsabilità ora cadeva su di lui, pregando gli
scioperanti a sciogliersi e andarsene alle loro case.
In un momento la dimostrazione si sciolse; ognuno rincasò in santa
pace. L’indomani mattina egli si recò al Municipio e si indisse una
riunione del Consiglio Comunale, dove propose di mettere delle somme
per aprirsi dei lavori, dando egli l’esempio per il primo col dare
lire cento. Gli altri lo seguirono generosamente, i proprietari
fecero lo Stesso e si raccolsero 20 mila lire. Con questa somma,
fecero acconciare delle vie di campagna agli zolfatai, i quali, per
quindici giorni, si sfamarono.
Era Sindaco il Sig. Di Benedetto Mandera che oculatamente aperti i
brevi lavori, finiti i quali si diede a tutt’uomo a far discendere
gli operai in miniera, dopo più di un mese. Da una parte e
dall’altra, le perdite furono enormi.
E il Delegato di P. S.? e il Capitano? Si potrà domandare,
Rispondiamo: Il primo non si vide più a Riesi ; il secondo fu e
encomiato dalla Prefettura.
L’altro sciopero più terribile, colossale, avvenne nel 1903, il
giorno 8 di Giugno. Siccome era il tempo della mietitura, così gli
zolfatai, col pane in terra, se ne andarono a cogliere spighe per
far fronte allo sciopero ; ma cessata la messe, si videro nello
stretto bisogno di reclamare ; l’Amministratore Nuvolari non voleva
cedere.
La mattina del 10 Luglio, in massa con la bandiera della loro
Società scesero in miniera, trascinandosi l’Ing. Accardi, loro
Direttore e seguiti da una Compagnia di soldati. Per la via altri
uomini e ragazzi l’accompagnarono alla miniera, unendo le loro voci.
Giunti ivi, il Direttore diede ordine alle guardie minerari di non
far scendere nessuno a basso; la folla, guardata dai soldati, rimase
sul comigliolo della miniera: qualcuno voleva fare resistenza alle
guardie, ma avendo una di queste sparato un colpo in aria, fu il
segnale della rivolta; il popolo irruppe, scendendo abbasso e Fece
man bassa di tutto e di tutti,
Vi erano dei pecorai nei dintorni con bastoni, dei contadini con
fucili, gli altri con delle pietre e coltelli. Direttore, Ingegneri
e impiegati si chiusero dentro le loro belle casine; ma scassate le
porte, ferirono gli ingegneri; altri maltrattati fuggirono, le donne
spaventate, scapparono oltre il fiume. Ira di popolo, libera me
Domine! Resisi padroni, cominciarono a saccheggiare le case. I
soldati non spararono, perché chiesero dei rinforzi a Sommatino,
rinforzi che vennero tardi, quando tutto era distrutto. Non contenti
di avere saccheggiato le case, entrarono nelle macchine devastandole
e rompendo tutto ciò che capitava loro; i dimostranti gridavano,
minacciavano senza pietà, successe il finimondo!
Soddisfatti dell’opera compiuta, ritornarono in paese
tranquillamente. Però alcuni presero il largo per più giorni.
Chiamato l’ing. civile Luigi Lamantia per periziare i danni, furono
calcolati 100 mila lire. Un processo cominciò a istruirsi contro i
presunti rei. Il 15 Luglio furono arrestati l’Avv.Gaetano Pasqualino
e l’ing. Giuseppe Accardi, quali istigatori dello sciopero assieme
ad una trentina di persone tra zolfatai e contadini.
Era Sindaco il cav. Inglesi il quale, se da una parte fu contento
dell’arresto dei due suoi nemici politici, d’altra parte si adoperò
a far scarcerare quei che erano innocenti, le cui famiglie gli
andarono a piangere in casa; ad onor del vero, bisogna dire che
l’Avv. Pasqualino, trovandosi a casa, sconsiglio gli zolfatai ad
andare in miniera, e l’ing. Accardi vi andò per frenare gli impeti:
ma i! Delegato di P. S., certo Nicolaci, terranovese, fece come il
pesce delfino col suo amico, scrivendo un nero rapporto per tutti e
due. Ad ogni modo dopo sei mesi di processo, gli imputati furono
assolti.
(1) Lo scrivente era presente
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Cap. XLIV
la grande guerra
Occupiamoci ora della guerra in relazione al nostro paese della
Grande guerra, la guerra Europea che cominciò il 1914 e finì il
1918, trascinando il mondo nel la rovina.
Scoppiata nel 1914 tra gli Imperi Centrali e la Francia a cagione
del delitto di Serajevo, l’Italia stiede un’anno neutrale, lasciando
in lizza la Germania e l’Austria-Ungheria contro la Francia.
Il fatto da noi fu giustificato per rivendicare i confini naturali
di Trento e Trieste, di cui l’imperatore Francesco-Giuseppe non ci
voleva dare “nemmeno una pietra” . Coloro che ci leggeranno appresso
nei secoli futuri sapranno più dettagliatamente come in un primo
tempo la Germania, violata la neutralità del Belgio, l’Inghilterra
scese in campo in difesa del piccolo regno devastato ed ancora la
Russia, mentre la Turchia si schierò a favore degli Imperi; poi
scese l’Italia ed infine l’America. Le generazioni che sorgono e
sorgeranno appresso devono sapere che la detta Grande guerra durò
cinque lunghi anni senza cessare facendosi per terra, per mare,
nell’aria. La vita umana non ebbe più valore; nei paesi, nelle città
la sera si stava allo scuro per paura delle bombe gettate da
aeroplani, uccidendo vecchi, donne, fanciulli: gli uomini in vigore
delle loro forze erano alla guerra. Da ciò ne venne la penuria dei
viveri e di tutte le cose necessarie alla vita.
Riesi diede il suo contingente con morti, feriti e mutilati.
Riguardo al caro viveri, si fece di necessità virtù. Istituitosi un
Comitato di soccorso, si fece a gara per le famiglie dei soldati in
guerra; la casa della signora Donna Francesca D’Antona, che ci aveva
un figlio soldato, era frequentata dalle madri e signore per
allestire gli “scalda panni”.
Sui campi di battaglia, nelle trincee, accorrevano giornalmente i
nostri soldati a difendere la patria. In giorni tristi, si
piangeva, si soffriva anche la fame, ma ci si rassegnava. Che si
voleva fare? Di chi la colpa ?
Finalmente la guerra cessò il 4 Novembre 1918. Cessato il fuoco,
fatto l’armistizio, ritornarono fra le famiglie i prigionieri, i
reduci, i mutilati ; solo i morii che non ritornano mai, non si
videro, ma le famiglie si rassegnavano, sapendoli morti da eroi.
E’ scritto alle Termopoli,
In sugli achei stendardi,
Meglio morir da liberi
Che vivere da codardi.
Fra 500 mila morti italiani, si distinsero da valorosi, seguenti
nostri Compaesani che noi vogliamo qui ricordare, venerare,
rimandando i loro nomi ai posteri.
Il Capitano Salvatore Faraci, già Tenente di Complemento del 22
Regg. di Fanteria. Ebbe i natali il 24 Aprile 1882 da Vincenzo e
Gaetano Imbergamo. Operai agiati lo mandarono a Caltanissetta a
proseguire gli studi all’istituto Tecnico, compiuto il quale,
Salvatore passò a Catania a frequentare l’istituto nautico, dal
quale ne usci col grado di macchinista navale in prima; ma il
giovane Faraci non pago di ciò, volle elevarsi ancora, recandosi a
Torino per frequentare studi Superiori industriali, mentre era
impiegato in Officine meccaniche.
