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Introduzione
Forse risponde al vero che un tale Antonino del
Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza
Chiaramonte e farsi sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo
l’altisonante titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio
del turbolento secolo XIV. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia
primogenita del rampante cadetto Federico II Chiaramonte, era bella, anzi
bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci
ha propinato nel suo Cartagine Siciliana. Forse davvero il
matrimonio fu fecondato dalla nascita di un ennesimo Antonino del Carretto.
Forse è attendibile che - non tanto la baronia di Racalmuto, di sicuro
inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di terra alla Menta, a
Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni “burgensatici” da Federico II
Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e mezzo ligure. Il solito Inveges
lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri
ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei del
Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura -
la cui datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che il prof. Giuseppe
Nalbone, solo negli anni ’novanta di questo secolo, ha avuto il destro di
riesumare dai polverosi archivi di Stato di Palermo.
Scopo, intento, occorrenza ed altro sono
talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare
titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico
travalicare i limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze
altisonanti da parte di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto, rapace
esattore delle imposte dei Martino, i noti avventurieri dell’ “avara povertà di
Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIV secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi
matrimoniali esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la
nostra storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana
ai vari storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i
nostri compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il
costrutto fantasioso.
Giuseppe Nalbone ha speso tempo e denaro per
raccogliere presso gli archivi di Palermo la documentazione veridica sui del
Carretto. Quella documentazione più vetusta ed originale - la documentazione
dei processi d’investitura - viene qui riprodotta, sia pure nell’interno
dell’accluso cd-rom. Carta canta e villan dorme: non si può fantasticare quando
ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese
con vergini violate prima di passare a giuste nozze per un inesistente ius
primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxoricidi a comando di
principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri
giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento; addio terraggi e terraggioli vessatori;
addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio
storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità
inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente
normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli
variamente policromi a testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio
consueto per l’epoca dei baroni del Carretto che verso la fine del Cinquecento
dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) hanno
voglia di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare
conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di aver riconosciuto titolo di
marchesato che infondatamente in esordio avevano contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in
qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra
Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione
che andiamo a pubblicare spazza via ogni briciola di credibilità di una tale
ingenua favoletta.
E quel che si scrive su data e struttura
del Castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole
ogni sicumera sulla storia del Castelluccio.
Già, carta canta e villan dorme!
Parte Prima
UN EXCURSUS DELLA STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE
DEL TITOLO DI CONTE DA PARTE DEI DEL CARRETTO
Dai barlumi dell’archeologia locale affiora,
flebile ma con contorni alquanto netti, l’insediamento sicano di quattromila
anni fa lungo l’intero arco collinare sud est e sud ovest racalmutese.
Verso il 13° secolo a.C., quella civiltà sembra
eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto a paura per i naviganti micenei, verso le
più protettive montagne di Milena, Bompensiere e Montedoro. Arrivano quindi i
greci, ma Racalmuto è ancora deserta ed impervia per attirare i coloni
agragantini. Solo verso il VII secolo la moneta con il granchio di Agragas
sembra far capolino nelle fertili plaghe del nostro altipiano. Poi, si diventa
meri subalterni della potente polis, così come per tutta l’epoca romana. Tra il
II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le risorse solfifere vengono
apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le tegulae o tabulae
sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di scoprire per primo
verso la fine del secolo XIX.
Allo spirare dell’Impero romano, la feracità
del suolo racalmutese sembra avere attirato sia pure fugacemente le brame
espoliatrici di Genserico e dei suoi Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire insediamenti
significativi in località Grotticelle e dintorni. Monete di Tiberio II e di
Heracleone saranno poi rinvenute, nel 1940, in contrada Montagna, ma per caso
ed in luogo che all’epoca era forse disabitato: un nascondiglio, dunque, sicuro
e lontano da occhi indiscreti.
Giungono gli Arabi: sono guerrieri, disdegnosi
di sede fissa, violenti e ladroni. A Racalmuto trovano ben poco e subito si
dileguano. Subentrano i Berberi, contadini e pacifici: ebbero forse a convivere
con i mansueti bizantini del luogo.
I Normanni del Conte Ruggero, 600 cavalleggeri
- pare, depredarono il territorio dell’altipiano ove sembra sorgesse un
imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nel XII secolo, il
gaito saraceno Chamuth, signore della vicino Naro, con molta probabilità aveva
il dominio del nostro Altipiano e forse vi eresse un fortilizio, un Rahal:
da qui il toponimo Rahal Chamuth, a seguire l’acuta congettura del
Garufi. I Saraceni furono, specie sotto Federico II, ribelli e violenti:
imprigionarono persino il vescovo agrigentino Ursone. Federico II non fu tenero
verso di loro, deportò a Lucera i caporioni; gli altri - i più pavidi ed i meno
appariscenti - si dispersero assumendo nomi latineggianti o fingendo antica
professione di fede cattolica. Per uno o due decenni Racalmuto rimase comunque
deserta. Un tale della famiglia Musca - forse Federico Musca - poté
appropriarsi del territorio, portarvi fuggiaschi, verosimilmente ex saraceni,
dotarli di terra e mezzi di lavoro e far sorgere un nuovo casale. Il suddetto
Federico Musca finì però con l’osteggiare il vincitore Carlo d’Angiò e costui
lo spogliò di quel casale assegnandolo nel 1271 a tal Pietro Negrello di
Belmonte: un diploma degli archivi angioini ne specificava - prima di esser
distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità e dettagli. Finiva, per
altro verso, quella che possiamo considerare la preistoria racalmutese: un
periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per circa 33 secoli. Quel che per
tal periodo si è scritto - ed è tanto ed anche dalla penna più illustre del
luogo - è solo cervellotica congettura. Possiamo solo credere a quei radi
reperti archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel poco, spesso nulla, che
riescono a svelarci di tanto defluire umano degli antichi racalmutesi.
Con i Vespri Siciliani, il casale di Racalmuto
acquisisce importanza e ruolo perché può fornire tasse e balzelli alla famelica
pirateria di un Pietro d’Aragona. Il centro abitato non contava più di 75
fuochi (circa 265 abitanti). Nel 1376 i fuochi erano aumentati a 136 (circa 480
abitanti). Frattanto, Racalmuto - a dire del Fazello - era stato requisito da
Federico di Chiaramonte che pare vi abbia costruito le torri del castello nella
prima decade del 1300. Si sa che Costanza Chiaramonte, unica figlia di
Federico, fu l’erede universale. Che abbia sposato prima il girovago ligure
Antonio del Carretto e poi, divenuta vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria -
forse quello dannato all’inferno da Dante - si dice e qualche documento degli
archivi di Stato palermitani sembra confermarlo. Resta comunque certo che sino
al 1396 Racalmuto è dominio dei Chiaramonte, in particolare del celebre figlio
illegittimo Manfredi Chiaramonte - lo attestano le carte dell’Archivio Segreto
Vaticano.
Tocca a Matteo del Carretto rimpossessarsi del
feudo, farne una baronia e farsene riconoscere titolare dal re Martino,
naturalmente previo esborso di sonanti once. Il figlio Giovanni primo del
Carretto è ancor più rapace del padre.
Nel 1404, Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi
(540 abitanti). Un secolo dopo nel 1505, al tempo della “venuta” della Madonna
del Monte, la sua popolazione sale a 473 fuochi (1670 abitanti). Ora domina il
barone di Racalmuto Ercole del Carretto. Il figlio Giovanni II esordisce con un
delitto: commissiona a tal Giacchetto di Naro la strage dei Barresi di
Castronovo per vendicare l’uccisione del fratello Paolo, antenato di Vincenzo
di Giovanni che nei primi decenni del 1600 scriverà una complessa trattazione
su Palermo Restaurato, ove rammenterà quei truci e letali eventi.
Dopo, rimorsi e crisi religiose spingeranno quel del Carretto a costruire
chiese e conventi ed a chiamare a Racalmuto carmelitani e francescani per una
redenzione spirituale sua e del suo popolo. Certo, mero e misto impero,
terraggio e terraggiolo ed una pletora d’imposte e tasse feudali fioccarono sui
racalmutesi. Un notaio venne chiamato da Agrigento per i tanti atti del barone
(e dei suoi vassalli): era quel tale Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni
II del Carretto finì sotto l’Inquisizione.
A metà del secolo, nel 1548, la popolazione
sale a n.° 896 fuochi (3163 abitanti), segno che la politica del barone non era
poi così devastante come sembra voler far credere Leonardo Sciascia.
Quello che non fa il barone, lo fa invece la
peste del 1576: la popolazione racalmutese viene decimata. Se crediamo ad un
documento del fondo Palagonia, dai 5279 abitanti del 1570 si sarebbe passati ad
appena n.° 2400 abitanti nel 1577. Ciò non è credibile e si deve alla voglia
tutta fiscale di impietosire il viceré per una contrazione delle “tande” in
mora e di quelle in atto. Di sfuggita, va detto che la tentata evasione fiscale
del 1577 non ebbe effetto. Le “tande” si basavano sulla tassa del macinato: la
drastica contrazione della popolazione non consentiva un gettito bastevole a
fronteggiare la soffocante tassazione del governo spagnolo. Questo non ebbe
pietà e la Universitas fu costretta ad indebitarsi con gli
stessi esattori, al contempo strozzini.
Sia come sia, nel 1593 Racalmuto sembra
risorta: gli abitanti ora sono in numero di 4448: ovviamente molti fuggiaschi
erano rientrati e, soprattutto, si doveva trovare conveniente emigrare dai
centri viciniori per sistemarsi nella neo-contea di Racalmuto, le cui
condizioni sociali, economiche e giuridiche in definitiva tornavano appetibili.
La questione
feudale racalmutese
Si attaglia perfettamente a Racalmuto quanto
ebbe a teorizzare Francesco De Stefano nel 1948, [1]
specie allorché afferma: «.. nemmeno, ci fu in origine, un baronaggio esigente
ed esorbitante, perché né Ruggero I, né Ruggero II lasciarono impiantare la
grande feudalità.» Se è vero che in Sicilia vi fu un processo inverso rispetto
all’organizzazione feudale anglosassone, e se questo processo inizia con un
baronaggio “tarpato”, baronaggio che solo dopo il 1154 poté sfrenarsi,
altrettanto deve congetturarsi per il nostro paese. Ed a ben vedere, bisogna
aspettare la metà del Cinquecento per vedere Racalmuto quale centro totalmente
feudale, con un barone prima, e un conte dopo, veri domini, forti
ormai del mero e misto impero (invero ambiguamente comprato a suon di once
attorno al 1550).
Quando nel 1282, Racalmuto è una “universitas”,
è proprio come asserisce il De Stefano[2]:
faceva parte delle “universitates” cioè a dire di quegli organismi
riconosciuti come tali nel diploma del 1268, per cui «ai giustizieri era
ordinato che “magistri iurati” e “judices in singulas partes regni creari
debeant” e che le universitates delle terre demaniali judices,
e le feudali ed ecclesiastiche iuratos “in magistros juratos
de communi voto omnium eligant.”» Alla luce di tale insegnamento, dai diplomi
dei Vespri possiamo desumere questa veste giuridica del casale di Racalmuto:
esso era demaniale, non aveva baroni ed eleggeva i suoi giudici (judices)
con voto unanime dei suoi abitanti. Eccone una fonte: ci riferiamo al passo del
26 gennaio 1283 ind. XI, sopra illustrato, in cui «scriptum est Bajulo Judicibus et
universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus
quatuor». Se il paese ha giudici e non giurati, vuol dire dunque che non è
ancora feudale, oppure, per la latitanza di quel Negrello di Belmonte
napoletano, il casale da baronia è stato derubricato in terra demaniale.
La dizione del documento è anche tale da
suggerirci l’ipotesi che il “castrum” (il castello) non fosse ancora sorto. E
ciò porta acqua alla tesi del Fazello che vuole le due torri feudali edificate
da Federico Chiaramonte poco prima del 1311.
Come e perché Federico Chiaramonte si fosse
impossessato di Racalmuto e che cosa l’abbia spinto a costruire quelle due
inutili torre cilindriche è sinora un mistero. L’Inveges, lo storico secentesco
che ci tramanda testamenti e cenni al riguardo, è relativamente attendibile,
avendo più interesse ad accattivarsi il favore dei potenti del tempo che voglia
di rispettare la verità storica. Ebbe o non ebbe gli originali di quegli atti
notarili che dichiara di possedere? O non si trattò di una falsificazione,
visto che nessuno è riuscito dopo a rintracciare quelle fonti?
Federico Chiaramonte va comunque considerato il
primo feudatario di Racalmuto, almeno dopo il trambusto avvenuto a cavallo dei
Vespri. Da espungere dalla verità storica le varie apocrife baronie dei
Malconvenant, degli Abrignano, dei Barresi ed ancor di più di Brancaleone Doria
che lo pseudo Muscia fa nostro barone addirittura prima di essere nato e cioè
nel 1296.
Il primo riconoscimento ufficiale della baronia
di Racalmuto è del 1396 e riguarda un diploma dei Martino a favore di Matteo
del Carretto. Al di là delle incertezze delle fonti diplomatiche del XIV secolo
- che si avranno modo di scandagliare - il nostro paese è incontrovertibilmente
terra feudale baronale solo a partire da tale data: prima sono solo fantasie e
sprovvedutezze di autori e scrittori locali, ivi compresi il sommo narratore di
Regalpetra e gli avveduti ecclesiastici dediti alla storia paesana.
GENESI ED
AFFERMAZIONE DELLA BARONIA DEI DEL CARRETTO A RACALMUTO
Dalle brume degli esordi racalmutesi della
schiatta dei Del Carretto affiora qualche piccola scisti veritiera: chi fosse
davvero quell’Antonio I Del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per
sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non
sappiamo. Possiamo escludere ogni effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto.
Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del Carretto sia stato davvero investito
della baronia o se, alla morte di Matteo Doria, il titolo sia pervenuto ai
carretteschi. E ad investigare sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci
perderemmo in congetture di nessuna fondatezza storica. Il padre Caruselli,
Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana, questo l’hanno già fatto e chi
prova diletto nelle fantasiose enfiature araldiche può farvi ricorso.
E’ fragile l’ipotesi secondo la quale esistette
un Antonio I Del Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte – e neppure è
indubitabile che la coppia abbia avuto un figlio, Antonio II Del Carretto. Vi è
una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo Del Carretto, che,
tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono allo
spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli
eventi.
Su quelle carte torneremo in seguito per le
nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla
circostanza di un Antonio II Del Carretto trasmigrato a Genova (e non a
Savona) e lì vi ha fatto fortuna in compagnie di navigazioni. Strano che costui
non ritenga di rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e Savona e non
dare fastidio - neppure con la sua presenza fisica - agli altri coeredi della
sua stessa famiglia che continua nell’egemonia di quei luoghi liguri senza
neppure un coinvolgimento formale di codesto figlio di un sedicente legittimo
titolare.
Quasi certo che i Del Carretto provengano dal
marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra
che si siano divisi quel marchesato in tre parti; a Corrado andò Millesimo, ad
Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato
stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota,
al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è
presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel
1263. [3]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce
questi ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto
del padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel
1292 stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico,
che sposa Catterina dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di
Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto
avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di
Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli
prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da
Venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali costei appare tutrice nel
1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote
Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben
tre Antonio del Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo
indicato come Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza
Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II,
cui si accredita la prima baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto,
questi nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano
di padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dalla madre
Racalmuto nel 1344 per atto del Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30
d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie dell’Inveges.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e
Matteo del Carretto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato ad un certo
punto a Genova, come detto. Là si sarebbe arricchito con partecipazioni in
compagnie navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370).
La svolta del
1374
Si accredita autorevolmente la tesi di un
Manfredi Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate
combinazioni, si [venne] a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» [4] Non
sembra potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi
Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo;
dal cugino Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di
Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari,
Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo,
Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in
documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il
nostro paese appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se
non fu con certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia nel
senso allora corrente di gravissima epidemia». [5] Già
vi era stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola.
Racalmuto ne fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni
si ebbero per un ritorno dei focolai epidemici, una ventina d’anni dopo. Operava
frattanto la scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e bigotte
seminavano il panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in quel tempo
erano emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era facile
additare una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era
propenso a credervi.
I nostri storici locali raccolgono gli echi di
quei tragici eventi ed imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla
di tutto questo è però provabile. Un fatto eclatante viene inventato di sana
pianta: un massiccio trasferimento da Casalvecchio all’attuale sito della
residua, falcidiata popolazione.
I traumi che la Sicilia ebbe a soffrire tra il
1361 ed il 1375 ebbero indubbiamente a coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non
è possibile documentare su basi certe. Gli scontri tra le parzialità - solo
vagamente definibili latine e catalane - continuano a scoppiare nel 1360.
L’anno successivo giunge in Sicilia Costanza d’Aragona per sposare Federico I,
il quale, sfuggendo a Francesco Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può
solo nell’aprile convolare a nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con
9 galee attacca nel maggio la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva
scortato Costanza e ne cattura una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV
si dà da fare per rappacificare e rappacificarsi con i potentati del momento:
nell’ottobre ratifica la pace di Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci
da una parte e Francesco Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di
nutrite fazioni) dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una
recrudescenza della peste. Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si
riesce a recuperare il piano di Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si
può parlare di pace con gli Angioini di Napoli.
Quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli
ebbero per certe le condizioni di pace, divenne più agevole definire il
concordato con il papato che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile
interdetto.
E qui la minuscola vicenda racalmutese si
aggancia ai grandi eventi della storia medievale di quel torno di tempo.
Affiora, ad esempio, un nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto
nel 1374. Gregorio XII era in effetti Pietro Roger de Beaufort nato a
Limoges nel 1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì
a Roma la residenza pontificia ponendo fine alla cosiddetta "cattività
avignonese".
E così da Avignone il papa dovette tornarsene a
Roma. E’ questo un momento culminante di una gravissima crisi. Ed in questa
congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In cambio di
un obolo supplementare si può procedere alla revoca di un interdetto, frutto di
potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.
La meridiana della storia passa allora anche
per il modesto, gramo paesotto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola,
nell’isola - scrivemmo una volta in pieno disaccordo con Sciascia.
Le decime del
1375
Nel contesto della politica fiscale di papa
Gregorio XI un personaggio acquisisce contorni di rilievo e diviene memorabile
nell’ambito nostro, cioè della microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand
du Mazel. Il suo destino si lega a quello della Sicilia ed investe
Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29 marzo del 1375. La sua carriera in Sicilia
si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375. Svolge diligentemente i suoi
compiti e fra l’altro redige come collettore apostolico carte e registri
contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano, sono giunti sino a noi.
Vi troviamo Racalmuto.
La visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du
Mazel si colloca nel quadro di grandi eventi storici. In particolare occorre
tener presente che all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re
Federico IV di Sicilia e la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace
sotto l’egida del papato. Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria,
Federico IV accettava la signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli
si impegnava a pagare un censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmettere
alla Santa Sede questo canone. I siciliani dovevano giurare la pace e prestare
giuramento di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e privilegi
che godeva prima dei Vespri del 1282. Il papa prometteva di levare l’interdetto
che gravava sull’isola da lunghi anni.
