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martedì 7 luglio 2015

I miei primi approcci alla storia del mio paese

Calogero Taverna

La signoria racalmutese dei Del Carretto

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Forse risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIII. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita dell’arrampante cadetto Federico II Chiramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato nel suo Cartagine Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni “burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo  e mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei del Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che il coautore, prof. Giuseppe Nalbone, solo negli anni ’novanta di questo secolo ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di Palermo.
 Scopo, intento, occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico travalicare  i limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze altisonanti da parte di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto, rapace esattore delle imposte dei Martino, i noti avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIII secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Giuseppe Nalbone ha speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - viene qui riprodotta, sia pure nell’interno dell’accluso cd-rom. Carta canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxororicidi a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testomoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio consueto per l’epoca dei baroni del Carretto che verso la fine del Cinquecento dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di aver riconosciuto titolo di marchesato che fasullamente in esordio avevano contrabbandato. 
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che andiamo a pubblicare spazza via ogni briciola di credibilità di una tale ingenua favoletta.
 E quel che si scrive su data e struttura del Castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni sicumera sulla storia del Castelluccio.
Già, carta canta e villan dorme!


UN EXCURSUS DELLA STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA PARTE DEI DEL CARRETTO

Ricerca storica di Calogero Taverna

Dalle brume dell’archeologia locale affiora, flebile ma con contorni alquanto netti, l’insediamento sicano di quattromila anni fa lungo l’intero arco collinare sud est e sud ovest racalmutese.
Verso il 13° secolo a.C., quella civiltà sembra eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto a paura per i naviganti micenei, verso le più protettive montagne di Milena, Bompensiere e Montedoro. Arrivano quindi i greci, ma Racalmuto è ancora deserta ed impervia per attirare i coloni agragantini. Solo verso il VII secolo la moneta con il granchio di Agragas sembra far capolino nelle fertili plaghe del nostro altipiano. Poi, si diventa meri subalterni della potente polis, così come per tutta l’epoca romana. Tra il II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le risorse solfifere vengono apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le tegulae o tabulae sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di scoprire per primo verso la fine del secolo scorso.
Allo spirare dell’Impero romano, la feracità del suolo racalmutese sembra avere attirato sia pure fugacemente le brame espoliatrici di Genserico e dei suoi Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire insediamenti significativi in località Grotticelle e dintorni. Monete di Tiberio II e di Heracleone saranno poi rinvenute, nel 1940, in contrada Montagna, ma per caso ed in luogo che all’epoca era sicuramente disabitato: un nascondiglio, dunque, sicuro e lontano da occhi indiscreti.
Giungono gli Arabi: sono guerrieri, disdegnosi di sede fissa, violenti e ladroni. A Racalmuto trovano ben poco e subito si dileguano. Subentrano i Berberi, contadini e pacifici: ebbero forse a convivere con i mansueti bizantini del luogo.
I Normanni del Conte Ruggero, 600 cavalleggeri - pare, depredarono il territorio dell’altipiano ove sembra sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nell’XI secolo, il gaito saraceno Chamuth, signore della vicino Naro, con molta probabilità aveva il dominio del nostro Altipiano e forse vi eresse un fortilizio, un Rahal: da qui il toponimo Rahal Chamuth, a seguire l’acuta congettura del Garufi. I Saraceni furono, specie sotto Federico II, ribelli e violenti: imprigionarono persino il vescovo agrigentino Ursone. Federico II non fu tenero verso di loro, deportò a Lucera i caporioni; gli altri - i più pavidi ed i meno appariscenti - si dispersero assumendo nomi latineggianti o fingendo antica professione