Nel 1909, chiamato alle armi, si affezionò subito alla vita
militare. Congedatosi col grado di Sottotenente di Complemento, ebbe
l’idea di salpare per l’America. Nella guerra fu richiamato e venne
in Italia. Da Messina fu mandato in Carnia e nel Novembre del 1915
vi tornò di nuovo per istruire le reclute del suo reggimento; ma
dietro sua domanda fu rimandato alla Frontiera, passando col grado
di Tenente sul Trentino e in Valsugana. Il 19 Maggio 1916, durante
un assalto eroico, cadde sul campo della lotta. Medaglia di argento
con motivazione:
* Mentre con animo saldo e fermo braccio, alla testa dei suoi
* prodi soldati, faceva argine all’orda nemica, irrompente, fu
* colpito a morte da pallottola nemica.
”Mirabile esempio di amore per la patria fino al sacrificio della
sua giovane vita”. (Da: La Rivista eroica).
Capitano Giuseppe Ferro di Giuseppe e di Rosina Cultrera, maestra
elementare nato il 7 Ottobre 1904. il padre, R. Ispettore scolastico
a Catania, vide il figlio iscritto al secondo anno d’Università in
legge; appena scoppiata la guerra, lo studente universitario, si
arruolò nei plotone Allievi Ufficiali del 68 Fanteria di stanza a
Milano. Nel Maggio 1915 era già Sergente. Nominato Sottotenente,
prese parte con la Brigata Sassari ai fatti d’armi; sul Carso, nel
18, versò il suo primo sangue: una palla lo colpì alla mano destra
che gli rimase anchilosata.
Il Tenente Ferro, guaritosi, fu i mandato in Eritrea. Cola, appreso
il rovescio di Caporetto volle essere rimandato in Patria. Mandato
in Francia, fu a Digione; il valoroso Tenente che da un anno era
stato nominato Capitano, cadde da eroe il 29 Settembre 1918.
Ecco la motivazione che accompagnabva la Medaglia d’Argento:
* Mirabile e costante esempio di fermezza e di coraggio,
* nel passaggio di un ponte fortemente battuto dal’Artiglieria
* nemica, non d’altro si preoccupò che del proprio reparto.
* Colpito egli stesso da una scheggia di granata ad un braccio,
* rimase fermo al proprio posto per regolare il m movimento dei
* suoi uomini, finchè colpito una seconda volta a morte,
* lasciò la vita sul campo. (da una monografia del padre)
Rocco Jannì di Pasquale e di Antonina Giardina, Tenente, nacque nel
1895. Maestro elementare, compiuti gli anni di servizio, al momento
della guerra fu aggregato alla Sezione Mitraglieri Fiat, Brigata
Sassari..
Ito al fronte da graduato, si trovò dinanzi al nemico; giovane
ardimentoso, pieno di entusiasmo, volle slanciarsi all’assalto,
malgrado i reiterati richiami del suo Capitano. Ferito mortalmente
all’addome, fu trasportato all’ambulanza militare, dove dopo poche
ore moriva.
Il Governò gli decretò la Croce di bronzo al merito di guerra.
(Manca la motivazione).
Tenente Enrico D’Antona del fu cav. Pietro e Donna Francesca, nato
nel 1884. Studiando a Napoli e a Torino da avvocato, parti per la
guerra; fu prigioniero a Val Sugana.
Cessata la guerra, durante il viaggio di ritorno lo cole una
polmonite e mori a Trieste il 6 Dicembre 1918.
Il Sergente Ciulla Gieseppe di Gaetano e di Santina D’Antona
proprietario borgese, nato nel 1890, aveva prestato regolare
servizio. Richiamato al fronte col grado di Sergente fu nelle
trincee. Indi ottenne la licenza per i lavori campestri ma poi,
ritornato al suo posto di combattimento, fu nel rovescio di
Caporetto. Nella confusione si seppe che era morto di polmonite
all’ospedale di Verona.
I suoi fratelli che si trovavano al fronte, ne appresero la notizia
senza poter conoscere il Luogo dove fu seppellito. Mancano perciò i
particolari.
Tra i soldati figli del popolo, morti sui campi di battaglia. e
decorati al valore, vi furono, fra i 96:
Marino Rosario di Francesco e Giuseppa Bellomo, bersagliere, nato
nel 1895. Fu uno dei primi; durante il combattimento, ferito
gravemente, cessò di vivere a Pacchiasella il 2 Novembre 1816. il
Governo gli decretò. la medaglia di bronzo. La stessa sorte del
Marino subirono:
Albo Antonio, Angilella Salvatore, Amarù Antonio, Catarinolo
Francesco, Di Martino Antonio, Di Letizia Calogero, Di Ventra
Salvatore, La marca Gaetano, Lauria Gaetano, Lo Giudice Angelo,
Licata Vincenzo, Marotta Cristoforo, Maurici Giuseppe, Marazzotta
Salvatore, Sciamone Liborio, Sciacchitano Giuseppe, Rizzo Angelo,
Toscano Giuseppe, Vella Salvatore e Vella Michele.
Questi nomi formano un quadro, sebbene incompleto, in una sala del
Municipio, con le loro fotografie, in mezzo alle quali spiccano i
ritratti dei Capitani Ferro e Faraci.
Le altre famiglie non diedero le fotografie dei loro cari.
Per tutti, fu eretto il Parco della Rimembranza, in ricordo dei
gloriosi caduti, secondo le disposizioni del Ministero
dell’Educazione Nazionale. Così, il detto Parco sorse alla Spatazza,
nello stradale Mariano e propriamente di fronte alla Centrale
Elettrica.
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Cap. XLV
la “spagnuola”
Non era ancora cessata la guerra, quando un’altro flagello venne a
funestare l’umanità: la “spagnuola”.
Come nella favola classica di Giovanni La Fontaine, degli animali
colpiti dalla peste che “fuggivano spaventati cercando un riparo”,
così gli uomini e la scienza non sapevano cosa fare per trovare un
rimedio al male.
La “spagnuola” : questa febbre mediterranea venuta dalla Spagna, fu
un’epidemia molto fulminante che mieteva tante vite umane in un
momento, senza pietà. Se tutti non morivano, “tutti erano
spaventati”, al dir dello scrittore francese citato.
La morte non guardava in faccia a nessuno: grandi e piccoli; uomini
e donne; ricchi e poveri. Chi era preso da quella malattia
difficilmente se la scansava e, quando non moriva, restava con
qualche difetto.
Le famiglie povere, orbate dai loro cari e immerse nella miseria,
non sapevano darsi pace, pensando alla morte spaventevole; vi furono
parecchie famiglie i quali ne mori vano due e tre, il lutto era
quindi generale, Infuriando il morbo crudele, il seppellimento dei
cadaveri veniva operato alla confusa, trasportandoli al cimitero
senza nessun conforto. Anche per quelli che morivano in campagna non
venivano fatte onorevoli sepolture e si partivano senza nessun
accompagnamento. Coloro che erano poverissimi bastavano le poche
masserizie ad addobbare una bara; talune famiglie facevano uso delle
tavole del letto per la cassa mortuaria.
Ingordi falegnami,speculatori, approfittando del momento,
sfruttavano chiunque a loro si presentava.
