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martedì 7 luglio 2015

parte di una mia infelice conferenza





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L’intreccio del volume che presentiamo poggia fra l’altro su una fonte, sinora sostanzialmente ignota, la “numerazione delle anime” che si è svolta a Racalmuto nel 1593. Essa offre spunti per descrivere usi, costumi, vicende, disavventure e, principalmente, sviluppo ed assestamento demografico racalmutese. Il segmento del secolo XVI verrà raffrontato con quello che è avvenuto prima e con quanto si è svolto dopo. Dalla tassazione dei tempi del Vespro, alle grassazioni ecclesiastiche dei papi avignonesi, ai censimenti fiscali dell’intero corso di quel primo secolo dell’era moderna, Racalmuto viene inquadrato nel suo essere un consorzio civile collegato con la realtà agrigentina, palermitana, romana e persino avignonese. Altro che essere un’isola nell’isola, nel cui ambito la famiglia era un’isola nell’isola nell’isola. Racalmuto non è certo l’ombelico del mondo ma un cordone ombelicale con il mondo ce l’ha avuto di sicuro.
Fa alta letterura di certo Sciascia quando scrive in Occhio di Capra:
«Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo  .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un discorso questo che oggi si può leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo “Meridiani”. Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.
La Racalmuto - quella che si dipana dal 1271 sin ad oggi - è solo uno scisto della storia ma tutta quanta vi si riverbera. Se leggo il magistrale libro di Fernando Braudel  su “Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” e nel frattempo trascrivo carte, diplomi, atti notarili, ‘riveli’ e simili del Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza sorprendente:  le linee e le scansioni della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate note delle sue vicende.
E la documentazione da me esaminata è solo una minima parte di quanto è disponibile presso gli archivi: da quelli parrocchiali a quelli agrigentini, per non parlare di quelli di Palermo o di Roma o di quanto trovasi su Racalmuto in Spagna, a Barcellona o a Simancas o a Madrid.
Racalmuto, la patria di Sciascia, potrebbe essere davvero un laboratorio di ricerca storica; potrebbero attuarsi iniziative culturali per approcci originali e mirati verso nuove forme di microstoria. Con positivi riflessi sull’occupazione giovanile locale.
Non sappiamo se siamo riusciti a superare le secche dell’eruditismo municipale. Abbiamo, comunque, tentato di abbozzare un contesto storico in cui Racalmuto è studiato per quelli che ci sembrano i suoi connotati: una terra baronale con gli alti e bassi della sua popolazione, con le sue “tande” da ripartire, con le traversìe della famiglia del Carretto che si riverberavano sui paesani, con le pretese della curia vescovile che sovrastava sul clero locale e debordava nell’assetto civile, con il sorgere e l’affermarsi di confraternite laiche, con l’invadente  ruolo conventuale di francescani e carmelitani, con i rapporti tra il feudo maggiore e quelli minori contermini di Gibillini, Bigini, Gructi e Cometi, con l’assetto della proprietà terriera, con gli oneri domenicali del conte sulle case e sulle terre, con il terraggio ed il terraggiolo, con la tematica della finanza locale.
Quattro quartieri: Santa Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte, con al centro la gloriosa chiesetta di Santa Rosalia, quadripartivano l’abitato comitale, come moderne circoscrizioni. Funzionari di quartieri con i loro cognomi ancor oggi presenti a Racalmuto censivano, vigilavano, tassavano. I preti - allora - collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda fiscale era allora, come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una faccenda fiscale quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i suoi diritti “dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e, poi, tasse - e tante- di natura religiosa.
Queste ultime, secondo una nostra stima, erano in taluni periodi la metà di tutta l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie) ai “diritti di quarta”  della Curia vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di Santa Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che fare con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.