di fede cattolica. Per uno o due decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia Musca - forse Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi fuggiaschi, verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e far sorgere un nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con l’osteggiare il vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò di quel casale assegnandolo nel 1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli archivi angioini  ne specificava - prima di esser distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità e dettagli. Finiva, per altro verso, quella che possiamo considerare la preistoria racalmutese: un periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per 3271 anni. Quel che per tal periodo si è scritto - ed è tanto ed anche dalla penna più illustre del luogo - è solo cervellotica congettura. Possiamo solo credere a quei radi reperti archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel poco, spesso nulla, che riescono a svelarci di tanto defluire umano degli antichi racalmutesi.
Con i Vespri Siciliani, il casale di Racalmuto acquisisce importanza e ruolo perché può fornire tasse e balzelli alla famelica pirateria di un Pietro d’Aragona. Il centro abitato non contava più di 75 fuochi (circa 265 abitanti). Nel 1376 i fuochi erano aumentati a 136 (circa 480 abitanti). Frattanto, Racalmuto - a dire del Fazello - era stato requisito da Federico di Chiaramonte che pare vi abbia costruito le torri del castello nella prima decade del 1300. Si sa che Costanza Chiaramonte, unica figlia di Federico, fu l’erede universale. Che abbia sposato prima il girovago ligure Antonio del Carretto e poi, divenuta vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria - forse quello dannato all’inferno da Dante - si dice e qualche documento degli archivi di Stato palermitani sembra confermarlo. Resta comunque certo che sino al 1396 Racalmuto è dominio dei Chiaramonte, in particolare del celebre figlio illegittimo Manfredi Chiaramonte - lo attestano le carte dell’Archivio Segreto Vaticano.
Tocca a Matteo del Carretto rimpossessarsi del feudo, farne una baronia e farsene riconoscere titolare dal re Martino, naturalmente previo esborso di sonanti once. Il figlio Giovanni primo del Carretto è ancor più rapace del padre.
Nel 1404, Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi (540 abitanti). Un secolo dopo nel 1505, al tempo della “venuta” della Madonna del Monte, la sua popolazione sale a 473 fuochi (1670 abitanti). Ora domina il barone di Racalmuto Ercole del Carretto. Il figlio Giovanni II esordisce con un delitto: commissiona a tal Giacchetto di Naro la strage dei Barresi di Castronuovo per vendicare l’uccisione del fratello Paolo, antenato di Vincenzo di Giovanni che nei primi decenni del 1600 scriverà una complessa trattazione su Palermo Restaurato, ove rammenterà quei truci e letali eventi. Dopo, rimorsi e crisi religiose spingeranno quel del Carretto a costruire chiese e conventi ed a chiamare a Racalmuto carmelitani e francescani per una redenzione spirituale sua e del suo popolo. Certo, mero e misto impero, terraggio e terraggiolo ed una pletora d’imposte e tasse feudali fioccarono sui racalmutesi. Un notaio venne chiamato da Agrigento per i tanti atti del barone (e dei suoi vassalli): era quel tale Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni II del Carretto finì sotto l’Inquisizione.
A metà del secolo, nel 1548, la popolazione sale a n.° 896 fuochi (3163 abitanti), segno che la politica del barone non era poi così devastante come sembra voler far credere Leonardo Sciascia.
Quello che non fa il barone, lo fa invece la peste del 1576: la popolazione racalmutese viene decimata. Se crediamo ad un documento del fondo Palagonia, dai 5279 abitanti del 1570 si sarebbe passati ad appena n.° 2400 abitanti nel 1577. Ciò non è credibile e si deve alla voglia tutta fiscale di impietosire il viceré per una contrazione delle “tande” in mora e di quelle in atto. Di sfuggita, va detto che la tentata evasione fiscale del 1577 non ebbe effetto. Le “tande” si basavano sulla tassa del macinato: la drastica contrazione della popolazione non consentiva un gettito bastevole a fronteggiare la soffocante tassazione del governo spagnolo. Questo non ebbe pietà e la Universitas fu costretta ad indebitarsi con gli stessi esattori, al contempo strozzini.
Sia come sia, nel 1593 Racalmuto sembra risorta: gli abitanti ora sono in numero di 4448: ovviamente molti fuggiaschi erano rientrati e, soprattutto, si doveva trovare conveniente emigrare dai centri viciniori per sistemarsi nella neo-contea di Racalmuto, le cui condizioni sociali, economiche e giuridiche in definitiva tornavano appetibili.