In Sicilia la riscossione di tale sussidio fu
decisa prima della ratifica della pace, nel dicembre del 1372; la promessa di
abolire l’interdetto è uno strumento di pressione fiscale. Vengono chiamati
anche i laici a contribuire. Si decidono modalità di esazione contemplanti
censure ecclesiastiche per gli evasori o per i riottosi. Le bolle del dicembre
del 1372, chiedendo un aiuto per la lotta contro i nemici della Chiesa in
Italia, imponevano che questo venisse dato “prima dell’abolizione
dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo. In virtù di una clausola
apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano esigere da chi si voleva
liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento di rispettare la pace e
d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato, ma anche un aiuto
pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario si trasformava in
imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a parlare della tassa
riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di Racalmuto, ove invero
si parla ancora più esplicitamente di “subsidio auctoritate apostolica
imposito” .
E ci siamo dilungati proprio perché in definitiva ciò ci illumina sulla storia
“narrabile” del nostro paese.
«Il sussidio fu ripartito in ciascun abitato
per case, in rapporto alla condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie
povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate (“qualsiasi fuoco di ricchi
abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna località metà delle
famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra le benestanti: se le
condizioni economiche fossero state omogenee, sarebbe stata distribuzione equa.
Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che sono nell’isola infiniti” e
le “miserabili persone” che non era prefigurato quali fossero.» [6]
Intensa è la fase preparatoria del sussidio. Il
papa scrive a destra e a manca per spingere i notabili siciliani ad accedere
alle nuove istanze impositive della Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372,
giurati ed università a recarsi presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re
- perché lo convincano a fare pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di
Napoli. Gli inviti sono mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e
Sciacca (reg. Vat. 268, f. 295-297).
Il 9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte,
nella sua qualità anche di ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di
percepire nelle sue terre il denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di
consegnare il frutto della loro raccolta al collettore apostolico che subito
toglierà l’interdetto. Il precedente 18 novembre 1374, Manfredi è a Mussomeli
nel suo castello che ora si denomina dal suo nome “Manfreda”: là si redige un
processo verbale che attesta che egli, ammiraglio del regno di Trinacria,
presentandosi davanti al re Federico III gli ha prestato fedeltà e devoto
omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi natali, si era dunque
quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che accompagnava il re,
Manfredi ha solennemente promesso sul Vangelo di osservare il trattato di pace,
come è stato steso nelle lettere reali sigillate con una bolla d’oro.
Egli ha promesso di fare versare il
sussidio dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle sue terre di Spaccaforno,
Scicli, Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia, Montechiaro,
Favara, Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina, Castronovo,
Mussomeli, Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo, Misilmeri, Cefalà,
Palazzo Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di Capobianco,
Pietra Rossa e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire delle
proprietà dei Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande. Le
proprietà di Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro estensione.
Esse sono distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse comprendono buona
parte dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa, Modica, Spaccaforno,
Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di Agrigento e di
Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto, Montechiaro, Camastra, Naro,
Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro: Mussomeli, S. Stefano,
Castronovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le proprietà della regione
di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [7]
Dalla lettera circolare che Manfredi
Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375 riusciamo a cogliere alcuni
tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa ogni effettiva ingerenza dei
Del Carretto, il casale è evidentemente assoggettato al Chiaramonte,
nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e ammiraglio del regno di
Trinacria. L’Universitas ha un suo governo locale che fa capo ad un
capitano, ad un baiulo, a dei giudici, a degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione
che costituisce un soggetto giuridico (universi homines). Rientra tra
le terrae nostrae, cioè di Manfredi. Se dovessimo credere agli
araldisti (ed agli storici locali), Racalmuto sarebbe dovuta essere terra di
Antonio II del Carretto, ma così non è.
Le singole università devono nominare tre
probiviri (tri boni homini) i quali devono assolvere il poco gradito
compito di spillare denari a tutti gli abitanti (nelle diverse misure che prima
abbiamo detto). Non sappiamo chi siano stati i prescelti di Racalmuto: ma
sappiamo che vi furono e svolsero a puntino la ficcante tassazione.
L’elenco delle università ha una sua logica:
Racalmuto si trova in mezzo ad un itinerario che, partendo da Gela (Terranova)
punta su Naro, da qui a Delia e da lì si torna a Favara (ammesso che si tratti
dell’attuale Favara e non di un centro nel nisseno); da Favara a Palma di
Montechiaro, quindi a Licata per convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a
Guastanella (una rocca sul monte omonimo a poco più di 2 km. a Nord di Raffadali),
per toccare S. Angelo Muxaro. Da qui per una località vicina: Gibillini (Glubellini)
che non può essere Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto
livello) ma che potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo
chiamato Gibillini. Se è così, la storia del paese si arricchisce di un altro
importante tassello. Da Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa
a Camastra. Ma subito dopo tocca a Castronovo e quindi a Bivona, Santo Stefano,
Prizzi, Palazzo Adriano. E’ quindi la volta di Caccamo e di altri centri, ma a
questo punto il nostro interesse per la dislocazione trecentesca dei paesi
scema del tutto.
Fin qui si è trattato di maneggi burocratici:
ora è il tempo delle tasse vere. L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino
a partire dai primi di marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6
marzo); il 18 dello stesso mese può togliere l’interdetto a Bivona; il 19
a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico; il 21 a S. Angelo Muxaro; il 29 a
Guastanella.
Lo stesso giorno è la volta di Racalmuto.
Dal nostro paese si passa a Castronovo (8 aprile 1375). La raccolta del
sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno con la rimozione
dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo: altra regione, lontana
da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamente Racalmuto.
Disponiamo di un paio di annotazioni che
riguardano il nostro paese e che naturalmente svelano tratti storici
diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto Vaticano ci degna
della sua attenzione al foglio 249 con questa nota:
«Item eadem die fuit amotum interdictum in
casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus coperte palearum CXXXVI
que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.» Traducendo: «Del
pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto nel casale di
Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136 case coperte
di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende ad onze 7 e
27 tarì.» Ad essere precisi la tassa avrebbe dovuto essere di onze 7 e tarì 27
(anziché 27) dato che così andava ripartita:
quota
individuale
|
totale in tarì
|
pari ad onze
|
e tarì
|
||
numero fuochi
|
136
|
238
|
onze 7
|
tarì
28
|
|
ceto medio (1/4)
|
34
|
2 tarì
|
68
|
||
benestanti (1/4)
|
34
|
3 tarì
|
102
|
||
poveri (1/2)
|
68
|
1 tarì
|
68
|
Con i suoi 136 fuochi Racalmuto aveva
dunque una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4 componenti per ogni
nucleo familiari): ma bisogna considerare i non abbienti (i miserabili), i
preti (tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e quelli che
dispersi per le campagne non era possibile includere nel censimento, un venti
per cento. Nel 1375 Racalmuto contava dunque circa 650 abitanti.
Come si è visto le case erano di paglia: segno
di grande indigenza. Eppure i racalmutesi o per solerzia degli scherani
pontifici o per vero timore di Dio (e della peste) furono solerti e puntuali
nel dare il sussidio caritativo al papa. Non così in altre zone della Sicilia,
come ebbe a lamentarsi quello straniero di Francia, Bertrando du Mazel.
Le carte del du Mazel non vanno minimamente
confuse con i rilievi censuari. Abbiamo solo numeri simboli da cui possiamo
dedurre qualche ipotesi di lavoro di carattere demografico. Non è dato asserire
che nel 1375 a Racalmuto vi erano davvero 136 case con tetto a paglia; che 34
di queste (1/4) erano abitate da benestanti in grado di corrispondere la tassa
pontificia in misura massima (3 tarì a fuoco); che altre 34 appartenevano a
ceti medi (tassati per 2 tarì a famiglia); la metà (n.° 68) ospitava famiglie
di dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1
tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per
stima aprioristica. Certamente in misura più limitata dovette essere la densità
delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più
vasta quella della classe che oggi chiameremmo operaia. E poi i tanti religiosi
(tassati a parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i “miserabili”
(nullatenenti e non imponibili per legge o per dato di fatto), gli
irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessibili o nei
contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in
stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva.
Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel
1375, che il centro (snodantesi nelle scoscesi avvallamenti sotto le grotte
dell’odierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti, che tutto
considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e
poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”). Una
popolazione già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste
trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento
spagnolo del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.
La fine del
Trecento
L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia
in un groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici
dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del
periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di
Sicilia hanno ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa
la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di
tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.
Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico
IV, quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di
Racalmuto. Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto
nobile.
Il regno passa alla figlia Maria - troppo
giovane e troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro
forma visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del
potere regio come Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re.
L’Alagona non si reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a
Caltanissetta, degli altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco
II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.
La vita riprendeva apparentemente normale, ma
trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei
poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno
isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo
era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei
Del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni
logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stessero ancora a Genova a
curare i nuovi loro affari in seno a compagnie marittime.
Racalmuto scade però in una vera e propria
terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e
la vita sociale.» [8] Solo
che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo
personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a
strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania,
la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina
viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro
IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che
quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.
Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI
(1378-1389), attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di
Catania, sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della
corte aragonese.
Ribolliva l’intrigo della corte spagnola con il
dissidio fra re Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la
regina Maria per amore di Violante di Bar. Il re Pietro finiva allora col
pensare all’Infante Martino per dar corpo alle pretese sulla Sicilia: un
matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante Martino con la regina Maria
avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se
formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava
al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono
quindi i preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i
nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza
ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per
le nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato
il capo della “parzialità” catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava
di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi
Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.
Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva
Giovanni con il quale si iniziava un periodo di scabrosi sommovimenti in seno
al regno: tra l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e
di conseguenza scoccava la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Roma e del
papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del
fratello asceso al trono.
Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna,
il vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per il
trasferimento della regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione
egemone di Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le
difficoltà d’Aragona, non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva
comunque necessaria all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le
forze della Corona aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto.
Nel 1390, ad ogni modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il
giovane Martino e Maria, evento nodale della storia di Sicilia.
Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a
morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e
gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia,
punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un
movimento isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende
della Chiesa romana si riflettono dunque anche sulla periferica terra di
Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di
Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi
di Palermo e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.» [9]
Nel frattempo Martino raccolse un esercito
promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti.
Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto
martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno
“Catalano”, in evidente collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai
nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore.
Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era
appunto “Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era
apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati,
abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada
intestata al celebre medico racalmutese.
Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in
Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari
passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel
tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe
detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a
Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella possibilità di
resistere ai Martino. Asserragliatosi a Palermo, resistette per un mese agli
attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di guerriglia con
distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni, furti e
ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato.
Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta
finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei Chiaramonte e
subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di Racalmuto e
dà inizio al lungo periodo della sua baronia vera e storicamente
documentata.
Si dissolveva così il quadro politico che si
era riusciti a stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno
di Castronovo in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione
al giovane Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito.
Allora i vicari, fautore il Chiaramonte, erano ancora uniti. Ma non passò
neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti iniziare intese
occulte con il duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano
forzare progetti e profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali
patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta
[stracolma di suasive profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona
che avevano mandato un’ambasceria.» [10]
Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare nella diplomatistica dei Del Carretto
come colui che riesce a riaccreditare presso i Martino il neo barone di
Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era lasciato coinvolgere dai soccombenti
nemici degli invasori, per “necessità” finge di credere la nuova triade regale
di Palermo.
*
* *
Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea
II Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il
duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano
dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.
Gli eventi precipitano: il 22 marzo 1392
approdava la spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a
nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara
per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed
altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e
dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la
popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto
liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea
II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a
Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo
ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il
giovane. Il duca si irritava a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3
aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il
Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed
ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a
Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte si asserragliava a Palermo. Il 17
maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo
Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico
Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte),
chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il
vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea
Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando venne decapitato
nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il
Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed avrebbe incolpato,
per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle passate vicende. Il
1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di
essere un feudo chiaramontano.
I Martino e la regina Maria riescono a divenire
gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di
anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non
impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche
tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può
armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità
siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una
riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove
per far valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a
pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole
del trattato del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae.
Approfittando di uno scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e
ribadì il proprio diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la
potestà di nominare vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397
e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di
Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino
testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò
una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgici e perché
applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.
Martino I rimase fortemente sotto l’influenza
di suo padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio
continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fin nei più minuti
aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne
danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith
«Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in
qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese
siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» [11] Martino
il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finì in successione
insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di Aragona
e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente
riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare
che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di
minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o
di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese.
Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata
direttamente dalla Spagna.» [12]
I DEL CARRETTO
BARONI DI RACALMUTO
Quando il 22 marzo 1392 la
spedizione spagnola approdò a Favignana, dalla lontana Genova i Del Carretto si
decisero a veleggiare verso la Sicilia per riprendersi le terre racalmutesi cui
pensavano di avere diritto per successione diretta e per lascito di Matteo
Doria. Racalmuto si presentava tripartita: a sud-est il Castelluccio, munito
già della sua fortezza, e dintorni era feudo denominato Gibillini e di
pertinenza dei signori di Favara; a nord il castello chiaramontano era coronato
da case coperte di paglia e con il suo toponimo arabo costituiva la terra
abitata di un feudo ampio che meglio definiremo dopo; ed a
sud-ovest le ampie pianure della Menta della Noce del Rovetto erano
considerate terre burgensatiche, di personale proprietà del feudatario.
Le terre dello stato di Racalmuto, soggette a
vincolo feudale, non si estendevano dunque per tutto il territorio extraurbano:
un qualche rilievo di autonomia mostrava la contrada della Menta (sempre dei
del Carretto) che talora è stata denominata ‘feudo’. Sono dei del Carretto i
fertili fondi di Garamoli, ma appaiono come terre allodiali.
Lo stato di Racalmuto parte dalla contrada
di Cannatuni (come ai giorni nostri) e da quel versante
nord va verso ponente: coinvolge Santa Margaritella e Santa
Maria di Gesù, arriva alle porte di Grotte (Rina o Scavo
Morto); si diffonde nella fertile piana di Fico Amara o Fontanella
della Fico; sale sulla Montagna; gira per Rocca Russa e
per Bovo; include una parte del Serrone (un altro
versante è detto appartenere al feudo di Gibbillini); scende
per Judio, Malati, Casalvecchio e Saracino,
annettendo le contrade di San Giuliano, Baruna[13] e Difisa;
e chiude quindi l’irregolare circonferenza inerpicandosi per le contrade
della Pernice fino a Quattro Finaiti.
Menta, Noce, Garamoli Roveto e Zaccanello sono pertinenze
del feudo dei Del Carretto, ma hanno una loro distinta configurazione.
Negli atti notarili non sempre è chiara la
peculiarità feudale di queste terre dei del Carretto che talora vengono segnate
come un distinto ‘feudo’ (fego della Menta o della Nuci), talaltra no, e
comunque restano talora attratte nell’intreccio delle doti di ‘paragio’ dei
cadetti e delle figlie di quella famiglia.
L’importanza dei possedimenti di Garamoli si
coglie da una pagina della ‘Fabrica’ [14] della
Matrice del 1658. La fiumara di Garamoli doveva essere contornata da un
bosco fitto con alberi ad alto fusto. Da lì si ricavava il legname per
costruzione, fonte di grossi affari. La famiglia Napoli, quella degli Alcello e
l’altra dei Gueli fornivano maestranze specializzate, ben pagate per l’epoca.
Per coprire il tetto della Matrice occorrevano
“burduna” di enormi proporzioni. Si trovavano nel mezzo della fiumara di
Garamoli. Per trarli fuori provvide la maestranza ma soprattutto un
nugolo di nerboruti facchini che furono pagati in modo inconsueto: con salsicce
e vino. La pagina della “fabrica” del dicembre 1658 appare degna di essere
riportata qui diffusamente:
«.. al d. di Napoli con dui figli et
m.° Alcello tarì 11; ...
1.
alli d. di Napoli,
Alcello et dui altri mastri tt. 12.10;
2.
alli d. di Gueli et Napoli et
un giovane per pulire travetta et intravettare tt. 12;
3.
alli d. di Gueli et Napoli et
suo figlio per havere andato in Garamoli per sbarrare li travetti et li burduna
n.° tre che mancano al complimento della nave tt. 11.10;
4.
per havere fatto portare dui
carichi di travetti di Garamoli tt. 5;
5.
alli d. di Gueli et Napoli
con dui figli tt. 14. per havere comprato deci lignami da Vincenzo Pitrozzella
per mancanza di forbici onze 3.10;
6.
più per havere fatto venire
dui burduna da Garamoli tt. 20;
7.
e più per pani
salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna dentro la
fiumana e ni portaro uno tt. 15.8.»
Piena autonomia ha sempre invece il feudo di
Gibbillini. Feudi dei dintorni di Racalmuto sono - stando a certi atti notarili
- quelli Di Grotte, del Chiuppo, di Scintilia e del Nadore.
*
* *
Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una
pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori
del Duca di Montblanc. [15]
Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto,
Marchese di Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, nella
nota guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli
archivi aragonesi, di certo, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state
le cronache cinquecentesche, specie quelle del Fazello. Se attendibili, queste
note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si
faceva passare per marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia
di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, sarebbe stato
Gerardo a darsi da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei
Martino. Sarebbe sempre Gerardo a mettersi a guerreggiare in difesa dei
catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si
possa concedere è questione ardua, non risolvibile allo stato delle attuali
conoscenze.
Una documentazione probante della titolarità su
Racalmuto i del Carretto sono costretti, comunque, a darla alla fine del
secolo, quando la cancelleria dei Martino diviene intransigente e vuole prove
certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma
Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu
presentato alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per
l’investitura della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni
tra i due fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze
genovesi al primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e
burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto
Matteo Del Carretto? Interrogativi cui non siamo in grado di dare risposte
certe.
I DEL
CARRETTO VERSO LA SIGNORIA DI RACALMUTO
Il quattordicesimo secolo vede i del Carretto
impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, sulla Terra di Racalmuto. Come
questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto,
facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non
dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del
secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in
parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di
una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di
Racalmuto in capo a quella famiglia proveniente da Genova. In un atto -
mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i titoli
per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo agli araldici ed agli
storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle sue
più antiche fonti, difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Quel
che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu
scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di
Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale
di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla
causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la
triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere
legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza
palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a
metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per
quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia
Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa
aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa
in forza della quale il legato del Pontefice anche in materia religiosa
in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare
canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio
di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce
bene la vicenda un documento: esso fu ben presente a Giovan Luca Barberi che
gli tornava acconcio per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di
Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il
Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di
Agrigento. Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de
Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive
attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa
dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia.
Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in
Racalmuto di una chiesetta del canonicato di dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti collegano quella chiesa ad un diploma del
1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il
beneficio può benissimo essere sorto a metà del XIV secolo per accordo tra la
curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi
Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed
a suggello del concordato col Papa.
LA
CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO
Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano
a Giovanni del Carretto, figlio di Matteo, di quell’avventuriero, cioè che si
era arrabattato alla fine del secolo precedente. Henri Bresc vorrebbe
questo Giovanni del Carretto come un disastrato, finito in mano degli Isfar di
Siculiana. A noi risulta il contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano
locale. Appare come creditore dei Martino, acquirente di quote di feudi in quel
di Mussomeli, ma lo storico francese è perentorio: «La baisse du prix de la
terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la
noblesse oblige à un endettement toujours plus grave
et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine
vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans
l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del
Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en
curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.»
Di questa espoliazione della baronia di
Racalmuto a favore di Gispert d’Isfar, non trovasi riscontro alcuno nell’altra
pubblicistica di nostra conoscenza. Il Barone (o Baronio) che scrive nel 1630 ([16]) sembra
escludere del tutto una sì infausta cessione. Ma quel non spregevole latinista,
addentro di sicuro alle segrete cose dei del Carretto, è smaccatamente
elogiativo per dargli eccessivo credito. Comunque, l’interruzione della baronia
dal 1422 al 1453 non viene neppure sospettata. Così è anche in una lunga
comparsa giudiziale della fine del seicento, presentata dall’ultimo Girolamo
del Carretto.
Gibert Isfar avrebbe sposato una figlia di
Giovanni I del Carretto nel 1418 ([17]); il
personaggio è arrogante, intraprendente, si dà all’usura, sa farsi nominare
mastro portolano. Il Bresc è prodigo di notizie sul suo conto. Tra l’altro,
compra per 10.000 fiorini la castellanìa e la “secrezia” di Sciacca (Bresc, op.
cit. pag. 857); opera a tassi usurari del 7% (ibidem pag. 859); è bene
insediato a Siculiana (ibidem pag. 887). Soprattutto riesce a farsi nominare
feudatario di tale centro dell’agrigentino nel 1430 per ripopolarlo (ibidem
pag. 895; ASO Canc. 65, f. 42).
Attorno alla metà del secolo, subentra nella
baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene
ratificata l’investitura stando agli atti del protonotaro del Regno in
Palermo. Un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui
però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate
adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474.
Il Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della
Madonna del Monte. Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto.
Ebbe costui il suo bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere
venuto proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della
potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul
concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero barone Ercole
Del Carretto. Gli contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto
è costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso
la corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe:
traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa.
In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di
religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della
Madonna fu certamente fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla
scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un altare, maestosa, della
chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva. Ai parrocchiani, questo
non può di sicuro venire predicato. Se ne scandalizzerebbero oltre misura. Ma
qui, in un orecchio, può venire sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi
ha orecchie da intendere, intenda.
PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO
Astrette in un paio di pagine
sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([18]) su tutta la storia racalmutese. Desolato il quadro: per lo
scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse
una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto
nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge,
nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile'
.... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e
vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un
eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile',
nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia,
venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di
Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte
accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a
trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre
tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle
rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle
araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi ci accingiamo
ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo
rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio
segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo
rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce
nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare
sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora
narrato dagli eruditi locali con topiche ed errori, spesso con “visionarietà
romantica”: correggerli alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore
dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed
abbagli: consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più
proficuo dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale
al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i
cattolici.
*
* *
Sui Del Carretto di Racalmuto
è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento;
ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte
dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli
amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si
sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici
dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a
vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche
piuttosto gravi:
1.
Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di
una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([19]) è
inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo
era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello
che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui
il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V,
la contea viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo III. Costui, finché
subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte
di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu
prossimo ai cinquant'anni, forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro
il clero di Racalmuto, denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo
barone Giovanni III Del Carretto ed intentando contro di lui, presso il
Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una scottante
scomunica.
Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo
III del Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai
creditori, facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre
e pertanto il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua
morte, con la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto.
Un Girolamo IV ([20]),
dunque, non è mai esistito.
2. Giovanni V Del Carretto non "contrasse
parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di
Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del Villabianca ([21]) - il
Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era
la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che
nel maggio del 1622 sarebbe stato perpetrato insieme "al
priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([22]).
3. Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo
responsabile della «vessatoria pressione fiscale» del terraggio e
del terraggiolo, «canoni e tasse enfiteutiche ... applicati con
pesantezza ed arbitrio» ed «in modo particolarmente crudele e brigantesco» ([23]) dal
conte in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo fu tassa
sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin dai tempi
degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo I,
dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti - quello
di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati
compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo
II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto
una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il terraggiolo con
una donazione una tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti
di Racalmuto. Gli effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per
racalmutesi. I fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un
reddito annuo del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero
o non dovessero il terraggiolo (e cioè due salme di frumento
per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello di Racalmuto).
Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo maggior peso il
sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime sancito nel 1580.
L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento degli agostiniani
'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo
Comite, scrive il Pirro. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a
mutare la doverosa gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi con la
stravagante tradizione riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a
limitare la sua opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a
Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice,
così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre
agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).
Val dunque la pena di tentare una veridica
storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di
vita 'appena descrivibile', si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.
*
* *
Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto,
nulla è reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del
XVI, il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna
stroncatura della legittimità del titolo baronale di Racalmuto in capo alla
rampante famiglia d'origine ligure.
Solo in una circostanza ha ragione da vendere
il Barberi e cioè quando contesta l'ammissibilità della prima investitura
baronale in favore di Matteo del Carretto dopo la cessione da parte del
fratello maggiore Gerardo, primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo, infine, non vi era nei primi anni
del '500 - né vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II
del Carretto né del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne
fa diligente annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi non possiamo discostarci da quello
che scrive, dopo il 1519, quel diligente burocrate sull'origine e sui primi
sviluppi dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo
che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie di una
terra feudale racalmutese in mano a Federico II Chiaramonte, cui succede
la figlia Costanza. Non è storicamente provato che da Costanza Chiaramonte,
sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia passato al
figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi al primogenito Gerardo
Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de communi' in quel di
Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore Matteo (l'altro
fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo per indugiare sui
nostri dubbi.
Prima che l'Inveges - un furbo religioso del
Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine
siciliana (Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai
ha poi avuto la ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui
Chiaramonte (e di striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([24]) aveva
così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo,
l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra con il suo castello di Racalmuto è
sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era un tempo posseduta dal
condam Antonio del Carretto.
Morto costui, doveva succedere nella stessa
terra Gerardo del Carretto, come figlio primogenito, che però
vendette definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su
tutti gli altri beni del cennato suo padre e soprattutto quei diritti
che aveva e poteva avere per ragione di successione e di eredità da
parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli
altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio del Carretto e donna
Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo suo fratello, e
particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del
Carretto, marchese di Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto,
marchese di Savona, acquista i predetti beni e diritti dal fratello
Gerardo, per il prezzo di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento
celebrato e pubblicato per il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo -
VIII^ Indizione - 1399. Il contratto fu accettato e confermato dal signor Re
Martino a vantaggio dello stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e
successori, in perpetuo, come risulta nel privilegio di tale conferma dato in
Catania il 13 aprile del detto anno, annotato nel libro del predetto anno 1399,
VIII^ indizione f. 38. Questo Matteo aveva avuto prima la conferma della detta
terra dal detto signore Re Martino con la seguente clausola «gli cediamo e
concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che
vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto,
ecc. ..», come risulta nel libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché
il cennato Matteo del Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così
devoluti al regio fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine,
nell'obbedienza, ottenne dal detto signor Re Martino la remissione e
l'indulgenza con la restituzione della detta terra e degli altri beni, con
revoca e annullamento di tutti i decreti, sentenze ed atti contro di lui
emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta remissione notato nel
libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.
E morto Matteo, gli successe nella detta
terra Giovanni del Carretto [I], suo figlio ed erede, che ebbe
anche dal Re Martino la conferma della detta terra in un diploma ove
risultano inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al
predetto condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio
del detto re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia
Cancelleria nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto Giovanni, successe Federico del
Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico
ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della detta
terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con
riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re
Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come
risulta nel libro grande dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni
del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare dall'ufficio
della regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della detta terra.
Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole
del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto
Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si
possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo
superiore ad once 700.
E morto il detto Ercole successe nella detta
terra Giovanni del Carretto [III], suo figlio, primogenito,
legittimo e naturale, che prese l'investitura della detta terra tanto per la
morte del detto suo padre quanto per la morte del signore Re Ferdinando in data
31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518 VII^ Indizione f.
462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il padre non avesse
preso l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della morte del proprio
genitore. ([25])
Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo
annotare come questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su
Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno).
Costei, nonna dei fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come
dante causa per ragione di successione e di eredità di
generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si
attiene rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo
anche noi di constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua
ricognizione è quel dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta
chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto,
titolo che la cancelleria di Martino riserba a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo
che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia,
che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia magna sono
preziosi per la ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto
e del loro consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di questa
terra. In un punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in
base ad essa abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi
fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono;
men che meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica
contemporanea (citiamo per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la
regolarità della successione di padre in figlio della baronia di Racalmuto nel
XV secolo. Francesco San Martino de Spucches, nella sua accreditata storia dei
feudi dalle origini al 1925, aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di
Ercole Del Carretto, sempre quello della Madonna del Monte, anziché alla morte
di Giovanni II, a quella di Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo
del tutto fallacemente «suo fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non
risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato,
libro 4°, f. 229).» ([26])
Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti
prima del 1627. Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo,
secondogenito di Giovanni II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'.
Aveva molto correttamente rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi
a cavallo fra XV e XVI secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico
successe Giovanni; a Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno;
ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D.
Giovanni, D. Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([27]) Il Di
Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione
di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il
nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino
De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque,
anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur
eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti documentali sono carenti
in ordine a questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno
è consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette
di seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo
stesso Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del
1519 che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni
II ad Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il
vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche
ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per sentito
dire e Dio sa quanto menzogneri fossero quei nobili, specie se dovevano
rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei Capibrevia. Noi, fino
a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul punto al Barberi vada
prestata totale fede.
Il Fazello, restando nell'ambito della
storiografia feudale del Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli
che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del
Carretto, appunto. Il colto storico è involontario protagonista (in negativo)
nella ricostruzione della storia di Racalmuto per avere ispirato due
tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II
Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire
l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse
accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il
Fazello, però, è del tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda
poggia - responsabili Vito Amico([28]) ed il
Villabianca, quello della Sicilia Nobile([29])
- su un'evidente distorsione di un passo dell'opera dello storico di
Sciacca. ([30])
Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto ([31]):
Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura
di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri
"oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula doveva
includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del
Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici
locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende di
quella famiglia. Ma di ciò a suo tempo e luogo.
Allo spirare di quel secolo, il vescovo di
Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la
potente famiglia dei Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di
vipere, a capo di una conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che
vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i
sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo
Padre - esordisce il prelato - l'Episcopo di Girgente del
Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone
maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha
fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto,
il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana,
il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari, il Baron di Rafadal, il Baron
di San Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la
magior parte delli quali son parenti [.....]
Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto
che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra
facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar
la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso
Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli
vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et
per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao
tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato
seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente
della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con
intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo
regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con tanta pacientia che
la medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse
restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto
pagare quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali
toccanti a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij
promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare
per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme
lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere
et haver giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di
Raxhalmuto et vole che stiano a sua devotione privi della libertà
ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler:
Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in
una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi
anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perché il vicario generale d'esso
exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di
detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto
clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et
excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto
Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso
exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima
volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per
la potentia di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti
civili per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di più don Cesare parente di detto Conte,
per il suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte
episcopale di Girgente, et perché ni fù prosecuto, diventano innimici delli
prelati.» ([32])
Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con
acri rapporti contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli
encomiastici o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari,
testamenti, processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque
rispettose testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).
La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e
si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto
che diviene, nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di
Messina. E' il Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote
di Federico il secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III
Del Carretto. Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel
caso, davvero cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi
di famiglia, è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus,
nihil in eo vel fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca
documentata, senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella
ricerca sia stata la base di un libro scritto poi, nel 1630, proprio dal
Baronio. ([33])
Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il
Di Giovanni che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di
Palermo. Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato. Come
leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v.
nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia
encomiastica della città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva
di Palermo uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872
nella Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia di Gioacchino
Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il
nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di citarla (sia pure con la
piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia
Sacra del Pirro: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le
vicende hanno riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della
iniziativa di Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli
agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito
acriticamente per il rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia
medievale di Racalmuto - tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di
Racalmuto, che nel 1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e
villani purché edificasse la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci
di pietra dal paese, in località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la
dubbia sequenza successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che
avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio del marchese di
Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de
Carretto, personaggio del tutto inesistente nella nostra storia
feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre
nelle cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o
barone di Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le
pagine 237-240 ([34]) alla
famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella
inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra
Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza
di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del
Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione
genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe
spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore (sempreché di
effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo riguardante
il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto: sembrerebbe, a prima
lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto siano figli del secondo
anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio;
vi sarebbe confusione tra nonno e nipote, confusione del resto abbastanza
consueta tra gli storici del ramo siciliano dei Del Carretto anche per
quelle omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli).
Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede
Giovanni I e non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre,
Giovanni I - sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa
incerta successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del
Monte, è Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce
dal passo del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la
precisione e la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del
succedersi dei feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei
confronti della trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma
al "vivente don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno
prima del 1650, data della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a
Palermo per delitto di lesa maestà.
Intervallati da più di un decennio escono a
Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don
Agostino Inveges: il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui
è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il secondo, La Cartagine
Siciliana, è datato 1661 ([35]) e può
dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata
l'inesorabilità del declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova
molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i
feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami
trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non
sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio,
mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal
sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di
piaggeria araldica. ([36]) Si dà
il caso che l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la
indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai
Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli
nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se
le vicende chiaramontane raccontate nella Cartagine Siciliana sono
inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia racalmutese di quel
tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il testamento di Federico
II Chiaramonte ([37]) è il
fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che
sappiamo aliunde essere davvero la nonna di Gerardo e Matteo
Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il lavoro
dell'Inveges ([38]), ma
sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma
noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del
Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro,
di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie,
quando sarebbe tornato molto utile.
Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni
capitali segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del
Carretto. Vi è molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella
particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie
case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della
famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento. ([39])
Valerio Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto
nell’incendio a Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio
Veneziano. ([40])
Eclatante il mortale attentato in cui perse la
vita Giovanni IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo
descrive un anonimo diarista palermitano. ([41])
Quando, ai primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11
gennaio, fu arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto,
l'impressione a Palermo dovette essere enorme. Il conte fu imputato del delitto
di lesa maestà, come uno dei capi principali di una congiura andata del tutto
fallita. Nel suo diario ne fece diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria
([42]) che
poi seguì passo passo lo sviluppo giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per
"affogamento" «privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag.
367) il 26 febbraio di quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI PRIMI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è dubbio che una potente famiglia
denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo
secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi
del magniloquente titolo di Machesi di Savona. A cavallo tra i secoli
tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro
potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli.
Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo
Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo
decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tal marchese,
evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di un
Barone è tale che gli odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo
personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi, sia
pure in corsivo, mostrando di non esserne certi.
Diciamolo subito: un marchese Antonio I
del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad
Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte,
semplicemente non esiste.
ANTONIO
I DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure
si sia potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia
Chiaramonte. Ed è proprio così che forse è andata: dopo i Vespri la Sicilia fu
meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là
con gli anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la
altezzosa famiglia dei Del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il
mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere
Antonio del Carretto, marchese di quei due centri liguri. Il matrimonio dura il
tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il
vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che
questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio
nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia
siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un
qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti
genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre
interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che
circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO II DEL CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia
storica di sé: di lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a
proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito
Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel documento - che trova ampio spazio in
questo lavoro - emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi
giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non
era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli
si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a
Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato
marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo
era fasullo, comunque inconsistente, in ogni caso obsoleto.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto
transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni a
compagnie navali, oltre che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza
economica, persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel
tempo era Racalmuto.
Non sappiamo dove sposa una tale Salvagia di
cui ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano
defunti alla data di un importante documento del 12 marzo 1399.
Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai
figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca
de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in
compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui
faciunt summa unciarum quatringentarum»
In altri termini si sarebbe trattato di quote
nella compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila
fiorini pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca).
Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar
modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte
sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane.
L’inventario completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i
due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula
iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti,
cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in
Siguliana, ....»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre
figli: Gerardo primogenito, Matteo rampante cadetto che inventa la baronia di
Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto in giovane età.
GERARDO
DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di
Antonio II del Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in
Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge
di avere interesse alla successione nel titolo feudale della baronia di
Racalmuto, solo per consentire al fratello minore Matteo del Carretto di
sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se
leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che
trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la
vera possidenza dei due fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un
secolo dopo, a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di
Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a
pagamento - cosa non ammessa secondo il diritto feudale allora vigente - ma
addirittura con un concambio tra beni allogati nella lontana Genova e
prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino
imbroglio che ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da
parte degli storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi
Girolamo III del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches
(ed altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando
Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da
Morreale a Salvo) è semplicemente inverosimile congettura. Invero anche il
Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due
fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tale Bianca da
cui ebbe una caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita e portante il nome
della nonna paterna, Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto
del 1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius
vir dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del
Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles
marchio Saone”.
In un atto dell’anno prima ([43])
era tutto l’opposto: Gerardo viene contraddistinto con il titolo di “nobilis
marchio Sahone familiaris et amicus noster carissimus”; Matteo viene relegato
in secondo ordine e segnato solo come “nobilis miles, consiliarius noster
dilectus”.
MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è
il vero capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende
le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà
sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo
(alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a contea), parassitario nel
diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in
modo miserando.
Matteo del Carretto sposa una tale Eleonora e
sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che
eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse
figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi
comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno
l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Mont Blanc,
il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo ([44]) ne
fornisce indubbia testimonianza;
[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux
Montis Albi etc.
«Fidelis etc. Novamenti cum querela e statu
expostu a la nostra maiestati comu pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu
tanti homini di la Licata nostri fideli quelli di lu dictu locu qui
tutti generalmente defrodaru e fichiruli assai dispiachiri; per la
quali cosa si ita est la nostra maiestati haviva causa di meraviglia et
imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna affannu di
chircarisi che cumandamu ki con omni diligencia duviti fari constringiri
quelli di lu dictu locu ki incontinenti divun restituiri tutti li cosi predicti
a lu procuraturi di la presente per parte di li altri persuni per tali
modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la nostra maiestati
cesaria [si occupi] plui di questa cosa [...] per modu ki la loro pena
sia terruri di ogni altru ki vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini
di la nostra persona. Date in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur Matheo di Carrecto»
Il trambusto storico che attanaglia gli anni
1392-1396 è ben complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto
vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente
condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano
alla porta non sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e
predoni scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo
del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Mont
Blanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un
conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di
storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando con gli Aragonesi, ha
momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo
di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto
ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura
(evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di
Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone
di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica
che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a
vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca di Mont Blanc ed il
martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che finisse proprio male.