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Il lavoro di ricerca si appoggia e presume la pluriennale indagine che è stata svolta sui libri parrocchiali di Racalmuto. Sono libri, ripetesi, che annotano nascita e morte, battesimo e matrimonio, precetto pasquale di ogni racalmutese, senza distinzione di classe sociale o di propensioni religiose, dal 1554 sino ad oggi. Dapprima lo stato moderno non si preoccupò di questi aspetti anagrafici; quando poi cominciò a farlo incontrò spesso - come avvenne per Racalmuto nei primi anni dopo l’Unità - l’astio vandalico delle popolazioni inferocite e in gran parte quelle note burocratiche finirono irrimediabilmente distrutte.
Ma alla Matrice di Racalmuto, no.  Solo una mano sacrilega strappò qualche foglio, magari per provare l’indubitabile origine racalmutese di Marco Antonio Alaimo, nato sicuramente a Racalmuto nei pressi di via Baronessa Tulumello il 16 gennaio 1591, diversamente da quello che attestano le pretenziose lapidi comunali e come invece afferma l’Abate d. Salvatore Acquista nel suo saggio sul medico racalmutese del 1832, pag. 25.
Ed a ben guardare quel libretto, sembra proprio lui - l’autore - il vandalico che ha sottratto il foglio di battesimo di M. A. Alaimo. Mi riprometto di rintracciare quel foglio tra quei cinque sacchi di scritti che l’esecutore testamentario Giuseppe Tulumello depositò nella Biblioteca Lucchesiana  il 24 aprile 1879. ([1])

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Le carte della matrice di Racalmuto sono un po' stregate: appaiono vendicatrici. Basta che uno storico locale si sbilanci in ricostruzioni storiche che prescindano dalla loro consultazione per scattare la vendetta: esse stanno lì per sbugiardare il malcapitato paesano. Esigono rispetto, deferenza, assidua  frequentazione e meticolosa attenzione.
Quando il giovane studente in medicina - il Tinebra Martorana  - si mise a scrivere improvvisandosi storico locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali, questi lo hanno ridicolizzato smentendolo impietosamente specie nelle fantasiose saghe dei del Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di sesso del figlio Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa dalla cornata di una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra). Dispiace che il grande Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato storico e sia incappato in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale attribuzione di un nefando crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era un pio monaco e che a Racalmuto, se vi mise mai piede,  ciò avvenne poche volte e per compiti istituzionali e conventuali, limitandosi solo ad edificanti incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano. In ogni caso Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo del Carretto - che secondo Sciascia fu fatto trucidare dal monaco - era poco più che tredicenne.
Non fu, poi, questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo “grifagno ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui (ma i suoi tutori) ad accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del “terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono l’humus storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore. Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da oltre un anno con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi beni in favore dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea ( e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era, costei,  una Ventimiglia.
(E tanto grazie alle recenti scoperte d’archivio del prof. Giuseppe Nalbone. Siffatte carte ci forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di Geraci che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il 1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel  Cenobio di S. Lorenzo il   28 ottobre 1654).

Anche il pur meritevole Eugenio Napoleone Messana incappò in disavventure storiche per avere disatteso le carte della Matrice. Si credeva incontrollabile e storicizzò una frottola di famiglia facendo sposare nel ‘500 tal Scipione [o Sypioni o Sapioni] Savatteri ad una inesistente figlia dei Del Carretto per legittimare una inverosimile ascendenza nobiliare. Impietosamente - anche qui - i libri di matrimonio e di battesimo della Matrice di Racalmuto danno i dati anagrafici di detto Scipione Savatteri, oriundo peraltro da Mussomeli, di rispettabile stato piccolo borghese, andato sposo ad un’altrettanta plebea Petrina Saguna:
12/10/1586 -SAVATERI SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA sposa  SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E MARCHISA. Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI:  Montiliuni Gasparo notaro e cl. Cimbardo Angilo

Superfluo aggiungere che quella “Marchisa” - madre di Petrina - è solo un singolare nome e nulla ha a che fare con storie di nobiltà locale.