Col Municipio del Sindaco, nella requisizione che si faceva, si
commettevano abusi e soprusi inauditi. Tutto era requisito per dare
aiuto agli ammalati, ma il popolo soffriva, mancando del necessario.
Beato chi poteva avere un pò di zucchero, d carne o di pane e pasta.
Al solito, gli arruffoni ne profittavano. Un quidam, comprata una
gallina L.20 per conto del Comune, le tirò il collo e la diede al
figlio per portarla a casa.
La “spagnuola” durò quattro mesi, dal Settembre al Dicembre 1918.
Parrà cosa incredibile, eppure è vero. La malattia della
“spagnuola”, a Riesi, fece più strage della guerra. Mentre la
guerra fece un centinaio di vittime; essa “spagnuola” ne fece morire
seicento.
Passata questa marea, che ci lasciò il triste ricordo d’una morte
che non venne dagli uomini ; rimasto il caro viveri della guerra che
si rimediava con il lavoro ben pagato, si predette di potere andare
avanti, superando gli ostacoli della vita. Ma non fu cosi!
Il paese contava circa i6 mila abitanti.
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Cap. XLVI
il bolscevismo
Quel tale Giuseppe Butera, che aveva infiammato la mente degli
operai, specialmente dei contadini, si mise a predicare il
bolscevismo venuto dalla Russia. Egli, staccatosi dal partito
popolare trascinandosi dietro la massa, offendeva tutto e tutti; da
socialista spinto. di facile parola, nelle vie, nelle case,
dappertutto, predicava coraggiosamente la Rivoluzione.
Il Governo dell’On. Nitti lasciava il campo libero ai socialisti, di
modo che nei paesi d’Italia i bambini e le bambine cantavano:
Avanti popolo
Alla riscossa
Bandiera rossa
Trionferà!...
Era l’andazzo delle follie rosse. E il Butera si prefisse di volere
per forza la divisione delle terre a Riesi, dicendo di espropriare i
feudi ai principi. Naturalmente il popolino, imbevuto di tali
principi, gli teneva bordone, battendogli le mani, accarezzandolo.
Cosicché lui, forte del suo partito, teneva in soggezione gli altri.
Era diventato l’idolo della massa incosciente! Ebbe la tracotanza di
presentarsi da candidato come deputato socialista al Collegio.
Perciò, nei paesi vicini andava propagando le sue idee, appoggiato
dal partito centrale del giornale “l’Avanti”.
Insomma, diede molto fìl da torcere alla P. Sicurezza.
Coi partiti sovversivi, il dopo guerra fu peggio di prima. Qui.da
noi, teneva il paese in continuo movimento, in continua animazione
di giorno e di sera. I contadini volevano la divisione delle terre,
erano diventati bolscevichi; il loro capo assecondando le loro
aspirazioni, tempo permettendo, si armavano e andavano nei feudi a
prendere possesso.
I padroni delle terre avevano dato ordine ai Campieri di lasciarli
fare onde evitare eccidi. Si partiva la mattina per molto tempo con
gridi e chiasso e bandiere, arrivando alla meta designata della
campagna. Seguiti da una Compagnia di soldati e CarabinIeri tra il
chiasso e l’allegria, si facevano la divisione del feudo, cui
limiti, piantando le bandiere, cantando: “Bandiera rossa trionferà”.
La giornata trascorreva gozzovigliando, schiamazzando, facendo come
le galline che schiamazzano prima di far l’uovo.
Al ritorno rientravano la sera nel paese in fila, soddisfatti delle
loro operazioni; rincasati, appena preso un boccone, tutti alla Sede
socialista per la conferenza del Butera. L’indomani punto e da capo,
le solite agitazioni; il conferenziere (sic) faceva sentire le sue
minacce, tuonando contro il Governo di allora. E i Carabinieri lì
presenti non dicevano nulla.
Impavido, imperterrito, Giuseppe Butera sì credeva padrone. Oltre il
battimani e gli applausi che riscuoteva dalla folla, egli era
portato a spalla, alimentando la sua bocca di ciambelle e dolci.
Chiusi i proprietari nelle loro case ben serrate, non uscivano, non
potevano dir nulla; scorgendone uno nelle vie, gli davano la baia ed
era costretto a ritirarsi per tema di qualche brutto tiro.
Minacce su minacce, chiassi su chiassi, i giorni volavano, sperando
che migliorassero con quello stato di caos davvero increscioso.
Tutto era lecito dal Governo deplorevole del l’On. Nitti che aveva
dato la mano larga ai socialisti, i quali se erano forti, non erano
neppure d’accordo fra loro.
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Cap. XLVII
la mitragliatrice (famosa repubblica riesina)
Come conseguenza di tutto questo mal Governo, di tutto questo
malessere di questo disordine, abbiamo avuto a Riesi la
Mitragliatrice. Anche questa brutta pagina di storia dobbiamo
registrare in pieno secolo XIX. Scriviamo sotto l’impressione del
triste epilogo della nefasta giornata della Mitragliatrice. Ecco il
fatto, come avvenne:La Domenica dell’8 Novembre 1919, i soliti
bolscevichi, decisero di andare a prendere possesso del feudo
Palladio, di proprietà dei principi Fuentes, dato in gabella. Da qui
partirono non solo essi, ma chiesero l’aiuto dei loro compagni
mazzerinesi, i quali, armati ed a cavallo, vennero a Riesi. Essendo
il feudo vicino per lo stradale di Calamita, uomini, donne e
ragazzi si misero in moto. Il Butera era in prigione. Chi organizzò
la gita fu un certo Angilella, uno spietato socialista, Piovutoci
non si sa da dove. Costui, predicando a squarciagola, diceva di
farla finita coi signori proprietari incitando i cittadini ad
armarsi, gli operai di tenersi pronti per la rivoluzione. Lungo la
via, soldati, o Carabinieri non poterono arginare, calmare il
Popolo. Giunti, al feudo, fecero le dovute operazioni, senza essere
molestati. Intanto la P. S. si provvide duna Mitragliatrice che fu
piazzata accanto alla chiesa della Madrice tra la piazza Garibaldi e
il, Corso Vittorio Emanuele. Gli scalmanati ritornando
sull’imbrunire entrarono in paese cantando battendo le mani.
Trovandosi nella piazza, l’Angilella ordinò al popolo dì andarsi ad
armare e ritornare. E difatti così fecero. La piazza ed il Corso
formicolavano di gente. Ad un certo punto il Tenente e il Delegato
di P. S. premerono la mano del soldato, facendo funzionare lo
strumento micidiale. Al crepitio fulminea della Mitragliatrice
seguirono altri colpi di fucile e revolvers. Il terrore invase tutti
gli animi. Un momento dopo si vide un campo di morti sia in piazza
che nel Corso: anche i feriti fecero spavento. Nella confusione gli
sparatori fuggirono; inseguiti, fu raggiunto il Tenente al piano
del Pozzillo per la via di Ravanusa e fu freddato. In quella
occasione l’ing. Accardi, che si trovava lungo il Corso, trascinato
nel Cortile Golisano, venne pugnalato da mano ignota e ferito. Il
pallore, lo sgomento si leggeva in faccia di tutti, vedendo la
carneficina il sangue che scorreva, raccolti i cadaveri, le famiglie
ne piansero amaramente i figli, i mariti, i parenti, I morti furono
8 e dei feriti non si seppe il numero. La prima versione data dei
giornali fu che:la Rivoluzione era scoppiata a Riesi: laonde un
Reggimento di fanteria col generale, la notte seguente entrò a Riesi
in assetto di guerra, con baionetta in canna e i lanternini accesi.