La storia di Andrea Chiaramonte parte, invero,
da lontano e noi qui vogliamo farne un accenno per meglio comprendere il ruolo
di Matteo del Carretto.
Alla morte di Manfredi III Chiaramonte spunta
un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i
titoli dei Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio
di Vicario Generale Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino Duca di
Montblanc e organizza la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe
spagnole.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a
Castronovo nel 1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i
Martino. L’anno dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con
inganno e decapitato dinanzi allo Steri il 1° giugno dello
stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima
parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più
conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna. Racalmuto può
finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia
sedicente originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi
feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte,
Enrico, appare sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel
1392 si sottomette a Martino dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti
e amici nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per
andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi
torna mai più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel
Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non
sono i del Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una
intermittente incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per
il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo
contadino; quello delle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche;
quello stesso che investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese,
confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due
belle torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per
quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto,
quasi si fosse trattato di benefattori.
La turbolenta vita di Matteo del Carretto
emerge da un diploma ([45]) del
1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro
dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio ([46]): « Matheus
de Carreto miles baro terre et castrorum Rahalmuti -
vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente verso la
nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia
“lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto.
Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato Gibillini passò
nelle mani di Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re
(1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de
Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo
Muscia. ([47])
Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato
diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andiriviene opportunistico
del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto
si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo
ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma
per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è
pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere
l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di
Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed
egregio nostro consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non
sappiamo quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli
che strutturati “a domanda ed a risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu di lu
Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi
heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali
foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio de lu mastru
rationali lu quali per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu
justiciariatu dilu Valli di Iargenti" - Placet providere de officio
justiciariatus cum fuerit ordinatus, quousque officium magistri rationalis
vacaverit, de quo eo tunc providebit eidem.”
Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere
riconfermato nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad
essere l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente
da altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato
di Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma prosegue:
"Item peti chi lu dictu misser Mattheu
haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.
Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una
sorella con la quale condivideva proprietà a Malta.
Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in
casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni
chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda
supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.
E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto
dunque era stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e
distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati oltremodo
danneggiati (“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la
colpa agli agrigentini.
Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in
casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi
constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque.
Tanti villani erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa
forma drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di
libertà. Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei
fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.
La formula, dunque, fu assolutoria, ampia,
faconda, omnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto
è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze
racalmutesi?
La chiosa finale fu ulteriormente munifica per
l’avventuriero ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei
nostri antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del
nostro altipiano. Storia appena “descrivibile” per Sciascia: materia di
riprovazione politica ed accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i
sentimenti (forse faceva eccezione per i risentimenti). Più che per il “tenace
concetto” (che poi era solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi
sciasciani avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo
trecentesco impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.
Non tutto è negativo però nella storia di
Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura di
letteratura francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino
nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria
([48]) che ha
modo di narrare:
«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto
Centelles e Calcerando de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il
futuro paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano
in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città
appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto
[pag. 17] ...
Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re]
scriveva da Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito
la Farsaglia di Lucano in lingua francese, di cui costui
teneva un bello esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e metterne a
memoria alcune delle storie.»
[Documenti pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5
giugno 1397.]
Dirigitur matheo de carrecto.
Dominus rex mandavit mihi motaro furtugno.
(Registro - Lettere Reali, num. I anni 1396-97,
Vª Ind. - Archivio Stato Palermo)
*
* *
Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le
vessazioni della curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i
Martino in un primo momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a
scomodare il fratello Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve
oliare abbondantemente le ruote della corte e quando sta per riuscire
nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le
beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare
ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni
I del Carretto
GIOVANNI
I DEL CARRETTO
Nato nella seconda metà del Trecento, muore
attorno al 1420: eredita dal padre la baronia di Racalmuto quando ancora
irrisolti erano certi inceppi giuridici che la corte frapponeva, e riesce a
definirli. Con lui non vi sono più dubbi che Racalmuto è feudo dei del
Carretto: manca però un tassello; non è certo se spetti a questi trapiantati
liguri il sovrano diritto del mero e misto impero. La questione si riproporrà a
fine ’500. Apparentemente risolta a favore dei del Carretto, saranno preti
irriducibili quale il Figliola e l’arciprete Campanella che la revocheranno in
dubbio nella seconda metà del Settecento e l’avranno vinta, forse perché allora
spirava l’aria illuminista del viceré Caracciolo.
Nel processo d’investitura del successore di
Giovanni, Federico del Carretto, abbiamo dati biografici di questo barone di
Racalmuto. Vi si legge tra l’altro:
magnificus
dominus Mattheus di lu Garrettu fuit et erat verus dominus et baro dictorum casalis
et castri Rayalmuti percipiendo fructus reditus et proventus paficice et quiete
et de hoc fuit et est vox notoria et fama publica et ..
dictus quondam magnificus dominus
Mattheus de Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant
ligitimi maritus et uxor ex quibus iugalibus natus et procreatus fuit
magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et
castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et naturalis percipiendo fructus
reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama
publica et ..
ex dicto magnifico domino Johanne et magnifica
domina Elsa jugalibus natus et procreatus fuit dominus magnificus dominus
Federicus de Garrecto ad presens baro dictae baronie Rayalmuti et qui tamquam
filius legitimus et naturalis subcessit in baronia predicta percipiendo fructus
reditus et proventus et de hoc fuit et est vox notoria et fama publica
etc. ..
Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed
Eleonora del Carretto; da una certa Elsa procrea quello che sarà il erede nella
baronia Federico del Carretto.
Fu un legittimo matrimonio? La formula del
processo non lascia adito a dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo
di tempo troppo lungo (dalla presunta morte di Giovanni I attorno al 1420 alla
data del processo d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32
anni) lascia adito a dubbi, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la
nostra baronia passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile
dissipazione dei beni da un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto
sperperatore delle proprie fortune.
Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il
ruolo di Giovanni I del Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in
data 17 agosto 1401 giungeva una lettera da Catania per la sistemazione
delle pendenze fiscali.
Martino segnalava che era stata fatta
un’inchiesta tributaria relativa ai riveli ed alle decime per il tramite di
Mariano de Benedictis. Questa la situazione del giovane barone di
Racalmuto: v’era la successione della baronia da Matteo al medesimo
Giovanni I; al contempo si erano accumulate due annualità scadute, quella
relativa alla settima indizione (1399) e l’altra riguardante l’ottava (1400),
nonché quella in corso (1401); ne conseguiva un carico di 40 once d’oro. Il
diploma che ha il sapore di una quietanza attesta che la posizione è stata
sistemata come segue: 30 once in contanti e dieci a compensazione
di un mutuo a suo tempo approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.
Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli
1980, pag. 503-543 Henri Bresc scrive (sia pure in una traduzione dal francese
rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue sulla curva dei
prezzi medi dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un indebitamento
sempre più pesante ed ad una gestione molto rigorosa del patrimonio residuo. E
ci si avvia all’intervento della monarchia e della classe feudale
nell’amministrazione dei domini fondiari e delle signorie: Giovanni del
Carretto è così privato nel 1422 della sua baronia di Racalmuto, affidata in
curatela a suo genero Gispert Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene
però citata la fonte, per cui la notizia va presa con le molle.
Nella nuova opera, invece, “Un monde etc”
altrove citata, vi è qualcosa in più: viene precisata la fonte: «ACA Canc.
2808, f. 54: le bon baron vivait joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce
qui passe, aux yeux de l’avide catalan, pour “simplicitat ... fora de
enteniment rahonable”». [Per ACA Canc. s’intende: “Archivio de la
Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria. Il fondo 2808
riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à 2880 (1416-1458) op.
cit. pag. 29]. Sarebbe da rintracciare quel foglio 54 al fine di ben
ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di Racalmuto
affidata a Gispert d’Isfar.
Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur
sapendo che è molto sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del
Carretto cessò di vivere lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito
Federico. Gispert Isfar, l’intraprendente genero brigò facendo apparir miseria
là dove non c’era per sottrarre l’eredità e la successione baronale di
Racalmuto alle pesanti tassazioni spagnole (donde gli incerti diplomi appena
abbozzati dal Bresc). Resta anche saliente il fatto che il caricatoio di
Siculiana, antico retaggio dei del Carretto, passa di mano e finisce in preda
degli Isfar (una dote della figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione
avallata da Barcellona?).
FEDERICO DEL CARRETTO
Singolare quel nome che come quello di Ercole
figura una sola volta nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di
Federico del Carretto abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di
figure dei vari rami cadetti.
Non possiamo revocare in dubbio che sia il
figlio legittimo e naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si
iniziano i processi palermitani dell’investitura del titolo feudale di
Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso degli eventi - la sequenza genealogica è
indubitabile (come abbiamo visto dai passi in latino sopra riferiti).
“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e
Giovanni I del Carretto è, invero, dichiarato ma non si accenna neppure
larvatamente al requisito (indispensabile nel diritto feudale dell’epoca) della
primogenitura. Giovan Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo sa - non ha però
dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:
«E
morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito,
legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo
palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto
vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia
curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri predecessori
regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell’anno 1453
nelle carte 565. » ([49])
Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto
di potere determinatosi per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e
subì i traumi dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenza della
regina Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che
dura ben 42 anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del
Carretto s’induce a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della
baronia di Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a
queste condizioni:
1.
presti il cosiddetto servizio
militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;
2.
renda l’omaggio nelle forme
solenni del tempo;
3.
restino salvi i diritti di
legnatico dei cittadini racalmutesi;
4.
e del pari restino
riservate alla Corona le miniere, le saline, le foreste e le antiche
difese;
5.
resti salvaguardata la libertà
di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti regi.
Per il resto possesso assoluto sino al mare.
Una cosa è certa; Federico del Carretto era
saldamente insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse
l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso
l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451 a
Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450 contro
quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio. E il Bresc [op. cit. pag.
884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In
termini moderni si parlerebbe di forward in grano. La
domiciliazione sarebbe stata pattuita presso il "Caricatore" di
Siculiana. Fonte citata: ASP ND G.Comito; 18.1.1451, cioè Archivio di Stato di
Palermo - Notai Defunti - Giacomo Comito (1427-1460) - n.° 843 a 850
Sempre il Bresc fornisce nella citata opera
un'altra interessante notizia. Secondo quello che appare nella tavola n.° 200
di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta
antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata è un
libro: «Luigi Genuardi, Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo,
1921».
GIOVANNI
II DEL CARRETTO
La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il
Genuardi dovette essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi
d’investitura tacciono.
Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo -
e non c’è motivo per dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del
Carretto. Non sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del
Carretto del 1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus
praeclare gestis aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec
maioribus dissimilem suis. In unoquoque semper avitae nobilitatis fulgor
eluxit.» Parole di circostanza per colmare evidenti carenze di notizie. Quali
siano quelle gesta che affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri,
non ci dice e noi non ne abbiamo nessuna ... memoria. Accontentiamoci del
fatto che fosse il figlio maggiore [natus maior] e che avesse partorito
il successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del
Monte, e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato
qualche dato sulla sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto ([50]).
Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su
Mussomeli ([51]) che «lu
fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni di Regalmuto per anni ... vinduto per
lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi trentacincho, uno vitellazzo, una
quartara di burru, uno cantaro di formaggio.»
Quando sia avvenuta quella compravendita non
sappiamo; il rendiconto è del 1486 e come si è visto, non è neppure detto a
quali precedenti anni si riferisca la vicenda di cui alla posta contabile. Da
quel che si legge nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi
degli anni attorno all’11 ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il
contratto col quale il procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro Del Campo
la baronia di Mussomeli, col suo castello ...”). Le nostre successive indagini
presso gli Archivi di Palermo (in particolare “Archivio Campofranco, Fatto
delle cose notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia,
confiscationes bonorum et investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in
Sorge) non ci hanno sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del
Carretto e specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo
Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra
dunque appurato che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto di Racalmuto si
sia bene ripresa dalla crisi del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per
acquistare il costoso feudo Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se
notevolmente oneroso. Del resto, in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un
centro di abbienti: nello stesso “conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui
in Sorge pag. 386) si accenna al possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu
fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu teni Mazzullo di
Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet quinte Ind. 6 Ind. E 7
Ind. Et pri unzi quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno cantaro di
formaggio, et una quartara di burru quolibet anno da pagarsi la mitati a menzu
Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi quindici anni
primi poi di Pasqua.» ([52])
Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula
contro i del Carretto - la fa a ridosso degli anni della baronia di
Giovanni II, ha questi appunti critici:
«E
morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo figlio, il
quale, come appare dall’ufficio della regia cancelleria, non prese giammai
l’investitura della detta terra.»
ERCOLE
DEL CARRETTO
E
subito dopo abbiamo Ercole del Carretto, quello che le saghe sulla venuta della
Madonna del Monte chiamano “Conte”. Il Barberi annota su di lui:
«Morto
il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale
e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura
alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del
Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.»
Il Baronio, come si è visto, quasi non lo cita:
un accenno trasversale, come si fosse trattato di un riflesso sbiadito del gran
fulgore che era stato il padre.
Il Barberi ebbe a conoscerlo giacché è proprio
sotto Ercole del Carretto che visita Racalmuto come lascia intravedere il
passaggio : al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole
del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.
Settecento once di reddito - a meno che
non trattisi di esagerazioni fiscali alla stregua delle mirabolanti cifre dei
moderni accertamenti degli agenti tributari - sono un’enormità. Sia quel che
sia, Racalmuto dunque in esordio del ’500 - e proprio sotto Ercole del Carretto
- ha un salto quantitativo, un empito verso il grande centro. Nostri precedenti
studi ([53]) hanno
messo in evidenza questo significativo passaggio demografico e sociale. Dal
rivelo del 1505 (un paio d’anni dopo la venuta della Madonna) emerge una
popolazione aggirabile sui 1600 abitanti: un secolo prima (nel 1404) erano poco
più di 750. Certo, la baronia dei del Carretto non era stata molto felice e
varie strozzature demografiche e sociali si erano verificate. Le abbiamo notato
in quello studio, ma tutto sommato si poteva essere abbastanza soddisfatti.
La venuta della Madonna del Monte
Era persino sorto un clima messianico per cui
era potuta allignare la saga della Madonna del Monte. Sciascia è
caustico: «correva l’anno 1503, ed era signore di Regalpetra Ercole
del Carretto ... C’è poi da dire che la statua è della scuola dei Gagini, e
appare molto improbabile sia finita in Africa; ma di più di ogni altra è
inquietante la considerazione sulla scelta della Madonna tra il Gioeni e il del
Carretto, tra i castronovesi e i regalpetresi; inquietante come l’apparizione
dell’immagine di Cristo su una parete al professor Pende, perché proprio al
professore, perché al del Carretto, perché tra i regalpetresi la Madonna
ha voluto fermarsi, la popolazione di Castronovo essendo in egual misura fatta
di uomini onesti e di delinquenti, di intelligenti e di imbecilli.» ([54]) Ma è
proprio lui che poi negli Amici della Noce se la prende con
l’incolpevole padre Morreale, reo a suoi occhi di avere cercato un po’ di luce
(storica) su questa saga cui tutti i racalmutesi siamo legati.
Neppure, a ben vedere, riusciamo a concordare
del tutto con il valente padre gesuita sui motivi che avrebbero spinto gli
odiati Requisenz ad inventarsi la leggenda della Madonna del Monte «per fare
apparire i Conti del passato, ma intenzionalmente quelli del presente, quali
grandi benefattori del paese: così il barone Ercole Del Carretto, e con lui
tutta la sua famiglia, cominciò ad essere presentato nella leggenda come
insigne benefattore del culto della Vergine del Monte, costruttore della sua
prima chiesa nel 1503.» ([55]) Osta
se non altro il fatto che i Requisenz si appropriano di Racalmuto il 28 gennaio
1771 ed a quella data la saga era ben salda nei cuori e nella fede dei
racalmutesi, come dimostra l’ex voto che si ammira al Monte. Precedente era
anche lo scritto di Francesco Vinci (pubblicato secondo lo stesso padre
Morreale, pag. 35) nel 1760 e forse anche quello di Nicolò Salvo. Ma
soprattutto appare dirimente il fatto che già nel 1686 la curia vescovile di
Agrigento considerava “miracolosissima imago” (imagime molto miracolosa) quella
che si venerava nella chiesa di S. Maria del Monte di Racalmuto. ([56])
Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel chiarire questioni come questa,
che coinvolgono aspetti di sì rilevante complessità religiosa. Umilmente
riteniamo che Ercole del Carretto ebbe davvero a costruire la prima chiesa del
Monte (di una precedente chiesetta intestata a S. Lucia, non abbiamo alcun
documento probante) ed ebbe a corredarla facendo venire da Palermo una statua
di marmo. Fu evento memorabile: quella Vergine marmorea, così somigliante alle
giovani madri di Racalmuto, brevilinee e rotondette, dovette impressionare e
sbalordire gli ingenui occhi dei contadini locali. Legarvi il senso del
portento, del miracolo, fu semplice e coinvolgente. Già nel 1608, in una visita
pastorale, quel simulacro era maestosamente eretto sull’altare maggiore della
Chiesa del Monte: il vescovo - recita il testo episcopale - “Visitavit altare
maius super quo est imago marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata”.
Tratti anagrafici di Ercole del Carretto
Scarne sono le notizie che abbiamo su Ercole
del Carretto. Non
sappiamo quando nasce: la morte cade invece nel gennaio del 1517. Sposò tale
Marchisa di cui ignoriamo il casato.
Dal processo d’investitura del figlio Giovanni
III possiamo abbozzare questi altri dati: fu “signore e barone della terra di
Racalmuto e tenne e possedette quella terra di Racalmuto con il suo castello e
fortilizio, nonché con tutti i suoi diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli
ufficiali tutte le volte che gli piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire
frutti, redditi e proventi della baronia di Racalmuto quale vero signore e
padrone”. “Tenne il figlio Giovanni come figlio primogenito, legittimo e
naturale e per tale lo trattava e come tale lo reputava così come veniva
ritenuto, trattato e reputato dagli altri.”. “In qualità di signore e padrone
della predetta terra e padre del signor Giovanni, piacendo a Dio morì e fu
seppellito nel castello della terra di Racalmuto nel mese di Gennaio VI
indizione del 1517, dopo avere redatto solenne testamento per mano del notaio
Giovanni Antonio Quaglia della città di Agrigento il 16 del predetto mese di
gennaio, ove ebbe ad istituire suo erede universale il detto magnifico signore Giovanni”.