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Se poi consultiamo le tantissime carte dell’Archivio della Matrice sulle congregazioni o sui pii legati e simili, abbiamo piacevoli sorprese sulla vera storia di Racalmuto. Certo, svanisce nel nulla la vicenda del prete Santo d’Agrò che da solo costruisce l’attuale Matrice: anche qui ci troviamo di fronte ad una distorsione del Tinebra, che viene ripresa da Sciascia per una sua impareggiabile rilettura. E’ però una rilettura che esplode in una irriverente raffigurazione dell’incolpevole e probo sacerdote Agrò: questi viene immerso in deliri erotici ed addirittura proteso in viaggi allucinati, deposto sulle spiagge del deliquio sensuale, e, con immagine spagnola, sommerso nell’Alumbramiento onirico (vedi Sciascia: Introduzione al Catalogo illustrato delle opere di D’Asaro, pag. 20).  
E dire che sarebbe bastato un fugace sguardo ad un atto transattivo degli eredi di detto sacerdote  - atto transattivo che si conserva in Matrice -  per fugare tali infamanti sospetti e rispettare la verità storica sulla “fabbrica della Matrice”; la quale ben due rolli - sia detto per inciso - seguono passo passo, sino al primo ventennio dell’ottocento. Per lo meno si sarebbero evitate ricadute che non si possono non lamentare in libri pubblicati non più tardi dell’altro ieri.

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Mi rincresce davvero dover qui dissentire da quanto scrive lo scrittore nostro compaesano sulla sua origine racalmutese. I registri parrocchiali - che il grande scrittore invero disdegnò di consultare approfonditamente - forniscono dati sulla genealogia di Leonardo Sciascia che vanno ben al di là del “nonno di suo nonno” (cfr. Occhio di Capra, ed. 1990 pag. 12).

1.  1690 circa  SCIASCIA LEONARDO M.°
2.  29.9.1726   SCIASCIA    GIOVANNI M.°
3.  7.1.1754     SCIASCIA    LEONARDO M.°
4.  24.2.1802   SCIASCIA    CALOGERO
5.  26.8.1810   SCIASCIA    PASCALIS
6.  25.10.1884      SCIASCIA LEONARDO
7.  27.3.1920   SCIASCIA    PASQUALE
8.  8.1.1921     SCIASCIA    LEONARDO

Sciascia è racalmutese per lo meno a partire dalla fine del Seicento e non dai “primi dell’Ottocento” come amò credere sulla scia di una sua metafora irridente all’irridente avversione locale verso i “nadurisi” (Occhio di Capra, pag. 95). Là Sciascia ama inventarsi un bisnonno appunto “nadurisi”. Per i racalmutesi: «Venire dal Naduri - cito Sciascia - era come venire da una sperduta contrada di campagna: essere dunque zotici e sprovveduti. Quasi peggio dei milocchesi. Dal Naduri è venuto a Racalmuto il nonno di mio nonno, Leonardo Sciascia: da contadino che era stato, a Racalmuto intraprese il mestiere di conciatore di pelli, pure commerciandole”. Non so dove abbia appreso  queste notizie il grande scrittore: so solo, però, che i libri parrocchiali lo smentiscono su tutta la linea. Da lì vien fuori un albero genealogico di Leonardo Sciascia ben diverso da quello che tratteggiò lo stesso Sciascia.
L’invocato “nonno del nonno” era un apprezzato mastro locale, fedele appartenente alla “maestranza” ancora esistente all’Itria. Di nome Calogero (e non Leonardo), apparteneva ad una famiglia di mastri che in linea diretta ci conduce sino ad un capostipite del Seicento di nome Leonardo, sposatosi con l’agrigentina Vincenza Quagliato.
“Lapsus della memoria” vorrebbe la famiglia - da me consultata. Può darsi: ma non può neppure affermarsi - come è stato fatto - che il grande scrittore volesse riferirsi al “nonno di sua nonna”, che in effetti si chiamava Leonardo Sciascia.  Invero, anche costui era racalmutese, figlio di racalmutese, fratello di quell’Antonino Sciascia, professore universitario, di cui parla il Tinebra ed a cui  lo stesso Leonardo Sciascia teneva particolarmente.
Mi si perdoni questo mio insistere sulle origini racalmutesi dello scrittore. Il «'lapsus' della memoria» mostra, a mio modesto avviso, un atto trasfigurante occorso - o cui il grande scrittore ha indulto - per esigenze dell'intelligenza ai fini di uno dei suoi raffinati aforismi. Se voi - se noi - racalmutesi avete in uggia i 'nadurisi', ebbene allora io sono 'nadurisi'. E con ciò? Il dramma o la farsa di essere «un'isola» o «un'isola nell'isola» o «un'isola nell'isola dell'isola..» etc. permane non so se tragicamente o esistenzialisticamente.