Entrati allo scuro, nel silenzio, in punta di piedi, mentre gli
abitanti dormivano, non sapendo dove andare, ne cosa fare; non
conoscendo nessuno, ne presentandosi anima viva, il generale adagio
adagio fece aprire le chiese per far riposare i soldati che avevano
fatto 48 ore di marcia forzata. Giunti alla Sanguisuga temevano ad
entrare, credendo il finimondo, che la rivoluzione continuasse.
informatosi i soldati che il paese era sotto l’incubo del terrore;
che i cittadini spaventati, piangenti. temevano di riaprire le porte
sapendo che c’erano i soldati, più tardi, generale e soldati
rimasero sorpresi. Fattosi giorno, apertesi le prime botteghe, i
soldati, usciti fuori per le vie per comprare da mangiare, nel volto
dei cittadini leggevano i segni dello spavento, per timore di essere
di nuovo massacrati; ma i soldati li rassicuravano, li confortavano
allora furono fatti segno a delle gentilezze offrendo loro il caffè.
Rifocillati che furono, la stessa mattina il Reggimento ripartì per
la Sede di Palermo. Da quel giorno fatale della Mitragliatrice
ovvero da quell’epoca, il popolo riesino rimase scosso: sembra un
brutto sogno, eppure è stata una triste realtà che ci fa ripetere
col proverbio Chi è stato scottato dall’acqua calda, teme dell’acqua
fredda.
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Cap. XLVIII
il fascismo
Gli anni 1919, 20, 21, e quasi tutto il 1922 fino al 28 Ottobre del
dopo-guerra, furono anni di disordini sociali, di terrore, di timori
a causa del bolscevismo imperante. Si temeva da un momento all’altro
la Rivoluzione; il bolscevismo diceva un dotto, si sentiva
nell’aria; gli animi di tutti, in conseguenza di ciò, erano sospesi.
Le campagne furono abbandonate a sè stesse; i proprietari non
potevano dare un passo; furti ed omicidi, ruberie d’ogni genere
erano all’ordine del giorno; ladri e ladruncoli nelle campagne
razziavano dappertutto.
(qui manca un piccola parte, del testo originale)
aveva preso il suo corso; ne paesi, approfittando dello scuro, si
commettevano brutti atti: basta dire che ad un barbiere gli levarono
25 soldi e lo scialle, alla discesa del Carcere vecchio; ad una
coppia di giovani sposi, dopo l’Avemaria, mentre tenevano il marito,
alla sposa rubarono lo scialle e l’oro; in pieno giorno, per la via
detta miniera Tallarita, furono assaltati gli zolfatai che avevano
ricevuto la paga.
Ma ciò che maggiormente faceva impressione erano gli omicidi, i
delitti terrificanti che succedevano nelle campagne e nei paesi; la
vita umana non era appunto calcolata.
La cronaca di Riesi di quei tempi registra Purtroppo fra i tanti
delitti di sangue i seguenti:
1) Una notte all’Ammiata, feudo nel territorio di Butera, all’epoca
della raccolta del grano, mentre i mezzadri, trovandosi nell’aia
dormendo, intesero che i ladri rubavano il frumento, portandolo
nelle bisaccie sulle bestie come se fosse di loro proprietà.
Svegliatisi i coloni, poiché gridavano, ne furono freddati due. I
Carabinieri di pattuglia, messesi in colluttazione coi briganti, ne
ferirono uno mortalmente;
2) Ad un Campiere gli levarono tutto quello che aveva e l’uccisero
per la via di Gallitano ;
3) Un povero contadino che si recava al vicino Canale ad abbeverare
il suo unico somaro, con il quale si guadagnava il pane per la
famiglia, suonata l’Avemaria, gli levarono l’animale e lui fu
disteso a terra;
4) Alla Scalazza, in pieno giorno, un piccolo proprietario, mentre
spietrava il suo campicello, lo legarono, gli spararono,
trasportandosi la mula.
Tutta l’Italia era così!...
A porre fine ai tanti malanni, a tanto sfacelo, venne un uomo fatto
apposta per salvare la nostra bella Italia. La marcia su Roma del 8
Ottobre 1922, fatta da Benito Mussolini, fece terminare tutto ad un
colpo il malessere, rimettendo l’ordine dappertutto. Duce del
Fascismo, l’ex caporale dei Bersaglieri, con un pugno di giovani
ardimentosi, vestendo la camicia nera, si:oppose al parlamento
italiano che era in vera anarchia coi numerosi partiti sovversivi.
Afferrato il potere in nome di S. M. il Re Vittorio Emanuele III.
col quale avevano fatto la guerra, l’On. Mussolini, mise prima di
tutto i punti sugli i ai Deputati che trattò da “pecore rognose” ; e
poi parlando da Roma a tutta l’Italia, disse: “Ora basta coi cattivi
italiani”. Questo genio ignorato, figlio d’un fabbro ferraio e di
una Maestra elementare, amico del popolo, nato a Predappio,
nell’Emilia, col suo colpo di Stato, col suo pugno di ferro,
istituì, fece sorgere il Fascismo in tutti i paesi del Regno, coi
Fasci di Combattimento formati dai reduci della guerra, dai buoni
italiani.
Dapprima sì impose con la forza, costringendo i riottosi a stare al
loro posto; cosi a mano, a mano l’ordine cominciò .a ristabilirsi a
misura che si affermava il Fascismo.
Un’era nuova si apri nei paesi, cessando lo scompiglio e la
delinquenza. La Giustizia punendo i ladri rigorosamente, i furti
cessarono; la P. S., dando la caccia spietatamente agli omicidi, ai
malfattori, liberò le campagne e i paesi.
La mafia ebbe un serio colpo alla testa. Venuto in Sicilia .S. E.
Mussolini, disse queste precise parole a Messina: “Voi, le vostre
popolazioni, avete bisogno di essere purgate dalla mala vita” . Egli
giungendo fino a noi alle miniere Trabia Tallarita, come dovunque fu
acclamato.
Esponente del Fascio di Riesi da noi fu il Dott. cav. Gabriele
Lamonica, reduce da Capitano Medico dalla guerra. Con zelo, coraggio
e fede fascista fondò il Fascio di Combattimento; coadiuvato dalla
Forza Pubblica; ogni giorno per le vie si andava gridando: “abbasso
la delinquenza!, Viva il Fascismo!”. In principio i fascisti furono
pochi, ma dipoi visto i risultati benefici che diede la tranquillità
al popolo, molti si unirono al Fascio, Creato dal Dott. Laconica che
fu il Segretario Politico
Anche i proprietari vestirono la camicia nera, di guisa che la massa
passò al Fascismo. Le dimostrazioni erano ostili ai potere. Ogni
giorno la stampa annunziava tutto quello che faceva il nuovo Governo
dell’Ori. Mussolini, il quale sciolta la Camera dei Deputati volle
rivestirla di nuovi elementi del suo colore, cioè fascisti.
Dato l’assesto al la Camera e ai paesi, S. E. il Capo del nuovo
Governo pensò di sciogliere i Consigli Comunali d’Italia per fare
entrate i Consiglieri fascisti poco alla volta. Riflettendosi, qui a
Rìesi, incominciò la lotta politica contro la democrazia al potere.