Nel suo processo d’investitura si legge
che: a «Johanni de Carrectis» successe «quondam magnificus Hercules,
unicus filius legitimus et naturalis.» ([57])
Crediamo che il noto giurista operante a
Racalmuto Artale de Tudisco fosse già al servizio di Ercole del Carretto. Altro
notabile dell’ entourage carrettesco fu il nobile Alonso de
Calderone che così testimonia: «stando ipsu testimonio como uno degli
domestichi di lo quondam magnifico Herculi lu Garretto baruni di Rayalmuto,
vidia dicto magnifico regiri et governari la dicta terra et in quella permutari
li officiali et rescotirisi et fachendosi rescotirj li renditi et proventi di
dicta terra comu veru signuri et patruni et canuxi lo dicto don Joanni de
Carrectis esseri figlo primogenito et unico di dicto quondam signuri Erculi lu
Garrecto a lu quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et reputava per
figlio unico et primo genito et da tucti accussi era tenuto, trattato et
reputato; lu quali dicto quondam magnifico Herculi baruni fu mortu in lo
castello di dicta terra et lo presenti lo vitti sepelliri et secondo intisi
dicto magnifico Herculi innanti sua morti fichi testamento.»
Testimoniò anche certo Francesco Maganero come
intimo del defunto barone, così come il “nobile” Andrea de Milazzo. Personaggi
egualmente di risalto furono i “nobili” Antonino Palumbo, Alfonso de Silvestro
e Gaspare Sabia.
Il cennato processo include anche uno stralcio
del testamento di Ercole del Carretto che qui riportiamo in una nostra
traduzione dal latino:
«E’ da sapere come fra gli altri capitoli del
testamento del quondam spettabile Ercole del Carretto, barone della terra di
Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen.
Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^
indizione, in Racalmuto e nel castello del magnifico e spettabile signor Ercole
del Carretto [si raccolgono le ultime volontà testamentarie], accese tre
candele verso la quinta ora della notte.
«E poiché capo e principio di ogni testamento
fu ed è l’istituzione dell’erede universale, così il detto magnifico e
spettabile signor Ercole, testatore, istituì, fece ed ordinò suo erede
universale il magnifico e spettabile signor D. Giovanni del Carretto, suo
figlio legittimo e naturale, nato e procreato da lui e dalla quondam magnifica
e spettabile donna Marchisa del Carretto, un tempo prima moglie dell’illustre e
spettabile testatore sopraddetto.
«E tale eredità si estende sopra tutti i beni
suoi, mobili e stabili, presenti e futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in
ordine a tutti i debitori ovunque esistenti e meglio individuabili e designati,
e principalmente nella baronia, nei feudi e nei territori di Racalmuto, con
tutti i suoi diritti, redditi, emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta
baronia a giusto titolo spettanti e pertinenti, secondo la serie ed il
tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e concessioni, in una con l’amministrazione
della giustizia giusta la forma dei suoi privilegi.
«Dagli atti miei, notaio Antonino Quaglia
agrigentino.
«26 marzo - VI^ Ind. - 1518.»
Il testamento ci svela come Ercole del Carretto
abbia sposato in prime nozze la citata Marchisa madre del primogenito Giovanni
III. Ercole contrasse sicuramente altre nozze ma non ne sappiamo nulla.
Paolo del Carretto
Di quale madre fosse, ad esempio il terribile
Paolo del Carretto, non è dato sapere. Abbiamo un inghippo che non è facile
districare. Alcuni testi dichiarano Giovanni III del Carretto figlio unico di
Ercole (vedi testimonianza del Tudisco così come del Calderone), ma nel
testamento del Quaglia questo aspetto viene glissato. Supposizioni se ne
possono fare tante, ma il dubbio resta. Ed allora va creduta la rutilante
storia che il Di Giovanni ci fornisce, oltre un secolo dopo, nella
rinomata Palermo restaurata? Siamo propensi per l’ipotesi
affermativa. Va qui allora ricordato che nel 1630 circa quello strano
personaggio che fu il cavaliere Di Giovanni scrisse per sé secentesche
memorie che oggi sono una miniera di notizie. Discendente per via laterale dai
del Carretto e addirittura da Ercole del Carretto - almeno a suo dire -
confezionò un racconto truculento in cui non è facile distinguere il loglio dal
grano. Investe la Racalmuto dei primi del ’Cinquecento e noi non possiamo
esimerci dal reiterare quel racconto, quanto bizzarro ed inventato Dio solo sa.
«Nel
tempo che fu Lotrecco [Lautrec] a Napoli successe in Sicilia lo caso di
Barresi, il qual si nota dopo quel di Sciacca. E fu il predetto caso, che
essendo nella città di Castronovo D. Paolo Carretto, mio avo paterno, uomo di
gran valore, e avendo differenza con uno di casa Barresi, gli diede il Carretto
uno schiaffo; onde ne successe fra loro gravissima inimicizia, in modo che la
città si ridusse a parte.
Un giorno volle il Carretto andar a visitare
suo fratello D. Ercole, signor di Racalmuto, e vi andò con 25 cavalli. Ma
saputo ciò per le spie da’ nemici, lo assaltâro alla piana di santo Pietro.
Vide egli da lungi venire i nemici; e potendosi salvare nella chiesa di santo
Pietro, gli parve viltà, e si risolse piuttosto morire, che far gesto di sé
indegno. Si venne tra loro alle mani; ché animosamente il Carretto investì, e
ne morsero dall’una e dall’altra parte.
Ma il Carretto, investendo il suo nemico, era
con un pugnale a levargli la vita, avendolo preso per il petto, quando uno de’
compagni con una saetta lo percosse in fronte e lo mandò morto a terra.
Satisfatti perciò i nemici, attesero a
salvarsi, e se ne andâro alle guerre del Trecco [Lautrec] a servire Sua Maestà,
perché erano due fratelli; e gli successe in una giornata di adoperarsi
valorosamente sotto la condotta del conte Borrello, figlio del viceré, perché
mantennero un ponte tutti e due, tanto quanto gli arrivasse il soccorso; dal
che si evitò gran danno, che poteva succedere agl’Imperiali.
Del che fattosene relazione a Sua Maestà,
spedita la guerra, fûro i predetti due fratelli indultati in vita, e fûro fatti
capitani d’armi per il regno.
Sentì gravemente il successo D. Giovanni
Carretto, nepote del predetto D. Paolo; e più per vedersi i nemici, in quel
momento favoriti, stargli innante gli occhi, e perché era di gran valore e
chimera, procurò quello, che non avea procurato il padre D. Ercole.
In quel tempo era nella città di Naro Enrico
Giacchetto, uomo valorosissimo e potente, consobrino di mia ava paterna, il
quale, per avere inimicizia con il barone di Camastra, anco della città di
Naro, manteneva a sue spese cento cavalli, ordinariamente di gente scelta e
valorosa, con li quali faceva allo spesso gesti eroici e singolari. Di
costui ne temeva tutto il regno.
D. Giovanni del Carretto, figlio del predetto
D. Ercole, si fé chiamare il predetto Enrico, che gli era amicissimo, a cui
conferì il suo pensiero, e lo richiese che si volesse adoperare per lui in
satisfarlo di quell’oltraggio.
Gli promise buona opera Enrico; e perché si
sentiva che i Barresi si volevano levar le mogli e le case da Castronovo, e
portarsele alla città di Termine, li appostò Enrico con quaranta cavalli, e,
venendo quelli a passare per il fundaco delle Fiaccate, per quel cammino assaltò
i predetti fratelli con molta compagnia. I quali non prima si videro Enrico
addosso, che sbigottiti si posero a fuggire, e furono finalmente giunti, presi
ed uccisi.
E se ne presero le teste, che furono portate al
predetto D. Giovanni, il quale, benché prevedesse gran travagli di giustizia,
ne fu pure assai satisfatto e contento; tanto si estimava l’onore in quei
tempi.
N’ebbe al fine gran travagli: ma col tempo ne
riuscì con vittoria, grandissimo onore e reputazione.»
“Più
solidità e più stabilità” Eugenio Napoleone Messana (op. cit. pag. 95) pensa
che possa avera il suo congetturare sulla genesi della saga della Madonna del
Monte, quale trasfigurazione dei fatti sopra narrati. Francamente non ce la
sentiamo di seguirlo. Non siamo neppure certi, come si è visto, che Paolo del
Carretto fosse racalmutese e fosse davvero figlio del barone Ercole.
Probabile
invece che una volta conosciuta la tresca di Paolo, Ercole e Giovanni del
Carretto, nelle prime decadi del Seicento, abbia preso corpo a Racalmuto la
sublimazione della vetusta e pia memoria della “venuta” di quella
adoratissima immagine marmorea della Madonna del Monte.
Il canto popolare che la prof.ssa Isabella
Martorana ha saputo recuperare dalla viva voce delle locali vecchiette non è
coevo certo alla venuta della Madonna del Monte, ma ha insiti spunti storici
che sia pure postumi meglio rispecchiano la genesi della saga. Venuta da
Trapani - più verosimile che si fosse parlato di Punta Piccola - , “intranno a
Racarmuto pi la via/ vonzi ristari cca la gran Signura”, sono scisti con
qualche valenza storica. Ma visto che “a lu conti cci arrivà mmasciata”, il
riferimento è decisamente postumo, databile dopo il declinare del XVI secolo.
Il carme dialettale, bello esteticamente, lascia nelle brume anch’esso
l’origine della pia tradizione del miracoloso evento della Madonna del Monte
che sceglie la sua dimora nel nostro paese, in cima alla panoramica altura
della omonima chiesa.
GIOVANNI
III DEL CARRETTO
Figura
centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe
portare all’apice la signoria carrettesca della nostra terra. Alla morte del
padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto della liturgia
feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico Artale Tudisco - di
cui sopra - ed il 28 gennaio 1519 ottiene la rituale investitura.
Giovanni
III del Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato della committenza di un
delitto contro i Barresi di Castronovo. Così racconta il suo lontano pronipote
Vincenzo di Giovanni. Ma sarà stato poi vero? Si dà il caso che gli atti
disponibili ce lo raffigurano - per quel che vedremo - un uomo religiosissimo,
al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo
notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo
Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva indulgenza verso gli eccessivi
empiti di prodiga religiosità del suo assistito in punto di morte, abbiamo
voglia di pensare noi.
Il
Baronio ce lo descrive ovviamente in termini esageratamente elogiativi.
Traducendo dal latino, per quello storico di casa del Carretto «Da Ercole si
ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata virtù. Carlo
V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di tal che, sia per la
propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra i
Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso
Federico che divenne barone di Sciabica.» (vedi op. cit. §§ 75 e 76)
Processo d’investitura
Sul
citato Giovanni fornisce lumi il processo n. 1175.([58]) Ne abbiamo fatto
già qualche richiamo. Siccome lo riteniamo basilare per la storia racalmutese
del secolo XVI, lo trascriviamo, traducendo, quando occorre, dal latino.
«N.° 1175 -
In Palermo nell’ufficio del Protonotaro del Regno di Sicilia, sotto la
data del 28 gennaio, VII^ Ind., 1519.
«Memoriale esibito e presentato nell’Ufficio
del Protonotaro del Regno di Sicilia, dall’ill. Artale de Tudisco, procuratore
del magnifico signore don Giovanni del Carretto, figlio primogenito, legittimo
e naturale, unico ed universale erede del quondam magnifico Ercole del
Carretto, un tempo signore e barone della terra di Racalmuto (Rayalmuti), che
teneva e possedeva la detta terra di Racalmuto con il suo castello e
fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze a seguito della morte del
prefato quondam magnifico Ercole, suo padre.
E tanto per prendere l’investitura della detta
baronia con i suoi diritti e pertinenze tanto per la morte del signor nostro Re
Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la successione delle maestà
cattoliche, la Regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri invittissimi,
quant’anche per la morte del prefato quondam magnifico Ercole del Carretto,
suo padre.
«Innanzitutto, si afferma che il detto quondam
magnifico Ercole del Carretto, padre del detto magnifico don Giovanni, al tempo
della sua vita, e fino alla sua morte, tenne e possedette la terra di
Racalmuto, con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e
pertinenze, cambiando tutti gli ufficiali tutte le volte che piacque al
medesimo quondam magnifico barone Ercole e percependo e facendo percepire i
relativi frutti, redditi e proventi da vero signore e
padrone.
«Del pari, si testimonia che il prefato
magnifico signore Giovanni del Carretto fu ed è figlio primogenito, legittimo e
naturale del detto quondam magnifico Ercole e come tale e per tale lo teneva,
trattava e reputava, così come era dagli altri tenuto, trattato e reputato.
«Del pari, si afferma che il detto quondam
magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della detta terra e
padre del detto magnifico signor Giovanni del Carretto, quando piacque al
Signore, morì e defunse nel castello della predetta terra di Racalmuto, sotto
la data del mese di gennaio, VI^ Ind., 1517, lasciando superstite e successore
in detta baronia il detto magnifico quondam Giovanni del Carretto, dello stesso
quondam magnifico Ercole figlio unico, legittimo e naturale, ed avendo prima
redatto testamento solenne in mano del notaio Antonio Quaglia del città di
Agrigento, sotto il giorno 27 del predetto mese di gennaio, testamento nel
quale venne istituito suo universale erede il detto magnifico signor Giovanni.
«Del pari, si afferma che, morto e defunto il
detto magnifico Ercole, il detto magnifico don Giovanni del Carretto, quale
figlio legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole, e come
successore legittimo in detta baronia, ebbe per il tramite del suo
procuratore, prese e conseguì l’attuale, reale e corporale possesso della
detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi
diritti e pertinenze, secondo quanto risulta dal rogito celebrato nella terra e
nel castello predetti dal notaio Antonio Quaglia della città di Agrigento in
data 16 di gennaio VI^ Ind. 1517.
«Del pari, si afferma che in questo regno di
Sicilia fu ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato cattolico Re
Ferdinando, di gloriosa memoria, morì e che il suo ultimo giorno di vita cadde
nel mese di gennaio della IV^ indizione [1516] passata prossima ed a lui
successe in tutti i suoi dominî e regni la serenissima Regina donna
Giovanna, sua figlia legittima e naturale, nonché il cattolico ed invittissimo
Re Carlo, della stessa regina Giovanna figlio primogenito e naturale. Così fu
ed è la verità.
«Del pari, si afferma che al fine di prestare
il debito giuramento e l’omaggio della dovuta fedeltà e del vassallaggio,
nonché di ottenere l’investitura della predetta terra e castello, con tutti i
suoi diritti e pertinenze - tanto per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa
memoria, quanto per la morte del proprio padre - seriamente creò ed istituì suo
procuratore il magnifico illustre Artale de Tudisco, come risulta dalla procura
agli atti dell’egregio notaio Giovanni de Malta, in data 26 del presente mese
di gennaio VII^ Ind. 1519.
«Testi ricevuti ed esaminati nell’ufficio del
Protonotaro del Regno a richiesta ed istanza del magnifico don Giovanni del
Carretto, figlio legittimo e naturale del quondam magnifico don Giovanni del
Carretto, al fine di prendere l’investitura della baronia di Racalmuto, tanto
per la morte del Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del magnifico
Ercole del Carretto, suo padre e signore di detta terra.
«Il Nobile Alonsio de Calderone giura
solennemente per testimoniare che: “stando ipsu testimonio como uno degli
domestichi di lo quondam magnifico Herculi lu Garretto baruni di Rayhalmuto vidia
dicto magnifico regiri et governari la dicta terra et in quella permutari
li officiali et rescotiri et fachendosi rescotirj li renditi et proventi
di dicta terra comu veru signuri et patruni; et canuxi lo dicto don Joanni de
Carrectis esseri figlo primogenito et unico di dicto quondam signuri
Erculi lu Garrecto, a lo quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et
reputava per figlo unico et primo genito et da tucti accussì era tenuto,
trattato et reputato; lo quali dicto quondam magnifico Herculi baruni fu
mortu in lo castello di dicta terra et lo presenti testimonio lo vitti
sepelliri et secondo intisi dicto testimonio dicto magnifico Herculi innanti
sua morti fichi testamento ...”
«Francesco Maganero giura solennemente per
testimoniare in modo del tutto conforme alla testimonianza resa prima.
«Il nobile Andrea de Milazzo giura solennemente
per testimoniare in modo del tutto conforme alle testimonianze rese
prima.
«I nobili Antonino Palumbo, Alonso de Silvestro
e Gaspare Sabia giurano solennemente per testimoniare che: “in questo Regno
di Sicilia fu ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato cattolico Re
Ferdinando, di religiosa memoria, haviri passato de questa vita in
sancta gloria in lo misi di ginnaro anni IIIJ Ind. proximae decursae a lu quali
successiru in tutti soj reamj et segnurij la serenissima regina dop.na Johanna
sua figla legittima et naturali et lo catholico et invictissimo re Carlo della
stessa Giovanna figlio primogenito, legittimo e naturale ... “
«E’ da sapere come fra gli altri capitoli del
testamento del quondam spettabile Ercole del Carretto, barone della terra di
Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen.
Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^
indizione, in Racalmuto e nel castello del magnifico e spettabile signor Ercole
del Carretto [si raccolgono le ultime volontà testamentarie], accese tre
candele verso la quinta ora della notte.
«E poiché capo e principio di ogni testamento
fu ed è l’istituzione dell’erede universale, così il detto magnifico e
spettabile signor Ercole, testatore, istituì, fece ed ordinò suo erede
universale il magnifico e spettabile signor D. Giovanni del Carretto, suo
figlio legittimo e naturale, nato e procreato da lui e dalla quondam magnifica
e spettabile donna Marchisa del Carretto, un tempo prima moglie dell’illustre e
spettabile testatore sopraddetto.
«E tale eredità si estende sopra tutti i beni
suoi, mobili e stabili, presenti e futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in
ordine a tutti i debitori ovunque esistenti e meglio individuabili e designati,
e principalmente nella baronia, nei feudi e nei territori di Racalmuto, con
tutti i suoi diritti, redditi, emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta
baronia a giusto titolo spettanti e pertinenti, secondo la serie ed il
tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e concessioni, in una con
l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei suoi privilegi.
«Dagli atti miei, notaio Antonino Quaglia
agrigentino.
«26 marzo - VI^ Ind. - 1518.
«A tutti e singoli i chiamati ad ispezionare
seriamente, vedere e leggere il presente atto pubblico, sia evidente e noto che
esso fu redatto da me notaio, con i testimoni infrascritti, presso
il castello della terra e baronia di Racalmuto nel Regno di Sicilia.
« Si è costituito il magnifico signor Cesare
del Carretto quale procuratore del magnifico e spettabile signor don
Giovanni del Carretto, signore e barone della predetta terra e baronia di
Racalmuto, figlio primogenito, legittimo e naturale del magnifico e
spettabile quondam signor Ercole del Carretto, morto di recente nella detta
terra e dipartitosi da questa vita adempiendo tutte le formalità necessarie per
conferire alle sue ultime volontà la totale validità.