Racalmuto non ha una storia esemplare. E' una storia paesana, qualche volta violenta, tal altra generosa, ma sempre entro le righe, in un pentagramma di invariabile moderazione. L'unica sua gloria è Sciascia. Svetta e se ne distacca. Radicarlo nella terra del sale, è un mio orgoglio ed una mia ambizione. 'Occhio di Capra' sembrava smentirmi: le carte della Matrice mi rasserenano e suffragano la mia convinzione.
Non pretendo certo di scandagliare il mondo dei sentimenti verso Racalmuto del grande Sciascia: viceversa, ho tentato di risalire la corrente pluricentenaria di quella 'blasfema ironia' che Sciascia ritaglia per Racalmuto (Kermesse, pag. 54 ), convinto che da quelle antiche propaggini si diparte l'insondabile gene atto a far sbocciare il genio inquieto ed irriverente dello Scrittore racalmutese.
La storia di Racalmuto va integralmente rivisitata. Non siamo certamente noi quelli che possiamo espletare un siffatto improbo compito. Ma un tentativo vogliamo egualmente esperirlo. Speriamo in una pioggia di critiche, rettifiche, approfondimenti, completamenti. Chi avrà pazienza di leggerci noterà una dissacrazione della storia racalmutese consolidata, anche se porta l’avallo del grande Sciascia. Valga come provocazione. Sarà un progresso che dissolverà la solita favoletta fatta di baroni e conti, jus primae noctis, preti affetti di satiriasi senile, frati omicidi, contesse fedifraghe, terraggio e terraggiolo, chiese di inaccettabile vetustà, ripicche di grandi (e mediocre) famiglie, sindaci e podestà dediti all’omicidio ed allo stupro di minorenni, fascisti e sansepolcristi ed una pletora di gesuiti, di papa neri, di santi e di venute miracolose, di risse chiazzotte, di infamie municipali, di toponomi improbabili e tradizioni sicane, di miniere e di illeciti arricchimenti: una paccottiglia francamente indigesta. Zolfatai e salinai eroici noi non ne abbiamo mai conosciuti; martiri per la libertà di pensiero non ci paiono possano allignare tra i miasmi dei calcaroni zolfiferi o tra il picconare nelle viscere di Pantanella montagne di salgemma umido e apportatore di nistagno. I bambini delle elementari si misero a riguardare Racalmuto ed i loro “sguardi” ebbero l’onore delle stampe nel settembre del 1995. Con gli occhiali delle loro maestrine, i piccoli storici si addentrarono nei misteri delle origini racalmutesi ed ebbero certezze su tutto: arabi e conventi, chiese e monumenti, congregazioni e feste, miniere ed artigianato, acque e sorgenti, strutture sociali e naturalmente una pletota di uomini illustri ( oltre 18). Sono, invero, ‘sguardi’ dignitosi  ma quei bambini non potevano scrutare ciò che sinora è occulto, ignoto, ignorato.
Il nostro ‘sguardo’ si avvale di ricerche d’archivio, della consultazione di testi antichi, di recenti reperti archeologici, di studi nuovi e di materiale epigrafico e numismatico vecchio e nuovo. Troppo e poco, al contempo. Ma per l’avvio di  una rivisitazione della storia (o microstoria, che dir si voglia) di Racalmuto ci si potrebbe accontentare.