I democratici d’altra parte si credevano forti e cercavano di
resistere all’urto, ma il Dott. Lamonica s’imponeva col suo partito
del Fascismo che guadagnava terreno giorno per giorno, i delinquenti
arrestati spazzarono il terreno per le nuove idee le quali seppero
di ostrica a coloro che non le compresero.
** Torna su **
Cap. XLIX
sindaco il com. G. c. golisano – il ritiro – giuseppe martorana – la
luce elettrica – vittoria del fascismo – il com. d’antona sindaco
Era Sindaco dell’epoca il comm. Giuseppe Carlo Molisano. Cincinnato
di Riesi, l’Avv. Golisano fu chiamato a quel posto di nuovo, per
salvare la posizione d Consiglio Comunale in sfacelo nel 1920 e per
far argine al bolscevismo. Poiché anche nel detto Consiglio era
penetrato il disordine e si era in piena anarchia fra gli operai, ci
voleva un uomo ben visto alla Prefettura e al paese, i reggere la
barca fessa del Municipio. E difatti il Pasqualino si era dimesso
lasciando il campo libero all’ ing. Accardi col quale non andava
d’accordo. Questi, non potendo essere d’accordo con gli operai, sì
dimise pure ed afferrò brevemente la Sindacatura, l’avvocato Don
Gaetano Debilio, un pasqualiniano. Il Consiglio in balia di se
stesso, per forza doveva essere sciolto, ma ad evitare maggiori
spese, si lasciò stare così com’era.
La nomina a Sindaco del comm. Golisano fu accolta una unanime
benevolmente, con simpatia. L’egregio uomo accettò la carica
volentieri, sperando di fare del bene al paese. Egli si mise
all’opera, con la Giunta degli operai, scegliendosi a vice Sindaco
l’operaio Giuseppe Martorana e con lui il Segretario del Comune,
Francesco Mule Vella, che da maestro della musica, maestro
elementare, in resosi pratico dell’Ufficio, sbrigava le pratiche
passabilmente.
Il Sindaco si pose innanzi i gravi problemi del paese. Cominciò egli
a lavorare alacremente prima di tutto per la luce elettrica, onde
levare io scuro, mettendo Riesi alla pari degli altri paesi vicini;
in secondo luogo si diede attorno all’impellente problema dell’acqua
potabile e le fognature per dissetare gli abitanti, levando le
porcherie, le immondizie delle vie ed avere un paese pulito.
Tali problemi affrontò il comm. Golisano; per quanto difficili a
risolversi, pure il Sindaco vi lavorò assieme al suo Segretario,
pensandovi seriamente giorno e notte. Il nostro concittadino, che
conoscemmo, di già voleva rendersi benemerito alla cittadinanza
riesina: egli trascurava gli affari suoi, dandosi anima e corpo al
Municipio.
Ma dopo il 1922, con l’avvento al potere del Fascismo, ne
insidiarono il Consiglio. Sebbene egli comprese i tempi nuovi fin da
principio, tanto vero che pubblicò una scritta a favore del Duce,
chiamandolo un grande uomo di stato “simile a Cromwell” ed altri
pure i fascisti, con a capo il Dott. Lamonica, gridavano: “Abbasso
il Consiglio”. E il Sindaco Golisano, non potendo sopportare i
tumulti e le grida, si dimise, ritornando ai suoi campi, agli affari
suoi, ai suoi studi, lasciandoci come ricordo, oltre il bastione e
la piazza Garibaldi ammattonata, la luce elettrica che illumina
sfarzosamente il paese. Col censimento, sotto di lui, il paese
contava 17.248 abitanti.
Lasciato in carica l’operaio Martorana, questi da Sindaco titolare
fece di meglio per non cadere.
Fu Sotto di lui che si portò a compimento la luce elettrica. Il
paese cominciò a respirare, a gioire; appoggiato questo Sindaco
dall’ex partito democratico, si credeva forte, ma il Consiglio di
Riesi doveva essere sciolto. Il Segretario politico col Fascio,
secondo l’idea dei Duce, erano sicuri del fatto loro.
E difatti il Consiglio venne sciolto nel 1925. Un R. Commissario ne
venne a reggere le sorti protempore.
Essendo un fascista, era ben naturale che doveva mettersi in
relazione col Segretario del Fascio, dott. Lamonica e la P. S.
Giusto vi erano qui due bravi funzionari, il Maresciallo Giuseppe
Scurria e il Commissario di P. S. Belofiori, i quali erano lo
spauracchio degli uomini di malavita e dovevano fare il loro dovere
a favore del Governo,
Fattesi le elezioni a tamburo battente, dopo i tre mesi,
fascisticamente, la maggioranza fu del Fascio capitanato dal dott.
Lamonica e i civili di Riesi. Snidata la vecchia democrazia,
salirono al potere i fascisti. A Sindaco fu eletto il comm. Don
Luigi D’Antona. Lo stimato banchiere, vestendo la camicia nera, si
trovò di fronte alle nuove esigenze del Fascismo e del paese.
Egli però non ebbe il tempo di potere esplicare nemmeno una parte
del programma fascista, perché vi fu un’altra, riforma mussoliniana.
** Torna su **
Cap. XLIXbis
dai sindaci al podesta’
La riforma fatta dall’On. Mussolini fu di togliere dai Municipi i
Sindaci e mettervi dei Podestà nominati dal Governo del Re. E questa
riforma la fece attuar prima nelle città e poscia nei paesi. L’anno
dopo la rese comune a tutti i paesi.
Scopo delle legge è di concentrare tutta l’Amministrazione Comunale
nelle mani di un uomo, levando le camarille locali.
Il Podestà deve durare in carica cinque anni e può essere
riconfermato.
Secondo questa legge il comm. D’Antona decadde da Sindaco. Bisognava
fare il primo Podestà di Riesi. Chi più indicato del cav. dott.
Lamonica? Chi più fascista di lui? Chi meglio di lui poteva assumere
tale carica? L’uomo indicato, designato, fu appunto il cav. dott.
Gabriele Lamonica. Egli si dimise quindi da Segretario politico del
Fascio di Riesi, accettando la carica di Podestà del nostro Comune.
Ito a prestare giuramento nelle mani del Prefetto a Caltanissetta,
venuto il decreto reale, al ritorno gli sì fece una calda ovazione,
una calorosa dimostrazione di simpatia e di affetto. Al posto di
Segretario politico, i gerarca di Caltanissetta nominarono il cav.
Notar Giuseppe Sanfilippo, già vice Pretore negli anni 1915-1926, il
di cui figlio Avv. Matteo, reduce della guerra, in città era un
pezzo grosso.
Le gerarchie fasciste sono formate dalle Federazioni provinciali e
dai Sindacati a cui fanno capo il Prefetto; nei paesi il Segretario
politico è il capo del Fascismo e di tutte le organizzazioni che
sono: Associazione dei Combattenti; Federazione dei Commercianti;
Società delle madri dei caduti in guerra; del Dopolavoro; dell’O. N.
B., della Milizia fascista e della Federazione degli Agricoltori.
Tra Podestà e Segretario politico, deve esservi un reciproco
accordo.