«Peraltro, con pubblico strumento redatto in
carta membrana, sono state espletate le conseguenti formalità in modo
solenne presso la città di Napoli il primo marzo VI^ indizione 1518 per mano
del nobile ed egregio Bartolo Carloni della stessa città di Napoli, abilitato
notaio per tutto il regno di Napoli .
«Di tal che è stato preso, recepito e
tenuto - così come si prende, si recepisce e si tiene - il naturale,
reale e corporale possesso della predetta terra e baronia di Racalmuto per
tatto e tocco delle chiavi del castello della stessa terra e baronia, nonché
della porta e del cantone dello stesso castello, aprendo e chiudendo,
entrando ed uscendo dal castello ad libitum senza
l’opposizione di alcuno.
«Se ne attesta quindi il possesso con tutti i singoli
relativi diritti e pertinenze. E se ne redige atto in segno di vera presa del
possesso naturale, reale e corporale della predetta terra e baronia, con tutti
i singoli suoi diritti e pertinenze, acquisendone l’integrità dello stato della
stessa terra e baronia sotto il profilo del dominio, quale configuratosi con le
sue spettanze e pertinenze giusta la forma, la serie ed il contenuto dei
privilegi della ripetuta baronia.
«E continuando nella presa di possesso, fattane
l’acquisizione, il procuratore mutò e depose nella detta terra gli ufficiali;
in essa quindi nominò altri ufficiali e cioè: innanzitutto istituì e nominò
capitano della medesima terra Nardu lu Nobili; giudice il nobile Scipione lu
Carretto; giudice ordinario e militare, il magnifico signore don Paolo de
Mistrectis.
«Del pari, nominò Giurati: Enrico lu Nobili;
Pietro d’Acquisto, Vito Taibi e Andrea Gulpi. Come Castellano del predetto
castello fu chiamato il magnifico signore don Giovanni Benigno de Tudisco; come
Segreto, il magnifico Silvestro de Urso; come Maestro Notaro il magnifico
Gilberto de Tudisco.
«E per segno di quanto precede, il predetto
procuratore - a tal ultimo titolo - fece redigere il presente atto pubblico da
valere per ogni luogo e tempo.
«Testi: il magnifico Matteo del Carretto, il
magnifico Jo: Artale Tudisco, il magnifico Teseo de Torres ed il nobile Giacomo
de Alletto.
«Dai miei atti, notaro Antonino Quaglia
agrigentino»
«26 gennaio VII^ Ind. 1519
«Il magnifico don Giovanni del Carretto, barone
e signore della terra di Racalmuto, presente innanzi a noi, spontaneamente -
con ogni miglior modo e forma con cui più preclarmente può essere detto e
fatto - costituì, scelse, creò e solennemente nominò come suo vero ed
indubitato procuratore, attore, nuncio speciale il magnifico Giovanni Artale
Todisco.
«Questi, presente ed accettando l’onere della
infrascritta procura del tutto volontariamente, compare a nome e per
conto e parte del predetto magnifico costituente dinanzi l’ill. signor
Viceré per prendere l’investitura della terra e baronia con relativo
castello di Racalmuto, nell’integrità del suo stato e nella pienezza dei suoi
diritti e pertinenze, sia per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria,
sia per la successione delle invittissime cattoliche maestà, la regina Giovanna
ed il Re Carlo, signori nostri invittissimi, e sia per la morte del quondam
magnifico Ercole del Carretto, il di lui padre.
«Al contempo, il procuratore, in nome e per
parte del predetto magnifico mandante, si presenta per prestare il giuramento e
rendere l’omaggio di debita fedeltà e vassallaggio nelle mani dell’illustre e
potente signore viceré, nonché per svolgere quant’altro occorra per prendere la
predetta investitura, non mancando il detto magnifico mandante di obbligarsi
sotto vincolo di ipoteca etc. Così giurò etc.
« Testi: nobile Pietro Pasta e magnifico Vito
Paladello.
«Ex actis meis no. Joannis de Malta de
Panhormo, extratta est praesens copia manu aliena. - Collatione salva.»
«Pro Magnifici don Joannis de
Carrectis baronis Rayhalmuti investitura
VII^ Ind. 1519 - 1518-19 - p.° februarii VII^ ind. [1519] : fiat
investitura solemnibus adimpletis processibus».
Da questo processo, che - pur nella sua
contorsione - è il meno complesso dei processi d’investitura dei Del Carretto,
emergono due o tre istituti molto peculiari del diritto feudale della nostra
terra di Racalmuto:
1.
Diritto dei baroni
all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue vescovo di
Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi paladino
di un omicida, il chierico Jacobo Vella.
1.
Diritto alla destituzione e
nomina di tutte le cariche, civili e militari, di Racalmuto. I Tudisco, i
Promontorio, i Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili, gli Acquisto, i Taibi, i
Fanara, i La Licata, i Gulpi, i Rizzo, i Morreali, i Vaccari, i
Capobianco etc. hanno, tra il XIV ed il XVI secolo possibilità di farsi
apprezzare dagli stravaganti baroni di Racalmuto: ne diventano fiduciari;
spesso si arricchiscono alle loro spalle; in ogni caso attecchiscono nella
fertile terra del grano. Poi tanti svaniscono nel nulla. Qualcuno resta
tuttora, ma senza più il ruolo di profittatori del regime.
1.
Non emerge ancora un chiaro
affermarsi del diritto al terraggio ed al terraggiolo [prestazioni
in natura da parte dei coltivatori delle terre del barone, nel primo caso, e
fuori la baronia, nel secondo - stando almeno alla volgarizzazione della fine
del Settecento].
1.
Il mero e misto
impero dei baroni fa capolino nel Cinquecento, ma piuttosto
tardivamente.
Giovanni III del Carretto eredita la boronia di
Racalmuto qualche tempo prima dell’iniziale investitura; alla morte del padre
Ercole e cioè il 27 gennaio (o un paio di giorni dopo) del 1517. Il 16 marzo di
quell’anno il neo barone manda come suo procuratore Cesare del Carretto per la
formale acquisizione della baronia. Il relativo atto viene stilato con rogito
del notaio Bartolo Carloni di Napoli in data 1° marzo 1518. Il successivo 26
gennaio 1518 nomina procuratore il già detto Giovanni Artale Tudico per gli adempimenti
presso la curia vicereale di Palermo. L’investitura risulta definita il 31
gennaio del 1519. “Fiat investitura” la nota finale del processo. In una
ricostruzione del 1558 si dice che Giovanni fu costretto all’investitura “per
la morte del cattolico ed invittissimo re Ferdinando di gloriosa memoria e per
la successione delle cattoliche maestà la regina Giovanna ed il re Carlo”.
Adempimenti che comportavano aggravi fiscali in prima battuta per il barone, ma
per ricaduta sui malcapitati nostri compaesani del ’500. E poi si vuol far
credere che i grandi eventi della storia non avessero incidenza sulla villica
popolazione racalmutese!
Secondo processo d’investitura
Ma non è finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III
del Carretto è costretto a rifare il giuramento di fedeltà nella forma solenne,
come attesta un diploma rilasciato a Messina. Altre formalità, altre spese, altre
tasse.
Il 2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava
di vivere: aveva tenuto saldamente in pugno la baronia di Racalmuto per oltre
quarantatré anni, un’egemonia lunghissima specie se si tiene conto della
irrisoria vita media di quel tempo.
Ebbe a sposare una signora di riguardo, tale
Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui sappiamo ben poco. Alla data della morte
del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia,
la si indica nel testamento.
Nulla ha a che fare con la celebre Aldonza del
Carretto, questa moglie di Giovanni III: quella era solo la nipote; lascerà un
legato per la costruzione della badia di Racalmuto, ed al contempo inguaierà
fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di
“paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Nel 1375 la terra di Racalmuto contava appena
136 fuochi cui si possono attribuire non più di n.° 500 abitanti,
elevabili a 600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono Bertrando du
Mazel, inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli fuochi in
cambio della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano più di due
chiese, fragili e malandate.
In piena signoria di Giovanni III del Carretto,
le cose erano notevolmente cambiate: la popolazione si era enormemente
accresciuta.
Abbiamo pubblicato nel citato nostro lavoro sul
Cinquecento racalmutese dati e note sul censimento del 1548 - Giovanni III del
Carretto era barone già da 31 anni - che sintetizziamo con questa tavola:
Censimento del 1548
|
Ceti
paganti
|
ceti
esenti
|
evasori
|
totali
|
N.° Fuochi
|
896
|
0
|
90
|
986
|
Abitanti (fuochi * 3,53)
|
3.163
|
0
|
316
|
3479
|
Dai 1600 del 1505 ai quasi 3500 abitati del
1548 il salto era stato rimarchevole: non poteva trattarsi solo di normale crescita
demografica; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate
condizioni di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti;
contadini, mastri e forse anche mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro
quartieri che ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra
l’attuale Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia,
tabaccheria Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c)
Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra la
Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere
del Monte o montis comprendente l’ultimo quarto a ridosso
dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa
occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi
si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o
Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva
in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa,
ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello
infrafeudo) e terraggiolo (quello extrafeudo) furono termini
presto entrati in uso, a significare balzelli che pur tuttavia si accettavano
non essendo diverso altrove. Sfuggì il particolare al Tinebra; vi fece eco
Sciascia e l’odiosità delle presunte angherie comitali cade tuttora sul
malaticcio Girolamo II del Carretto, quello ucciso dal servo arbitrariamente
chiamato con il rispettabile patronimico Di Vita.
Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto
Giovanni III del Carretto
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia
nutrì eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540
mandò suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui
stesso. Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del
Carretto, ma il barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali
che per nostra fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta
piuttosto diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di
Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso
sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le
confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per
garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura - il culto
dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito,
venute in possesso di disponibilità finanziaria e monetarie, cosa di gran
rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a potentati economici molto
simili alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di
proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte
prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le
fanno riparare, e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e
mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo,
ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il
detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci
li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per
celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda
espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le
mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non
potevano ingerirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore
laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il
vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma con evidente scarso successo.
Dai rapporti
episcopali emerge questo interessantissimo quadro delle caratteristiche
istituzioni e affiorano, sia pure con una fioca luce, questi nostri antenati ([59])
:
6.
Luminaria del Santissimo Corpo di Cristo,
istituita nella chiesa maggiore di S. Antonio (che però essendo pressoché
distrutta [v. op. cit. pag. 210] non era praticabile ed al suo posto operava
provvisoriamente l’ “Ecclesiola” dell’Annunciazione della Gloriosa Vergine
Maria): ne era Governatore mastro Antonino La Licata, che introitava la detta
luminaria sopra alcune case di Racalmuto, che erano costituite in 17 corpi di
fabbricati, e che si solevano locare per circa otto once, con affitti peraltro
crescenti. In più il Governatore raccoglieva le elemosine giornaliere e curava
i legati.
7.
Nella detta ecclesiola vi era anche la
confraternita della Nunziata: ne erano i rettori:
1.
Montana mastro Paolo;
1.
Cacciatore mastro Paolo;
1.
Santa Lucia Cesare;
1.
Vaccari Giovanni.
Avevano dodici
once di reddito sopra diverse case che appartenevano alla detta Confraternita,
che si solevano locare per le stesse dodici once.
1.
Confraternita della chiesa di
Santa Maria del Monte: ne erano rettori:
1.
Cacciatore mastro Pietro;
1.
Vaccari Pietro;
1.
de Agrò Mirardo;
1.
Fanara Addario.
Erano al
contempo Governatori ed avevano quattro once e venti tarì di
reddito sopra diversi possedimenti terrieri.
2.
Confraternita di Santa Maria di Gesù: ne
erano rettori:
1.
de Agrò Natale;
1.
Vurchillino (Borsellino) Antonino;
1.
Murriali Giuliano;
1.
de Alaimo Michele.
Erano al
contempo Governatori ed avevano dodici corpi di case in Racalmuto
che solevano locare per dieci once all’anno.
3.
Confraternita di S. Giuliano: ne erano
rettori:
1.
Curto Angelo;
1.
Lauricella Andrea;
1.
Curto Stefano;
1.
Picuni Antonino.
Avevano una certa
rendita. Fu loro imposto di esibire il legittimo inventario, sotto pena
d’interdetto.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e
del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le
grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente
esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è
parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del
Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno
pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del
vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura
sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel
tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto
fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui
verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una
secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata,
Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [60] Tre
anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte
del vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il
taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato
della vita religiosa locale di grande interesse. ([61])
Al centro della locale comunità religiosa è
l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di
San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam
canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese.
Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il
sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano
tutti i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet
dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata
quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica
Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento
del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il
beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale
ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di
frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il
tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit
dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et
illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum
ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo
anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che
il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di
frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400
fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente
sarebbe ascesa quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati
disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo
V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo
che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori
doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di
secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla
primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa
chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie,
tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in circa salme
quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di
casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica
demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una
popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa
in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il fenomeno
elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà
(la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto
percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti
di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi
religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa
dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale
al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da
eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di
la Nuntiata confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra».
E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in
quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme
22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse
quotidie» Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire:
per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da chiesa madre;
è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La vecchia matrice
di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio
dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e
riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et hec que servit pro
maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo dicta maior
ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli ordini
vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla
diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per
formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo
sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei
quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure
i nomi.
Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete
Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del
Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra
di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da
rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti
esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia
penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più
dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio
ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di
cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo
dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli
interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa
Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui
proventi racalmutesi senza interessarsi neppure alla chiesa che sorgeva accanto
a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo
ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel
visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene
compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam
dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia,
non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto
fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse alla
vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108
come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un
diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La
chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di
un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla
visita del 1543 - est titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato
canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al
canonicato della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia
stato mai un racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo
originario, si assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi
si descrive la donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo
parente, il milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa.
Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio
nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in
una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli nella
giurisdizione della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua
individuazione. Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne
specificano i confini; emergono quindi punti di riferimento e località che
nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è
posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo
destino. Il fascino della storia racalmutese non si appanna certo per il venire
meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto il culto di
Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia
nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella
del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1)
Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2)
“Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede
di una Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita
ormai al posto di quella Maggiore, a quanto pare fatiscente;
3)
Chiesa di Santa Maria del Monte;
4)
Chiesa di santa Maria di Gesù;
5)
Chiesa di Santa Margherita;
6)
Chiesa di San Giuliano;
Nella precedente visita del 1540 abbiamo:
1)
Chiesa della “NUNTIATA”
2)
Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)
3)
Chiesa di Santa Margherita;
4)
Chiesa di “Santa Maria di lo Munti”;
5)
Chiesa di S. Giuliano.
(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)
Passando al setaccio i radi accenni delle carte
episcopali del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:
4.
la Nunziata,
visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item
uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et
l’altra di damasco turchino vechia);
5.
Santa Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno
casubolo di borcati vecho stagnato);
6.
Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come
testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi).
Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla di vecchio.
Il testamento di don Giovanni III del Carretto
Di Giovanni del Carretto è consultabile il
testamento ([62])
dettato flebilmente quando era già prossimo alla morte: a raccoglierlo è il
notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio.
L’inventario della vita del barone viene in qualche modo stilato.
In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda
il “molto spettabile signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della
terra di Racalmuto, cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel
Castello della detta terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il
notaio ed i testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano di mente
ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il testamento esordisce con una sorpresa: erede
universale non viene nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto),
ma il secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di
Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso
spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del
medesimo”.
Ripete in dialetto, il morente barone:
“legitimo e naturali, procreatu da me e dalla condam Aldonsa mia mugleri
in tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e
massime in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e
pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti,
orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali,
et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto
Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se si è avuta la pazienza di scorrere questa
specie d’inventario, si ha un’idea di quanto ricco e bene arredato fosse il
Castello; vi era una frotta di servitù e vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A don Federico vanno 200 once di rendita
annuale, oltre alla definitiva proprietà di mille once promesse a suo tempo dal
testatore come dote assegnata nel contrarre matrimonio con donna Eleonora di
Valguarnera.
“Del pari il prefato signor testatore volle e
diede mandato che lo stesso spettabile D. Federico erede universale abbia e
debba sopra la restante eredità versare al signor don Girolamo del Carretto la
somma occorrente per le spese del funerale quale dovrà essere celebrato in
relazione alla qualità della persona dello stesso spettabile testatore sino
alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle 600 once che stanno nella
cassaforte (in Arca) del medesimo testatore ed essendoci più
bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi gli eredi
don Federico e don Girolamo”.
“Del pari il prefato testatore istituisce suo
erede particolare il molto spettabile signor D. Girolamo de Carrectis suo
figlio dilettissimo primogenito, legittimo e naturale nato dal medesimo
Testatore e dalla spettabile quondam Donna D. Aldonza sua consorte, cui va la
baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto con tutti ed ogni giusto
diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il mero e misto impero giusta
la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia, con le prerogative sui
feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri diritti quali il terraggiolo,
le gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo
del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta
Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione: gli competono altresì denaro,
frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti,
nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi
d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni
che seguono”.
Giovanni III morente pensa
alla sua cappella privata nel castello e la dota: «Item praefatus spectabilis
dominus Testator voluit, et mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia
Cappellae existentes in Castro dictae Terrae quae inservierunt pro Culto
Divino, etiam illae raubae quae sunt, ut dicitur de carmisino, et imburrato
remanere debeant in Cappella dicti Castri pro uso dictae Cappellae in Culto
divino.»
“E così
il predetto testatore volle e diede mandato, ordinò e invitò come ordina ed
invita il detto spettabile don Girolamo suo figlio primogenito, futuro ed
indubitato successore nella detta Baronia affinché voglia e debba bene
trattare, reggere e governare tutti ed ogni singolo vassallo della predetta
terra e non permettere che vengano molestati da chicchessia, e ciò per amore di
nostro Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del
testatore.»
Non
crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo peso alla retorica
raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e Racalmuto fu solo il
luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità liquide, spese
soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia
il legato a carico di Girolamo di far dire tante messe nel convento di
San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una Cappella bene
adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al Convento dovevano pure
andare le 7 once di reddito annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de
Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San
Francesco, nulla è dato sapere: crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben
altro a cui pensare a Palermo per spendere soldi per una tomba regale nel
lontano e spregiato Racalmuto. Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di
devozione sia stato considerato artefice ed ispiratore il notaio. Come
familiare del Santo Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi modo di
incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il danno
della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento di
Sciascia per la letteraria rievocazione storica.
Il morente barone dichiara di
avere speso 130 once nella compera di legname e tavole per il tramite di mastro
Paolo Monreale e mastro Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate
27 once per la costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once
per completare il tetto “della chiesa di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha
anche figlie femmine da dotare:
1.
donna Beatrice del Carretto,
moglie di don Vincenzo de Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150
once in contanti da prelevare dalle casse del castello);
1.
donna Porzia del Carretto,
moglie di don Gaspare Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi,
dunque). Si parla di altre 50 once in contanti da erogare;
1.