BREVE SINOSSI INTRODUTTIVA

Il nostro interesse per la storia di Racalmuto ebbe inizio allo spirare degli anni ’Settanta ed esordimmo con alcune ricerche presso l’Archivio Segreto Vaticano. Consultando le “relationes ad Limina” dei vescovi agrigentini, c’imbattemmo immediatamente nella questione della tassazione ecclesiastica di Racalmuto. Ne trattava il vescovo spagnolo Orozco Covarruvias nell’agosto del 1598: in una tabella figurava l’arcipretato racalmutese con proventi di ben 250 once annue ([2]). Le ricerche d’archivio vennero, quindi, allargate ai libri e rolli della Matrice e da qui ai fondi degli archivi di Stato di Palermo, Roma ed Agrigento, nonché a quelli della Curia Vescovile di Agrigento. Il materiale acquisito ci ha portato ad abbozzare una prima ricostruzione storica della natia Racalmuto, che col passare degli anni si è via via modificata, aggiustata, integrata, corretta, riformulato. Una fatica di Sisifo! Nello scrivere queste note iniziamo con una versione che ci accingiamo a sunteggiare. Alla fine dello scritto, la nostra narrazione apparirà invero già modificata. Non ce ne voglia l’eventuale lettore.

La primordiale presenza umana potrebbe venire  attestata dalla grotta di Fra Diego che ci riporta sino ai tempi dell’uomo di Cro-Magnon (30 mila anni fa) ([3]). Ma sono i Sicani quelli che per primi consolidarono il loro insediamento nelle plaghe del nostro altipiano: le tombe a forno che suggestivamente fanno da corona alla grotta di Fra Diego sono la palpabile quella civiltà preistorica risalente a quattro mila anni fa.
Nel 1880, nel corso dei lavori per la costruzione della ferrovia Licata-Porto Empedocle, si rinvenivano nel territorio di Racalmuto, a 10 km. da Canicattì, altre tombe a forno con corredi di ceramica del secondo millennio a. C., sufficientemente investigati dagli archeologi del secolo scorso. Purtroppo, successive indolenze impediscono tuttora la seria conoscenza della ricca e peculiare archeologia racalmutese.
Casuali rinvenimenti di monete greche (con il granchio agrigentino o col cavallo alato siracusano) comprovano presenze siciliote nella zona di Casalvecchio-Grotticelle.
L’iscrizione latina in una “diota” della Roma repubblicana rievoca un intenso commercio vinario di quel tempo ad opera di un mercante della “Famiglia” dei “Fuscus”.
Fa spicco una serie di “tegulae sulphuris” (gàvite) rinvenute in varie località di Racalmuto, una delle quali documenta l’esistenza di miniere di zolfo nei pressi di Santa Maria durante l’impero di Commodo (180-190 d.C.).
Per Biagio Pace, le Grotticelle sarebbero un ipogeo cristiano e l’importante ritrovamento di un tesoretto di monete bizantine del VI-VII secolo d. C. nella contrada della Montagna contrassegna un’operosa presenza cristiana sin dagli albori della diffusione del verbo di Cristo in Sicilia.
Ultimamente sono affiorate “strutture murarie abitative” molto latamente riferite ad “epoca ellenistica-romano-imperiale” nella zona di Grotticelle il cui studio è rinviato al tempo in cui i “programmi dei BB.CC. di Agrigento” potranno snodarsi “con maggiore continuità”.
La pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di certo sappiamo che, caduta Agrigento attorno all’ 829 in mano dei Musulmani, quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio racalmutese finì sotto il dominio arabo. Di sicuro, verso l’840 i nuovi e più stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi, tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua greca? Noi pensiamo di no.
Pochi, di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’ (romani o cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo senso razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra landa o a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli cui quella ‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo - per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico su cui, in modo mascherato e variegato, si radicano le leggi della economia.
Così poté esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario. Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d'ortaggi, in cui erano maestri e che i rum (i cristiani) ignoravano. Dai rum, l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da noi,  introdussero sistemi di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. ([4]). I secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli di dominazione araba sull’intero altipiano di  Racalmuto.
Un documento greco del 1178, che purtroppo non può riferirsi al nostro paese, diversamente da quello che sostiene l’autorevole Garufi, riporta un toponimo che richiama l’etimologia araba di Racalmuto: Rachal Chammoùt ( ammu). Nulla però può ricavarsi che possa tornare utile alla storia (quella veridica) del paese agrigentino.
Per quanto buia  sia la pagina araba racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo. Già nel XVI secolo il colto Fazello attestava l’origine
???????????? STARE ATTENTO.. INCLUDERE UN 19 BIES DA QUEL CHE SEGUE ED ALTRO
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[articoletto 19bis]