Il dott. Lamonica Podestà e il Segretario Notar Sanfilippo per un pò
di tempo si diedero la mano, ma poi non si sa perché, non furono più
d’accordo. Il Podestà i credeva insormontabile dietro quello che
aveva fatto e detto, ma egli aveva dei nemici sott’acqua. Sotto di
lui si acconciarono le vie del Canale è quella che va al Calvario
col nome di Marconi; la prima impraticabile, fu fatta a ciottoloni e
prese la via de Littorio; la seconda fu fatta sbassare nella parte
rocciosa rendendola più. praticabile. Per le dette vie spese una
bella sommetta.
Di più, il nostro Podestà si occupava dell’acqua potabile,
conoscendo i bisogni del paese in quegli anni di. siccità..
Se dobbiamo essere spassionati il dott. Lamonica, se aveva degli
ammiratori, aveva anche dei satelliti, e lo rendevano inviso ai suoi
nemici, come anco a certi suoi amici. Fra gli impiegati municipali
vi erano quelli che lo subivano.
Per una cosa da. nulla, per aver detto che un tale era analfabeta,
per potere ottenere il permesso d’armi, mentre quello non sapeva
firmare, il primo Podestà cadde nella trappola. Il fatto sta che in
Questura gli si fece un processo; processo che dinanzi il Tribunale
sfumò.
Ed è perciò. che il dott. Lamonica non fu più Podestà. Bravo,
intelligente professionista, ricco di casa sua, si occupa degli
ammalati, passando la sua vita anche in campagna con la sua
famiglia, nella bella casina del Crocifisso.
Ebbe la jattura di perdere un figlio promettente in una disgrazia, i
cui funerali riuscirono solenni.
Se sono cose queste che abbiamo visto e ai nostri giorni, crediamo
che nessuno potrà accusarci di partigianeria;. la nostra storia
contemporanea l’abbiamo fatta e la facciamo imparzialmente, narrando
ciò che abbiamo visto e veduto coi nostri occhi.
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Cap. L
un commissario prefettizio modello
Il Governo Centrale dell’On. Benito Mussolini, allargando i poteri
discrezionali dei Prefetti, dando loro il titolo di Eccellenza,
diede la facoltà di nominare i Commissari nei Comuni, ed è perciò
che si chiamano Commissari Prefettizi; come pure furono abolite le
Sottoprefetture, avendo i Comuni relazione diretta con le Prefetture
nel Capoluogo della Provincia.
S. E. il Prefetto di Caltanissetta, tolto il Podestà processato, vi
mandò a sostituirlo, nel 1928, nella qualità di Commissario
Prefettizio, il cav. Ugo Rossi consigliere presso la stessa
Prefettura.
Il cav. Ugo. Rossi, calabrese, era stato 13 anni Sottoprefetto a
Noto ed era molto esperto e pratico di amministrazioni comunali.
Buono, intelligente e giusto, appena giunto fra noi disse: “Questo
paese non ha avuto buoni amministratori”; e indi rivoltosi agli
astanti: “Se voi mi aiuterete; vi lascerò Riesi una cittadina”.
Immedesimandosi della nostra sorte, girando di qua e di la, vide che
la via del Parroco, ove comincia la via Marconi; era orribile; con
poca spesa la fece bene accomodare.
Trasformò la Casa Municipale internamente ed esternamente,
rendendola un vero Palazzo di Città; la sua bella prospettiva,
rivestita a nuovo, ne fa un magnifico aspetto. Nell’interno
trasformò la sala del consiglio in un salone di ricevimento stile
Luigi XIV; sistemò gli uffici municipali razionalmente. Tutto faceva
eseguire sotto la di lui direzione. Gli impiegati, ben trattati, gli
volevano un gran bene; il popolo, specialmente i poveri, trattati
come si deve, lo amavano.
Ma queste, non sono le sole opere ed azioni che parlano del cav. Ugo
Rossi: egli fece ancora di più.
Con un manifesto al pubblico annunziò che aumentava di cent. 10 al
Kg. la carne e cent. 10 a litro il vino, per abbellire il Parco
della Rimembranza, perché “non faceva onore nè ai morti nè ai vivi”,
e ciò per non aggravare il Bilancio.
Difatti, raccolta la prima somma, la impiegò subito a fare
acconciare i due tratti delle vie Cavour e Mazzini che portano a
Parco. Con ammirevole cura fece recintare la Rimembranza di mura,
con un’entrata a grata di ferro, vi collocò vasi e vasetti attorno
agli alberi, un monumento ai caduti al centro, una colonna d granito
con una piccola aquila in cima, una croce fuori il Parco danno un
aspetto bellissimo al sacro recinto. Così ne rese una bella,
attraente passeggiata.
Il cav. Rossi, visto che a Riesi mancava una pescheria e che il
pesce si vendeva all’aperto nella piazza del Crocifisso fra le
mosche e il fango, volle levare quella sconcezza facendo sorgere la
pescheria nel cortile Riccobene, più in là della piazza. E’ poca
cosa, ma è meglio di niente.
Dando un’occhiata al cimitero, vi fece fabbricare una piccola
cappella di cui era sfornito, fece sistemare i viali e mettere la
breccia alla stradetta.
Attorno alla piazza Garibaldi, fece piantare degli alberi come
all’altra piazza del Crocifisso e allo stradale della Rimembranza.
Mise un’ordinanza, con la quale imponeva i proprietari nei Corsi
principali a fare il prospetto delle loro case. Alcuni furono
solleciti a farle, altri, a causa della Assicurazione agli operai,
furono riottosi.
Tutto l’egregio Commissario aveva in animo di fare e rifare.
Ma dove maggiormente il cav. Rossi lavorò fu per la soluzione del
grave problema dell’acqua potabile e le fognature. Questo era il suo
sogno e ci era quasi riuscito. Aveva contratto con una Società
romana, ma sul più bello, venne trasferito a Catania e ci lasciò.
il popolo commosso all’atto della partenza, nel salutarlo, gli fece
una dimostrazione di affetto. Anche lui, il cav. Ugo Rossi, fu
commosso, spiacente di averci lasciato senza aver terminato ciò che
aveva nell’animo di fare. Fra tutti i Commissari forestieri che sono
passati nel Comune di Riesi, nessuno ha lasciato un ricordo conte
lui.
Dacché esiste questa legge, in quest’epoca di Fascismo, vi sono
stati finora tre Podestà e quattro Segretari politici.
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Cap. LI
la ferrovia - mentre scriviamo, terminando
Mentre scriviamo terminando la nostra storia, frutto della nostra
immane fatica, lavoro della nostra povera intelligenza, noi che,
oltrepassato mezzo secolo di esistenza, abbiamo visto passare uomini
e cose, ci fermiamo qui.
Mentre scriviamo i lavori della ferrovia sono a buon punto; già la
bella Stazione è terminata e la linea è quasi ultimata.
Questa sospirata linea ferroviaria interna della Sicilia, partendo
dalla Stazione Centrale di Canicattì, dovrà passare per le stazioni
e paesi di Delia, Sommatino, Trabia-miniere, Riesi, Mazzarino, San
Michele di Ganzeria, San Cono e Caltagirone, proseguendo poi per
Catania,
Il tronco che dalla Stazione Trabia-miniere viene a Riesi è
meraviglioso. Scendendo il treno dalla montagna della miniera Grande
di Sommatino, che costeggia fra le gallerie, arriva al vallone detto
della Cottonara; passato il ponte fa una curva e dopo 550 metri
giunge all’altro colossale ponte Imera sul Salso , accanto a quello
interprovinciale. E’ un’opera d’arte moderna. Esso ponte ha 10 luci
di 15 metri ciascuna, è lungo m. 190,80, largo m. 5,10, alto m. 25,
tutto in pietra da taglio. Passato il quale la macchina si ferma
alla stazione delle due importanti miniere che sembrano, con le
magnifiche casine che vi sono, un ameno villaggio.