La questione feudale racalmutese


Si attaglia perfettamente a Racalmuto quanto ebbe a teorizzare Francesco De Stefano nel 1948, [1]  specie allorché afferma: «.. nemmeno, ci fu in origine, un baronaggio esigente ed esorbitante, perché né Ruggero I, né Ruggero II lasciarono impiantare la grande feudalità.» Se è vero che in Sicilia vi fu un processo inverso rispetto all’organizzazione feudale anglosassone, e se questo processo inizia con un baronaggio “tarpato”, baronaggio che solo dopo il 1154 poté sfrenarsi, altrettanto deve congetturarsi per il nostro paese. Ed a ben vedere, bisogna aspettare la metà del Cinquecento per vedere Racalmuto un centro totalmente feudale, con un barone prima, e un conte dopo, veri domini, forti ormai del mero e misto impero (invero ambiguamente comprato a suon di once attorno al 1550).
Quando nel 1282, Racalmuto è una “universitas”,  è proprio come asserisce il De Stefano[2]: faceva  parte delle “universitates” cioè a dire di quegli organismi riconosciuti come tali nel diploma del 1268, per cui «ai giustizieri era ordinato che “magistri iurati” e “judices in singulas partes regni creari debeant” e che le universitates delle terre demaniali judices, e le feudali ed ecclesiastiche iuratos “in magistros juratos de communi voto omnium eligant.”» Alla luce di tale insegnamento, dai diplomi dei Vespri possiamo desumere questa veste giuridica del casale di Racalmuto: esso era demaniale, non aveva baroni ed eleggeva i suoi giudici (judices) con voto unanime dei suoi abitanti. Eccone una fonte: ci riferiamo al passo del 26 gennaio 1283 ind. XI, sopra illustrato, in cui «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor». Se il paese ha giudici e non giurati, vuol dire dunque che non è ancora feudale, oppure, per la latitanza di quel Negrello di Belmonte napoletano, il casale da baronia è stato derubricato in terra demaniale.
La dizione del documento è anche tale da suggerirci l’ipotesi che il “castrum” (il castello) non fosse ancora sorto. E ciò porta acqua alla tesi del Fazello che vuole le due torri feudali edificate da Federico Chiaramonte poco prima del 1311. 
Come e perché Federico Chiaramonte si fosse impossessato di Racalmuto e che cosa l’abbia spinto a costruire quelle due inutili torre cilindriche è sinora un mistero. L’Inveges, lo storico secentesco che ci tramanda testamenti e cenni al riguardo, è relativamente attendibile, avendo più interesse ad accattivarsi il favore dei potenti del tempo che voglia di rispettare la verità storica. Ebbe o non ebbe gli originali di quegli atti notarili che dichiara di possedere? O non si trattò di una falsificazione, visto che nessuno è riuscito dopo a rintracciare quelle fonti?
Federico Chiaramonte va comunque considerato il primo feudatario di Racalmuto, almeno dopo il trambusto avvenuto a cavallo dei Vespri. Da espungere dalla verità storica le varie aprocrife baronie dei Malconvenant, degli Abrignano, dei Barresi ed ancor di più di Brancaleone Doria che lo pseudo Muscia fa nostro barone addirittura prima di essere nato e cioè nel   1296.
Il primo riconoscimento ufficiale della baronia di Racalmuto è del 1396 e riguarda un diploma dei Martino a favore di Matteo del Carretto. Al di là delle incertezze delle fonti diplomatiche del XIV secolo - che si avranno modo di scandagliare - il nostro paese è incontrovertibilmente terra feudale baronale solo a partire da tale data: prima sono solo fantasie e sprovvedutezze di autori e scrittori locali, ivi compresi il sommo narratore di Regalpetra e gli avveduti ecclesiastici dediti alla storia paesana.

GENESI ED AFFERMAZIONE DELLA BARONIA DEI DEL CARRETTO A RACALMUTO

Dalle brume degli esordi racalmutesi della schiatta dei Del Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I Del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere ogni effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo Doria, il titolo sia pervenuto ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature araldiche può farvi ricorso.
Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio, Antonio II Del Carretto. Vi è una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli eventi.
Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla circostanza di un  Antonio II Del Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì vi ha fatto fortuna in compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un coinvolgimento formale di codesto figlio di un legittimo titolare.
Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra che si siano divisi quel marchesato in tre parti; a Corrado andò Millesimo, ad Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota, al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel 1263. [3]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali costei appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, cui si accredita la prima baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dalla madre Racalmuto nel 1344 per atto del Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie dell’’Inveges prima riportate.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato ad un certo punto a Genova, come detto. Là si sarebbe arricchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del citato atto ove possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del Carretto. «Infine il predetto don Gerardo promise, sotto il vincolo del giuramento, di inviare da Genova in Sicilia  tutti i privilegi, le scritture e i rogiti relativi ai beni venduti come sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto, che rimasero presso lo stesso don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam don Antonio del Carretto, suo padre, che ebbe a morire in potere e presso il detto don Gerardo, per consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto ipoteca ed obbligazione di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli, mobili e stabili, posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente quelle cointeressenze date ed assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione della detta vendita.»

La svolta del 1374

Si accredita autorevolmente la tesi di un Mafredi Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate combinazioni, si venisse a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» [4] Non sembra potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo; dal cugino Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari, Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo, Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il nostro paese appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia nel senso allora corrente di gravissima epidemia». [5] Già vi era stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto ne fu


[1] ) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo, Bari 1977, pag. 10 e segg.
[2] ) ibidem, pag. 18.
[3] ) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola - Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[4] ) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti - Palermo 1891, pag. 14.
[5] ) Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.

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