Due furono le fasi della conquista araba di Racalmuto: in un primo tempo gli arabi - la componente guerriera - razziarono il territorio bizantino racalmutese. Se ne stancarono molto presto, per la povertà di quei coloni nostri antenati. Passarono altrove. Subentraono allora i Berberi, popolo contadino, che si insediarono presso le sorgenti (Saracino, Raffo e forse Fontana). Un toponimo - anche se troppo poco - testimonia infatti che si siano raggrumati attorno alla località del Saracino: le vicinanze abbondanti sorgenti d’acqua, propiziatrici delle colture di ortaggi con il sistema delle porche e zanelle, in cui erano maestri, potrebbe avvalorare la congettura. Sia quel che sia, l’Islam divenne imperante e non sono da escludere conversioni in massa dei pavidi cattolici del tempo, non foss’altro per sottrarsi alle sgradite tassazioni che la tolleranza araba aveva inventato per permettere che i non credenti conservassero vita e beni.
La sopraffazione si inverte con la conquista normanna dell’XI secolo. Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il “villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di uno schiavo. (Vedansi, per chi ne voglia sapere di più gli studi di I.Peri).  Contadini islamici, miseri e schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione, sotto i Normanni, di nuove terre. Tanto avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca - come si è detto - farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva  con spirito depredatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di una Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.
I Chiaramonte si erano impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIII. Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio, l’attuale fortezza,  forse una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono certo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese. Ma basta ciò per essere obbligati al silenzio omertoso, sia pure in tema di verità storica? In questa fatica, non sono state poche le pagine dedicate a tale spinosa questione.
Nel 1392 giunge in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un  cinico, infido, ma astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia. Resta l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato utile.
Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici. All’inizio del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di quel marchesato solo per un terzo - scende in Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole e pare che abbia lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del Carretto. Questi frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare integralmente dalla parte dell’Aragonese.  In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum Racalmuti”. [5]
Martino il vecchio si rende subito edotto del senso e della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind. 1398. Gli viene tolto per assegnarlo ad un altro estraneo “al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra ignominia della storia ecclesiastica racalmutese, che ci guardiamo bene dall’oscurare. Ne abbiamo trattato - come spero si ricorderà - dianzi.
Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano a Giovanni del Carretto, figlio del detto Matteo. Henri Bresc vorrebbe questo barone come un disastrato, finito in mano degli Isfar di Siculiana. A noi risulta il contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano locale dal caricatoio del suo feudo minore di Siculiana. Appare come creditore dei Martino, socio degli Agliata. Lo storico francesce è perentorio: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse - oblige - ritorna sull’argomento in pubblicazioni a spese della Regione Siciliana e nella sua madre lingua, visto che mostra gallica diffidenza verso un traduttore siciliano di una precedente sua opera storica di analogo argomento -   à un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti del  protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo, cui abbiamo già fatto riferimento. In un documento del 7 luglio 1474,  Ind. VII vengono narrate le circostanze raccapriccianti del crimine. Leggiamo che: Il Vicere' Lop Ximen Durrea da' commissione ad Oliverio RAFFA  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il  giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei.
In vernacolo si scrive:
diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati Sadia di Palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu  dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno Liuni figlastro di mastro  Raneri; et dapoy alcuni altri di lu dictu casali  quasi  a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non  havendu  timuri alcuno di iusticia. Immo,  diabolico  spiritu ducti,  tagliaro  la lingua et altri menbri et  ruppiro  li  denti usando in la persuna di lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu  gettaru  in una fossa et copersilu di pagla et  gictaru  foco petri  et  terra.  La qual cosa essendo di  malo  exemplo  merita grande  punicioni et nui tali commoturi di popolo et  delinquenti volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di  la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo  provisto per  sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi  et culpabili. et per la presenti vi dichimo commictimo et  comandamo che  vi digiati personaliter conferiri in lu dictu casali et  cum quilla  discrepcioni  lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. Et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti  et partechipi a la dicta morti et delicto. Et de  tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. Comandanduvi chi cum  diligencia  et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati  prindiri de  personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo  dicto acto et quilli digiati minari in la chitati di Girgenti et carcerarili  in  lu castellu di la dicta chitati in modo  chi  non  si pocza  di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che  a  lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra li altri uno gippuni  in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro, farriti di  lo  dicto gippuni e di tucta laltra roba libri  et  scripturi diligenti  investigacioni  et perquisicioni cui li  prisi  et  in putiri  di chi persuna sono.
Quel tesoro non fu più ritrovato. Non valsero neppure gli anatemi del sacerdote ad indurre alla restituzione  dei 150 pezzi d’oro trafugati dallo “jppuni” del povero ebreo Sadia di Palermo, racalmutese di vecchia data. Lo spaccato della società racalmutese con appare molto esaltante. Non possono comunque da un singolo episodio trarsi valenze generali che sarebbero solo generiche e fuorvianti. Ma l’indignazione rimane e la tentazione alla condanna di tutta la comunità ecclesiale dell’epoca è piuttosto irrefrenabile. Alcuni tratti, un marchio, un DNA, riconducibili alle famiglie citate nel quattrocentesco dispaccio, qualcuno potrebbe ravvisarli ancora in taluni personaggi locali.
Il Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della Madonna del Monte. Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto. Ebbe costui il suo bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere venuto proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero barone Ercole Del Carretto. Gli contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto è costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe: traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa. In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della Madonna fu certamente fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un altare, maestosa, della chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva. Ai parrocchiani, questo non può di sicuro venire predicato. Se ne scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può venire sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da intendere, intenda.