La locomotiva, messasi in moto nella valle del “Salso” va verso due
viadotti: il primo, lungo m. 184,50, è ha 10 luci di cui 8 centrali
di m.15 e le due estreme di m. 10; il secondo lungo m. 86,50, è ha 4
luci di m. 15 ciascuna. Ed eccoci ora. alla grande, maestosa
galleria o traforo della Cammarera lunga m. 1091, con l’altezza di
m. 29,50 dal fondo del vallone. Uscendo la macchina col suo fischio,
nel guardare il monte Stornello, il treno traversa la contrada detta
Ficuzza finche, tra ponti e ponticelli, arriva all’ultimo viadotto
del Bannuto, lungo m. 87, ha 5 luci di m. 10 ognuna. Con una breve
discesa nella contrada Giarratana, la strada ferrata ci porta al
simpatico ponte del cavalcavia di San Giuseppuzzo e, passato, il bel
Casello, entra nella stazione del Lago, vedendo il grazioso villino
Antonietta del comm. Golisano e la casina del signor R. Jannì.
Riesi!!... Finalmente!
Sono lavori esatti, opere d’arte, che hanno onore alla Ditta dei
signori Ing. e Colonnello De Vecchi di Favara, alla squisita
cortesia dei quali dobbiamo le informazioni di cui sopra, assunte
nei loro uffici. In atto, il Colonnello cav. Giuseppe, è Commissario
Prefettizio.
La Stazione di Riesi, che sarà di grande utilità per il commercio
delle merci, è al centro della costruente linea ferroviaria.
Quando si sentirà il fischio della locomotiva, annunziando
“Riesi!!...” il paese godrà dei benefici della civiltà.
Colui che per la prima volta verrà in treno a Riesi, se di
primavera, affacciandosi allo sportello tra l’olezzo dei fiori e le
bellezze naturali, resterà meravigliato, incantato a tanto sorriso
di Dio e della natura. Il viaggiatore, dopo avere ammirato la
lavorazione della zolfo nelle miniere presso il fiume Imera, ne
sentirà il puzzo, e spingendo lo sguardo fino al ponte
interprovinciale ne riporterà una bella impressione e siamo certi
che racconterà di’ avere visto cose meravigliose.
Chi l’avrebbe detto che un giorno queste terre sarebbero state
allietate dalla ferrovia? Ah se i governi passati fossero stati più
benefici verso di noi, quanti guai ci avrebbero risparmiato! Ma,
grazie a Dio, le future generazioni saranno fortunate, sentendo il
fischio e vedendo arrivare la locomotiva.
Il traffico della ferrovia farà allargare di molto il paese verso
quella parte, facendo sperare che sorgeranno bei palazzi, belle
case, botteghe e alberghi. La. via, che del resto e larga e lunga,
si presta ad un nuovo quartiere di stile moderno.
Riesi, messo alla pari degli altri paesi civili del mondo, sarà una
cittadina. Manca, ancor oggi, l’acqua potabile abbondante e le
fognature. Chi saprà risolvere questo importante, vitale problema,
avrà legato il suo nome alla storia e sarà immortalato. I popoli,
oltre il pane, le vesti e la casa, hanno bisogno d’igiene per vivere
bene: la pulizia dei paesi è indice di vera civiltà.
Non è per dare. una lezione a chi ne sa più di noi, ma è per
spronare gli altri a far meglio. Lo abbiamo detto sin dal principio
e lo ripetiamo ora terminando: il nostro paese ha sempre progredito.
Se venissero i nostri primi padri - non diciamo quelli dell’epoca
primitiva, nè quelli del secolo XVII, nemmeno i vissuti fino al
1850, ma quei dal Risorgimento in poi - crederebbero di sognare
vedendo il piano della Madrice, la Piazza Garibaldi mattonata, il
palazzo della baronia comprato dall’ing. F. Turco, ricostruito di
nuovo, con la bella, imponente e maestosa prospettiva; la sagrestia
e la casa d’abitazione del sagrestano Mulè, trasformata in casa
canonica; l’asciugatoio eretto nel palazzo del duca; più in là, la
casa della Principessa, e sul carcere vecchio sorta la bella casa
dell’ing. F. Drogo.
E i bei prospetti attorno la Piazza Garibaldi circondata di alberi?
I corsi e le vie principali lastricati?
Che direbbero al sentire che in due ore si giunge a Caltanissetta, e
che in una giornata si può andare e.tornare? Che non ci sono più
quelle carrozze, ma bensì automobili? E che il fiume non è più di
spavento?
La vita quindi, da un secolo a questa parte, ha di molto migliorato.
Lo zolfataio, gli operai, non frequentano tanto le bettole, ma i tre
caffè-bars, fra i quali primeggia il gran caffè Giannone, e tutti
vanno vestiti bene.
Anche le donne vestono all’ultima moda di Parigi, e vanno in giro,
per le vie, sole.
Le scuole, sia comunali che evangeliche, sono frequentati da scolari
d’ambo i sessi, vispi, intelligenti, studiosi, buoni.
L’istruzione e il lavoro, hanno fatto crescere la gioventù della
nostra generazione di un’altro tipo.
Col fascismo poi, in quest’ultima epoca, i delitti sono ,diminuiti:
i furti del 41 per cento e i delitti di sangue del 67 per cento.
L’Opera Nazionale Balilla, istituzione scolastica del piccoli educa
questi agli esercizi ginnici, al canto e al lavoro.
L’Associazione delle madri e vedove di guerra; l’Opera Nazionale
Maternità ed Infanzia per i bimbi poveri; l’Istituto Nazionale di
Previdenza per la pensione in vecchiaia; la Milizia Volontaria
fascista, ed infine il campo sportivo per il giuoco del calcio che
attira i tifosi a veder giocare; tutte queste belle istituzioni sono
sorte ai nostri giorni.
Per i nostri avi tutto ciò sarebbe come un sogno, ma per noi è una
realtà vissuta e provata.
Concludendo ci auguriamo che in avvenire sarà ancora meglio. Coloro
che verranno appresso di noi, godranno maggiori benefici di questi,
perché si dice: “L’uno semina e l’altro raccoglie”.
Riesi, risorta a vita novella, come la favola della Fenice la quale,
bruciandosi dalle sue ceneri, ottiene vita più rigogliosa, piena di
vitalità, è un paese di 22 mila abitanti che accenna a diventare
città.
Come per il passato. in tre secoli di vita attiva, il lavoro e
l’ingegno ci hanno portato a questo punto, così nell’avvenire il
lavoro, sorgente di pace, di prosperità e di felicità, farà il
resto. Il progresso in tutte le cose non si arresta mai; ma bisogna
ammettere che si deve progredire anche nella morale, base della
vita.
In questi ultimi anni di nostra esistenza, abbiamo avuto due
fattacci specifici che ci hanno degradato molto di fronte agli altri
paesi della Sicilia; ma essi fatti singolari, che sano passati alla
storia, speriamo che non si ripeteranno mai più, per la giusta
Nemesi, cioè il castigo che hanno avuto, per servire di lezione agli
altri. Del resto ogni regola ha la suaa eccezione: non si può
condannare un popolo per pochi degenerati.