Suor Maria del Carretto,
dilettissima figlia legittima, monaca del convento di Santa Caterina
della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la monacazione, altre 20
once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu
forse anche un tantinello venale: introdusse una clausola che, se non fu
determinante, contribuì quasi certamente alla sua rovina ed al suo deferimento
al Santo Uffizio da parte dei potenti ed ammanigliati del Carretto. La clausola
in latino recita: «Item ipse spectabilis Dominus testator legavit mihi notario
infrascripto pro confectione praesentis, et inventarij, et pro copijs
praesentis testamenti, et inventarij uncias quinque, nec non relaxavit et
relaxit mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et
gravorum omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae
inditionis pro Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per esserci stato
buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.» Vada per le
cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal terraggio e dai
censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo Jacopo pagò quella
sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure: Jacopo Damiano, notaro
fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che
si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte ed il
testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma non i beni né
l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che
ipso ha cercato, non trova forma nixuna di potirisi alimentari si non di
ritornarsi in sua terra di Racalmuto [in effetti ci sembra originario
di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo
ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo recogliriano, anzi lo
cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et necessità ...».
Tanta la beneficenza del
barone morente (ma era compos sui, o il ‘luterano’ notaio inventava?):
7.
5 once al venerabile convento
di San Domenico della città di Agrigento;
8.
5 once alla venerabile chiesa
di Santa Maria del Monte;
9.
10 once al venerabile
ospedale della terra di Racalmuto;
10.
5 once alla venerabile
confraternita di San Nicola di Racalmuto;
11.
5 once alla venerabile chiesa
di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una certa quantità di calce e
detenendo una fabbrica di calce (“calcaria”) esistente in territorio di
Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa
di San Giuliano
12.
5 once alla chiesa di S.
Antonio (che quindi è ritornata in auge);
13.
5 once in onore del glorioso
Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà
debbono andare ben 20 once per i tanti servizi prestati; 10 once, invece, al
servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero;
gli è stato vicino ed amico. Ecco perché raccomanda al successore d. Girolamo
del Carretto «quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae
Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi, et exempti ab omnibus,
et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili Domino eius
successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum, et olei, et
hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et
mandavit.»
I preti debbono dunque essere
immuni dai balzelli baronali come la gabella dei salami, del vino, della carne,
del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga
sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone ha due consanguinee
nel convento di Santo Spirito di Agrigento: suor Scolastica e suor Giovanna
Nudizzo. Se ne ricorda in punto di morte stabilisce un legato di 5 once per
ognuna di loro. Ne avrà avuto preghiere ardenti.
Il barone ha un obbligo di
coscienza: deve chiarire le dubbie ascendenze di don Matteo del Carretto. «Item
praefatus dominus Testator - ha voglia di dichiarare - ad
instantiam Magnifici Domini Matthei de Carrectis, et Dominae Antoninae eius
filiae dixit et declaravit qualiter tempore vitae condam spectabilis Cesaris de
Carrectis audivit ab eodem domino Cesare, qualiter ipse dominus Cesar erat
filius Dominae condam Contissae de Valguarnera, cuius pater erat olim filius
dominorum Sigismondi, et Valentini de Valguarnera condam Cesaris
[...]Unde ad instantiam dictorum Magnificorum Matthei et Antoninae
Patris, et filiae pro eis stipulantibus me notario publico, factum est praesens
capitulum pro exoneratione conscientiae jacens in lecto infirmus, confessus et
contritus ut dixit etc.»
Il barone resta, comunque,
legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito
con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi
giorni, la sua fede era fervida): «Item elegit eius corpus sepelliri in
Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus ordinis ditti Sancti Francisci
et ita voluit, et mandavit.»
Ancora un ritorno alla
beneficenza: «Item dictus dominus Testator dixit et declaravit quod super
bonis praedictis Petri de Cachertone habet uncias duas censuales, annuales, et
rendales. Ideo de eis legavit, et legat Venerabili Conventui di lu Carmino
unciam unam. et tt. sex [f. 56] pro illis uncia una et tt. sex quos restabunt
super eius bonis Sanctae La Lomia quae bona voluit quod intelligantur, et sint
de cetero dissobligata, restans supradictorum reddituum ad complementum
dictarum unciarum duarum relaxavit, et relaxat heredibus dicti condam de
Cachertone, quia fuerunt male impositae et ita voluit, et mandavit.» Sembra
una resipiscenza; un volere riparare nel terrore della morte a malefatte, o
almeno a qualcuna delle malefatte, delle vessatorie imposizioni, degli arbitrii
predatori.
Fiducia al prete De Leo, di
cui abbiamo detto sopra: «Item instituit in eius fideicommissarium et
praesentis testamenti exequutorem Reverendum D, Franciscum Deleo, Vicarium
praedictae Terrae Racalmuti cum pacto intradicto.» Come si vede,
l’arciprete non è neppure considerato: era un burocrate in abito talare; a
Racalmuto era presente solo per riscuotere.
La chiusa del testamento è
rituale, con i testi e la firma, con l’indicazione del notaio redigente: Testes
sunt hij Videlicet Ego frater Sigismundus de Agrigento testor; Ego Antoninus de
Russis U.J. Doctor interfui et testor; Ego Sacerdos de Leo interfui, et testor;
Ego Marcus Piemontisius interfui, et testor; Ego Vincentius Damianus interfui,
et testor; Ego Mattheus Damianus interfui, et testor.
Ex actis
condam Jacobi Damiano copia per me notarium Michaelem Angelum Vaccaro notario
Racalmuti dictorum et aliorum act. conservatorem generalem. - Coll. Salv. .
Il processo d’investitura del successore
Girolamo I del Carretto ci attesta che in gennaio del 1560 Giovanni III del
Carretto cessò effettivamente di vivere; morì in Racalmuto e fu davvero sepolto
nella chiesa di San Francesco.
GIROLAMO
I DEL CARRETTO
Il Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco
come descrive quello che fu l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto
(cfr. § 78 op. cit.):
«A Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi
di Giovanni, dunque ritorniamo. Su di lui ebbe a scrivere distesamente in
lettere inviate a Filippo II re di Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di
Massimiliano che la famiglia del Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli
antenati di Girolamo vantavano il titolo di marchesi di Savona, volle che il
nostro Girolamo fosse chiamato ed avesse in quel tempo il titolo di conte
di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire avrebbe amplificato la gloria
di tanta illustre famiglia con titoli di maggior risalto.
« Le lettere del re, dove Girolamo è
gratificato con il titolo di conte, sono da riportare. Niente è più preclaro.
Esse sono datate: 28 giugno 5 ind. 1577 e recitano: “Filippo etc. A tutti
quanti etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei
marchesi di Savona documentato l’insigne virtù non disgiunta da grandi
fortune della propria stirpe, abbiamo considerato i tanti servizi che ai nostri
predecessori, di felice memoria, sono stati dai del Carretto prestati quando
necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo considerato l’antica nobiltà e lo
splendore della famiglia carrettesca, che non soltanto in questo Regno ma in
tante altre nostre province si è a diverso titolo resa celebre e meritevole. E
omettiamo di considerare gli altri celebri uomini della medesima famiglia che
meritevolmente sono assurti a preclare e altissime dignità dello stato
ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati verso il lodato D. Girolamo
Carretto etc.”
«Noto è per di più quanto l’imperatore Rodolfo
fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la lettera del padre,
l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si gratificasse Girolamo
con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc. Premesso che
negli anni scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e genitore nostro
colendissimo di augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità vostra lettere
in favore del fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro Girolamo de Carretto
barone in Racalmuto dei marchesi di Savona, con le quali lettere benevolmente
si pregava la Serenità vostra affinché Girolamo del Carretto, i suoi figli ed i
suoi discendenti primogeniti successori nella baronia Rachalmutana, potessero
fregiarsi del titolo grado e dignità marchionale e volesse pertanto erigere la
detta baronia in marchesato; ne conseguì che la vostra Serenità decretò quella
baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore ingenerò
in D. Girolamo la speranza che in altro tempo gli potesse venire concesso il
titolo di marchese. Ed è per questo che il predetto Girolamo de Carretto conte
in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto desidera essendo noto
che egli discende dall’antica stirpe dei Marchesi di Savona, la quale ha
origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion per cui così alla fine egregiamente
concluse l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore preghiamo la
Serenità vostra affinché vengano restituite al predetto Girolamo le avite
prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche per la
nostra intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò, peraltro,
ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12 febbraio
1580.»
Siffatto pasticcio epistolare non sortì effetto
alcuno. La baronia “rachalmutana” di cui si parlò nelle corti degli Asburgo
ascese solo di un grado e divenne contea, ma marchesato giammai. Diociotto anni
dopo, nel 1598, i del Carretto tornarono alla carica, ma invano. Il Baronio infatti
prosegue:
«Esiste un’altra missiva, molto ben fatta, del
1598. Fra l’altro vi si diceva: “Antica e regale è la famiglia dei del
Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene accetta
ai nostri Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del Carretto, conte
di Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono le grazie di
nostro padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della nostra
benevolenza e volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto ciò che
possa accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc.”
«Da quanto sopra è ben chiaro che
Girolamo e la famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto dagli
imperatori come le citate missive, altri documenti che non ho citato ed
autorevoli testimoni ampiamente comprovano.»
Le note del Baronio rendono invece a noi chiaro
che i del Carretto, giunti all’apice della ricchezza con la baronia di
Racalmuto, presero il largo e andarono a dimorare a Palermo. Lì, la fatua e
neghittosa nobiltà aveva solo l’angoscia delle preminenze negli onori. Agli
immigrati del Carretto, il titolo di barone suonava stretto: si prodigarono in
regalie, bussarono a varie porte regali, impetrarono favori, ma non riuscirono
a superare la soglia del titolo comitale.
Il Villabianca lesse il Baronio e vi si ispirò
quando redisse questo profilo sul nostro Girolamo I del Carretto:
«GIROLAMO nel retaggio di
questo Stato dopo la morte di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor
di Contea per privilegio del serenissimo Rè Filippo Secondo, dato
nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576,( [63])
esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577. ( [64]) Fu
pretore di Palermo nell'anno 1559 ( [65]), e Don
Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente
l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri della Patria mercé il lodevolissimo
governo, ch'egli fece, procacciato avendone gloria, ed ornamento. Presiedette
altresì la Compagnia della Carità di essa Città di Palermo nel 1549., e adorno
videsi di distintissimi elogi fattigli da Rodolfo Imperatore con le sue
Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni 1580 e 1598., rapportate per
extensum da BARONE loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest.
Panormit. - Da esso fu dato al mondo [p. 205] GIOVANNI del CARRETTO,
quarto di questo nome. il quale fu il secondo C. di RAGALMUTO, e Pretore di
Palermo nel 1600. ( [66]) di non
minor merito di quello del genitore come vuole il citato DI GIOVANNI
nell’istesso luogo notato di sopra, avvegnachè fu egli dotato di tanta
prudenza, valore, ed abilità, che nella onorevol carriera di reggere gli affari
pubblici avanzò tutti gli altri cavalieri suoi pari, e magnati suoi
contemporanei.»
Sciascia dileggia questo nostro barone assurto
al rango di conte. «Il primo Girolamo - riecheggia il grande racalmutese
( [67]) - fu
invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per lui Filippo II
datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un privilegio che
elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non sappiamo
molto: fu pretore a Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione seu
presunzione”, come invece afferma il Paruta, la sollevazione dei palermitani
contro la sua autorità. Né mi pare che sia da ascrivere a sua gloria il fatto
che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo dell’anno milleseicento,
trentasette facchini abbiano subita la pena della frusta: notizia che senza
commento offre il già ricordato erudito regalpetrese [alias
il Tinebra, n.d.r.]». Tutto bene, salvo il fatto che nel 1600
Girolamo primo del Carretto era già morto da diciotto anni. L’abbaglio nasce da
imprecise letture da parte del Tinebra dell’opera del Villabianca.
Dai processi ricaviamo questi dati biografici.
Girolamo I del Carretto fu il primogenito di Giovanni III, come si evince dal
testamento redatto dal notaio Jacopo Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio
1560 Girolamo s’insedia quale barone di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il
suo procuratore, il magnifico Giovanni Antonio Piamontesi. La formula recita
che il barone prese “l’attuale, vera, naturale, corporale baronia del castello,
dei feudi e del territorio di Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il
mero e misto impero, con le giurisdizioni civile e criminale su tutto lo stato,
risultato integro giusta la forma dei privilegi baronali”. Il procuratore
rispetta il meticoloso ed emblematico rituale: “esibisce la chiave del portone
del castello; di propria mano apre e chiude quella porta; entra ed esce; si
reca presso i feudi; ne prende alcune pietre in segno di libera disponibilità
di quelle terre; revoca e rinomina tutti gli ufficiali locali: il castellano
nella persona del nobile Scipione de Selvagio; il capitano nella persona di
Giovanni Piamontesi; il giudice nella persona del nobile Marco Promontori; i
giurati nelle persone di Cesare di Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo
Caravello; il maestro notaio nella persona del nobile Innocenzo de Puma”. Viene
redatto pubblico atto. I testi sono: il nobil homo Maragliano, il nob. Antonino
de Averna, l’onorabile Antonuccio Morriali e l’onorabile Gerlando de
Pitrozella. Il notaio è ancora il povero Jacopo Damiano che però si dichiara
agrigentino.
Girolamo I del Carretto muore nel gennaio del
1582. Sono ancora i processi d’investitura a dirci che esternò le sue ultime
volontà dinanzi il notaio Giacomo Devanti di Palermo il 14 gennaio del 1582, ma
il testamento fu aperto un anno dopo, il 9 agosto del 1583. Fu sepolto nella
chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura in Palermo proprio sotto quella
data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della chiesa di San Giacomo alla Marina
del 14 luglio 1584.
Sposa di Girolamo I del Carretto fu una
Elisabetta di ignoto casato.
Ma come si è visto, i del Carretto non stanno
più a Racalmuto: quella lontana terra, quel loro ‘stato’ serve solo per
approvvigionare di fondi questi nobili accasatisi a Palermo. Nel castello
racalmutese siede e dispone un ‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato
neppure un atto che attesti la presenza del barone ora conte di Racalmuto,
magari come padrino in un qualche battesimo. Qualche membro dei rami cadetti,
sì, ma il conte giammai. Vi farà ritorno solo Girolamo II del Carretto per
venirvi trucidato (se ciò corrisponde al vero) nel 1622.
In altra parte del presente lavoro pubblichiamo
il privilegio di Filippo II che erige a contea Racalmuto: è una sfilza di vacue
formule da cui non riusciamo a cavare alcun briciolo di microstoria
locale. Non abbiamo qui note in proposito da proporre.
Da questo momento la vicenda familiare dei del
Carretto è cosa che solo di striscio colpisce Racalmuto. Vale di più per la
storia della città di Palermo.
Ciò non vuol dire che non vi furono riflessi
tributari su Racalmuto a seguito della concessione dell’onore di farne una
contea da parte di Filippo II a tutto vantaggio di Girolamo I del Carretto.
Anzi. I riflessi ci furono e gravi. Una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone fra
le carte del fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo ha consentito di
rinvenire documenti di quel tempo, estremamente significativi per la
riesumazione delle vicende vessatorie cui sottostarono i nostri antenati
racalmutesi del Cinquecento.
Peste e tasse a Racalmuto
Il carteggio illumina sull’esoso fiscalismo
spagnolo ai danni dell’università feudale ed ha tratti inquietanti circa la
disumanità viceregia.
Nel 1576 si era abbattuto su Racalmuto quella
immane pestilenza che colpì l’Italia intera.
Del pari sconvolgente dovette essere lo
scenario racalmutese: leggiamo nel carteggio che «per lo contaggio del morbo
che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a
Racalmuto] restano solamente ... due mila e quattrocento delli quali
la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel precedente Rivelo del 1570 Racalmuto
in effetti contava 5279 abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena
3823: una flessione che sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia
scarica sui del Carretto e sulle sue tasse enfiteutiche del terraggio e
del terraggiolo [Morte dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso che anch’io ero scettico su questo
crollo demografico di Racalmuto prima della consultazione dei documenti del
Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in pieno in questo tracollo: ci fu
un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di scontare la tragedia della
peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia, la flessione vi fu e forte. I nostri
antichi progenitori parlano di un dimezzamento della popolazione nel vano
intento di intenerire gli agenti delle tasse palermitani; ma per bocca del
viceré don Carlo d’Aragona e della sua corte Sucadello, De Bullis ed Aurello,
costoro non se ne diedero per intesi. Le “tande” - o più graziosamente
“donativi” - andavano pagate sino all’ultimo grano a Sua Maestà Cattolica il re
di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è agli atti una secca e perentoria negativa
alla seguente perorazione dei Giurati racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li Giurati della
terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per l’Università di
quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte cossì per
donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per oblationi ?] fatti
per il Regno à Sua Maestà, come per le tande della Macina, non havendo
quelli possuto satisfare per lo contaggio del morbo che in quella s’hanno
ritrovato ... , à vostra Eccellenza l’esponenti hanno supplicato
che se li concedesse à pagare quel tanto che detta università deve alcuna
dilattione competente [e che ] à detta Università fossero devenute [condonate]
li tandi maxime quella della macina che si doveva pagare ..»
La burocratica risposta palermitana è spietata:
la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia in un “non
convenit” “non conviene”. La tragedia racalmutese agli occhi palermitani si
traduce in una gretta questione di convenienza. L’abbuono di tasse non è
ammesso, non conviene alle esigenze del bilancio dello stato. Una storia dunque
che si ripete; un localismo, il nostro, quello di Racalmuto, che ha
valenza oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che isola nell’isola
..
Remissivamente i giurati di Racalmuto nel 1577
accettano il loro fato e fatalisticamente annotano:
[Ma tale petizione non ha avuto esito] “per
lo chi attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato per vostra
Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f.
228] e poiche l’esponenti per li Commissarij che alla giornata si destinano
contro loro, e detta città per l’officio del spettabile percettore s’assentano,
e non ponno ritrovare modo alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li
causano eccessivi danni, et interessi supplicano Vostra Eccellenza resta
servita concederli potestà di poter fare eligere persona facultosa, poiche
pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e raddoppiare alcune
delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per consiglio si
concluderà, acciò potersi sodisfare nullo preiudicio generato ad
essa università circa
detta diminuttione, e difalcatione che hanno supplicato doversi fare à detta
Terra per detta mortalità, e mancamento di persone, e resti servita
Vostra Eccellenza sia quello mezzo che si concluderà quello che di
sopra si è detto per detto consiglio concederli dilattione almeno di
mesi due, altrimente stando assentati non potriano effettuare cosa alcuna e
detta Regia Corte non verria ad esser sodisfatta ne tenendo detta università
modo alcuno di sodisfare, ne tener altro patrimonio ut Altissimus. ..”»
La messa in mora della locale
amministrazione per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena
dunque la cupidigia di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato
paese moroso ad esigere, oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali
diarie per missioni) e ad aggravare le esauste finanze locali «con
eccessivi danni ed interessi».