In apposito capitolo, abbiamo seguito la storia (quasi soterranea) di una Racalmuto alle prese con tanti problemi politici, relisiosi ed economici. Là abbiamo puntato l’attenzione  su arcipreti, sacerdoti, religiosi e laici del nostro paese nei due secoli e più successivi alla scoperta dell’America: mentre il mondo entrava nell’era moderna, il medioevo racalmutese persisteva in istituti, atteggiamenti ed altro che appariva come un’ascia bipenne: masse di contadini scorticate a vivo; signorotti e prelati rapaci e lontani.

*   *   *
La vicenda della controversia liparitana, nel suo svilupparsi a Racalmuto è un’orrida vicenda: abbiamo scritto quella pagina di storia locale - religiosa e civile - con raccapriccio, disorientamento, vergogna: il distacco dello storico va a farsi benedire di fronte a siffatti disvelamenti che i cupi registri parrocchiali ti sbattono in faccia. Ogni commento saprebbe di impietosa acquiescenza e noi non ne abbiamo voglia. Per un pugno di ceci, si poteva - e si doveva - avere remora a tribolare le popolazioni contadine affamate anche crudeltà inferte in punto di morte.



[1]) Domenico De Gregorio: Biblioteca Lucchesiana Agrigento, Palermo 1993, pag. 209
[2] ) Archivio Segreto Vaticano. Relationes ad limina - Agrigentum - 18/A f.18
[3]) Cro-Magnon  (Francia), località del Périgord, nel dipartimento della Dordogne. Uomo di Cro-Magnon. Razza di Homo sapiens sapiens, cui appartengono i resti scheletrici rinvenuti nella località omonima e risalenti al Paleolitico superiore.
[4]) Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag. 305-306, dal Kitab 'al Falah, Libro dell'Agricoltura di Ibn 'al Awwam
[5]Solo lo studio e l’analisi del diploma del 1400 dell’Archivio di Stato di Palermo, relativo ai Del Carretto consente di far una qualche luce sulle vicende del feudo racalmutese nel XIII secolo. Cfr. ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni 1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181.)

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