Il fatto del brigante Francesco Carlino che da giovane, gettatosi
alla macchia, dal 1920 al 1922 diede filo da torcere alla Pubblica
Sicurezza dell’Isola, da additarsi come autore di tanti delitti;
egli perseguitato ricercato dalla giustizia umana, venne arrestato
in una casa sul poggio della Croce.
Inserragliatosi dietro una bestia, fece fronti ad una compagnia di
soldati e carabinieri, guidati dal Questore Mori da Trapani, il
quale, prima di ordinare il fuoco contro la casa mandò a chiamare la
madre dinanzi la quale il brigante generosamente si arrese. Fu
condannato ad anni 30 di prigione, ma evadendo, si recò in Francia,
per potere salpare per l’America. In Francia commise un’altro
delitto Per il quale fu condannato a 15 anni. Mentre scriviamo, lui
sconta la pena alla Gajenna. “Godo buona salute, apprendendo il
mestiere di calzolaio” scrive in francese alla madre.
L’altro fattaccio orribile, che fa orrore al solo pensando, è il
delitto avvenuto nella miniera Tallarita il 21 Giugno 1931. E’questo
delitto passibile della pena di morte, di cui Riesi ebbe il primato
con la nuova legge, fa spavento.
Ricostruendo l’orrendo delitto dei nostri giorni ci trema i penna a
narrarlo succintamente: il ragazzo tredicenne Zuffanti Salvatore,
lavorava da manovale col muratore Gaspare Calafato, giovane promesso
sposo 24 anni da qui. Fatta la mezza giornata antipomeridiana
nell’andare a prendere un boccone con un certo Giuseppe Mignemi da
Canicatti, vecchio arnese da galera, si trascinarono l’innocente
fanciullo in fondo ad un corridoio esterno della miniera. Dopo aver
mangiato lo legarono con una corda e lo violentarono; non contenti
di ciò, temendo che il ragazzo parlasse, gli stroncarono la nuca e
lo lasciarono cadavere.
Terminato il lavoro nel pomeriggio, il Calafato ritornò in paese,
facendosi vedere. La famiglia del ragazzo si mise a cercare il
figlio senza poterlo ritrovare. La notte i due delinquenti, al lume
di una candela, andarono a gettare il cadavere nel fiume, credendo
che la corrente se lo dovesse trascinare. Ma l’indomani mattina si
vide il morto galleggiare nel gorgo. Denunziato il caso alla
giudiziaria, vi accorse la P. S. e il dott. Giuseppe Celestri.
Tolto il cadavere, dall’autopsia risultò tutto lo sfregio fatto al
povero corpo. Subito furono arrestate le due belve umane, che sulle
prime negarono, ma poi il Mignemi confessò, mentre il Calafato si
mantenne sulle negative.
La popolazione messa in movimento, imprecava contro i malfattori; la
stampa italiana giustamente ne fece chiasso portando ai quattro
venti il delitto di Riesi.
La famiglia, i parenti erano inconsolabili. Chi non ha cuore non si
commuove a tanto sfregio; ma il cuore la abbiamo tutti; crediamo che
anche gli animali e le pietre si commuovono.
Alle Assisi di Caltanisetta, i giudici furono inesorabili,
condannandoli alla pena di morte. Però nel l’eseguirla solo il
Mignemi all’alba del Gennaio 1932 fu giustiziato; mediante
fucilazione alla schiena, da un plotone di Metropolitani romani
appositamente inviato, mentre il Calafato, all’ultimo momento la
pena di morte gli fu commutata in ergastolo, essendosi egli
mantenuto sempre sulla negativa, e perché era il primo caso.
Al Cimitero del nostro paese l’effigie del giovanotto Zuffanti
Salvatore mostra ai posteri il misfatto orribile di Mignemi e
Calafato.
Abbiamo detto e insistiamo che c’è bisogno della morale nella vita
degli individui per agire bene, onestamente, coscienziosamente ma
questa morale dev’essere religiosa. Il sentimento religioso tiene
alto il morale e la dignità della vita; mancando questo, manca la
base di un popolo. Giuseppe Mazzini, l’apostolo della libertà
italiana, scrisse, ed à con queste parole che vogliamo provare il
nostro assetto:
“Il pensiero religioso dorme nel nostro popolo: chi saprà
suscitarlo, avrà fatto più che non con tante scelte politiche”.
Infine. dandovi o lettori la nostra storia di Riesi nelle vostre
mani, immedesimatevi con noi, leggetela, commentatela divulgatela.
Chi fummo, chi siamo la storia ce lo insegna: le generazioni
avvenire sapranno almeno un riassunto del passato del nostro paese.
FINE
** Torna su **
Chi indugerà sul capitolo della MITRAGLIA avrà un sussulto: ecco la dimostrazione che Messana c'era - avrà voglia di gridare. Calma! Questa microstoria è del 1934. 15 anni dopo gli eventi. L'autore è un pastore valdese alquanto condizionato dalla sua fede e dalla necessità di non contrapporsi troppo all'ormai consolidato regime fascista. Non credo che atti processuali relativi a faccende tanto scabrose potessero venire consultati agevolmente. Già il fatto che si sbaglia la data dei fatti narrati la dice lunga. Quel parlare di un Delegato di Polizia e non farne il nome mette in sospetto. Era proprio un delegato. E chi era codesto delegato? Come si fa a dire che era Ettore Messana; nelle cronache coeve del Giornale di Sicilia e dell' Ora si pala di delegati di polizia, ma vengono tutti citati e Messana non figura. Aggiungasi che la versione di ben tre persone che in contemporanea mettono il dito sul grilletto della mitraglia non è per nulla credibile. Guarda caso di tutti e tre codesti operatori non si fa il nome. Ma almeno il graduato dell'esercito che peraltro dopo ci ha rimesso la vita, era ben noto. Leggendo quindi controluce noi perveniamo alla convinzione che lì a Riesi in quel frangente Messana non c'era. Dopo cercarono di scaricare su di lui responsabilità non sue. Tentativo subito fallito. Messana Non ne ebbe nessuno strascico men che meno giudiziario, nonostante un generale dei carabinieri per sollevare da responsabilità la sua benemerita arma avrebbe fatto le carte false pur di sviare i sospetti dai carabinieri implicati. CERTO I FATTI DI RIESI FURONO GRAVI GRAVISSIMI. VI FU PURE IL TENTATIVO RIUSCITO PER ALCUNI GIORNI DI ISTITUIRE UNA SORTA DI REPUBBLICA COMUNALE INDI PENDENTE. Eppure anche in un testo ponderoso e ponderato quale - LE REGIONI-LA SICILIA di Einaudi, uno storico del valore di Salvatore Lupo non vi si sofferma. Vago, elusivo. se un accenno fa ai fatti di Riesi, non va oltre questo asettico passo: "simile fisionomia aveva pure lo schieramento che nel Nisseno sosteneva Ernesto Vassallo nel riuscito tentativo di contrastare il 'prominente' giolittino della zona, Rosario Pasqualino Vassallo" personaggio questo che invero troviamo nelle cronache di quei terribili giorni successivi al famigerato 10 ottobre 1919. Certo invece di volere criminalizzare a tutti i osti un giovane vice commissario ci si fosse in questi anni 'avalutativamente' industriati a svelare i segreti storici di quei tempi ne avremmo guadagnoto tutti, soprattutto quelli come me che amiamo la schietta verità storica. Profilo
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