Si accordino - si chiede da Racalmuto - due
mesi di dilazione per trovare un sistema di reperimento dei fondi
ed assolvere il cumulo tributario.
Questa seconda istanza viene accolta. Ma
l’invadente autorità viceregia detta una serie di disposizioni sui modi, tempi
e luogo delle procedure per un nuovo sovraccarico fiscale sulla cittadinanza
racalmutese.
Il carteggio qui va attentamente studiato
raffigurando istituti, costumi, organizzazioni pubbliche e territoriali del
primo secolo dell’epoca moderna. Hanno una originalità che non mi pare sia
stata debitamente messa in luce dalla cultura storica degli accademici.
Viene fuori uno spaccato dell’organizzazione
statuale che non può ridursi al mero dato tributario (la gabella per assolvere
gli oneri fiscali) ma che fa trasparire una vocazione democratica impensata.
Per sopperire alle necessità tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune
libero, democraticamente organato, con una sua assise plebiscitaria, avente
poteri decisionali.
L’ordine, certo, arriva da Palermo,
dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare le istituzioni
democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali consigli comunali
sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a raccolta, è il
popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari, ovviamente sotto la
guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la giunta comunale: la
giurazia.
Affascinano questi passaggi delle carte
palermitane:
vi diciamo, et ordiniamo che debbiate in giorno
di festa e sono di campana come è di costume congregare il vostro solito
consiglio sopra le cose contenute nel preinserto memoriale, e quello che per
detto conseglio seù maggior parte di quello sarà concluso, et accordato, e
sigillato lo trasmitterete nel Tribunale del real Patrimonio acciò di quello
fattone relatione possiamo provedere come conviene. - data Panormi 11. Martij
5^ ind. 1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus Augustinus Sucadellus ...
conservatore [f. 229] Marianus Magister Rationalis, de Bullis Magister
Rationalis, Franciscus de Aurello Magister Notarius, ..»
Il Consiglio comunale si svolge nella chiesa
dell’Annunziata - che anche allora, molto prima che nascesse don Santo d’Agrò,
era bene operante a Racalmuto - ed abbiamo anche il verbale consiliare
che mi pare opportuno rileggere, almeno nelle sue parti essenziali:
Racalmuti die 25. Aprilis 5^ Ind. 1577.
Die festivo Supradicti Martij in Ecclesia
Sanctae Mariae Annuntiatae dictae Civitatis existens in platea publica.=
Perche ritrovandosi l’università di questa
Terra di Racalmuto debitrice in molta somma cossì alla Regia Corte
è stato supplicato da parte di detta Università
per li Giurati di quella à Sua Eccellenza che per li detti debiti se li
concedesse dilatione competente per potersi ritrovare il modo di quelle
sodisfare, et in quanto à quelli della macina poiche avendosi fatto offerta à
Sua Maestà, et ordinatosi quella dovere pagare per poche di persone di tutte
città, e terre del Regno à raggione di denari novi per ogni tummino [f. 230]
che per il ripartimento e numero di persone che allora vi erano in detta terra
tocca à detta Università pagare in due tande once 24.5.11.2.
e vedendosi che tuttavia detta Università non
si vederà libera à tal debito supplicano detti Giurati un’altra volta à Sua
Eccellenza che resti servita concederli potestà di poter eligere persone
facultose, ò vendere et augumentare, e raddoppiare alcune delli gabelle di
detta Università, e fare quel tanto che si potesse per consiglio concludere
acciò si potesse detta Università liberare di tal debito et interesse nullo
prejudicio generato à detta Università sopra la diminutione, e difalcatione che
se li deve fare per detta Regia Corte stante le raggioni predette come si
contiene per memoriale alli quali s’abbia in tutto relatione [f. 231] et
essendo stato provisto per la prefata Eccellenza Sua e Tribunale del Real
Patrimonio che si congregasse sopra le cose contente in detto memoriale
consiglio, e quello si trasmettesse per poter provvedere come convenisse, per
ciò s’ha devenuto alla congregatione del presente consiglio come intesa la
presente proposta habbiano sopra le cose prenominate ogn’uno possi liberamente
dire il suo voto, e parere.
Il Magnifico Vincenzo d’Randazzo uno delli
Magnifici Giurati di detta Terra, e locotenente del Magnifico Capitano di
quella, è di voto, e parere che s’aggiongano onze quaranta di rendita da
pagarsi quolibet anno come meglio e per manco interesse di detta Università si
potrà accordare con quelle persone che vorranno attendere à tal compra di
rendita,
E pertanto
le gabelle ... averanno da raddoppiare, et
accrescere
sopra le quali s’haverà d’imponere il novo
imposto il quale sarà per il corpo, e capitale della detta rendita
E prima sopra la gabella del vino
[f. 233] Sopra la gabella dello Pani,
fogli, fiori, e frutti virdi, e sicchi,
Sopra la gabella delli panni, arbascie,
cannavazzi, e cordi
Sopra la gabella dello linu cànnavu (canapo),
ferro, e ramo rustico, e lavorato, e legname d’ogni sorte rustica, e lavorata
Sopra la gabella delli Pisci, e Salsizzi,
Sopra la gabella delli Pani, formaggi, cascavalli,
Meli, e cera
.
Per le quali gabelle, e loro pagamenti
s’haveranno da fare li capitoli per li Magnifici Jurati, e con l’impositione
delle pene solite come sono l’altri capitoli.
Il Magnifico Jacobo Piamontese Giurato è del
sopra parere.
Il Magnifico Jacobo Sciurtino ut supra.
Il Magnifico Signor Giovanni Artale Tudisco ut
supra.
Il Magnifico Giuseppe d’Ugo ut supra.
Petro Barberi ut supra.
Martino Rizzo ut supra.
Magistro Antonio Vulpi ut supra.
Il Mastro Notaro Giovan Vito d’Amella è di parere
come di sopra, et si, et quatenus lo raddoppiamento raccrescimento che si farà
alli gabelli predette non bastassero per la sodisfatione di quello che si deve
alla Regia Corte quolibet anno, e per la soggiugatione che si farà quod utique
dette gabelle s’habbiano da aggumentare, e raddoppiare, et accrescere, tante
volte, quante sarà f. 235] di bisogno in modo che si complisca il
pagamento predetto, e che s’habbiano d’imporre altre gabelle essendo di bisogno
in modo che detta Università non venghi a pagare al minuto, e per tassa, e che
si debbia fare thesaureri persona sicura, d’eligersi per li giurati quolibet
anno per li pagamenti predetti e suoi spisi, con salario d’onze vinti
l’anno il quale s’habbia d’obligare nomine proprio et à fare li pagamenti predetti
con li debiti cauteli per atto publico come à detti Giurati parerà.
* * *
Per inciso, richiamiamo l’attenzione sul
menzionato giurato racalmutese del 1577 Vincenzo Randazzo che sembra farla da presidente
della giurazia. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse
appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe
oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa
genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo era invece
figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Ritornando
al nostro tema del carteggio del 1577, resta evidente che vi si trova uno
spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio democratico, con istituzioni
pubbliche che esulano dal diritto romano e da quello del sorgere dello stato
moderno; affiora qualche dato che fa pensare alla tipica organizzazione greca
della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il ricorso al voto
cittadino espresso in una solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al
suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita nel centro della
grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si allargava nello
spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si riversava nell’attuale
Piazza Castello per risalire nel largo ove ora sorgono i palazzotti degli
invadenti Matrona [la vaniddruzza di Matrona].
Nel
confrontare l’attuale assetto urbanistico con quello che l’ex voto del
Monte ci fa intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli
arricchiti di Racalmuto dello secolo XX di piazzarsi con i loro casamenti
sopraelevati sulle case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della
storica piazza dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi
credere anche dalle menti più elette del nostro paese come dei benemeriti
filantropi!
Certo
marginale appare il ruolo dei del Carretto in questa vicenda fiscale. Quel che
rileva è il ricorso pubblico al prestito, quello cioè che oggi avviene tra i
Comuni e la Cassa Depositi e Prestiti. Solo che allora per Racalmuto siffatta
Cassa DD.PP. era nient’altro che uno strozzino di Agrigento, tal Caputo,
superriverito ed adulato dal pubblico notaio.
Popolazione racalmutese nel 1577
Sembra
opportuno tracciare il grafico della popolazione di Racalmuto che tenga conto
dei dati del carteggio del 1577.
La
curva dell’andamento demografico della Racalmuto del ’500 si avvalla
vistosamente, come è ovvio, nell’anno della peste del 1576, e così si dispiega:
Il
crollo demografico del 1576, come si vede, sembra irreversibile (anche se fu
dovuto
più
alla fuga che alla morte dei racalmutesi: i superstiti quindi ebbero poi modo
di ritornare nelle loro case di paese, lasciando - riteniamo - quelle di
campagna). Occorrerà aspettare il 1658 (un secolo) per risalire a quota 5.165 e
solo nel 1660 la popolazione supererà quella del 1570 assestandosi a quota
5488.
Quanto
alle finanze locali, la crisi del 1577 fu in qualche modo tamponata; il
bilancio comunale toccherà nel 1593 un disavanzo di appena 28 onze, un tarì e
quattro grani (460 onze d’introito ed onze 488, tarì 1 e grana quattro
d’esito). La forte pressione fiscale - tutta basata sulle imposte indirette -
portarono ad una asfissiante strozzatura dei consumi da parte dei poveri. I
proventi dalle rinomate salsicce racalmutesi furono pressoché nulli: pane,
foglie, pilo, vino, formaggio, legname, pesci e qualche altra voce diedero un
gettito tributario che si volatizzò essenzialmente per le spese militari e per
oltre la metà per ciò che era dovuto alla regia Corte a titolo imprecisato. Per
di più si pagavano sei onze annue per “tande”.
[3] ) G. A. Silla - Finale
dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola - Cenni e Memorie -
Finalborgo 1922, pag. 93.
[4] ) G. Pipitone-Federico
- I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti - Palermo 1891, pag. 14.
[7] ) J. Glénisson:
Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di Sicilia
(1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in Italia II - Roma 1948,
p. 246 e ss.
[8]) Vincenzo D’Alessandro -
Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo
1963, pag. 108.
[9] ) Vincenzo D’Alessandro
- Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo
1963, pag. 120.
[10] ) Vincenzo D’Alessandro
- Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963,
pag. 121.
[13]) Il toponimo è presente
negli atti notarili per lo meno dal 1714: non può quindi riferirsi a nessuna
Baronessa Tulumello.
[14]) Archivio Parrocchiale della
Matrice di Racalmuto - LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto
della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto, incominciando dalli 29 di
novembre 8a Ind. 1654 et infra -D. Lucio Sferrazza - Vol. I “Esito n.° 7
dell’11/12/1658”.
[15] ) ÇURITA
GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON -
ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
[16]) D. Francisci Baronii ac
Manfredi - De Maiestate Panormitana libi IV - Panormi apud Alphonsum de Isola -
MDCXXX.
[18]) Leonardo Sciascia: Un
pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto - Editoriale
«Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[21]) F.M. EMANUELI e GAETANI -
Della Sicilia Nobile - PARTE II. libro I - DELLA SICILIA NOBILE [VILLA
BIANCA]
[24]) Giovan Luca Barberi - Il
«Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori - op. cit. - pag. 526 e segg.
[26]) Francesco San Martino de
Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla
loro origine ai nostri giorni (1925). Lavoro compilato su documenti ed atti
ufficiali e legali. - Volume sesto, Palermo 1929 - quadro 783 - Conte
di Racalmuto - pag. 182 e segg.
[27]) Vincenzo di Giovanni,
Palermo restaurato. Citiamo dalla edizione di Sellerio editore Palermo - 1989 -
pag. 191. Evidentemente questa parte del manoscritto che viene datato 1627 era
stata scritta prima del maggio 1622, epoca della morte (o omicidio) di Girolamo
II Del Carretto.
[28]) Vito Maria Amico
Statella - Lexicon Topographicum Siculum - Tomi secundi pars
altera, Panormi 1757-60 - voll. 6. [Biblioteca Nazionale V.E. Roma pos. 1.24.C.
19/24]
[29]) F. M. Emanueli e Gaetani -
Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore [copia anastatica dell'edizione
Palermo 1759 - Parte II, libro IV, pag. 199 e segg.]
[30]) Anche se non l'artefice
primo della fantasiosa baronia racalmutese dei Barrese, il Villabianca è
responsabile degli abbagli storici degli ereduti di Racalmuto - a cominciare
dal padre Bonaventura Caruselli da Lucca [Sicula], non proprio indigeno,
dunque, ma pur sempre autore principe del racconto della 'venuta' della Madonna
del Monte.
[31]) F. TOMAE FAZELLI SICULI OR.
PRAEDICATORUM - DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS
ACCESSIT TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS - Panormi ex postrema Fazelli
authoris recognitione. Typis excudebant, Ioannes Mattheus Mayda, et Franciscus
Carrara, in Guzecta via, quae ducis ad Praetorium, sub Leonis insigni, anno
domini M.D.LX. mense iunio. [Biblioteca Nazionale - manoscritti e libri rari -
10.7.E.5] Barrese (origine e genealogia) pag. 592 - De rebus .. posterioris
decadis liber nonus - cap. Nonum.
[33]) D. Francisci Baronii ac
Manfredis - De Majestate Panormitana libri IV - Panormi apud Alphonsum de Isola
- MDCXXX - [Biblioteca Nazionale V.E. - Roma - 7.4.L.31.]
[34]) Filadelfio Mugnos, Teatro
genealogico delle famiglie nobili, titolate, feudatarie ed antiche del
fedelissimo regno di Sicilia, viventi ed estinte, 3 volumi, Palermo
1647, 1655; Messina 1670. [Dalla ristampa anastatica di Arnoldo Forni editore,
pagg. 237-240 del Libro I].
[35]) D. Agostino Inveges - Palermo
antico - Palermo 1649 e D. Agostino Inveges - Sacerdote Siciliano, da
Sciacca - Anno 1660. - La Cartagine Siciliana, historia in due libri,
pubblicata in Palermo, nella typograph. di Giuseppi Bisagni. 1661.
[36]) Illuminato Peri, Per
la storia della vita cittadina e del commercio nel medio evo - Girgenti porto
del sale e del grano - in Antichità ed alto Medioevo,
Studi in onore di A. Fanfani, I - Giuffrè Editore Milano 1962, pag. 607.
[37]) L'Inveges ci informa a pag.
159 che Marchisia Prefolio «si morì carica d'anni ... nella stessa Città di
Giorgenti circa l'anno 1300, si sepellì nella Maggior Chiesa della medesima
città con pompa di marmorea urna; ove in terra piana anche fù sepellito
Federico Chiaramonte suo figlio loco depositi con ordine; che
ivi si fabricasse una Cappella; & ogni dì si celebrasse una Messa; come
appare per lo [pag. 160] testamento 1 [nota 1: In Tab. Conventus S.
Dominici Agrig.] celebrato in Girgenti anno Dominicae Incarnationis
1311, Mense Decembris 27. Indict. 10. regnante Serenissimo Domino N. Domino
Friderico III. Rege anno sui regiminis 16.
[38]) Citiamo sempre da La
Cartagine Siciliana (pag. 228 e ss.): Venne Costanza per la morte
di Federico padre ad esser Signora, e padrona dell'opolenta eredità paterna; e
dal suo matrimonio nascendo Antonio del Carretto primo genito, li fece doppò
libera e gratiosa donatione della Terra di Rachalmuto: come appare nell' [pag.
229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344.
quale insin ad hoggi detta famiglia Del Carretto possede.
[39]) Diario della città
di Palermo dai mss. di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino - in Diari
della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di
Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag. 136.
[40]) Varie cose notabili
occorse in Palermo ed in Sicilia, copiate da un libro scritto da Valerio
Rosso. 1587-1601 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX,
per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag. 283.
[41]) Aggiunte al diario
di Filippo Paruta e di Nicolò Palmerino, da un manoscritto miscellanio
segn. Qq C 28 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX,
per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. II - Palermo 1869, pag. 24 e ss.
[42]) Diario delle cose
occorse nella città di Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16
dicembre 1652, composto dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai
manoscritti della Biblioteca Comunale ai segni Qq C 64 a e Qq
A 6, 7 e 8, in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX,
per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. III - Palermo 1869, pag. 359 et passim.
[43] ) Datis Cathanie anno
dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII die primo Januari VIII
Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de Aretio Prothonotaro [ARCHIVIO
DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL
CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[46] ) Rosario Gregorio fu
storico e paleografo di grandi meriti: non si riesce a capire perché Sciascia
ce l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute nel “Consiglio
d’Egitto”: «Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico, caso personale
a parte, fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da uomo grasso, il
labbro inferiore tumido, un bitorzolo sulla giancia sinistra, i capelli radi
che gli scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e fermi; e una
freddezza, una quiete, da cui raramente usciva con un gesto reciso delle
mani spesse e corte. Trasudava sicurezza, rigore, metodo, pedanteria.
Insopportabile. Ma ne avevano tutti soggezione.» (Op. cit. edizione Adelphi
Milano 1989, pag. 47).
[48] ) Giuseppe Beccaria -
Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia - Palermo - Salvatore
Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[49]) vedi anche ARCHIVIO DI
STATO DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - SERIE INVESTITURE N.
1482 - PROC. 21 - ANNO 1452.
[51] ) Giuseppe Sorge
- Mussomeli, dall’origine all’abolizione della feudalità, edizioni
ristampe siciliane Palermo 1982 - vol I - pag. 386 e segg.
[52] ) Il conto venne
presentato in Palermo il 18 maggio 1502. “Presentete Pan. 18: Maij 1502 in M:
R: C: de m.to D. Salv.ris Aberta p.te per Vincenzu Pitacco Post.m.”
[53] ) Giuseppe Nalbone e
Calogero Taverna, Racalmuto in Microsoft - dattiloscritto 1995
c/o Biblioteca Comunale di Racalmuto.
[54]) Leonardo Sciascia, Le
parrocchie di regalpetra - Morte dell’Inquisitore - Laterza Bari 1982
pag. 82 e pag. 83.
[57]) Archivio di Stato di
Palermo - Protonotaro Regno - Investiture - busta 1487 processo n.° 1175 - anno
1518-21 (Foto 13/b del retro infra pubblicata).
[58] ) Archivio di Stato di
Palermo: PROTONOTARO REGNO INVESTITURE - BUSTA 1487 - PROCESSO
n.° 1175 - ANNO 1518-21
[59]) Fontana Rosa (tesi di
laurea) - Relatore: prof. Paolo Collura - La visita pastorale di Mons. Pietro
di Tagliavia e d’Aragona - Parte II (A. 1542-43) - Università degli Studi di
Palermo - facoltà di Lettere e Filosofia - Anno Accademico 1981-82 - pag.
206-218.
[61]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE
DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di
laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di
Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto
risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO
- "GIULIANA" - VISITA 1542-43 - colonne 190v-193v.
[62] ) Archivio di Stato di
Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r -
56v.
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